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Sommario del 10/01/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa battezza 26 bambini: la fede è la più grande eredità

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La fede è la più grande eredità che i genitori possono lasciare ai loro figli. Lo ha detto Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta stamattina nella Cappella Sistina in occasione della Festa del Battesimo del Signore. Ventisei i bambini che il Papa ha battezzato nel corso della celebrazione. Il servizio di Adriana Masotti

“All’inizio di questa celebrazione mi rivolgo a voi genitori e a voi padrini e madrine: per i vostri bambini che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?”

“La fede”.

Sono gli splenditi affreschi di Michelangelo e il pianto di qualche neonato in braccio alla mamma, mentre altri continuano placidamente a dormire, a fare da cornice alla celebrazione di oggi arricchendola di ulteriore bellezza. Come prevede il rito battesimale il Papa, prima della liturgia della Parola, dialoga con i genitori e poi segna ciascun bambino con il segno della croce e lo stesso gesto ripetono sul proprio le mamma e i papà. Francesco sceglie di pronunciare un’omelia brevissima e raccomanda: "se c’è un bambino che piange perché ha fame, la mamma gli dia da mangiare qui, senza problemi".

La più grande eredità che si può dare ai propri bambini è la fede
Quaranta giorni dopo la nascita Maria e Giuseppe portarono Gesù al tempio per presentarlo a Dio, ricorda il Papa, così anche voi genitori portate i vostri figli per ricevere il Battesimo:

“… per ricevere quello che avete chiesto all’inizio, quando io vi ho fatto la prima domanda: 'La fede. Io voglio per mio figlio la fede'”.

Così la fede viene trasmessa da una generazione all’altra, continua il Papa, la fede che dà il Battesimo e che porta lo Spirito Santo oggi nel cuore, nell’anima, nella vita di questi figli vostri.

“La Chiesa quando vi consegnerà la candela accesa, vi dirà di custodire la fede in questi bambini. E alla fine non dimenticatevi che la più grande eredità che voi potrete dare ai vostri bambini è la fede. Abbiate cura che non venga persa, di farla crescere e lasciarla come eredità". 

Genitori siano capaci di far cresecere i figli nella fede
Ai genitori presenti in un giorno per loro tanto gioioso Francesco augura proprio questo:

 “… che siate capaci di far crescere questi bambini nella fede e che la più grande eredità che loro riceveranno da voi sia proprio la fede”.  

Al termine del rito del Battesimo e dopo aver pregato insieme ai fedeli per i neonati che ne hanno ricevuto il dono, per le famiglie piccole chiese domestiche e per i bambini che nel mondo soffrono per i maltrattamenti, la fame e le malattie, il Papa anche ai padrini raccomanda con le parole della Liturgia:

“Abbiate cura che i vostri bambini, illuminati da Cristo, vivano sempre come figli della luce; e perseverando nella fede, vadano incontro al Signore che viene, con tutti i Santi, nel Regno dei Cieli”.

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Francesco: perdono e misericordia più forti di superbia e intolleranza

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Il cristiano è chiamato a testimoniare ogni giorno la “vita nuova” ricevuta nel Battesimo. E’ quanto affermato da Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro, dopo la Messa in Cappella Sistina durante la quale ha battezzato 26 bambini. Il Pontefice ha ribadito che lo Spirito Santo ci spinge verso il cammino “impegnativo ma gioioso della carità” verso i nostri fratelli. Il servizio di Alessandro Gisotti

Gesù riceve da Giovanni il battesimo nel fiume Giordano e mentre prega discende su di Lui lo Spirito Santo. Papa Francesco ha sviluppato la sua meditazione all’Angelus partendo da questa “meravigliosa rivelazione divina” narrata da tutti e quattro i Vangeli. Il Papa annota che nel Battesimo cristiano lo Spirito Santo è “l’artefice principale: è Colui che brucia e distrugge il peccato originale, restituendo al battezzato la bellezza della grazia divina”.

Lo Spirito Santo ci libera dal dominio delle tenebre
E’ sempre lo Spirito Santo, prosegue, “che ci libera dal dominio delle tenebre, cioè del peccato, e ci trasferisce nel regno della luce, cioè dell’amore, della verità e della pace”:

“Tale realtà stupenda di essere figli di Dio comporta la responsabilità di seguire Gesù, il Servo obbediente, e riprodurre in noi stessi i suoi lineamenti: mansuetudine, umiltà, tenerezza. E questo non è facile, specialmente se intorno a noi c’è tanta intolleranza, superbia, durezza. Ma con la forza che ci viene dallo Spirito Santo è possibile!”

Cristiani chiamati a cammino di carità verso i nostri fratelli
“Lo Spirito Santo, ricevuto per la prima volta nel giorno del nostro Battesimo – prosegue – ci apre il cuore alla Verità, a tutta la Verità”:

“Lo Spirito spinge la nostra vita sul sentiero impegnativo ma gioioso della carità e della solidarietà verso i nostri fratelli. Lo Spirito ci dona la tenerezza del perdono divino e ci pervade con la forza invincibile della misericordia del Padre. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo è una presenza viva e vivificante in chi lo accoglie, prega in noi e ci riempie di gioia spirituale”.

Adesione a Gesù con l’impegno a vivere da cristiani
Nella festa del Battesimo di Gesù, Francesco chiede dunque di ripensare “al giorno del nostro Battesimo” e rendere grazie “per questo dono”. Così, evidenzia, riaffermeremo “la nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli”. Il Papa ha inoltre affidato ai fedeli un “compito a casa”: cercare la data del proprio Battesimo:

“Festeggiare quel giorno significa riaffermare la nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli”.

Dopo l’Angelus, Francesco ha rivolto un pensiero e una “speciale benedizione a tutti i bambini che sono stati battezzati recentemente, ma anche ai giovani e agli adulti che hanno ricevuto da poco i Sacramenti dell’iniziazione cristiana o che ad essi si stanno preparando”. “La grazia di Cristo – ha concluso – li accompagni sempre!”

