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Sommario del 29/12/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il 2016 di Papa Francesco: la riforma vera è l'amore dei santi

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Il 2016 sta volgendo al termine. E’ tempo di bilanci. L’anno che sta per finire è stato molto intenso per il Papa con i suoi sei viaggi internazionali e i tre compiuti in Italia, la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Amoris Laetitia sulla famiglia, il Giubileo della Misericordia con i suoi tanti eventi e poi ancora gli incontri, le udienze generali, le Messe a Santa Marta e i nuovi passi della riforma della Curia. Ma il filo rosso anche di quest’anno è il profondo rinnovamento spirituale che Papa Francesco sta promuovendo nella Chiesa perché i cristiani portino in tutto il mondo la gioia del Vangelo. Ce ne parla Sergio Centofanti

L'amore di Dio è al centro del Vangelo, non la Legge
“Al centro non c’è la legge”, ma “l’amore di Dio, che sa leggere nel cuore di ogni persona, per comprenderne il desiderio più nascosto, e che deve avere il primato su tutto”. Sono forse queste tra le parole più significative di quest’anno di Papa Francesco: sono contenute nella Lettera Apostolica “Misericordia et Misera” pubblicata a conclusione del Giubileo. “Questo è il tempo della misericordia” ribadisce. E’ la potenza del Vangelo che cerchiamo sempre di ingabbiare in schemi rassicuranti, come fanno gli scribi e i farisei che pongono domande capziose a Gesù citando Mosè e la Legge, perché “si è fatto sempre così”: ma l’amore del Signore è più forte. “Il cristiano - scrive il Papa - è chiamato a vivere la novità del Vangelo” e “anche nei casi più complessi, dove si è tentati di far prevalere una giustizia che deriva solo dalle norme, si deve credere nella forza che scaturisce dalla grazia divina”:

“Cosa significa questo? Che cambia la legge? No! Che la legge è al servizio dell’uomo che è al servizio di Dio e per questo l’uomo deve avere il cuore aperto. Il ‘sempre è stato fatto così’ è cuore chiuso e Gesù ci ha detto: ‘Vi invierò lo Spirito Santo e Lui vi condurrà fino alla piena verità’. Se tu hai il cuore chiuso alla novità dello Spirito, mai arriverai alla piena verità!”. (Omelia a Santa Marta del 18 gennaio 2016)

Rigidità e superbia
Non è facile camminare nella Legge del Signore “senza cadere nella rigidità” afferma il Papa. “La Legge non è fatta per renderci schiavi, ma per farci liberi, per farci figli”. Il rischio dei rigidi è quello di cadere nella superbia, di ritenersi in fondo più giusti degli altri:

“Preghiamo per i nostri fratelli e le nostre sorelle che credono che camminare nella Legge del Signore è diventare rigidi. Che il Signore faccia sentire loro che Lui è Padre e che a Lui piace la misericordia, la tenerezza, la bontà, la mitezza, l’umiltà. E a tutti ci insegni a camminare nella Legge del Signore con questi atteggiamenti”. (Omelia a Santa Marta del 24 ottobre 2016)

Aperti alle sorprese dello Spirito
Sin dall’inizio, lo Spirito Santo spinge la Chiesa avanti, verso nuove strade, le novità di Dio. Cresce infatti l’intelligenza della fede, le verità di sempre vengono sempre più comprese nella loro pienezza. A partire dal primo Concilio della storia, quello di Gerusalemme, in cui gli apostoli decidono insieme di non imporre la Legge mosaica ai pagani convertiti:

“Questa è la strada della Chiesa fino ad oggi. E quando lo Spirito ci sorprende con qualcosa che sembra nuova o che ‘mai si è fatto così’, ‘si deve fare così’, pensate al Vaticano II, alle resistenze che ha avuto il Concilio Vaticano II, e dico questo perché è il più vicino a noi. Quante resistenze: ‘Ma no…’. Anche oggi resistenze che continuano in una forma o in un’altra, e lo Spirito che va avanti. E la strada della Chiesa è questa: riunirsi, unirsi insieme, ascoltarsi, discutere, pregare e decidere. E questa è la cosiddetta sinodalità della Chiesa, nella quale si esprime la comunione della Chiesa. E chi fa la comunione? E’ lo Spirito! Un’altra volta il protagonista. Cosa ci chiede il Signore? Docilità allo Spirito. Cosa ci chiede il Signore? Non avere paura, quando vediamo che è lo Spirito che ci chiama”. (Omelia a Santa Marta del 28 aprile 2016)

