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Sommario del 27/12/2016

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa ai giovani di Taizé: il male non ha l’ultima parola nella storia

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“Manifestare a parole e con azioni che il male non ha l’ultima parola della nostra storia”. È l’invito che il Papa rivolge in un messaggio ai giovani che dal 28 dicembre al primo gennaio saranno a Riga, in Lettonia, per il 39.mo Incontro europeo promosso dalla comunità ecumenica di Taizé sul tema: ”Insieme per aprire strade di speranza”. Un appuntamento a cui guardano con fiducia i leader religiosi e politici d’Europa e del mondo. Il servizio di Gabriella Ceraso

Sono migliaia i giovani che dall’Europa e dagli altri continenti sono giunti a Riga, città di tradizione luterana segnata da legami profondi tra cristiani di diverse confessioni. Sono "testimoni di speranza", come li definisce il Papa, che li ringrazia perché - scrive - hanno “scelto di lasciare i divani per vivere questo pellegrinaggio della fiducia”, “fiducia in Gesù, Cristo e Signore”, che “crede e spera in voi”, sottolinea.

Ortodossi, protestanti e cattolici, Francesco li incoraggia tutti a “lasciare entrare il Signore, che non delude mai, nei loro cuori e nella loro vita”, in modo da “affrontare il futuro con gioia e far fruttare capacità e talenti per il bene comune”. Ed aggiunge: “Con queste giornate vissute all’insegna di una reale fraternità, voi esprimete il desiderio di essere protagonisti della storia, di non lasciare che siano gli altri a decidere del vostro futuro”.

“Oggi”, scrive Francesco, ”molte persone sono sconvolte, scoraggiate dalla violenza, da ingiustizie, sofferenza e divisioni. Hanno l’impressione che il male è più forte di tutto”. Voi, è il suo invito, ”testimoniate con le parole e i fatti che non è così”. Per questo, il Papa ripete ai ragazzi di Riga quanto ha scritto al termine del Giubileo nella Lettera “Misericordia et Misera”: “È il tempo della misericordia per tutti e per ognuno, perché nessuno possa pensare di essere estraneo alla vicinanza di Dio e alla potenza della sua tenerezza”.

Con le parole di Francesco ai giovani in pellegrinaggio sono giunti anche i messaggi del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo e del Patriarca ortodosso di Mosca Kirill, insieme alla vicinanza espressa dai leader della Chiesa anglicana e luterana, l'arcivescovo Justin Welby e il pastore Olav Fykse Tveit. All'incontro guardano con fiducia inoltre le autorità europee e mondiali: l'ex segretario dell'Onu Ban Ki-moon e il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk sottolineano infatti nei loro messaggi quanto i giovani possano contare nella prevalenza delle forze del bene, al di là delle possibilità in mano alla politica.

Ma i giovani capiscono la responsabilità e la missione che in particolare il Papa affida loro? Helène Destombes lo ha chiesto al priore della Comunità di Taizé, frère Alois

R. – Oui … parce-que ils vivent ces paroles quand-même déjà avec cette rencontre des jeunes …

Sì, perché comunque vivono queste parole già nell’incontro dei giovani: in pieno inverno, compiono questo lungo viaggio andando in un Paese che non conoscono per niente, saranno accolti in una famiglia che non conoscono e allo stesso modo, in un certo senso, le famiglie abbandonano le loro comodità aprendo la loro casa all’accoglienza di giovani estranei … Tutto questo rappresenta un’apertura vissuta, che è la messa in pratica di quello che il Papa ci invita a fare: lasciare le nostre abitudini, uscire; in questo modo  comprendiamo meglio l’importanza della fratellanza. L’Europa, infatti, vive un momento difficile e i giovani che arrivano hanno consapevolezza del fatto che con il loro pellegrinaggio vogliono dare un segno, perché per loro l’Europa è importante!

D. – Un’Europa unita e un’Europa accogliente, un’Europa nella quale si sperimenta la fratellanza …

R. – Oui: un’Europe où il y a une vraie fraternité, où les petits Pays sont aussi écoutés. …

Sì: un’Europa nella quale ci sia una vera fratellanza, nella quale anche i Paesi più piccoli sono ascoltati. E questa è una delle dimensioni di questo incontro nella piccola Lettonia: l’Europa veramente deve ascoltare ciascun Paese e deve essere rispettosa delle diversità della storia e di tutto quello che i diversi popoli hanno vissuto.