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Papa Francesco: Chiesa condanna peccato ma abbraccia peccatore

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“Il nome di Dio è Misericordia”. E’ il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli. Il volume - edito dalla Piemme - verrà pubblicato martedì 12 gennaio con un lancio mondiale in 86 Paesi. Oggi su quattro giornali italiani: La Stampa, Corriere della Sera, Repubblica ed Avvenire sono stati pubblicati quattro differenti estratti del volume, di cui ci offre una sintesi Alessandro Gisotti

“Il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio”. Papa Francesco lo confida nella conversazione con Andrea Tornielli da cui è scaturito il libro “Il nome di Dio è misericordia”. Il Pontefice torna a ribadire il suo “rapporto speciale” con i carcerati. “Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita – spiega al vaticanista de La Stampa – mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io”, “le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte”.

Come Pietro, anche i suoi Successori sono peccatori
“Può scandalizzare questo – ammette – ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto”. Il Papa rammenta di essere stato colpito nel leggere alcuni testi di Paolo VI e Giovanni Paolo I – Albino Luciani definiva se stesso “la polvere” – sul senso dei propri limiti, delle proprie incapacità che sono colmate dalla misericordia di Dio. San Pietro, riprende, ha tradito Gesù. “E se i Vangeli ci descrivono il suo peccato, il suo rinnegamento – annota – e se nonostante tutto ciò Gesù gli ha detto: Pasci le mie pecorelle, non credo che ci si debba meravigliare se anche i suoi Successori descrivono se stessi come peccatori”. In un altro passaggio del volume, Francesco afferma dunque che può “leggere” la sua vita attraverso il capitolo 16 del Libro di Ezechiele laddove il profeta “parla della vergogna”.

Vergogna è grazia che ci fa sentire la misericordia di Dio
La vergogna, sottolinea il Papa, è una “grazia: quando uno sente la misericordia di Dio, ha una grande vergogna di se stesso, del proprio peccato”. La vergogna, evidenzia, “è una delle grazie che Sant’Ignazio fa chiedere nella confessione dei peccati davanti al Cristo crocifisso”. Quel testo di Ezechiele, confida, “insegna a vergognarti”, ma “con tutta la tua storia di miseria e di peccato, Dio ti rimane fedele e ti innalza”. Francesco rammenta padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore che incontrò nella sua parrocchia il 21 settembre 1953, giorno in cui la Chiesa celebra San Matteo: “Mi sentii accolto dalla misericordia di Dio confessandomi da lui”. Un’esperienza così forte che, anni dopo, la vocazione di San Matteo descritta nelle omelie di San Beda il Venerabile sarebbe diventata il suo motto episcopale: miserando atque eligendo.

Chiesa esiste per permettere l’incontro con la misericordia di Dio
Francesco approfondisce dunque la missione della Chiesa nel mondo. Innanzitutto, evidenzia che la “Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità”. Al tempo stesso, però, “abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio”. Gesù, evidenzia Francesco, “ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato”. Il Papa richiama la parabola del Padre misericordioso e del figlio prodigo. “Seguendo il Signore – è la sua riflessione – la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono”. “La Chiesa – avverte ancora Francesco – non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio”.

Giubileo faccia emergere sempre più volto di una Chiesa materna
Per annunciare la misericordia di Dio, soggiunge il Papa, “è necessario uscire”. “Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono e dove sperano”. Torna dunque all’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” e annota che la “Chiesa in uscita ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità”: “vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici”. Quindi, auspica che “il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti feriti bisognosi di ascolto, compassione, perdono, amore”.

Peccatori sì, ma non accettare lo stato di corruzione
Francesco torna poi a riflettere sulla distinzione tra peccato e corruzione. Quest’ultima, osserva, “è il peccato che invece di essere riconosciuto come tale e di renderci umili, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere”. “Il peccatore pentito, che poi cade e ricade nel peccato a motivo della sua debolezza – ribadisce – trova nuovamente perdono, se si riconosce bisognoso di misericordia. Il corrotto, invece, è colui che pecca e non si pente, colui che pecca e finge di essere cristiano, e con la sua doppia vita dà scandalo”. “Non bisogna accettare lo stato di corruzione come se fosse soltanto un peccato in più – è il monito del Pontefice – anche se spesso si identifica la corruzione con il peccato, in realtà si tratta di due realtà distinte seppur legate tra loro”. “Uno – constata – può essere un grande peccatore e ciononostante può non essere caduto nella corruzione”. Francesco fa l’esempio di alcune figure come Zaccheo, Matteo, la Samaritana, Nicodemo e il buon ladrone. “Nel loro cuore peccatore – afferma – tutti avevano qualcosa che li salvava dalla corruzione. Erano aperti al perdono, il loro cuore avvertiva la propria debolezza, e questo è stato lo spiraglio che ha fatto entrare la forza di Dio”.

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Oggi in Primo Piano



Msf: situazione tragica in Siria, a Madaya si muore di fame

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Situazione umanitaria gravissima in Siria, nel villaggio di Madaya dove, stando a video e testimonianze degli attivisti locali - in parte confermate dall’Onu - la gente si nutre di foglie, bambini e anziani sono denutriti e forse una quarantina di persone sono già morte di fame. In 42 mila vivrebbero in gravi sofferenze per un assedio militare che dura da luglio. Domani, lunedì 11 gennaio, dovrebbe iniziare la consegna di aiuti umanitari, cibo, medicinali e coperte, stando quanto ha annunciato la Croce Rossa Internazionale; l'ultima volta che si era riusciti a entrare in città era il 17 ottobre. Prevista sempre domani la riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per valutare la situazione analoga nei villaggi di Foua e Kafraya. "Medici senza Frontiere" supporta un ospedale proprio a Madaya, dove ci sono stati almeno 23 decessi tra i pazienti, come racconta al microfono di Gabriella Ceraso, il presidente della ong in Italia, Loris de Filippi. 