Il diavolo vuole distruggere la Chiesa con le divisioni
Papa Francesco invita a lavorare per l’unità della Chiesa, a non lacerare ancora il Corpo di Cristo. E’ il diavolo - dice - che cerca di distruggere la Chiesa attraverso divisioni teologiche e ideologiche. La sua “è una guerra sporca” e “noi ingenui stiamo al suo gioco”:

“Le divisioni nella Chiesa non lasciano che il Regno di Dio cresca; non lasciano che il Signore si faccia vedere bene, come è Lui. Le divisioni fanno sì che si veda questa parte, quest’altra  contro di questa, contro di… Sempre contro! Non c’è l’olio dell’unità, il balsamo dell’unità (…) Io vi chiedo di fare tutto il possibile per non distruggere la Chiesa con le divisioni, siano ideologiche, siano di cupidigia e di ambizione, siano di gelosie”. (Omelia a Santa Marta del 12 settembre 2016) 

La Chiesa - dice Papa Francesco - ha continuo bisogno di rinnovarsi perché è un corpo vivo. Ma i veri riformatori sono i santi.

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Spadaro: Francesco prosegue "riforma missionaria" della Chiesa

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La toccante visita ad Auschwitz e quella ai profughi a Lesbo, la pubblicazione di Amoris Laetitia e ancora lo storico incontro con il Patriarca Kirill e la visita a Lund nel 500.mo della Riforma. Sono alcuni dei momenti forti del 2016 di Papa Francesco, contraddistinto dal Giubileo della Misericordia. Per un bilancio sull’anno che si sta concludendo, Alessandro Gisotti ha raccolto il commento di padre Antonio Spadaro, direttore di “Civiltà Cattolica”: 

R. – Io credo che le due grandi cifre del Pontificato di Francesco siano il discernimento e la misericordia. La misericordia implica di fatto una profonda riforma, una riforma interiore della Chiesa, la riforma missionaria, la svolta missionaria che Papa Francesco ha cercato di portare dentro la Chiesa fin dall’inizio del suo Pontificato. E ne ha parlato anche a lungo in Evangelii gaudium. In fondo la misericordia è sapere che niente, mai nulla ci può separare dall’amore del Signore che ci è sempre vicino e che ci aspetta e ci attende sempre. Quindi è mostrare il volto di Dio a una generazione, quella di oggi, che lo sente forse un po’ distante, un po’ coperto da una coltre di polvere. Misericordia significa che le porte del cuore di Dio e della Chiesa sono sempre aperte.

D. – Lesbo, Auschwitz, le zone terremotate del Centro Italia: di fronte alla sofferenza Francesco ha scelto la via del silenzio e dell’ascolto. Qual è il messaggio profondo di questa scelta?

R. – Francesco non vuole spiegare il dolore, questa è una cosa che mi sembra di aver compreso molto bene nel suo modo di agire: cioè, non vuole giustificare Dio, come la vecchia teodicea, per il dolore del mondo. Vuole semmai mostrare come Dio è sempre vicino all’umanità sofferente. E quindi stare in silenzio significa non proporre risposte un po’ buoniste, un po’ dolci, se vogliamo, ma comunque distanti dalla sofferenza; il silenzio significa essere accanto e porre la mano con un gesto, direi, terapeutico. Un gesto che il Papa ha fatto e fa più volte sulla gente, sulle persone ma, abbiamo visto, sui muri: a Betlemme, ad Auschwitz… Quindi il Papa accarezza le ferite perché quello è il modo per guarirle. E in fondo la croce di Cristo è esattamente questo: farsi carico di quel dolore, di quella sofferenza che l’umanità vive. Questo quindi non è un silenzio vuoto: è un silenzio pieno di vicinanza, di prossimità.

D. – Amoris laetitia è il documento papale pubblicato quest’anno che ha suscitato maggiore interesse ma pure delle critiche in ambito cattolico. Questo pontificato vive anche in sé questa dimensione di tensione. Quali sono le indicazioni che Francesco offre per affrontare questa situazione?

