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Sommario del 23/02/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Dio è concreto, no alla "religione del dire"

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Quella cristiana è una religione concreta, che agisce facendo il bene, non una “religione del dire”, fatta di ipocrisia e vanità. Papa Francesco lo ha ripetuto commentando la liturgia del giorno all’omelia della Messa celebrata in Casa S. Marta. Durante la Quaresima, ha concluso, Dio “ci insegni la strada del fare”. Il servizio di Alessandro De Carolis

La vita cristiana è concreta, “Dio è concreto”, ma tanti sono i cristiani per “finta”, quelli che fanno dell’appartenenza alla Chiesa un fregio senza impegno, un’occasione di prestigio invece che un’esperienza di servizio verso i più poveri.

La strada del fare
Il Papa intreccia il brano liturgico del giorno del profeta Isaia col passo del Vangelo di Matteo per spiegare una volta ancora la “dialettica evangelica fra il dire e il fare”. L’enfasi di Francesco è sulle parole di Gesù, che smaschera l’ipocrisia di scribi e farisei invitando discepoli e folla a osservare ciò che loro insegnano ma a non comportarsi come loro agiscono:

“Il Signore ci insegna la strada del fare. E quante volte troviamo gente – anche noi, eh! – tante volte nella Chiesa: “O sono molto cattolico!”. “Ma cosa fai?” Quanti genitori si dicono cattolici, ma mai hanno tempo per parlare ai propri figli, per giocare con i propri figli, per ascoltare i propri figli. Forse hanno i loro genitori in casa di riposo, ma sempre sono occupati e non possono andare a trovarli e li lasciano abbandonati. ‘Ma sono molto cattolico, eh! Io appartengo a quella associazione’. Questa è la religione del dire: io dico che sono così, ma faccio la mondanità”.

Quello che vuole Dio
Quello del “dire e non fare”, afferma il Papa, “è un inganno”. Le parole di Isaia, sottolinea, indicano cosa Dio preferisca: “Cessate di fare il male, imparate a fare il bene”. “Soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. E dimostrano anche altro, l’infinita misericordia di Dio, che dice all’umanità: “Su, venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”:

“La misericordia del Signore va all’incontro di quelli che hanno il coraggio di discutere con Lui, ma discutere sulla verità, sulle cose che io faccio o quelle che non faccio, per correggermi. E questo è il grande amore del Signore, in questa dialettica fra il dire e il fare. Essere cristiano significa fare: fare la volontà di Dio. E l’ultimo giorno – perché tutti noi ne avremo uno, eh! – quel giorno cosa ci domanderà il Signore? Ci dirà: “Cosa avete detto su di me?”. No! ci domanderà delle cose che abbiamo fatto”.

I cristiani per finta
E qui il Papa cita l’amato capitolo del Vangelo di Matteo sul giudizio finale, quando Dio chiederà conto all’uomo di ciò che avrà fatto ad affamati, assetati, carcerati, stranieri. “Questa – esclama Francesco – è la vita cristiana. Invece il solo dire ci porta alla vanità, a quel fare finta di essere cristiano. Ma no, non si è cristiani così”:

“Che il Signore ci dia questa saggezza di capire bene dov’è la differenza fra il dire e il fare e ci insegni la strada del fare e ci aiuti ad andare su quella strada, perché la strada del dire ci porta al posto dove erano questi dottori della legge, questi chierici, ai quali piaceva vestirsi ed essere proprio come se fossero una maestà, no? E questo non è la realtà del Vangelo! Che il Signore ci insegni questa strada”.

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Shevchuk: con gli ortodossi vogliamo un cammino di comunione

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“Vogliamo camminare insieme con gli ortodossi, costruire non solo la pace ma vogliamo l’unità tra le Chiese”. Così si è espresso l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, capo del sinodo della Chiesa greco cattolica ucraina, durante un incontro con i giornalisti oggi a Roma. In un dialogo disteso e franco in cui ha risposto a diverse domande e ha annunciato che a breve sarà in udienza dal Papa, il presule è tornato sull’incontro e la dichiarazione congiunta del Pontefice e del Patriacrca Kirill a Cuba, spiegando perplessità e polemiche che ne sono nate ma sottolineando soprattutto che si è trattato di un evento positivo, un punto di partenza e non di arrivo. Il servizio di Gabriella Ceraso

“Finalmente! E’ questa l’espressione che ho ripetuto di fronte all’abbraccio del Papa e del Patriarca”. Apre così la sua lunga chiacchierata con i giornalisti sua Beatitudine Shevchuk, tornando con il pensiero a quel giorno:

“Io penso che questo abbraccio sia veramente una cosa sacra. Questo genere di incontri fanno da pietre miliari nel cammino ecumenico della Chiesa”.

Lo “Spirito Santo” aggiunge “ha aperto orizzonti sconosciuti facendoci uscire dai limiti umani”. Un evento dunque positivo così come lo è stata la Dichiarazione congiunta nel suo complesso, anche se, osserva, in un testo così lungo, è sempre difficile essere chiari.

Il presule non nasconde perplessità e dolori infatti che ne sono nati in Ucraina. Bene, fa notare, l’affermazione del “diritto ad esistere” riconosciuto alle “comunità ecclesiali” e passo in avanti nel testo è il “diritto di assistere i nostri fedeli ovunque”, che finora, ricorda, non era permesso, ma ripete: non dobbiamo chiedere a qualcuno il diritto di esistere, solo Dio lo stabilisce e soprattutto fa male alla comprensione della verità la scarsa chiarezza circa la questione dell’uniatismo e l’uso generico del termine “comunità ecclesiali” senza riferimenti precisi alla Chiesa greco-cattolica ucraina:

“Perché nella terminologia della teologia ecumenica moderna questo termine viene usato per le comunità cristiane che non hanno conservato la pienezza della successione apostolica. Invece noi siamo una parte integrante della comunione cattolica”.