R. – Erano sicuramente pazienti critici, di varie età quindi sia bambini sia adulti, anziani. In una situazione in cui l’approvvigionamento sia del cibo sia dei farmaci diventa praticamente impossibile conduce questi pazienti a morte certa, perché non è possibile dare cure intensive. Questa è la situazione che si presenta in questo momento in alcune enclave all’interno della Siria. C’è una situazione proprio di collasso …

D. – Di Madaya si dice in questa ore che sia diventata una prigione a cielo aperto: è sotto assedio da luglio … cosa significa per la popolazione?

R. – Qualsiasi enclave assediata diventa una zona molto difficile per quanto riguarda il lavoro, perché una volta che le scorte sono terminate diventa difficilissimo decidere, soprattutto per gli operatori, chi deve vivere e chi – purtroppo – deve essere lasciato al suo destino.

D. – "Medici senza frontiere" supporta questa struttura, che è anche un punto di distribuzione a Madaya da agosto. E’ sempre stata così difficile la situazione, o è peggiorata?

R. – Sicuramente l’assedio ha peggiorato la situazione. Ricorda molto la situazione di Aleppo un anno fa, un anno e mezzo fa, o di altre zone nella parte settentrionale del Paese. Quindi, sono situazioni che si deteriorano … Quello che possiamo osservare adesso è un deterioramento molto importante delle condizioni fisiche delle persone: se non si agisce rapidissimamente, è pensabile che una comunità non possa andare avanti cuocendo le foglie o vivendo di zuppe assolutamente improbabili con un apporto calorico nullo. E’ prevedibile che la situazione peggiori se non ci sarà una chiara volontà di creare un corridoio umanitario nell’immediato, sicuro e non soltanto sulla carta.

D. – Quindi, le richieste sono?

R. – Creare uno spazio adeguato affinché del personale possa entrare, verificare le condizioni o un’evacuazione rapidissima della popolazione in zone di accoglienza.

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Mons. Shomali: basta profanazioni cimiteri cristiani in Terra Santa

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Nuovo atto di vandalismo sacrilego in Terra Santa: è stato profanato il cimitero adiacente al monastero salesiano di Beit Gémal, nella città israeliana di Beit Shemesh, a Ovest di Gerusalemme, in cui molte tombe sono state distrutte. Il fatto, accaduto prima di Natale, è stato reso noto solo ieri dal Patriarcato Latino di Gerusalemme. Non è la prima volta che in questa zona estremisti ebrei prendono di mira simboli cristiani. Roberta Barbi ne ha parlato con mons. William Shomali, vescovo ausiliare del Patriarca latino di Gerusalemme: 

R. – Persone anonime hanno aggredito e profanato il cimitero dei padri salesiani a Beit Gémal, vicino a Beit Shemesh: hanno rotto croci in pietra e anche in legno. I salesiani lo hanno denunciato alla polizia e la polizia sta ancora investigando. Quello che sappiamo è che sono fondamentalisti ebrei della zona. Lo stesso fatto, infatti, ha avuto luogo anni fa ed erano ebrei delle vicinanze. Siccome questi atti si moltiplicano, vogliamo che la polizia prenda il suo lavoro più seriamente e trovi questi delinquenti, che continuano ad attaccare le chiese, i cimiteri, i monasteri, i simboli cristiani.

D. – Non è la prima volta che questo accade, dunque. Sono persone estremiste, note alle forze dell’ordine…

R. – Sì, gli estremisti sono numerosi. Anche quelli che dicono che bisogna profanare sono conosciuti! Chiediamo, dunque, alla polizia di prendere più seriamente il lavoro. Possono arrivare, infatti, a riconoscerli e a identificarli; possono, ma c’è bisogno di uno sforzo maggiore e di maggiore serietà.

D. – Nel comunicato del Patriarcato, tra l’altro, chiedete anche che venga fatto da tutte le parti ogni sforzo per continuare nell’educazione alla convivenza reciproca...

R. – Questo è indispensabile, perché una persona che distrugge i simboli della religione degli altri è una persona indottrinata all’odio e all’intolleranza. E tutto questo ha luogo o nella famiglia o a scuola o nei luoghi di culto o nei media, tutti insieme. Si deve portare, dunque, l’educazione nella famiglia, nei luoghi di culto e anche nei media. 

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Presidenziali Haiti: attesa tra paure e speranze di rinascita

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Ad Haiti la data fissata per il ballottaggio presidenziale è il 24 gennaio. L'ha disposto il Consiglio elettorale provvisorio, di fronte al clima di tensione e alle proteste dell'opposizione. Il centrosinistra di Jude Célestin denuncia brogli in occasione del primo turno del 25 ottobre in cui l’imprenditore Jovenel Moïse ha conquistato il 33% di preferenze. Veronica Di Benedetto Montaccini ha chiesto quali sono i problemi economici e sociali che si troverà ad affrontare il futuro presidente a Marco Bello, giornalista e responsabile del progetto Seminare il futuro del Cisv ad Haiti: 

R. – Intanto bisogna dire che Martelly aveva rimandato varie elezioni oltre a quelle presidenziali, cioè quelle amministrative e legislative, per cui il Paese si trovava a parlamento scaduto, per esempio. Una parte dei senatori erano scaduti addirittura 4 anni fa. In realtà le elezioni sono contestate perché soprattutto il 9 agosto ci sono state molte violenze, impedimenti anche a votare. Quindi c’è tutto un settore della società civile e anche dei partiti dell’opposizione che contestano le elezioni. Ci sono anche manifestazioni di piazza. Bisogna dire che questo succede spesso ad Haiti, hanno sempre molti problemi con le elezioni.

D. -  Moïse è un imprenditore agricolo alla sua prima esperienza politica: a cosa andrebbe incontro il Paese se vincesse lui e cosa invece si prefigura se Célestin riesce all’opposizione del centro sinistra a fare una buona campagna elettorale? Insomma quali sono le strade che si possono aprire?

R.-  Moïse è il candidato del presidente Martelly. Il problema è che si tratta sempre di una classe molto ristretta che governa Haiti da sempre si può dire e che continua a mantenere il potere. D’altro lato, Jude Célestin alle passate elezioni era il candidato di Preval ma neanche lui è senza macchia. Quello che resterà sarà sempre una grossa influenza degli Stati Uniti sul Paese che di fatto sono quelli che vogliono sempre controllare quello che succede.