R. – Più volte Papa Francesco ha detto che il conflitto è parte della vita, quindi è assolutamente importante nei processi ecclesiali. Il Papa semmai è preoccupato quando non si muove nulla, quando non ci sono tensioni, a volte quando non ci sono opposizioni. Allora, se il processo è reale, crea tensione effettiva. Amoris laetitia è un documento straordinario perché in fondo pone la storia non solo del popolo di Dio ma del singolo fedele al centro del rapporto tra l’uomo e Dio. E quindi pone il discernimento come criterio fondamentale e sente, avverte, come la famiglia è il nucleo centrale per la società di oggi. Quindi tocca tanti temi: il tema della famiglia come nucleo centrale ma anche le situazioni di frattura, di crisi, le affronta sapendo che il Signore parla a ogni persona considerando la sua storia di fede. Quindi anche qui, in questo caso, non si danno norme e regole generali assolute, astratte, e valide in ogni situazione ma questa Esortazione apostolica è l’invito a ogni pastore a farsi vicino al fedele, farsi vicino alla storia di ogni singola persona.

D. – Cosa la colpisce maggiormente della persona di Francesco che proprio pochi giorni fa ha compiuto 80 anni? C’è qualcosa che l’ha toccata in particolare in questo 2016 che magari non aveva visto negli anni precedenti in Francesco?

R.  – E’ difficile perché sono tanti gli elementi di questi Pontefice. Forse la cosa che mi ha colpito di più proprio in quest’anno - in cui una certa conflittualità almeno in alcuni circoli è emersa - è la sua serenità. Il Papa è sempre sereno, non è agitato. Si rende conto di cosa succede accanto a lui anche delle cose che potrebbero fargli meno piacere. Però nello stesso tempo non perde mai la serenità, non perde mai la pace. Lui dice che mangia bene, dorme bene, e posso anche dire: prega molto. Allora questa sua immersione radicale in Dio che gli dà questa grande serenità è la cosa che francamente mi colpisce più profondamente.

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Tweet: fermiamoci a guardare il presepe, è la tenerezza che salva

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Papa Francesco ha pubblicato oggi un nuovo tweet sull’account @Pontifex in nove lingue: “Lasciamoci toccare dalla tenerezza che salva. Avviciniamoci a Dio che si fa vicino, fermiamoci a guardare il presepe”.

Al 29 dicembre, i 9 account Twitter di Papa Francesco, @Pontifex, contano oltre 32 milioni di follower. Al primo posto c’è l’account in spagnolo (12, 4 milioni), seguito da quello in inglese (10,2 milioni), italiano (4,11 milioni), portoghese (2,44 milioni), polacco (751mila), latino (735mila), francese (717mila), tedesco (412mila) e arabo (350mila).

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Le nomine di Papa Francesco

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Le nomine episcopali di Papa Francesco. Consulta il Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede.

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Quasi 4 milioni di fedeli dal Papa nel 2016

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In occasione della fine dell’anno, la Prefettura della Casa Pontificia rende noto il quadro riassuntivo della partecipazione dei fedeli ai vari incontri con il Santo Padre avvenuti in Vaticano nel corso del 2016: Udienze generali e speciali, Udienze giubilari, Celebrazioni liturgiche, Angelus e Regina Coeli. Si parla di quasi 4 milioni di fedeli. Per i dati consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Oggi in Primo Piano



Siria. Tregua in tutto il Paese, al via colloqui di pace

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In Siria si riaccende la speranza. Annunciata la tregua in tutto il Paese, dalla mezzanotte del 30 dicembre, per avviare colloqui di pace. L’accordo è stato firmato dal governo e dalle forze di opposizione. La Russia, la Turchia e l'Iran garantiranno il successo dell’iniziativa. Mosca ridurrà le sue truppe nell'area. Massimiliano Menichetti

A partire dalla mezzanotte del 30 dicembre le armi in Siria non spareranno più, almeno quelle dei ribelli e quelle dell’esercito regolare. Rimane l’incognita dei jihadisti del sedicente Stato islamico che combattono contro tutti, in un Paese, che in 5 anni di conflitto, ha seppellito oltre 400mila persone. L’annuncio della tregua porta la firma del presidente russo Vladimir Putin, il quale precisa, tramite l’agenzia moscovita Tass, che il regime di Bashar al Assad e gli oppositori hanno siglato l’accordo per un cessate-il-fuoco totale e hanno concordato l’avvio di negoziati. "Gli accordi - ha detto Putin - sono fragili e hanno bisogno di pazienza e attenzioni particolari". La Russia, la Turchia e l'Iran, che in questi gironi hanno avuto una febbrile attività diplomatica, “si assumono la responsabilità di garantire il successo del processo di pace”. Tra i primi provvedimenti in campo l’immediata riduzione della presenza militare russa in Siria.