Il presule sottolinea che anche il modo di concepire e presentare la guerra in Ucraina, nella Dichiarazione congiunta, ha suscitato polemiche. Ora non se ne parla più tanto eppure esiste ed è un dramma, per 45 milioni di persone. Ogni giorno, ci sono morti, feriti, ingresso di soldati russi e armi pesanti. Infatti, sottolinea, non è un conflitto civile ma una aggressione straniera e questo non è emerso dalla Dichiarazione. Ma poi aggiunge:

“Ma il Santo Padre poi ha chiarito tanto, perché ha affermato che ha incontrato i due presidenti, e si riferiva sia al presidente Putin che al presidente ucraino Poroshenko. E questo veramente è bello, è rassicurante, perché così ha detto: ‘Ho parlato con tutti dicendo: ma fatela finire! Fate la pace!’”.

A chi gli fa notare che il popolo ucraino è rimasto ferito dalla Dichiarazione, l’arcivescovo, come affermato in sintesi anche dal Papa, spiega:

“Io capisco questi sentimenti della mia gente, perciò mi sono fatto portavoce di questi affinché non soltanto noi tra di noi compiangiamo. Il Santo Padre deve conoscere questi sentimenti; addirittura ha detto che lui rispetta questi sentimenti e che il popolo ucraino soffre veramente: soffre la guerra che forse impedisce di capire questo gesto profetico”.

Ma noi pastori, aggiunge, abbiamo la responsabilità di far capire e farci capire. “Se i passi profetici", prosegue, "compiuti dal Papa sono opera dello Spirito Santo, porteranno i loro frutti”.

Dalla conversazione emerge che ora la domanda da porsi, dopo quanto accaduto, è: quali passi compiere nel cammino dell’unità, voluta da Dio nell’"Ut unum sint"? Fondamentale è il dialogo, nella verità, fatto con toni pacati e liberi dai condizionamenti geopolitici e con attenzione al pericolo di strumentalizzazione della religione:

“I cristiani possono incominciare un dialogo, ascoltarsi, perdonarsi a vicenda, fare la pace, fare un cammino verso l’unità piena e visibile, soltanto quando saranno liberi dalla geopolitica, dalla sottomissione a un potere temporale, liberi dalla follia dei potenti di questo mondo”.

Quello che serve è comunione e cammino, ripete l’arcivescovo maggiore di Kiev: in Ucraina il livello di collaborazione è più avanzato di quanto si dica. Comunque si può partire dal lavoro nell’ambito del Consiglio Pan-ucraino delle Chiese, ma bisogna sempre tenere presente quale è la ricchezza contenuta nell’”incontro” e mai temerlo.

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Ravasi ricorda Eco: un ingegno sempre affascinato dal sacro

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Si svolgeranno oggi alle 15, presso il castello Sforzesco di Milano, i funerali di Umberto Eco, l'intellettuale, semiologo, scrittore, recentemente scomparso. Alla cerimonia laica partecipano il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, i ministri dei Beni e delle Attività Culturali, Dario Franceschini, e dell’Istruzione, Stefania Giannini. Per un ricordo della personalità di Eco e del suo interesse per i temi religiosi, Fabio Colagrande ha intervistato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che lo frequentò a lungo, da Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano: 

R. – L’eredità fondamentale è quella di essere stato una figura capace di spaziare su un orizzonte molto vasto. Eppure, avendo delle competenze anche molto specifiche, non è mai stato colui che si è rinchiuso nell’interno di un perimetro nel quale potesse soltanto esplicitare la sua specializzazione. Era un uomo veramente di grandi orizzonti e in questo senso – lo dicevamo spesso tra di noi – se c’era una somiglianza, pur nella grande distanza tra i due, era nel fatto che entrambi eravamo ecclettici, dai molteplici interessi.

D. – Il suo rapporto con i temi religiosi, con il sacro? In fondo il grande successo letterario lo ottenne con un romanzo dedicato proprio a queste tematiche…

R. – Non bisogna mai dimenticare che Umberto Eco ha avuto una matrice profondamente cattolica, essendo stato persino responsabile dei giovani di Azione Cattolica ad Alessandria, quando viveva là… Poi, ad un certo momento, ci fu questa sorta di taglio. Ma egli continuò ad avere un interesse molto spiccato, creativo anche, nei confronti di quell’ambito che egli aveva lasciato un po’ alle spalle. E soprattutto, direi, due sono i campi nei quali l’interesse suo si manifestava e che io ho potuto ininterrottamente verificare con lui, nell’interno degli spazi della Biblioteca Ambrosiana: una biblioteca storica come quella non poteva essere che una sorta di giardino – per lui – delle meraviglie. Da un lato l’amore per la Bibbia, per i Testi Sacri: famosa quella sua dichiarazione proprio per sostenere il ritorno della Bibbia nell’interno dell’insegnamento scolastico, prescindendo dalle questioni confessionali: “Perché i nostri ragazzi devono sapere tutto degli eroi di Omero e non devono sapere nulla di Mosè? Perché la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici o la Bibbia, che ne sono il palinsesto? L’altro ambito, invece, è quello della cultura medievale: in particolare, noi sappiamo, la sua tesi di laurea sull’estetica di Tommaso d’Aquino e, in questo orizzonte un po’ particolare, c’era anche la sua passione per Raimondo Rullo, questo personaggio di dialogo con l’islam, che conosceva l’arabo, che aveva interesse – questo filosofo catalano – per il mondo che passava dalla logica alla cavalleria, al dialogo del gentile con i tre saggi, un pagano e tre sapienti… Ecco, questo personaggio era un altro delle componenti che costituiva la sua curiosità.

D. – Dunque, potremmo parlare di un ateo che, però, coltivava il dialogo con i credenti, come ha dimostrato il suo rapporto, il suo dialogo con il cardinale Martini…

R. – Lui era sempre interessato anche a vedere come una persona che lavorava nel mondo della cultura potesse stabilire un equilibrio tra Atena da un lato e dall’altra parte Mosè o Cristo. La fede e la ragione. E quindi le interrogazioni erano frequenti, soprattutto poi quando si trattava di questioni di tipo etico, di tipo morale.

D. – Alcuni leggono ne “Il nome della rosa” anche un monito a diffidare dai fanatismi religiosi, dai dogmatismi. E’, in questo senso, una lezione che Eco ha lasciato anche ai credenti?