D. - Sono passati sei anni dal terremoto del 2010 che ha coinvolto 3 milioni di persone e la situazione umanitaria ed economica sembra ancora essere grave. Quali situazioni sono ancora da affrontare? Ed è giusta la definizione di Haiti come “Repubblica delle Ong”, per gli aiuti esterni ormai strutturali?

R. – Le elezioni dovrebbero risolvere l’impasse che c’è stato. La situazione è andata addirittura peggiorando secondo me. Quello che è stato ricostruito, è stato ricostruito da privati o dalla cooperazione, o dagli istituti religiosi: cioè, lo Stato non è intervenuto più di tanto perché comunque è stato messo tutto in mano a quella che era la commissione ad interim per la ricostruzione, controllata da Bill Clinton...Che poi è il disegno degli Stati Uniti: fare di Haiti un bacino di manodopera a basso costo vicinissimo alle proprie frontiere, per fare manufatti soprattutto nel tessile. Quindi nessun interesse per migliorare le condizioni di vita della gente che vive ancora nelle tendopoli e senza scuole ma creare situazioni, per cui economicamente le multinazionali americane possano approfittarne. Questo è ciò che è successo e ciò che dopo le elezioni dovrebbe essere risolto.

D. – L’altra questione sociale che crea tensione e per cui andrebbe trovata una soluzione politica è il flusso migratorio da Haiti alla Repubblica Domenicana…

R. – Sì perché di fatto da sempre nella Repubblica Domenicana gli haitiani vengono sfruttati nel lavoro del taglio della canna da zucchero. Quindi ci sono queste piantagioni in cui alcuni haitiani sono emigrati tanti anni fa, hanno cresciuto i loro figli là, altri ci vanno stagionalmente, e vengono sfruttati quasi come schiavi. Nel 2015 nella Repubblica domenicana hanno fatto una legge per cui se non si è discendenti di domenicani non si può essere riconosciuti come cittadini. Questo ha creato migliaia di apolidi: cioè, figli di haitiani nati nella Repubblica Domenicana che non potevano essere domenicani ma non erano neanche haitiani. E questo crea molti problemi diplomatici e soprattutto sociali e non è una questione da sottovalutare.

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Utero in affitto: un'industria contro donne e bambini

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Destano sempre più preoccupazione le vicende legate alla pratica dell'utero in affitto. Ad alcuni di questi casi, avvenuti soprattutto negli Stati Uniti, è stato dato risalto, recentemente, anche dalla stampa internazionale. L’ultimo riguarda quello di una donna diventata la madre di sua nipote. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

L'aberrante pratica dell’utero in affitto - legale in diversi Paesi tra cui Stati Uniti, India, Ucraina e Russia - consente di stipulare un contratto che impegna una donna a portare in grembo uno o più figli in cambio di denaro. In laboratorio vengono concepiti embrioni, poi impiantati nel grembo della madre surrogata che li farà crescere per nove mesi. Dopo il parto, non sarà più la loro mamma. Il loro destino è quello di essere venduti a “genitori d’intenzione”, che hanno pagato anche ingenti somme per portare a termine la gestazione. Dagli Stati Uniti, in particolare, arrivano notizie di vicende inquietanti. Sono solo alcune di una triste realtà sempre più diffusa.

Nel Texas una donna madre surrogata e nonna
Nello Stato americano del Texas una donna di 54 anni ha dato alla luce la figlia di sua figlia. Si è offerta come madre surrogata, nonostante fosse da sette anni in menopausa. Ha partorito una bimba di circa 2,8 chilogrammi, sua nipote.

Chiesto aborto selettivo ad una madre surrogata di 3 gemelli
Ha ricevuto ampia eco anche la vicenda di una 47enne californiana incinta di 3 gemelli, concepiti con i gameti di un uomo georgiano e gli ovuli di una donatrice. La madre surrogata, in questo caso, ha respinto la richiesta di aborto selettivo da parte del padre biologico, preoccupato tra l’altro per i rischi legati al parto multiplo. La donna, giunta alla 23.ma settimana di gravidanza, si è rivolta alla Suprema Corte di Los Angeles denunciando la violazione dei diritti garantiti dalla Costituzione.

Morta per complicazioni la prima madre surrogata americana
Sempre negli Stati Uniti una donna, che ha affittato il suo utero per ben tre volte, è morta lo scorso mese di ottobre per complicanze legate alla gravidanza. Portava in grembo due gemelli per conto di una coppia spagnola.

Negli Usa si pagano 150 mila dollari per l’utero in affitto
Nel 2014, negli Stati Uniti, sono nati circa 2 mila bambini da madri surrogate. Sono stati, finora, 81 i genitori che hanno cambiato idea durante la gravidanza. La maternità surrogata è diventata, negli anni, un florido commercio. I costi per una gestazione di questo tipo possono arrivare, negli Stati Uniti, a 150 mila dollari. La madre surrogata riceve tra i 20 mila e i 30 mila dollari.

In India ‘l’industria dell’utero in affitto’ vale due miliardi di dollari l’anno
In molti casi, soprattutto in Paesi in via di sviluppo, è la povertà a spingere giovani donne a decidere di diventare madri surrogate. Solo in India si stima che il commercio legato alla maternità surrogata porti ad un giro di affari di oltre due miliardi di dollari l’anno.

Questi casi sono importanti per comprendere che le possibilità offerte dalla scienza non sempre rispettano l’etica ma rispondono ad esigenze individualistiche. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il genetista Domenico Coviello, membro di “Scienza & Vita” e direttore del Laboratorio di genetica umana dell’ospedale Galliera di Genova: 

R. – Questi casi sono importanti per farci riflettere: le tecnologie oggi stanno andando avanti con una velocità impressionante e, soprattutto il cittadino ma a volte anche il medico, non riescono a valutare bene le conseguenze di quello che è stato scoperto. Le scoperte sono importanti, ma è l’uomo che deve giudicare quando applicarle. Come nella fisica, nell’energia nucleare, è l’uomo che deve decidere quello che può essere di beneficio alla comunità più che all’individuo stesso.