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Iraq, nuova offensiva governativa per liberare Mosul dall'Is

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Continua in Iraq la lotta al sedicednte Stato Islamico (Is). Le forze nazionali di sicurezza hanno lanciato una nuova offensiva su Mosul, dopo l'avvio il 17 ottobre scorso delle operazioni per liberare la città dall'occupazione dell'Is. Il comandante delle unità antiterrorismo irachene ha confermato che le operazioni sono iniziate stamani e che le truppe irachene sono entrate nel distretto orientale di al-Quds. L’agenzia Rudaw, citando fonti della polizia irachena, riferisce di scontri con l'Is nei distretti sudorientali di Somar e Intisar e dell'uccisione di almeno sei jihadisti. Su quanto sta accadendo nella cossiddetta "capitale" dell’Is in Iraq, Elvira Ragosta ha intervistato Alberto Negri, esperto mediorientale per “Il Sole 24 Ore”: 

R.- Le forze dell’esercito iracheno - sostenute dai curdi nelle retrovie e da forze americane - sono nella parte orientale della città. La città è divisa dal fiume Tigri e la parte orientale era stata data già per conquistata qualche giorno fa da parte delle forze irachene. In realtà poi la sponda occidentale di Mosul è ancora completamente in mano all’Is, come in mano all’Is - a sud della periferia di Mosul - è ancora in mano l’aeroporto, che si trova nella zona di Hamam al-Alil. Quindi ci troviamo in una situazione ancora di stallo: nella parte occidentale di Mosul ci sono centinaia di migliaia di persone che si preparano ad essere completamente circondate e assediate.

D. – Mosul è in mano ai miliziani del sedicente Stato Islamico dal giugno del 2014. L’offensiva per liberare la città era partita il 17 ottobre scorso e il premier al-Abadi dice: “Servono ancora tre mesi per liberare completamente Mosul”…

R. – Sì. Io ho avuto un colloquio con Mas'ud Barzani, che è il leader del Kurdistan iracheno e i curdi iracheni sono fortemente impegnati sul terreno: secondo lui saremmo fortunati se avremo una liberazione di Mosul a gennaio o febbraio. Questo ci dice quanto sia difficile l’operazione, perché ci troviamo in una città completamente piena di abitanti e quindi è difficile anche riuscire a colpire i jihadisti con l’aviazione, perché si rischia di fare centinaia di vittime civili. E oltretutto il Califfato ha concentrate qui alcune delle sue forze più importanti, fortemente armate - come ho potuto costatare sul terreno - di armi pesanti.

D. – Si parlava degli sfollati: oltre 100 mila gli sfollati dall’inizio dell’offensiva; e altrettanti potrebbero essere costretti a lasciare la città, secondo il ministro per l’Emigrazione. Dunque, com’è la situazione umanitaria?

R. – La gente esce da Mosul e si cerca di concentrarla in campi. La prima operazione che avviene, peraltro, è quella di monitoraggio della popolazione che esce da Mosul, perché insieme ai civili è possibile che escano anche i jihadisti: e questo rappresenta un aspetto particolarmente importante. Ma non c’è dubbio che in una città così vasta e così densamente popolata l’emergenza umanitaria sia all’ordine del giorno e potrebbe diventare addirittura incontrollabile nel momento in cui l’Is fosse messo con le spalle al muro e non fosse più in grado di controllare molti quartieri della città nell’Ovest.

D. – Che scenario prevedere per il 2017 circa la sconfitta dell’Is, alla luce anche degli sviluppi diplomatici sulla Siria?

R. – La sconfitta dello Stato Islamico è ancora al di là da venire, anche se nel 2016 si è registrato un risultato importante: l’Is ha perso, infatti, circa il 50 per cento del proprio territorio. Si registrano poi - secondo i dati americani - almeno 15 mila perdite nelle file del Califfato. Ma questo arretramento non significa una facile vittoria, soprattutto per quanto riguarda Mosul, in Iraq, e la roccaforte siriana del Califfato, Raqqa. Dopo l’accordo che c’è stato tra Russia, Turchia e Iran potrebbe essere più facile - se davvero funzionasse questo cessate-il-fuoco - concentrare le forze sull’Is. Purtroppo ci sono altri problemi politici e militari da risolvere, perché oltre ai gruppi dell’Is ci sono molti altri gruppi jihadisti che adesso sono in gran parte concentrati a Idlib, dopo la caduta di Aleppo: questo costituirà un altro elemento importante per capire come sciogliere questo nodo e se questo accordo tra Mosca, Ankara e Teheran funzionerà veramente. 