R. – Io credo di sì, che questa sia una delle chiavi di lettura significative di questo romanzo che, per molti versi, era un po’ il primo suo tentativo di entrare nella narrativa. Io penso che, per esempio, più elaborato sia “Il pendolo di Foucault ”. Però è fuori di dubbio che questa dimensione – questo devo dirlo, lui stesso me lo diceva – della religione che sconfina progressivamente fino a diventare non più ricerca, testimonianza, ma soprattutto incubo, un incubo di morte persino, sia uno dei tanti fili conduttori di questo romanzo piuttosto polimorfo. E’ stato lui che mi ha fatto ricordare una frase, che io cito spesso, del filosofo David Hume: “Gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, gli errori della religione sono sempre pericolosi”.

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Completato il restauro delle Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro

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Straordinari affreschi delle Catacombe romane dei Santi Marcellino e Pietro, un vasto sito archeologico da poco riaperto al pubblico, sono tornati al loro antico splendore. Nella sede del Pontificio Consiglio della Cultura sono stati presentati stamani i risultati della complessa opera di restauro, i cui costi sono stati sostenuti dalla Fondazione “Heydar Aliyev”, presieduta dalla signora Mehriban Aliyeva, consorte del presidente musulmano dell’Azerbaigian. Il servizio di Amedeo Lomonaco: 

Le catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, sulla via Casilina al numero civico 641, sono una straordinaria pinacoteca sotterranea. Le terze di Roma per estensione, custodiscono in un’area di oltre 18 mila metri quadrati pitture paleocristiane uniche al mondo e sono poste all’interno del complesso archeologico “Ad duas lauros”. Il recente e prezioso lavoro di restauro permette di vedere eccezionali affreschi con i loro originari colori. Queste catacombe, in questo Anno Santo della Misericordia come accaduto per secoli una delle privilegiate mete di pellegrinaggio, sono legate al martirio dei Santi Marcellino e Pietro.

I Santi Marcellino e Pietro
Pietro era un giovane esorcista che si rifiutò di rinnegare la propria fede cristiana e di adorare gli dei. Per questo fu torturato e rinchiuso in carcere. Tra i carcerieri c’era in particolare un uomo, Artemio, che profondamente colpito dalla fede di Pietro si convertì al cristianesimo. Si convertirono anche molti altri detenuti, carcerieri e intere famiglie. Pietro non poteva amministrare il battesimo e un sacerdote, Marcellino, si recò in carcere per impartire il battesimo.

Il martirio dei Santi Marcellino e Pietro
Marcellino e Pietro furono condannati a morte e furono uccisi nel 304 d. C. per volere dell’imperatore Diocleziano, che riteneva il cristianesimo un ostacolo per lo sviluppo economico e sociale dell’Impero. I due martiri furono obbligati, prima della decapitazione, a scavare la loro tomba con le mani nel folto di una foresta, conosciuta con il nome di Selva Nera, affinché loro sepolcri restassero sconosciuti.

Il trasferimento delle salme nel cimitero “Ad duas lauros”
Una matrona romana, Lucilla, riuscì a trasferire le salme da quell’area impervia - che oggi prende il nome di Selva Candida in onore dei due martiri - in un cimitero cristiano sulla Via Casilina, presso la località “Ad duas lauros”. Il luogo, poi dedicato alla memoria dei due Santi, divenne meta di pellegrinaggi. Nel periodo carolingio le reliquie dei due Santi furono trasportate in Germania, nella città di Seligenstadt, dove sono tuttora custodite.

Gli affreschi salvati dalle opere di restauro
Il finanziamento stanziato dalla Fondazione “Heydar Aliyev” è stato erogato nell’ambito di un accordo sottoscritto nel 2012 e ha permesso, con avanzate tecniche conservative, il restauro di straordinari monumenti pittorici: il Cubicolo di Susanna e del fossore; Nicchia di Daniele; Arcosolio di Sabina; Arcosolio di Orfeo; Cubicolo della Madonna con due Magi, Cubicolo della matrona orante. L’ultimo intervento ha riguardato un cubicolo detto “della matrona orante” che mostra una matrona dal capo velato con le braccia aperte. Un gioiello pittorico che anticipa l’iconografia medioevale delle Madonne della Misericordia.

Previste opere di restauro anche nelle catacombe di San Sebastiano
La collaborazione tra  Santa Sede e Azerbaigian proseguirà con altri importanti progetti. Oggi, in particolare, è stato siglato un protocollo di intesa per opere di restauro e la valorizzazione del complesso monumentale di San Sebastiano fuori le Mura, sulla via Appia Antica. L’accordo riguarda, tra l’altro, una straordinaria collezione di sarcofagi.

Mehriban Aliyeva: cooperazione destinata a proseguire
Perché una fondazione azera, di uno Stato musulmano, finanzia opere di restauro di patrimoni cristiani? Risponde la signora Mehriban Aliyeva:

"L’Azerbaigian è un Paese a cavallo tra Europa e Asia, tra Occidente e Oriente, e questa posizione geografica ha influito sulla profonda diversità che caratterizza il Paese. L’amicizia e la fraternità hanno sempre accompagnato i popoli che hanno vissuto nel Paese. La nostra grande ricchezza è anche costituita dalla presenza di molteplici confessioni religiose. In particolare, il restauro delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro rientra in un progetto di collaborazione tra Santa Sede e Azerbaigian. In futuro, la nostra Fondazione sarà sempre pronta a proseguire in questa cooperazione".

Il card. Ravasi: collaborazione ad ampio spettro
La collaborazione tra Santa Sede e Azerbaigian ha un ampio spettro, come sottolinea il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra:

“Ha il suo cuore principale nelle Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro e poi ora di San Sebastiano. Ma l’impegno della Fondazione “Aliyev” e, in particolare della presidente, si è allargato anche alla Biblioteca Apostolica Vaticana, con restauro di molti manoscritti azeri, e ai Musei Vaticani dove si sono iniziati dei lavori di restauro, soprattutto di un’imponente statua di Giove. La seconda considerazione riguarda invece il fatto che io stesso sono stato in visita, più di una volta, nell’Azerbaigian e ho avuto l’occasione di incontrare le varie comunità religiose. Per cui, si tratta di una rete di collaborazione molto diffusa”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Tra il fare e il dire: messa a Santa Marta.

La City contro Brexit.