D. – Come vivono i giovani in questo contesto di forte tensione, di grandi ombre?

R. – Nous devons apprendre que comme Chrétien, une valeur fondamentale c’est la persévérance, …

Noi dobbiamo imparare che, in quanto cristiani, per noi uno dei valori fondamentali è la perseveranza, la perseveranza nella fiducia in Dio, e l’essere artigiani di fiducia e di pace: questa è un’esigenza ancora maggiore in questo nostro tempo di instabilità e di mancanza di certezze.

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Arcivescovo di Algeri: testimoni dell'amore di Cristo tra i musulmani

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Papa Francesco lo ha nominato nuovo arcivescovo di Algeri alla vigilia di Natale: si tratta di mons. Paul Desfarges, finora vescovo della diocesi algerina di Costantina. 72 anni, gesuita francese, è in Algeria da 40 anni: è stato insegnante di psicologia in lingua araba presso l’Università locale e superiore della comunità dei Gesuiti nella capitale, prima di essere nominato vescovo da Benedetto XVI nel 2008. Ai nostri microfoni mons. Desfarges racconta la vita della minoranza cristiana accanto alla maggioranza musulmana, spiegando come abbia accolto questo nuovo importante incarico. L’intervista è di Sara Bakaloglou

R. – C'est une défie et au même temps c’est une grâce…
E’ una sfida e al tempo stesso è una grazia. Nella quotidianità noi viviamo buone relazioni e ci meravigliamo ogni giorno di queste buone relazioni, che sono relazioni di vicinanza, di  collaborazione, a volte perfino di amicizia, che arrivano molto lontano nella condivisione che possiamo vivere tutti i giorni. Siamo testimoni di questo vivere insieme e ci crediamo proprio perché lo viviamo quotidianamente. Non ci dobbiamo sforzare per farlo! Il Papa, nella nostra ultima visita ad Limina ci ha detto: “Siate testimoni della carità di Cristo: ed è questa la carità di Cristo. E’ l’Apostolato della bontà, come direbbe Charles de Foucauld. Ed è questa la nostra gioia, quella di amare e di servire. E’ vero, ci sono le difficoltà della vita di tutti i giorni, così come è vero che non è possibile che tutti siano sempre contenti, ma questo fa parte della vita… Ma c’è un Padre. Ci sono delle difficoltà attuali che ci preoccupano e questo è vero… Ma questo non tocca quello che è la nostra vita quotidiana nell’incontro tra le persone. La nostra vocazione è essere Chiesa per tutti, Chiesa dell’incontro fraterno con tutti!

 D. – Com’è la Chiesa ad Algeri?

R. – Oui. Alors, ce que je pourrais dire…
Quello che io posso dire è relativo alla realtà di Costantina, in cui c’è un grande numero di studenti sub-sahariani, ma sono presenti anche numerose comunità di lavoratori e di diplomatici provenienti dai diversi Paesi. Questo fa sì che sia una Chiesa cattolica molto internazionale, caratterizzata da tutti i nostri servizi di vicinanza alla gente; servizi svolti nelle scuole, nelle biblioteche, nelle attività di assistenza e di formazione… C’è un grande dinamismo. Ora avrò occasione di scoprirlo e conoscerlo ancor meglio.

D. – Ci sono delle parole di Papa Francesco che la accompagneranno particolarmente in questa sua nuova missione?

R. - Bon,  le Pape parle de périphéries…
Il Papa parla di periferie e noi ci siamo in queste periferie: “luoghi  di rottura”, come diceva mons. Claverie. E’ il luogo dove siamo. Alla fine, però, scopriamo che è un luogo ordinario della misericordia, dove la misericordia si mette in opera. E ancora una volta noi non ne siamo gli unici attori, ma siamo testimoni dei nostri fratelli e delle sorelle musulmani che, a loro volta, ci edificano in virtù dell’accoglienza nei nostri riguardi, del dono di loro stessi e della volontà di dialogo e di incontro. So che nella Notte di Natale molti amici musulmani sono andati nelle parrocchie e non certo per convertirci, ma semplicemente per vedere come pregano i cristiani ... E’ anche questo un modo per conoscersi meglio. E di questo noi siamo molto felici! In un mondo in cui la tensione tra musulmani e Occidente, tra musulmani e cristiani, sembra crescere sempre di più, c’è un luogo in cui è possibile vivere altre cose…

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Oggi in Primo Piano



Armi: vendite per 80 miliardi di dollari, la metà dagli Usa nel resto del mondo

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9 miliardi in meno rispetto all’anno prima: il mercato delle armi convenzionali ha comunque fruttato nel 2015 un colossale giro d’affari di 80 miliardi di dollari. Al primo posto tra i venditori si confermano gli Stati Uniti, mentre tra gli acquirenti a guidare la classifica è il Katar. Lo documenta uno studio condotto dal Centro ricerche del Congresso di Washington, pubblicato ieri. Roberta Gisotti ha intervistato Laura Zeppa, ricercatrice e consulente per i Rapporti istituzionali dell’Archivio Disarmo. 