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Rapporti Usa con Russia e Israele: Obama attento a eredità politica

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Potrebbe essere annunciato a breve il pacchetto di misure restrittive e sanzioni pensato dall'amministrazione Obama per l'interferenza, nelle presidenziali statunitensi del novembre scorso, degli hacker russi. Il Cremlino ha comunque smentito di aver ordinato gli attacchi informatici che, secondo le agenzie di intelligence Usa e la Casa Bianca, avrebbero favorito l’elezione di Donald Trump. In questo clima, il segretario di Stato John Kerry ha risposto a Israele, dopo le critiche del governo di Benyamin Netanyahu riguardo all’astensione americana all’Onu sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Washington non ha abbandonato Israele, ha detto il capo della diplomazia di Obama, ma se gli insediamenti non sono il maggiore ostacolo - ha sottolineato - è vero che “più ce ne sono più la pace è difficile”. Perché ora questa presa di posizione dall'amministrazione Obama, a pochi giorni dall’insediamento di Trump? Giada Aquilino lo ha chiesto a Dario Fabbri, coordinatore per l’America della testata di geopolitica ‘Limes’: 

R. – Perché in questa fase Obama è molto attento, come capita a tutti i presidenti che sono al termine del loro secondo mandato, alla cosiddetta “eredità politica” che lascia alle spalle. Quindi, l’astensione degli Stati Uniti in seno al Consiglio di Sicurezza, in merito alla risoluzione contro gli insediamenti ebraici, non ha alcun valore reale, ma soltanto simbolico. E questa era l’intenzione di Obama, nel caso specifico, e della sua amministrazione, in senso allargato.

D. – Si possono leggere come una raffica di azioni intraprese da Obama per mettere dei paletti alla futura presidenza Trump?

R. – C’è anche questo, ma sarebbe comunque uno sforzo velleitario. Un presidente, specialmente negli Stati Uniti, è uno degli ingranaggi dell’esecutivo americano; e quindi non sarebbe in grado, neanche volendo, di mettere paletti, se non avesse dalla sua - ed è questo il caso relativo soprattutto alla Russia - il sostegno del Congresso e soprattutto degli apparati federali: quindi delle varie agenzie, dal Pentagono al Dipartimento di Stato, che ne condividono l’afflato anti-russo. Se l’intenzione di Obama è quella di mettere paletti sulla Russia può riuscirci, ma non perché abbia una potenza personale, ma perché aderisce in questo senso al sentire del Congresso e degli apparati.

D. – Sulla Russia sono state pensate sanzioni di tipo economico, censure di carattere diplomatico e censure anche a cyber-operazioni. Potranno durare dopo l’insediamento di Trump?

R. – È tutto da vedere. Se saranno, come dovrebbero essere, sanzioni soltanto presidenziali - e quindi ordini esecutivi della Casa Bianca - allora potrebbero non durare, per il semplice motivo che con un colpo di penna Trump potrebbe annullarle. Se invece fosse il Congresso – cioè il Parlamento americano – ad approvare nuove sanzioni contro la Russia, non dipenderebbero dal presidente. Il Congresso, indipendentemente dai partiti, in maniera del tutto trasversale, persegue un’agenda propria anche in politica estera, che appunto è scollegata, slegata da quella del presidente. Quindi, se queste sanzioni saranno un’iniziativa soltanto presidenziale, Trump le potrebbe sospendere se non addirittura annullare, consapevole però che gli apparati, in particolare la Cia, ma anche il Dipartimento di Stato e il Pentagono, condividono l’atteggiamento fortemente anti-russo di Obama e non quello di apertura nei confronti della Russia che sarebbe, almeno stando alla sue dichiarazioni, proprio di Trump.

D. – Trump, per il disgelo dei rapporti con Putin, sarebbe pronto a sacrificare le azioni anti-hacker?

R. – Non credo che considererebbe un sacrificio non curarsi dei consigli della Cia al riguardo. Sappiamo che la Cia è uscita allo scoperto accusando direttamente gli hacker russi di aver interferito nelle elezioni presidenziali. Quindi, sull’altare del disgelo che vorrebbe realizzare Trump con Putin, credo che sacrificherebbe quanto accaduto.

D. – Tornando al Medio Oriente, Kerry ha detto che gli Stati Uniti non hanno abbandonato Israele. Però, anche se gli insediamenti non sono il maggiore ostacolo, è vero che “più ce ne sono e più la pace è difficile”: è così?