Religione della libertà: Roberto Pertici sul rapporto tra Stefano Jacini e Benedetto Croce.

Un articolo di Felice Accrocca dal titolo “Vera e propria miniera”: testi liturgici e culto francescano.

Giovanni Cerro sul macabro pasto: antropofagia nel medioevo in un libro di Angelica Aurora Montanari.

La casa degli spettri: Gabriele Nicolò su brama di successo e vena malinconica in Katherine Mansfield.

Presto e in avanti: Silvia Scatena sull’itinerario spirituale di fratel Roger in direzione dell'unità dei cristiani.

Connessi col mondo: Nicola Gori a colloquio con il gesuita Frédéric Fornos, direttore internazionale della Rete mondiale di preghiera del Papa.

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Oggi in Primo Piano



Siria e Ucraina: nuova collaborazione Usa-Russia

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La collaborazione tra Usa e Russia che ha portato al cessate il fuoco in Siria riceve il “plauso” del Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, mentre Washington e Mosca tentano di dialogare anche per sbloccare la situazione in Ucraina. Per capire se si apra una nuova fase di impegno comune in politica estera, Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni internazionali all’Università del Salento: 

R. – Questo, innanzitutto, è un momento particolare della vita politica degli Stati Uniti. Abbiamo un Presidente che ormai è molto slegato da possibili obblighi politici perché è alla fine del suo mandato; è in un momento in cui ha ancora pieni poteri perché non siamo ancora nel periodo della cosiddetta “anatra zoppa” - quando non può prendere più decisioni – ma e’ in un periodo in cui si sente evidentemente più libero. E ritiene che la politica possa andare nella direzione che molti auspicavano già da mesi, se non da anni, cioè di alcune collaborazioni, in alcuni teatri strategici come il Medio Oriente e l’Europa Orientale, che erano assolutamente necessari per trovare una chiara soluzione alle crisi in campo.

D. - Vediamola dal punto di vista della Russia: se la presidenza statunitense sta passando questo momento particolarmente favorevole, Putin invece da cosa è mosso?

R. - Putin sta rafforzando sempre di più la propria posizione come leader politico sia in campo interno che in campo esterno. La Russia per vari anni – ricordiamo benissimo – è stata quasi un’ipotesi politica, perché non aveva più quella forza dopo il grande periodo imperiale dell’Unione Sovietica. Putin sta riallacciando nelle varie aree delle alleanze che sono assolutamente utili ad un’espansione geopolitica della Russia stessa, sia a sud passando per il Caucaso e scendendo verso il Medioriente, sia verso l’Europa orientale. Per parecchio tempo la Russia, e Putin in particolar modo, si è sentito - come dire - assediato dalle mosse dei Paesi che si avvicinavano sempre di più alla Nato e, quindi, è diventato particolarmente irrequieto. È stato sicuramente una pedina dietro le quinte che ha fatto avvicinare l’Iran e gli Stati Uniti. Queste sono tutte considerazioni che fanno si che, si può pensare quello che si vuole di Putin, ma Putin si sta rivelando un leader a tutto tondo, un leader mondiale.

D. - Abbiamo superato la fase dell’unilateralismo degli “Stati Uniti gendarmi del mondo”. Obama ha aperto al multilateralismo, ma in qualche modo stiamo ritornando al binomio Usa- Russia? Tornano ad essere i due agenti mondiali, un po’ come era nella Guerra Fredda, ma al contrario?

R. - Dobbiamo tenere conto anche di un terzo attore, molto importante: la Cina. La Cina per ragioni soprattutto politiche, ma anche di sostentamento, ha allargato la propria influenza verso aree cui sia gli Stati Uniti che la Russia non guardavano più da tempo. Penso per esempio all’Africa. Quindi sì, è vero che si sta creando questo tipo di situazione. Abbiamo superato l’unilateralismo americano, ma bisogna tenere conto che c’è la Cina e che si sta creando di nuovo una formazione triangolare di gestione della politica mondiale. Manca un vertice ad un possibile quadrilatero che è l’Onu, che continua ad essere ancora un agente totalmente assente nella politica internazionale.

D. - Troppo debole?

R. - Estremamente debole. Nel momento delle crisi ha dimostrato tutta la sua assenza. Cito sempre  - ci tengo a farlo – la questione della crisi dell’immigrazione, dei profughi che muoiono nel Mediterraneo. Non prende soluzioni, non promuove discussioni, rimane totalmente indietro e aspetta che siano altri a muoversi.

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Macedonia, frontiere chiuse. 10 mila migranti al confine

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Sono oltre 10 mila i profughi ammassati al confine tra Grecia e Macedonia, che da giorni cercano di proseguire il loro viaggio verso il nord Europa. Secondo le autorità macedoni, il blocco dei migranti, in prevalenza afghani, si è reso necessario a causa del limite imposto dall’Austria di accettare non più di 80 richiedenti asilo al giorno. Un effetto-domino quindi che si è riversato sugli stati confinanti, ma soprattutto sulla Grecia, vera porta d’ingresso della rotta balcanica. Andiamo sul posto con Stefano Pesce che ha raggiunto al telefono Francesco Martino, corrispondente dai Balcani per l’Osservatorio Balcani e Caucaso: 

R. – In questo momento, le autorità macedoni hanno chiuso il proprio territorio ai migranti che si dichiarano afghani che, al tempo stesso, stanno richiedendo documenti di identità: una larga parte di chi, attraverso la rotta balcanica, non ha documenti. Quindi, questa richiesta da parte delle autorità di Skopije ha creato la situazione cui stiamo assistendo in questo momento.

D. – Ma perché vietare il passaggio solo agli afghani?

R. – Quali siano le considerazione che hanno portato a chiudere anzitutto il passaggio ai migranti afghani, non c’è dato sapere… Il risultato, però, è quello di una restrizione forte del flusso che in questo momento, attraverso la Macedonia, porta le persone ad attraversare tutti i Balcani e ad arrivare in Austria.