La metà le hanno vendute al resto del mondo gli Stati Uniti, registrando pure aumento di 4 miliardi. Al secondo posto distanziata, è la Francia, con 15 miliardi e un incremento di ben 9 miliardi. Al terzo e quarto posto la Russia con 11,1 miliardi, in leggero calo di 100 milioni, e la Cina ferma a 6 miliardi. Tra gli acquirenti in cima alla lista il Qatar che ne ha acquistate per 17 miliardi, seguita da Egitto con 12 miliardi, Arabia Saudita con 8 miliardi. Altri buoni compratori: Corea del Sud, Pakistan, Israele, Emirati Arabi Uniti, Iraq.

D. - Dunque l’industria degli armamenti gode di ottima salute, nonostante il lieve calo, che sarebbe dovuto però alla crisi globale. Ma a che punto siamo con le  politiche di disarmo? Laura Zeppa:

R. – Il settore purtroppo non conosce crisi: ci sono delle tendenze al ribasso determinate da una crisi economica generale, però questo settore rimane fiorente. Naturalmente, c’è un tentativo di controllo, da parte di tantissimi enti, organizzazioni non governative, associazioni e anche degli stessi Stati che sono sensibili a tale tematica; però poi prevale sempre la politica dell’incrementare, questo settore, spesse volte sotto forma di ricerca perché si dice, facendo ricerca militare poi ci saranno anche degli sviluppi nella ricerca civile. In realtà si prosegue perché le industrie militari ci sono, sono fiorenti e forse non si prospettano altri mercati e quindi le attenzioni economiche e politiche si rivolgono ad incrementare questo settore, che – ripeto - è fiorente.

D. – L’Unione Europea, in particolare, che cosa ha fatto e che cosa sta facendo?

R. – Sta prendendo fortemente in considerazione la possibilità di inserire nei propri bilanci una notevole parte dei propri fondi proprio per lo sviluppo della ricerca nel settore militare. Una recente Risoluzione del Parlamento Europeo del 22 novembre scorso – omnicomprensiva di diverse tematiche riguardanti la Difesa europea – mostra proprio come, forse anche alla luce delle recente elezioni americane, l’Unione Europea stia prendendo seriamente in considerazione di divenire sempre più un soggetto indipendente o almeno meno dipendente da quelle che sono le risorse degli Stati Uniti. E forse questa intenzione da parte dell’Unione Europea di impiegare parte delle proprie risorse nella ricerca militare – cosa che finora non era mai successa – si sta proprio inserendo in questo tentativo di far fronte ad una eventuale venuta meno di una partecipazione da parte degli Stati Uniti.

D. – Dott.ssa Zeppa, gli affari e gli interessi che sono dietro al commercio delle armi hanno sempre ragione su ogni altra istanza per pacificare questo nostro pianeta…

R. – L’interesse monetario, economico e il potere che si crea e che scaturisce da questo mercato – in questo momento – sembra predominare su tutti quanti gli altri interessi. Però, in realtà, non è la soluzione per far fronte a questo momento di grande crisi e di grande sensazione di insicurezza. Anzi è un alimentare in più dell’insicurezza, di cui normalmente questo commercio di armi è il primo beneficiario: si sta autoalimentando con la stessa paura che esso genera.