R. – Gli insediamenti ebraici nei cosiddetti Territori occupati, in Cisgiordania ma anche intorno a Gerusalemme Est, rappresentano un’ulteriore espansione dello Stato ebraico e quindi un’ulteriore sottrazione di territorio ad un futuro immaginato Stato palestinese. Dobbiamo calcolare che, indipendentemente dall’amministrazione Obama, Israele in questa fase non ha alcuna necessità di trattare una soluzione - quella relativa ai due Stati con i palestinesi - perché Israele si muove in una posizione di straordinaria forza al momento: non ha alcuna minaccia reale alla propria sopravvivenza di tipo esterno, come capitava qualche decennio fa. E dobbiamo anche ricordare che questi insediamenti hanno un duplice valore per Israele: da una parte “allargarsi”, cioè estendere il proprio controllo territoriale serve, come capita a tutti gli Stati, ad allontanare la prima linea di difesa dal territorio nazionale, quindi in Cisgiordania, controllando la Striscia di Gaza, le alture del Golan e così via. Dall’altra parte, proprio questi insediamenti saranno parte di un negoziato futuro: quando Israele sarà costretto a trattare con i palestinesi, potrà mettere sul tavolo la proposta di rinunciarvi.

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Rinvio presidenziali in Somalia. Mons. Bertin: il Paese è a pezzi

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In Somalia, le elezioni presidenziali in programma per ieri sono state nuovamente posticipate a data da destinarsi: forse si terranno il prossimo 24 gennaio, ma la data non è ancora stata ufficializzata. Si tratta del quarto rinvio del voto che era programmato per lo scorso 30 agosto, in seguito posticipato al 30 ottobre, poi al 30 novembre e infine al 28 dicembre. I rinvii sono dovuti alle irregolarità registrate nelle elezioni parlamentari, da cui è scaturita una nuova Assemblea legislativa. Sulla situazione del Paese Francesca Sabatinelli ha intervistato mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio: 

R. – Il Paese è a pezzi; ci sono zone che si autogovernano, direi bene, come nel caso del Somaliland, meno nel Puntland e in altre zone. Quasi si potrebbe dire che i somali possano quasi fare a meno di avere uno Stato, ma non è vero: hanno bisogno di un’autorità che sia a servizio del bene comune. Circa le elezioni: è vero, ce ne sono state anche in passato; io riconosco loro, sì, un’importanza, ma piuttosto relativa, perché anche quattro anni fa, quando avevano promesso di tenere elezioni universali, avevo pensato: “Ma in questa situazione, con il Paese spezzettato, con questa presenza di milizie islamiche come al Shabaab, in qualche parte anche dell’Isis, come è possibile tenere elezioni?”. E quindi, ecco perché in un certo senso non mi meraviglio troppo che le elezioni siano state rinviate.

D. – Ma a questo punto, allora, è prevedibile un voto? Cioè, ci sono le premesse perché questo avvenga, seppure il 24 gennaio?

R. – Sì, io penso di sì, perché quelli a cui competono le cariche di questo governo federale somalo ci tengono, stanno lottando tra di loro, ci sono grossi disaccordi perché pensano di andare al potere. Quindi, le premesse ci sono e ci sono le premesse anche dalla parte della comunità internazionale, nel senso che è disposta a continuare ad appoggiare questo futuro governo. Allora, ecco perché dico: “Sì, ci saranno senz’altro …”.

D. – Mons. Bertin, che cosa ci si può aspettare da questo voto, a suo giudizio?

R. – Ma … io direi che bisogna evitare di essere troppo catastrofici e dall’altra parte troppo ottimisti. Nel senso che penso che sia meglio qualcosa piuttosto che niente e a volte non possiamo scegliere tra il bene e il male; ma dobbiamo sempre scegliere tra un male maggiore e un male minore. Il problema, a mio parere, è questo: manca all’interno della Somalia una leadership che abbia veramente un senso del servizio al popolo; devono ricordarsi che sono là per essere al servizio soprattutto dei più diseredati, dei più poveri; e sono milioni che rischiano la fame. E a livello della comunità internazionale, anche qui alzerei un dito d’accusa, nel senso che spesso le diverse potenze implicate in Somalia, piuttosto che seguire un atteggiamento comune per aiutare i somali ad andare al di là delle loro divisioni, sembrano avere una loro agenda, dei loro interessi che chiaramente non sono a favore della rinascita di una istituzione statale stabile. E’ bene che la comunità internazionale continui ad accompagnare questa Somalia e non la abbandoni. Noi, dal punto di vista della Chiesa, dovremo continuare ad accompagnarla, naturalmente, con la speranza e con la preghiera; continuiamo pure con le nostre azioni umanitarie che sono svolte sia da noi come Chiesa, come Caritas, ma anche da tante altre organizzazioni. Direi di non lasciarci scoraggiare completamente di fronte a una certa frustrazione …