D. – Ciò che la scienza rende possibile, non sempre è etico…

R. – Questo è vero, quindi bisogna stare attenti all’utilizzo del termine “scienza”. Noi conosciamo il termine “scienza” come termine positivo: lo scienziato che scopre come la natura funziona per il bene della comunità. Però, purtroppo, quando la scienza e le conoscenze invece vengono utilizzate solo tecnicamente per ciò che è possibile, allora qui veramente diventa cruciale l’essere uomo. E l’essere uomo ci distingue dall’animale proprio per la capacità di capire quali sono le conseguenze di una determinata azione e di poter regolare l’utilizzo di quello che è tecnicamente possibile. In questo momento, l’utilizzo delle tecniche per la riproduzione assistita sicuramente sta andando al di là di quello che può essere il beneficio. Dobbiamo sempre ricordare che il “beneficio” non è mai quello di una singola persona che in quel momento ha un particolare desiderio, ma deve essere di tutti gli interessati: sia del nascituro, sia della comunità, sia della famiglia in generale. In questo momento, la famiglia con queste tecnologie e con altro viene veramente smembrata, ridotta al desiderio del singolo individuo.

D. – Quella della maternità surrogata è diventata una vera e propria industria con un giro di affari di miliardi di dollari ogni anno. Come lo scienziato può porre degli argini etici di fronte ad un simile commercio?

R. – Purtroppo lo scienziato, tecnicamente non ha gli strumenti per andare contro un settore economico così forte. Lo strumento che secondo me ha lo scienziato, è quello dell’educazione del pubblico, dell’educazione della popolazione che va di pari passo con l’educazione in generale. Qui possiamo ricollegarci all’emergenza educativa che è stata sempre ricordata sia da Papa Francesco sia da Papa Benedetto. Questo è il periodo in cui l’emergenza educativa diventa veramente un’esigenza di vita. Come viediamo, la mancanza di educazione anche per quanto riguarda i principi etici, determina poi la libertà delle compagnie che hanno solo scopi commerciali, di poter fare il libero mercato.

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Napoli: primo Centro medico mobile per i senza fissa dimora

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A Napoli è nato il primo centro di assistenza sanitaria di "Clinica Mobile per i senza fissa dimora". E’ stato concepito grazie al progetto a cura dell’associazione “Medici di strada”, che offre cure e assistenza ai senzatetto di Napoli. Dal 2014 sono state visitate circa 400 persone. Maria Cristina Montagnaro ne ha parlato con Gennaro Casalino, socio fondatore dell'associazione dei "Medici di Strada": 

R. – Tutto è nato da una suggestione: noi eravamo un gruppo di volontari che usciva in strada e effettuava un servizio di assistenza alimentare. Poi ci siamo resi conto che Napoli è una città di grande sensibilità e quindi l’esigenza della strada, l’esigenza di chi vive in strada, era quella di ricevere cure mediche: quindi, assistenza di altro tipo

D. – Avete inaugurato un servizio di assistenza con un camper sanitario …

R. – E’ un camper attrezzato con una strumentazione essenziale a bordo e una serie di farmaci da banco e tutta una serie di attrezzature mediche che possiamo utilizzare proprio per cercare di fornire assistenza sanitaria ai senza fissa dimora di Napoli. Infatti, l’associazione “Medici di strada” si pone come obiettivo anche quello di fare da tramite tra le istituzioni, e quindi tra l’assistenza sanitaria a un livello chiaramente più organizzato e i senza fissa dimora. Noi usciamo una volta alla settimana; in genere facciamo un percorso lungo la città, quindi l’attività è itinerante.

D. – Assistete più italiani o più stranieri?

R. – La maggioranza è straniera: dal Nordafrica e dall’Europa dell’Est. Ma il fenomeno della povertà crescente sta investendo sempre di più anche la realtà locale, quindi non poco fa abbiamo assistito un ragazzo napoletano che aveva bisogno di cure odontoiatriche e gli abbiamo consentito appunto di fare un trattamento odontoiatrico.

D. – Quali patologie curate?

R. – Essenzialmente, sono legate fondamentalmente al tipo di vita che loro vivono. Quindi, chiaramente, vivendo in strada moltissime patologie dermatologiche, moltissime problematiche respiratorie – quindi febbre, bronchite … - però ci sono capitate situazioni di necessità relativamente a odontoiatria, ginecologia …

D. – Le aggressioni che subisce chi vive in strada?

R. – La vita in strada, purtroppo, è una lotta continua: è una lotta tra poveri. Quindi le aggressioni, purtroppo, partono già tra di loro. Le dico soltanto che c’è una guerra già per difendere il posto in cui si è deciso di stare.

D. – Oltre al progetto della clinica mobile, cos’altro fate?

R. – Noi abbiamo un progetto che è di assistenza alimentare su strada: una volta a settimana, un gruppo di 20 ragazzi esce su un percorso studiato e porta con sé pasti caldi, coperte e indumenti da distribuire ai senza fissa dimora della città. C’è il progetto “Mensa alla tenda”, che è un progetto di supporto all’organizzazione della mensa del Centro “La tenda” di Napoli, in cui ci sono dei gruppi di volontari bravissimi che vanno lì, cucinano, sono circa 60 volontari che ogni settimana, due giorni alla settimana, vanno in mensa e preparano da mangiare.