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Insediamenti ebraici a Gerusalemme Est, Shomali: non favoriscono pace

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Arriverà con ogni probabilità domani il via libera del Comune di Gerusalemme al piano che prevede la costruzione di 618 nuove case nella parte est della città, a maggioranza araba. Soltanto venerdì scorso la risoluzione all'Onu contro le colonie ebraiche al di là della Linea Verde del 1967, passata con l’astensione degli Stati Uniti. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, anche sotto pressioni politiche interne, ha tra l’altro criticato l'amministrazione di Barack Obama e ha ordinato al ministero degli Esteri di “limitare” i rapporti con le ambasciate dei 12 Paesi che hanno votato a favore del provvedimento. In questo quadro, che significato assume la decisione israeliana sui nuovi insediamenti a Gerusalemme est? Risponde mons. William Shomali, vicario patriarcale di Gerusalemme dei latini, intervistato da Giada Aquilino

R. – Io vedo due significati. Il primo è una risposta alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per dire che si rifiuta la risoluzione, continuando a costruire. Il secondo significato sarebbe quello di aumentare il numero degli ebrei a Gerusalemme e di diminuire la percentuale degli arabi, perché si vuol fare di Gerusalemme una città ebrea. E per diventare “più ebrea”, le statistiche e la demografia sono molto importanti. Non è perché adesso ci sia bisogno di case – hanno costruito tanto… – ma è per preparare l’arrivo di altri migranti ebrei dal resto del mondo: adesso molti vogliono abitare a Gerusalemme piuttosto che a Tel Aviv, specialmente i religiosi. E Gerusalemme tra poco diventerà una città di un milione di abitanti: la prima di Israele. Il commento che potrei fare è che questa decisione non favorisce la pace, perché per avere la pace bisogna rispettare le precondizioni della pace: questo punto degli alloggi e degli insediamenti è essenziale, cruciale, per i futuri negoziati e non deve essere un handicap.

D. – Che zona è di Gerusalemme?

R. – È la zona orientale. Vicino ci sono anche altri insediamenti ebrei, ma è – diciamo – una zona araba. Non è il fatto di costruire, non è il numero, oltre 600, ma è la perseveranza, il volere costruire nonostante la risoluzione delle Nazioni Unite. È questo che ha un significato politico molto grande.

D. – Qual è la reazione della gente?

R. – C’è una delusione generale, perché la pace non è favorita da questo progetto.

Della costruzione dei nuovi edifici a Gerusalemme est parla anche Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università di Firenze, al microfono di Giada Aquilino

R. – La municipalità di Gerusalemme chiaramente ha ricevuto il via libera dal governo che cerca di ricuperare, anche in termini di credibilità interna, quello che ha perso con il voto in Consiglio di Sicurezza. Gerusalemme Est è praticamente contornata da insediamenti ebraici, a parte un piccolo settore orientale. Questi insediamenti di cui si parla ora, questo rafforzamento, è nella parte sud orientale, sulla via di Betlemme, che è città assai importante non solo per la popolazione palestinese, ma anche per il suo significato storico e religioso. E’ come se si volesse mettere un punto fermo anche su questo settore.

D. – Al momento, che peso ha la risoluzione dell’Onu?

R. – La risoluzione ha un peso enorme. E’ avvenuta in modo assai strano, perché il testo era stato presentato dall’Egitto; però dietro pressioni del Presidente eletto Trump, sollecitate da Netanyahu, Il Cairo aveva ritirato il testo in cambio di promesse su futuri benefici. Ma gli altri quattro firmatari – tra cui dev’essere stata determinante la Nuova Zelanda, al fianco di Senegal, Malesia e Venezuela – hanno presentato comunque il testo, che è stato votato da tutti, con l’astensione degli americani.

D. – Netanyahu ha criticato l’amministrazione di Barack Obama, annunciando che con Trump le cose cambieranno. Sono state già avviate diverse contromisure diplomatiche, ha detto il governo israeliano. Di cosa si tratta?

R. – Ha annunciato misure come l’annullamento di alcune visite diplomatiche, il ritiro di aiuti a Senegal e Angola e soprattutto il giorno di Natale ha convocato tutti gli ambasciatori di quei Paesi che a New York avevano votato la risoluzione. Tralasciando qualunque cosa Trump possa fare – e ci sta che da Presidente possa fare meno di quello che ora dice – tutti gli altri Paesi, compresi i Paesi occidentali, europei o il Giappone o l’Australia o il Canada… potranno prendere misure sulle merci e sulle persone dei Territori, giustificandole in base al diritto internazionale e alla risoluzione Onu che dichiara gli insediamenti illegali.