D. – Il ministro ellenico per i migranti, Janis Mouzàlas, ha dichiarato: “Per alcuni Paesi ancora manca la cultura dell’Unione Europea”. Si riferiva probabilmente alla decisione dell’Austria di imporre un limite massimo di 80 richiedenti asilo al giorno…

D. – Direi che in questo momento c’è una battaglia, per così dire, in corso tra la Grecia e il resto dell’Unione Europea: c’è chi, in Europa centrale, vuole creare tutta una serie di barriere concentriche che rendano difficile o impossibile l’arrivo di nuove persone e c’è chi parla del pericolo di fare della Grecia un grande campo profughi all’aria aperta. La risposta complessiva che era stata data, o meglio il tentativo di dare una risposta complessiva, era sicuramente l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, che prevedeva controlli molto più rigorosi da parte turca e, al tempo stesso, la possibilità che i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo potessero essere trasportati direttamente dai campi profughi in Turchia ai Paesi di arrivo dell’Europa Centrale. A tutt’oggi questo non è ancora avvenuto…

D. – La Grecia quanto potrà resistere?

R. – La Grecia ha dimostrato una capacità di resistenza anche superiore alle aspettative. Nel momento in cui dovessero chiudersi ermeticamente le frontiere e numeri molto alti di persone dovesse rimanere e permanere in Grecia, non avendo la Grecia risorse infinite ci sarebbero probabilmente problemi non indifferenti.

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Bolivia. Morales sconfitto al referendum: no al quarto mandato

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Per il presidente della Bolivia Evo Morales svanisce la possibilità di ricandidarsi e di guidare il Paese fino al 2019. Con oltre l'80% delle schede scrutinate, infatti, il referendum costituzionale per la possibilità di un quarto mandato vede i "no" attestarsi al 55%. Il conteggio dei voti è molto lento e ancora in corso e, dal canto suo, Morales ha promesso di rispettare i risultati anche se ha detto di sperare ancora dal voto delle campagne, dove gode di maggiore sostegno. Per un commento sul voto, Marco Guerra ha intervistato Alfredo Somoza, presidente dell’Icei, Istituto Cooperazione Economica Internazionale: 

R. – Il voto su questo referendum va letto insieme ai dati negativi che hanno avuto governanti  che erano allineati con Evo Morales, come Maduro in Venezuela o Cristina Kirchner in Argentina; anche se questo non è stato un voto politico: però, c’è stato un crescente malcontento, in Sudamerica, rispetto ai leader carismatici come Evo Morales che, pur avendo avuto un bilancio positivo della loro gestione, per il semplice fatto di esercitare il potere da tanto tempo cominciano anche loro ad avere problemi legati a nepotismo, corruzione, eccetera. Quindi, il voto boliviano è estremamente maturo, nel senso che non permette all’autore di una Costituzione di modificarla a suo favore. Era già successo qualcosa di simile anche in Ecuador … Ecco, questo è un sentimento che sta nascendo in Sudamerica rispetto al perpetuarsi al potere di Presidenti – popolari o meno popolari … Va letto in modo positivo rispetto al concetto di democrazia.

D. – Morales ha sottolineato che dalle aree rurali continuano ad arrivare voti positivi. Quindi, nelle campagne c’è ancora lo zoccolo duro del suo consenso che, ricordiamolo, nelle ultime elezioni aveva portato a due vittorie nette con oltre il 50% dei voti …

R. – Sicuramente, perché il governo di Evo Morales – non c’è nessun dubbio – ha fatto gli interessi, fondamentalmente, degli ultimi che in Bolivia sono la maggioranza della popolazione, e sono sicuramente per lo più le popolazioni rurali. Le zone di maggiore sofferenza, che sono quelle che hanno avuto sicuramente i migliori risultati, in particolar modo dal miglioramento o dall’arrivo di servizi di base come l’energia elettrica o la sanità, e anche un piccolo welfare che ha aiutato molte famiglie poverissime con – ad esempio – i sostegni per la scuola e l’istruzione dei figli.

D. – Morales è riuscito a moltiplicare per quattro il pil, a tenere i conti in ordine… insomma, ha avuto buoni risultati sul fronte economico …

R. – La Bolivia è stata fondamentalmente un Paese che per la prima volta nella sua storia si è riappropriata delle proprie risorse naturali che sono molto, molto grandi. La Bolivia è uno dei principali produttori di gas che vanno a rifornire il mercato argentino e brasiliano, ed è il Paese al mondo con la più alta quantità di litio, che è quello che sta alla base di tutta la nostra moderna civiltà della comunicazione. Ecco: Evo Morales ha fatto una politica di interesse nazionale di queste risorse che storicamente erano state praticamente regalate. E’ bastato quello, per un Paese piccolo con pochi milioni di abitanti come la Bolivia, perché cambiasse la situazione. Ecco, adesso è un po’ rallentata quella crescita a ritmi asiatici ma non tanto per problemi strutturali della Bolivia, che non ci sono: è un Paese che ha un’economia assolutamente a posto; ma perché la Bolivia non può che risentire della crisi molto più profonda dei due grandi Paesi: dell’Argentina e del Brasile.

D. – Si è chiusa, quindi, la porta alla partecipazione del Presidente alle elezioni del 2019. Chi raccoglierà questa eredità e quali scenari politici si aprono?

R. – Questo è un bell’interrogativo, nel senso che non potranno essere rieletti né lui né il suo vice-Presidente, una delle teste politiche più importanti nell’elezione di Evo Morales. Ed è uno dei problemi, quello di non vedere una successione ipotizzabile: uno dei tipici problemi dei governi di sinistra che sono quei governi che in Sudamerica sono dietro alle figure carismatiche come i vari Chavez e Lula, dietro ai quali poi alla fine c’era ben poco. La Bolivia rischia di ripiombare in uno scenario di frammentazione politica e di instabilità. Certamente e comunque avendo ancora davanti due anni di mandato, Evo Morales potrà anche lavorare: lavorare per un’ipotesi perché possa in qualche modo garantire la continuità di questo modello.