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Diocesi Milano: mostra sulla vita di genitori con figli disabili

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Foto, dischi, libri, foglie, preghiere, farmaci scandiscono le tappe di "Maternage - Tracce di un viaggio" mostra allestita dall’associazione "L’abilità onlus" fino al 7 febbraio presso il Museo Diocesano di Milano. L’installazione si snoda lungo un percorso costellato di oggetti che, nella loro corporeità, raccontano la vita quotidiana di padri e madri di bambini con disabilità che ogni giorno si aggrappano a qualcosa per trovare l'energia per andare avanti. Carlo Riva, presidente dell’associazione e curatore della mostra racconta, al microfono di Francesca Di Folco, la genesi della mostra originata da un progetto iniziale di condivisione dei sentimenti della disabilità: 

R. – Il progetto è nato fra il 2012 e il 2013, si chiama “In viaggio senza valigie”, è mirato ad aiutare e sostenere la famiglia quando nasce un bambino con disabilità. Il tema della valigia nasce da un’idea che ci raccontano le famiglie stesse perché quando nasce un bambino è come se partissero per un nuovo viaggio, una nuova esperienza. In questo caso partono per un viaggio impreparati. Hanno preparato una valigia pensando che nascesse un bambino senza disabilità mettendoci delle nappe, vestiti, oggetti che poi in realtà si sono rivelati inadatti proprio per gestire la diversità del bambino.

D. – Cosa hanno messo le famiglie nelle valigie e cosa l’ha più colpita?

R. – Quando io ho costruito questo progetto ho immaginato di mettere io nella valigia una serie di servizi dedicati a loro per aiutarli. Poi mi sono chiesto: ma, questi genitori cosa metterebbero, in realtà, loro stessi? Oggetti che li aiutano a vivere, a sopravvivere dopo che hanno avuto la comunicazione di disabilità. Quindi abbiamo consegnato valigie vuote, le abbiamo recuperate, e abbiamo trovato gli oggetti più disparati. Abbiamo capito ancor più che dalla psicologia e dalla pedagogia di che cosa hanno bisogno questi genitori per andare avanti. Gli oggetti sono davvero i più diversi. Abbiamo trovato una federa di un cuscino: questa coppia ci ha detto che a farli andare avanti è stato l’amore tra loro due, fra papà e mamma, e quindi il "rintanarsi" in questo letto alla sera, dopo aver passato tutta la giornata con il bambino con gravi disabilità. Altri genitori ci hanno messo libri e musica che aiutano a evadere, a ritrovarsi in un’altra dimensione… Altri genitori hanno messo libri legati alla patologia del bambino stesso, e quindi il sapere, l’informazione, la formazione stessa, li aiuta ad andare avanti. Altri genitori hanno messo biglietti aerei, perché dicono che al di là di tutto vogliono recuperare una loro dimensione di genitorialità e ritornare a viaggiare, non essere ancorati alle quattro mura di casa.

D. – Avete scelto il linguaggio dell’arte per comunicare le complessità della disabilità?

R. – Sì, esatto. Quello che per noi era importante e che è anche un po’ la nostra mission, è ripensare una nuova cultura della disabilità. E una nuova cultura della disabilità non passa solamente dalle leggi, da un ente locale che promuove la salvaguardia dei diritti del bambino, della persona con disabilità, ma passa anche dal tema della cultura. E in questo caso mi sembrava che l’arte potesse essere il motivo principale per arrivare a parlare a tutti su questo tema. Quindi abbiamo fatto questa mostra chiamando un artista che si occupa di arte sociale, il linguaggio appunto è stato portato dentro il museo proprio per parlare a questo tipo di pubblico, perché vogliamo che questa nuova cultura della disabilità non sia qualcosa che riguarda solamente gli esperti ma che davvero tutta la cittadinanza, la comunità, il territorio possano attraverso questa mostra capire ancora di più cosa vuol dire vivere con una persona con disabilità.

D. - Di quali valigie riempite con quali oggetti speciali ha ancora bisogno la collettività per superare le barriere che ci dividono dai cosiddetti diversamente abili?

R. – Una delle parole che vengono sempre più utilizzate è esclusione nell’integrazione. Questa parola ha bisogno non tanto di un’applicazione di leggi particolari, ma davvero di un nuovo sguardo che tutti noi abbiamo viaggiando per le strade di ogni giorno quando incontriamo una persona con disabilità: questo sguardo nuovo rivolto al bambino o a un adulto che hanno disabilità. Spesso i genitori ci raccontano quanto sia difficile banalmente su un automezzo oppure in un parco pubblico stare con un bambino quando ha una media, grave disabilità, perché si sente addosso ancora un volta questo sguardo. Io in questa valigia davvero metterei degli occhiali nuovi, lenti nuove, per cui la cittadinanza, la comunità, la popolazione possano indossare questi nuovi occhiali e vedere con lenti diverse il mondo della disabilità, che non è un mondo lontano da noi. Il concetto di disabilità è legato al concetto di salute, il concetto di disabilità è legato a una condizione umana e quindi è qualcosa che ci riguarda proprio perché siamo uomini.

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Nella Chiesa e nel mondo



Somaliland: affonda barcone migranti, oltre 110 morti

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Nuova tragedia del mare, stavolta non nelle acque europee bensì di fronte alle coste della regione autonoma del Somaliland, a Nord della Somalia, nel Corno d’Africa: 112 i migranti morti nel naufragio di un’imbarcazione affondata venerdì scorso. Secondo quanto riferito, in queste ore, dalle autorità sanitarie locali intervenute nelle operazioni di soccorso, sono 75 i migranti tratti in salvo – per lo più di nazionalità eritrea e somala – e 112, appunto, i corpi rinvenuti sulla costa.

Un’altra rotta dell’immigrazione: dal Corno d’Africa al Golfo Persico
Ogni anno migliaia di persone muoiono al largo di questa parte di Africa, dalla quale fuggono a causa delle guerre e delle tragiche condizioni economiche in cui versano i Paesi della penisola somala. I migranti tentano, dunque, di attraversare il mare e di approdare nello Yemen, da cui sperano di raggiungere i ricchi Paesi del Golfo Persico. (R.B.)

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Yemen: missile su ospedale a Razeh, 3 morti e 10 feriti

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Tre morti e una decina di feriti: sarebbe questo il bilancio di un missile abbattutosi su un centro ospedaliero gestito da "Medici senza Frontiere" a Razeh, nella provinciale settentrionale di Saada, in Yemen. A riferirlo è il personale medico dell'organizzazione che opera in quest'area sotto il controllo dei ribelli sciiti dell'Houthi in lotta con il governo di Sanaa. 