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Mozambico: entrato in vigore il cessate il fuoco di sette giorni

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E' entrato in vigore a partire dalla mezzanotte di oggi e resterà in forza in tutto il Mozambico per almeno sette giorni il cessate il fuoco dichiarato dal leader della Renamo, Afonso Dhlakama. Il gruppo armato antigovernativo, oggi principale partito dell'opposizione, si contrappone al Fronte di Liberazione del Mozambico (Frelimo) del presidente Felipe Nyusi. Nel Paese sono in corso tensioni e violenze nonostante il cammino di pacificazione avviato dopo oltre venti anni di guerra civile. Massimiliano Menichetti ha intervistato Pietro De Carli, esperto dell’area: 

R. – Il fatto che finalmente si siano raggiunti una tregua e un accordo è veramente salutare per questo Paese. Dopo il processo di pace che avvenne nei primi anni Novanta con l’apporto di Sant’Egidio, del governo italiano, c’è stato un periodo molto positivo, nel senso che finalmente si era superata una guerra civile disastrosa; e con questa rinnovata tensione tra la Renamo e il governo mozambicano guidato dalla Frelimo le preoccupazioni erano numerose…

D. – La pace nel Paese è stata siglata: fortunatamente non c’è la guerra civile. Ma perché sono ripresi questi scontri?

R. – Diciamo che il processo di democratizzazione del Paese è avvenuto in maniera abbastanza limitata: imporre soluzioni senza dialogo con l’opposizione non ha giovato. Il fatto nuovo ultimo che c’è stata la scoperta di giacimenti di gas, petrolio, carbone probabilmente ha sollevato gli appetiti per cui qualcuno si è sentito escluso: questa è una supposizione che viene evidenziata molto spesso, in Mozambico.

D. – Grande, in questo momento, è la mediazione internazionale. Qual è il futuro per il Paese, secondo lei?

R. – Questo Paese ha assolutamente bisogno di pace. Io mi auguro che si ritorni a una capacità di dialogo anche da parte del governo e che l’opposizione assuma una maggiore responsabilità. C’è una terza forza, in gioco, che si chiama “Movimento democratico del Mozambico”, capeggiato dal sindaco di Beira, Daviz Simango, che era la forza su cui tutti puntavano, era la forza nata da una costola della Renamo pur avendo una visione più moderna, più democratica, più partecipativa del Paese. Gli ostacoli postigli dalla Frelimo e dall’altra parte, l’opposizione della Renamo a questa costola che temeva potesse diventare concorrente politico, l’ha in qualche modo immobilizzata e indebolita nella sua capacità di azione.

D. – Ora però si spera che la mediazione internazionale consenta anche la prosecuzione della tregua: quindi segnali positivi ci sono?

R. – Certo, indubbiamente. Più la comunità internazionale riesce a trovare una coesione nell’intervenire con una capacità di proposta di soluzione diplomatica delle crisi, e più evitiamo che le popolazioni debbano fuggire dai luoghi in cui sono radicate.

D. – C’è il rischio, secondo lei, che la comunità internazionale giochi un ruolo pesante nell’equilibrio all’interno dello Stato, per avere accesso ad alcune risorse che si sono scoperte nel Paese?

R. – Questo purtroppo è un dato mondiale. Cioè, tutti i Paesi – a partire dall’Occidente, dalla Cina, in particolar modo, che è molto più presente, ormai, in Africa, di quanto lo sia l’Occidente – esercitano un ruolo con degli scopi anche di collaborazione, di sviluppo economico ma ovviamente poi tutti cercano di trarne vantaggio. E questo contraddice un po’ lo spirito di cooperazione allo sviluppo che dovrebbe in qualche modo, invece, avere una sua finalità specifica indipendentemente da tutto. E’ chiaro che purtroppo le situazioni non sono sempre così limpide e chiare come vorremmo.