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Burundi. Nkurunziza a Ban Ki-moon: pronto a dialogo

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Un accordo per un “dialogo inclusivo” che metta fine a una crisi politica che dura da quasi un anno è stato raggiunto questa mattina a Bujumbura dal presidente del Burundi, Nkurunziza, e dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Il leader africano ha promesso, come segno di buona volontà, di liberare duemila prigionieri, ma ha esortato l’Onu a “convincere il Rwanda a smettere le sue aggressioni contro il Burundi”. Cosa è lecito aspettarsi da questa intesa? Roberta Barbi lo ha chiesto alla prof.ssa Anna Bono, docente di Storia dei Paesi e delle istituzioni africane presso l’Università di Torino: 

R. – Molto probabilmente questo significa un’apertura nei confronti dell’opposizione, ma intendendo per opposizione i parlamentari e i soggetti politici che la rappresentano. Potrebbe essere una cattiva notizia, nel senso che, come già successo subito dopo le elezioni che hanno visto Nkurunziza vittorioso a luglio, l’opposizione, che prima aveva stimolato proteste molto vivaci, ha poi accettato in silenzio e di essere inclusa nel governo e quindi, in fin dei conti, ha tradito la popolazione che aveva incoraggiato a protestare nelle strade con grandi disordini e incidenti mortali che hanno turbato tutta la fase pre-elettorale, da aprile fino a luglio.

D. – L’impegno preso con le Nazioni Unite come inciderà sulle problematiche che affliggono il Burundi, come il fronte dei diritti umani, sul quale sappiamo che il Paese è molto indietro?

R. – Questo è da vedere, perché il problema in questo momento è che non soltanto il presidente con un espediente ha potuto ricandidarsi e ha vinto le elezioni in una situazione denunciata apertamente, caratterizzata da brogli e via dicendo. Il problema è che poi, da allora, la situazione del Paese è progressivamente degenerata con sempre più frequenti scontri armati e soprattutto interventi della polizia molto violenti contro l’opposizione popolare. Ed è questa la situazione che in questo momento preoccupa, al punto da aver indotto l’Unione Africana a prendere in considerazione la possibilità di un intervento militare nel Paese: un fatto del tutto eccezionale. La preoccupazione in Burundi è particolarmente forte perché, come il Rwanda, il Burundi ha una storia di conflitti etnici tra i Tutsi e gli Hutu, che sono le due etnie del Paese, che nel corso degli anni, dall’indipendenza a oggi, ha provocato in Burundi centinaia di migliaia di morti. Finora, si è sempre detto che il fattore etnico non c’entra ma in realtà c’entra eccome e soprattutto potrebbe diventare un fattore determinante e a quel punto ci sarebbe il timore di uno scontro civile devastante.

D. – Nei prossimi giorni, arriverà in Burundi una delegazione dell’Unione Africana (Ua) per promuovere il dialogo. Ma molti altri Paesi del continente si trovano nella stessa situazione del Burundi, con un presidente in carica da anni in barba a quanto previsto dalla Costituzione…

R. – È questo il punto critico. L’Unione Africana è arrivata a pensare di inviare delle truppe in Burundi facendosi forte di un articolo della Costituzione dell’Ua che prevede la possibilità di ingerenza negli affari di uno Stato se si verificano violazioni particolarmente gravi, come il rischio di genocidio e gravi violazioni dei diritti umani. Il problema, qui, è che i leader africani, in questa come in altre occasioni, sono poi cauti a prendere decisioni di questo genere che possono ritorcersi contro di loro, proprio perché molti leader africani hanno una gestione del potere e governano in maniera più che discutibile. E molti – è appena successo in Uganda qualche giorno fa – riconquistano il potere, si riaffermano alle elezioni, avendo ottenuto modifiche costituzionali che praticamente consentono oro di rimanere al potere a tempo indeterminato. Qui la domanda potrebbe essere: “Ma, ricandidarsi non vuol dire vincere…”. Però, sappiamo che in molti Stati africani detenere il potere politico significa anche detenere formidabili strumenti per influenzare l’esito del voto, con brogli, intimidazioni e altri mezzi. Ad alcuni va male  – come è successo in Burkina Faso l’anno scorso  – molti invece hanno successo e si ritrovano legittimati, perché hanno usato strumenti democratici per modificare la Costituzione andando al referendum popolare o usando altri mezzi effettivamente democratici, ma che alla fine diventano un’arma nelle loro mani.

D. – Stanotte, nella capitale Bujumbura sono state avvertite una decina di esplosioni che hanno causato anche qualche ferito: come si possono interpretare questi attentati? Ora che c’è un impegno ufficiale del presidente smetteranno, secondo lei?

R. – Io temo di no perché la situazione sostanzialmente non cambia. Un accordo con l’opposizione, se si limita a offrire ai leader politici dell’opposizione cariche, a spartire il potere in sostanza, non è sufficiente, non è democrazia. Anzi, diventa poi di nuovo la copertura per agire senza ritegno contro l’opposizione popolare e contro chi non accetta questa offerta di spartire il potere.

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Una nave di "SOS Méditerranée" salpa in aiuto dei migranti

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Salperà stasera per la prima volta dal porto di Palermo diretta a Lampedusa la nave guardapesca "Aquarius" diretta nel Mediterraneo per offrire aiuto e salvare profughi e migranti in difficoltà sui barconi in traversata dall’Africa verso le coste siciliane. L’iniziativa è stata presentata stamane a bordo del natante. Il servizio è di Alessandra Zaffiro

La missione di salvataggio dei migranti durante le traversate della speranza nel Canale di Sicilia, prevista per i prossimi tre mesi, è organizzata dalle associazioni italiana, tedesca e francese denominate "SOS Méditerranée". A bordo dell’Aquarius che stasera salperà per Lampedusa, una trentina di persone tra equipaggio, volontari, un interprete e l'équipe di primo soccorso di Medicins Du Mond. “Per il periodo invernale – spiega Valeria Calandra, presidente di "SOS Méditerranée" Italia – prevediamo un’accoglienza sottocoperta di 200 persone che d’estate possono salire a 500 grazie ai molti spazi all’esterno a bordo.

Accoglienza, non muri
Abbiamo avuto generosissime donazioni in Germania e in Francia ma abbiamo numerosi sostenitori anche in Italia. Speriamo di raccogliere anche noi un bel po’ di fondi per potere portare avanti questa iniziativa per più mesi. Piuttosto che far muri, e rifiutare è importante l’idea che in questo momento è necessaria l’accoglienza”.