Coalizione a guida saudita smentisce uso bombe a grappolo nei raid
La coalizione araba guidata dall’Arabia saudita che sta combattendo i ribelli Houthi nello Yemen ha smentito l’utilizzo di bombe a grappolo nei propri raid aerei. Lo ha precisato il portavoce della coalizione, generale Ahmed al-Assiri. Venerdì scorso il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva ammonito le parti che l’eventuale utilizzo di tali armi sarebbe stato interpretato dalle Nazioni Unite come un crimine di guerra.

Il governo di Sanaa revoca espulsione rappresentante Onu
Ieri, intanto, lo Yemen ha informato l’Onu di voler revocare l’espulsione dell’Alto rappresentante delle nazioni Unite per i diritti umani, George Abu-Zulof. La decisione, comunicata attraverso una lettera dell’ambasciatore yemenita presso l’Onu, Khaled Alyemany, è stata motivata in questo modo: “Il governo di Sanaa ha deciso di mantenere lo status quo – si legge – tuttavia l’esecutivo ha stabilito di dedicare più tempo a riconsiderare le sue relazioni con l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani”. (R.B.)  

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Sud Sudan. Onu: popolazione allo stremo per guerra e fame

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Migliaia di persone sono fuggite nelle ultime settimane dalle loro case del Sud Sudan a causa del perdurare della guerra civile nel Paese, diventato indipendente da Khartoum solo nel 2011. Circa diecimila rifugiati sono arrivati dalla fine di dicembre nel campo di Bentiu - nel Nord del Paese - gestito dalle Nazioni Unite, dove il totale delle persone è arrivato a 115 mila, mentre 193 mila sono i profughi in tutti i campi dell’area coordinati dall’Onu. “La situazione è estremamente preoccupante, soprattutto sul fronte della malnutrizione”, ha detto Eugene Owusu, coordinatore dell’Onu per il Sud Sudan.

Un conflitto che ha causato oltre 2 milioni di sfollati
Già nel mese di ottobre le Nazioni Unite avevano riportato l’attenzione sui problemi del Sud Sudan, definito “a grave rischio fame, al quale si è sovrapposto il protrarsi di un conflitto che ha già causato oltre due milioni di sfollati, e che non si è placato neppure dopo la firma degli accordi di pace alla fine dell’agosto 2015". Sempre secondo l’Onu, infine, sono seimila i sudsudanesi che negli ultimi due mesi hanno attraversato il confine con la Repubblica Democratica del Congo. (R.B.)

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Egitto: nuove misure anti-terrorismo per proteggere turisti

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Dopo quasi quattro anni di stop, il Parlamento egiziano ha ripreso a lavorare: oggi, trasmessa in diretta televisiva, la prima seduta della nuova assemblea legislativa eletta nell’autunno scorso, dominata dagli indipendentisti favorevoli al presidente al-Sisi. La seduta potrebbe essere prolungata fino a domani per consentire ai 596 parlamentari di eleggere il presidente della Camera, che probabilmente sarà Ali Abdel Al, vicinissimo al presidente al-Sisi. I deputati avranno poi due settimane di tempo per ratificare le leggi approvate dall’esecutivo in assenza di Parlamento.

Governo promette misure per la sicurezza del turismo
Il ministro del Turismo egiziano, Hisham Zaazou, ha preannunciato non meglio identificate “misure di sicurezza” che nei prossimi giorni saranno adottate per i turisti all’indomani dell’attacco al resort di Hurghada, sul Mar Rosso, in cui sono rimasti feriti tre vacanzieri stranieri, due austriaci e uno svedese. “La sicurezza dei turisti resta la nostra priorità”, ha assicurato il titolare del dicastero che ha bollato come “dilettantistico” l’episodio di ieri, che è stato fatto passare per atto terroristico. I due attentatori, infatti – uno è stato ucciso dalle guardie dell’albergo, l’altro è rimasto gravemente ferito – erano armati di coltello e hanno tentato di penetrare nell’hotel attraverso il ristorante che si affaccia sulla strada, ma sono stati prontamente bloccati dal personale addetto alla sicurezza degli ospiti. Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta.

L’Is rivendica gli attacchi a Giza contro militari e turisti
È stato rivendicato dal sedicente Stato islamico, invece, l’attacco avvenuto sempre ieri nel distretto di Giza, vicino al Cairo, ai danni di un posto di blocco in cui sono rimasti uccisi due militari: un colonnello e un giovane della leva. L’attacco si è verificato nel quartiere di Moneib. Sempre a Giza e sempre l’Is, il 7 gennaio scorso, aveva colpito un autobus con a bordo 48 turisti di nazionalità israeliana. (R.B.)

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Caritas Libano: solidarietà per le famiglie di profughi

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In Libano l’emergenza profughi “resta alta” a fronte di “capacità limitate”, lo Stato “non è più in grado di sostenere questa situazione” e vi è il pericolo concreto di “un crollo del sistema Paese”, anche a fronte di una perdurante “crisi economica e istituzionale”. A lanciare l’allarme all'agenzia AsiaNews è Paul Karam, direttore di Caritas Libano, da quattro anni in prima fila nell’accoglienza del flusso continuo di famiglie siriane (e non) che fuggono dalla guerra. L’economia in calo, l’emergenza rifiuti, la mancata elezione del presidente della Repubblica, un esecutivo debole acuiscono i rischi di una nazione “sull’orlo del collasso”. Nonostante l’emergenza, aggiunge il sacerdote, vi sono “testimonianze di aiuto e solidarietà, momenti di incontro e confronto fra giovani cristiani e musulmani” che mantengono viva la speranza per il futuro. 