D. – Quindi, speriamo che almeno si faccia il bene del Paese, cioè delle persone, dei popoli…

R. – Teniamo conto che il Mozambico, almeno fino a pochi anni fa, aveva circa il 40 per cento del bilancio costruito sugli aiuti della comunità internazionale e questa sorta di dipendenza dall’estero aveva in qualche modo abituato la classe dirigente a non preoccuparsi dell’indebitamento dello Stato e quant’altro. E quindi bisogna che cresca anche il senso di responsabilità delle classi dirigenti del Paese ad avere più a cuore le sorti del loro Stato, della loro popolazione.

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Al cinema il Grande Gigante Gentile di Steven Spielberg

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Esce domani, 30 dicembre, nelle sale italiane “Il GGG – Il Grande Gigante Gentile” di Steven Spielberg, con Mark Rylance protagonista: l’amicizia tra un gigante vegetariano e una bambina orfana, che insieme lottano per il bene, viene raccontata con meravigliosa immaginazione, in cui si riflette la speranza di un mondo migliore. Il servizio di Luca Pellegrini

Nel cuore della notte Sophie, che dorme poco, ma sogna molto ad occhi aperti, è sul balcone dell’orfanotrofio londinese nel quale vive. Una mano la afferra e la rapisce, per portarla nel suo mondo, non troppo rassicurante. E’ un Grande Gigante, che però, a differenza dei suoi consimili, i bambini non li mangia, ma li guarda e li ascolta. Per questo è anche Gentile. E questo è il mondo che il famoso romanziere Roald Dahl aveva immaginato nel 1982 scrivendo “Il Grande Gigante Gentile”, e che idealmente, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1990, oggi consegna al più famoso creatore di sogni del cinema, Steven Spielberg. Innamoratosi del soggetto, quando si tratta di raccontare fantastiche avventure di bambini il regista americano è inarrivabile, unico, meraviglioso. Il rapporto tra la piccola Sophie e il grande GGG, combattivo prima, che diventa di sincera accoglienza poi, si delinea come una piccola storia d’amore, due mondi che si incontrano e lottano per il bene e un futuro di coesistenza. Sotto le fiabe c’è sempre un frammento di profetica verità. Steven Spielberg, affascinato da queste due figure così diverse e bellissime, descrive con queste parole la loro amicizia.

“I think BFG (Big Friendly Giant) meets his match when he meets Sophie. …
Credo che il Grande Gigante Gentile raggiunga il suo scopo quando incontra Sophie. Sophie è orfana, e in un certo senso lo è anche GGG. Anche se i giganti hanno un padre e una madre, come scopriremo più avanti nel film, GGG si sente orfano, perché quello che fanno i suoi fratelli - mangiare i bambini - ha fatto sì che GGG sia diventato in qualche modo un emarginato. GGG afferma di essere vegetariano, GGG ha un cuore pacifico e un’anima profonda: non lo fa, non l’ha mai fatto e mai lo farà!”.

Il ruolo di Sophie è stato affidato a Ruby Barnhill, una ragazzina inglese di appena nove anni. Il regista ricorda ancora questa scoperta, che lo ha profondamente colpito.

“When Ruby came in, there was something about her …
Quando Ruby è entrata, c’era qualcosa in lei … quando faccio i provini per i miei film, soprattutto quando cerco attori giovani, non mi chiedo perché all’improvviso scelgo qualcuno; non lo analizzo, non lo osservo da punti di vista diversi, non mi interrogo … semplicemente, mi dico: ‘Mio Dio, potrebbe essere lei!’”.

Il mondo di GGG è costruito artificialmente grazie a incredibili tecniche digitali. Eppure Spielberg sa bene che la verità dei personaggi è frutto della bravura degli attori capaci di astrarsi dalla tecnologia, di credere alla storia che interpretano.

“The only thing that was really important to me was that …
L’unica cosa veramente importante per me era che tutti gli attori credessero davvero di essere nel luogo in cui si trovavano e che potessero percepirlo, escludendo dalla vista tutto quello che accadeva intorno a loro. Il “rumore” della tecnologia doveva scomparire, e l’unico modo per farlo andare via era, come ha fatto Mark Rylance, di credere fermissimamente nella storia, di avere fede nella storia, e come Ruby, che ha una fiducia enorme nella sua immaginazione. E grazie alla fede di Mark nella storia e nel come rappresentarla, e a quella di Ruby secondo cui tutto è possibile, i due attori sono stati capaci di fare in modo che il mondo della tecnologia più evoluta sparisse, di scambiarsi la più autentica delle interpretazioni.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 364

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