Abolire permesso di soggiorno
“La Carta di Palermo ha mandato un messaggio chiaro e forte – ha detto il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando l’abolizione del permesso di soggiorno. Il mondo deve svegliarsi, deve comprendere che non è la follia di una città, ma soltanto il rispetto di un diritto umano: il diritto alla vita”. Felice per l’iniziativa il presidente della Consulta delle Culture del Comune di Palermo: “Una realtà fatta dal volontariato – sostiene Adham Darawsha fuori dagli schemi dell’Unione Europea. E’ una novità che dobbiamo accogliere con tantissima fiducia, perché c’è tanto bisogno di volontariato nel campo del salvataggio e dell’attività umanitaria in genere”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria: liberati dall'Is 43 cristiani assiri di Khabur

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I jihadisti affiliati al sedicente Stato Islamico (Daesh) hanno liberato altri 43 cristiani assiri del gruppo di circa 250 persone che erano state prelevate dai villaggi cristiani della valle del fiume Khabour, nel nord-est della Siria, durante l'offensiva compiuta in quell'area dalle milizie jihadiste lo scorso 23 febbraio. Da allora, i cristiani presi in ostaggio in quell'occasione sono stati progressivamente liberati a gruppi di diversa consistenza.

La liberazione nonostante le continue minacce di morte
​All'inizio dello scorso ottobre - riferisce l'agenzia Fides -  sui siti jihadisti era stato diffuso il video dell'esecuzione di tre cristiani assiri della valle del Khabur. Il filmato, girato secondo i macabri rituali scenici seguiti anche in altri casi analoghi dalla propaganda jihadista, avvertiva che le esecuzioni degli altri ostaggi sarebbero continuate fino a quando non fosse stata versata la somma richiesta come riscatto per la loro liberazione.

Nelle mani dell'Is ancora 180 cristiani siri e assiri della città di Qaryatayn
Secondo fonti della Chiesa assira d'Oriente, dopo la liberazione dei 43 ostaggi confermata nella giornata di ieri, non ci sarebbero più cristiani della valle del Khabur ancora nelle mani dei jihadisti, che invece tengono ancora di fatto in ostaggio quasi 180 cristiani siri e assiri della città di Qaryatayn, conquistata dal Daesh lo scorso 6 agosto. (G.V.)

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Importazioni di armi: in aumento in Asia e Medio Oriente

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L’Asia (dall’Afghanistan al Giappone) e il Medio oriente sono le zone dove si importano più armi al mondo. Nel periodo 2011-2015 - riporta l'agenzia AsiaNews - in Asia e Oceania vi è stato un incremento del 26%; in Medio oriente, nello stesso periodo, l’incremento delle importazioni è salito del 61%. Maggiori importatori in Asia sono l’India (14% di tutte le importazioni) e la Cina (4,7%); in Medio Oriente sono l’Arabia Saudita (con un incremento del 275% rispetto al 2006-2010) e il Qatar (con più 279%).

Picco di importazioni di armi in Vietnam
Questi sono alcuni dati diffusi ieri dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) nel suo Rapporto del 2015. L’istituto, che verifica la vendita e gli acquisti di armi nel mondo, fa notare che nel periodo considerato (2011-2015) il Vietnam ha incrementato le importazioni del 699%. In complesso, Asia e Oceania importano il 46% delle importazioni globali di armi. Oltre a India, Cina e Vietnam, grandi importatori nell’area sono il Pakistan (il 3,3% delle importazioni globali) e la Corea del Sud (2,6%).

La Cina diminuisce le importazioni ma aumenta le esportazioni di armi
Per questa zona asiatica, occorre notare che la Cina, oltre ad essere una grande importatrice di armi, è divenuta negli ultimi anni anche una grande esportatrice. Fra il 2011 e il 2015 la Cina ha ridotto del 25% le sue importazioni di armi, ma ha aumentato dell’88% le sue esportazioni, diventando il terzo esportatore al mondo (il 5,9% del totale), dopo gli Stati Uniti (33%) e la Russia (25%). I maggiori compratori dalla Cina sono il Pakistan (33%), il Bangladesh (20%) e il Myanmar (16%). La Cina sta ampliando il suo mercato anche in Africa, grazie al minor costo dei suoi armamenti. In Africa l’importazione delle armi è cresciuto del 19%.

Medio Oriente: all'Arabia Saudita 1/4 delle importazioni
Per la regione medio-orientale, la parte del leone è svolta dall’Arabia saudita che assorbe il 27% delle importazioni dell’area, diventando la seconda maggiore importatrice di armi al mondo; il 18% va agli Emirati Arabi e il 14% alla Turchia. Secondo il Sipri, la grande quantità di armi all’Arabia Saudita (e al Qatar) si spiega con l’escalation della guerra in Yemen. Maggiori fornitori della regione sono gli Stati Uniti (53%), la Gran Bretagna (9,6) e la Russia (8,2). A causa dell’embargo imposto dall’Onu, nel periodo 2011-2015, l’Iran ha avuto un basso tasso di importazioni. In Iraq le importazioni sono in crescita dal 2003 (dalla caduta di Saddam Hussein). Nell’ultimo periodo sono aumentare dell’83%.

5 Paesi europei garantiscono il 21% delle esportazioni nel mondo
​Anche se le esportazioni dall’Europa sono diminuite, cinque Paesi occidentali (Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia) garantiscono il 21% delle esportazioni di armi al mondo. L’Italia è fra i maggiori fornitori di armi agli Emirati e al Pakistan.

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Niger: messaggio dei vescovi per le elezioni presidenziali

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Si è votato anche ieri in Niger per le presidenziali. Inizialmente previste nella sola giornata di domenica, le elezioni sono state prolungate di un giorno dopo i problemi verificatisi in diversi seggi che hanno impedito ad alcuni elettori di votare. L’attuale Presidente Mahamadou Issoufou, 63 anni, spera di ottenere un secondo mandato e potrebbe vincere già al primo turno, mentre l’opposizione si presenta divisa. I risultati definitivi dovrebbero arrivare entro cinque giorni. 