Libano: 1,6 milioni di profughi su circa 4,4 milioni di abitanti
In oltre quattro anni, il Paese dei cedri ha ospitato quasi 1,6 milioni di rifugiati siriani e deve affrontare gli squilibri demografici, economici, politici, di sicurezza che questo comporta. L’Onu, che enumera solo quelli registrati, afferma che ve ne sono 1,2 milioni. A questi vanno aggiunte almeno 700 famiglie di cristiani irakeni da Baghdad, Mosul e da Erbil e decine di migliaia di palestinesi dalla Siria. Il tutto a fronte di una popolazione libanese di circa 4,4 milioni di abitanti e un Paese sempre più in difficoltà nella gestione dell’emergenza. 

Resta alto il desiderio di lasciare il Medio Oriente
Negli ultimi tempi la realtà non è cambiata e fra i profughi “cresce il desiderio di fuggire, di andare in Europa, e la meta privilegiata resta la Germania”. Il rischio di svuotare il Medio Oriente della presenza cristiana, aggiunge, “resta alto” e l’appello della Chiesa “è sempre quello di incoraggiare la comunità internazionale al dialogo, alla pace, alla giustizia e al rispetto reciproco”. “Intanto - racconta padre Karam - i bisogni restano alti, a fronte di procedure e capacità molto limitate. Per questo, se ci sono zone sicure nei Paesi di guerra bisogna incoraggiare la gente a rientrare”. Il sacerdote sottolinea il fallimento una volta di più della "Primavera araba", che ha causato distruzione, guerre, alimentato il mercato delle armi e aggravato le crisi economiche e sociali nei vari Paesi della regione. 

Si incoraggia il dialogo tra giovani cristiani e musulmani
Caritas Libano prosegue il suo lavoro di assistenza, garantendo non solo cibo e aiuti ma anche sostegno psicologico e favorendo il confronto fra cristiani e musulmani, in particolare fra i giovani. “Dall’estate - spiega padre Paul Karam - incoraggiamo il dialogo organizzando incontri fra giovani profughi cristiani e musulmani di Siria, Iraq e lo stesso Libano. L’obiettivo è mostrare loro come costruire Paesi all’insegna della convivenza, e uomini, persone capaci di dialogare fra loro. Quello che noi chiamiamo il cantiere della pace e le risposte sono positive… i giovani vogliono contribuire a questo processo, eliminando la paura dell’altro”. 

Molte parrocchie libanesi in sostegno delle famiglie di rifugiati
In questo contesto di crisi, il popolo libanese “nutre ancora grande speranza e mostra il suo volto solidale”, anche se “le famiglie si stanno impoverendo sempre più e l’emergenza profughi rischia di mettere in ginocchio il Paese”. “Serve un miracolo - prosegue il sacerdote - e in questo Anno della Misericordia vogliamo rilanciare il nostro impegno per incoraggiare la gente ad andare avanti, a vivere la speranza come popolo e come fedeli cristiani”. Per l’occasione molte parrocchie e diocesi del Libano hanno promosso iniziative concrete “per riaffermare questo messaggio di speranza”. 

Raccolta fondi per le persone più povere
“A Natale - racconta il direttore della Caritas nazionale - le famiglie hanno aderito a una raccolta fondi per acquistare cibo, pacchi di generi di prima necessità e doni da distribuire ai poveri. Nonostante sia un momento difficile per tutti, la solidarietà delle persone non è diminuita. Molte parrocchie hanno poi organizzato feste e momenti di svago per i bambini, animate da giovani e volontari della Caritas”. “Credo nella pace - conclude padre Paul - basata su giustizia e rispetto; e la comunità internazionale ha il dovere di risolvere la crisi, allentando la tensione mediante i canali della diplomazia, non a discapito della povera gente”. (R.P.)

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Indonesia: 70.mo “Hidup”, primo settimanale cattolico del Paese

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Il primo settimanale cattolico indonesiano (“Hidup”, che significa “vita”) ha compiuto 70 anni di attività, e la comunità cristiana ha festeggiato l’evento con una Messa nella cattedrale di Jakarta celebrata da mons. Ignatius Suharyo, arcivescovo della capitale. Nato dallo sviluppo di un semplice bollettino della parrocchia dell’Assunta di Jakarta - riporta l'agenzia AsiaNews - Hidup viene fondato il 5 gennaio 1946 con il nome di De Katholieke Week nella doppia traduzione indonesiana e olandese (fino al 1954 l’Indonesia è stata colonia dell’Olanda). Il fondatore è il padre gesuita olandese L. Swaans, allora missionario a Batavia (nome coloniale di Jakarta).

Negli anni piccolo cambio della testata ma poi si è tornati al nome originale
​“Leggo Hidup fin da quando sono piccolo – racconta padre France de Sales, direttore delle comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Palembang –. Questo settimanale cattolico contribuisce a creare ponti fra la gerarchia ecclesiastica e le varie congregazioni”. La direzione del giornale è stata assunta nel 1957 dal padre gesuita Poel, rimasto fino al 1963, che modifica il nome in Hidup Katolik (vita cattolica). Nel 1970, con il direttore padre Father Knooren, si è tornati al nome originale.

3 anni fa la versione online
Hidup è ancora oggi il punto di riferimento dell’informazione cattolica nel Paese, anche se sta affrontando il difficile momento della stampa di tutto il mondo, combattuta tra carta stampata ed edizioni online. I direttori della rivista si sono resi conto che i lettori indonesiani preferiscono informarsi online piuttosto che su carta, così 3 anni fa hanno creato una versione del settimanale su internet, fruibile gratis. Inoltre, per garantirsi una fascia di lettori anche tra i giovanissimi e tenere aggiornati i ragazzi sulle novità pastorali, Hidup ha lanciato la versione chiamata Cathkids.

Gli interventi di vescovi ed intellettuali laici cattolici
Il settimanale tratta della vita della Chiesa in Indonesia e negli ultimi tempi si è arricchito degli interventi di molti vescovi del Paese, che scrivono articoli su diversi temi, soprattutto sulle prospettive bibliche delle letture settimanali. Su Hidup pubblicano brevi saggi anche intellettuali e figure laiche cattoliche del Paese. La rivista appartiene ora all’arcidiocesi di Jakarta e da due anni il direttore è un laico. (M.H.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 10

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.