La preghiera dei vescovi per un sereno svolgimento del voto
Alla vigilia del voto, l’arcivescovo di Niamey, mons. Laurent Lompo, e il vescovo di Maradi, mons. Ambroise Ouedraogo, hanno assicurato, in un messaggio pubblicato sul portale della Chiesa del Niger, la loro preghiera per il sereno svolgimento delle elezioni ed hanno invitato i nigerini alla tolleranza e al rispetto dell’altro nel processo elettorale. “La maturità politica e democratica si misura attraverso la nostra volontà di costruire il nostro Paese con le armi della pace, della tolleranza, del rispetto della parola data e della giustizia” scrivono i presuli che invitano gli elettori a recarsi alle urne “con una coscienza illuminata dalla fede per scegliere uomini e donne che lavorino per un Niger migliore”. 

Appello ai politici del Paese
​Mons. Lompo e mons. Ouedraogo si rivolgono infine anche ai politici, perché lavorino affinché l’odio, l’intolleranza e la violenza facciano posto all’amore, alla giustizia, al perdono, al rispetto dell’altro e alla pace. (T.C.)

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Vescovi dominicani: essere vigilanti sulla democrazia

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La Conferenza episcopale dominicana ha pubblicato un Messaggio per il giorno dell’Indipendenza, il 27 febbraio, con il titolo “Prossime elezioni e altre questioni urgenti” (“Próximas elecciones y otras urgencias”).

Campagna elettorale pacifica e voto con una coscienza civica
Nel testo in 25 punti - ripreso dall'agenzia Fides - i vescovi invitano ad una seria riflessione sulla situazione del Paese prima di scegliere i candidati giusti alle prossime elezioni generali del 15 maggio. Dopo una serie di “considerazioni” (verificare se i partiti abbiano programmi di governo, fare una campagna nel rispetto ecologico, ecc.) presentano diverse richieste a tutta la comunità nazionale: svolgere una campagna elettorale in pace e come società matura, andare a votare con una coscienza civica, dare fiducia alla Commissione elettorale centrale per l'organizzazione di questo evento. “Dobbiamo essere gelosi e vigilanti sulla nostra democrazia" si legge ancora nel testo.

Necessità di un'assistenza sanitaria per tutti
I vescovi ricordano inoltre la necessità di includere tutti i dominicani nell’assistenza sanitaria, perché “ci sono molti malati vulnerabili che non hanno le risorse economiche per affrontare la loro situazione di salute”.

Il ringraziamento ai vescovi della Commissione elettorale centrale
​Nella nota si segnala che il presidente della Commissione elettorale centrale, Roberto Rosario Márquez, ha ringraziato la Conferenza episcopale dominicana per aver valorizzato il ruolo di questa istituzione e per aver fatto un appello alla società e ai partiti politici per sostenere e accogliere i risultati delle elezioni del 15 maggio. "La Chiesa cattolica e la nazione possono essere sicuri che nelle nostre mani questo processo si svolgerà con rispetto e affidabilità, le nostre risorse umane e materiali ci consentono di affermare che siamo pronti a farlo bene" ha sottolineato Rosario Márquez. (C.E.)

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Usa: colletta di Quaresima dei Catholic Relief Services

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E’ fissata per il 6 marzo l’annuale Colletta di Quaresima dei Catholic Relief Services (Crs), l’opera caritativa della Chiesa degli Stati Uniti per gli aiuti ai Paesi d’oltremare. I fedeli di tutte le diocesi del Paese saranno invitati a dare il loro contributo ai numerosi progetti umanitari e di sviluppo promossi dall’organizzazione a favore  delle popolazioni colpite da persecuzioni, povertà e disastri naturali, e delle due iniziative a sostegno dei migranti e di promozione della pace e della riconciliazione nelle aree di conflitto. Come spiega mons. Thomas J. Rodi, arcivescovo di Mobile e presidente del Comitato episcopale per le collette nazionali, la colletta è un’occasione per “condividere in modo concreto, in questo Anno giubilare, l’amore di Cristo che guarisce e la misericordia salvifica di Dio con i nostri fratelli e sorelle che soffrono”.

Tra i destinatari dei fondi raccolti anche Cor Unum
Sono cinque gli organismi della Usccb destinatari dei fondi raccolti: oltre agli stessi Crs, il Dipartimento per i migranti e i rifugiati (Mrs); il Segretariato per la diversità culturale; il Dipartimento per la giustizia, la pace e lo sviluppo umano ; la Rete legale cattolica per gli immigrati. A questi va aggiunto il Pontificio Consiglio Cor Unum, il dicastero vaticano che distribuisce la carità del Papa. (L.Z.)

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Portogallo: al via la Settimana nazionale della Caritas

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La povertà, l’emergenza rifugiati in Europa, la promozione della solidarietà e del volontariato. Saranno questi i temi all’attenzione dell’annuale Settimana nazionale della Caritas Portogallo in corso da ieri. Sette giornate di incontri, riflessioni, dibattiti all’insegna dello slogan “Cuore della Chiesa nel mondo” e con lo sguardo rivolto al Giubileo della Misericordia.

In programma la colletta annuale per i poveri e un dibattito sulle migrazioni
Numerose – riferisce l’agenzia Ecclesia - le iniziative in programma in tutto il Paese, tra le quali l’annuale colletta nazionale, tra il 25 e il 28 febbraio, destinata ai progetti sociali delle Caritas diocesane a favore dei più poveri. “Un gesto di solidarietà e corresponsabilità - spiega mons. José Traquina, vescovo ausiliare di Lisbona e membro della Commissione episcopale per la pastorale sociale e la mobilità umana - al quale sono chiamati tutti coloro che cercano una società più giusta, equa e fraterna". Nel 2015 la colletta ha raccolto più di 300mila euro assegnati a 160mila assistiti dalla Caritas in tutto il territorio nazionale. 

Il calendario degli incontri
Tra gli appuntamenti salienti della Settimana, domani un incontro-dibattito, sul tema “L’Europa, le migrazioni e l’interculturalismo”, presso il Centro culturale di Cascais alla periferia di Lisbona e, il 25 febbraio, un colloquio a Setùbal  sul “Traffico di esseri umani e prostituzione”. Inoltre nella stessa città, sempre domani, sarà inaugurato uno speciale “Spazio con Colore” nell’ambito di un progetto a sostegno delle “famiglie socialmente vulnerabili". (L. Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 54

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.