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Siria: i curdi avanzano a Raqqa, l'Is uccide 30 civili ad al Bab

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È durata soltanto un giorno, quello di Natale, la tregua in Siria, dove le forze curde continuano ad avanzare verso Raqqa e le forze siriane sostenute dagli Usa sono arrivate, secondo l’Ondus, alla località di Tal Saman, mentre ad al Bab l’esercito turco riferisce che 30 persone sono rimaste uccise in un attentato dell'Isis. Francesco Gnagni ha cercato di fare il punto della situazione con Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa:  

R. – I fronti principali in questo momento sono sostanzialmente due: quello a sud di Aleppo, in cui sembra che le forze lealiste si stiano accingendo a lanciare un'offensiva per mettere in sicurezza le recenti conquiste nella città di Aleppo; il secondo fronte è quello del nord del Paese, in cui le forze turche stanno tentando di riprendere la cittadina di al-Bab dallo Stato Islamico. La Turchia è pesantemente impegnata - anche con proprio personale e propri mezzi  - per riprendere la città, però sul terreno la situazione vede ancora l’Is in controllo della quasi totalità della città. Bisognerà vedere cosa accadrà nei prossimi giorni e se su al-Bab l’accordo, che sembra esserci stato ormai tra il Presidente Putin e il Presidente Erdogan, terrà e consentirà in qualche misura anche alla Turchia di raggiungere i suoi obiettivi in Siria.

D. – Come cambia, quindi, lo scenario in seguito prima al Vertice di Mosca e alla presa di Aleppo Est, e poi alla luce della Conferenza di pace che si terrà a breve in Kazakistan, ad Astana, sempre tra Russia, Turchia e Iran, che si presenteranno come garanti per il cessate-il-fuoco?

R. – In realtà lo scenario siriano è profondamente cambiato negli ultimi mesi e nell’ultimo anno con l’intervento russo. E questo, di fatto, ha portato al conseguimento di due obiettivi: il primo è il rafforzamento del Presidente Assad, che un anno e mezzo fa era sostanzialmente sull’orlo del baratro; il secondo obiettivo, che è stato raggiunto dall’intervento russo, è stato quello di chiarire la posizione turca nel conflitto e arrivare poi – come è accaduto lo scorso agosto - all’accordo tra Presidente Erdogan e il Presidente Putin, che hanno posto termine a mesi di conflitti e dissidi. Questo che cosa significa? Significa che adesso i due giocatori principali sullo scenario siriano sono la Russia e la Turchia, in secondo ordine l’Iran. Ma questo significa anche un’altra cosa: le potenze europee e occidentali in generale sono completamente, ad oggi, fuori da ogni ipotesi di compromesso sulla Siria.

D. – Quale potrebbe essere il bilancio per questo 2016 che si sta concludendo? E cosa cambierà invece nel 2017, con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca?

R. – Credo che il 2016 in Siria abbia segnato probabilmente un po’ l’anno di svolta, dopo anni di stallo, dopo anni di situazione sul terreno sostanzialmente congelata, il 2016 ha visto di fatto il recupero di terreno da parte del regime e ha segnato di fatto un elemento di svolta laddove il Presidente Assad è ormai tornato al centro della scena. Questo significa che nel 2017 si ripartirà da questa base, con delle prospettive anche diplomatiche per eventuali cessate-il-fuoco completamente diverse. Fino a due anni fa nessuno pensava di poter trattare con Assad, a cominciare dal Presidente Erdogan: oggi vediamo, invece, quale sia la posizione dello stesso Presidente Erdogan. Su tutto questo molto inciderà anche la posizione dell’amministrazione Trump, che credo che sulla questione siriana seguirà molto e sarà molto complementare a quella russa. La crisi siriana come l’avevamo conosciuta negli anni dell’amministrazione Obama oggi non c’è più e credo non la rivedremo più. 

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Mons. Hinder: note “positive e negative” dal video di padre Tom

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 “L’elemento positivo” del video diffuso ieri dai sequestratori di padre Tom è “il fatto che il sacerdote è, o sembra essere, ancora vivo”; di contro, vi è anche un “aspetto negativo, sembra infatti che egli parli sotto pressione e secondo le indicazioni dei rapitori”. È quanto afferma all'agenzia AsiaNews mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen), commentando il filmato in cui il salesiano indiano si rivolge al governo di New Delhi, alla comunità cattolica e al Papa chiedendo aiuto per la sua liberazione. “È evidente - prosegue il prelato - che padre Tom è stato informato male, perché non è vero che non è stato fatto nulla sinora. Non posso fornire dettagli, ma si sta lavorando su diversi fronti per cercare di ottenere il rilascio”.

Il sacerdote afferma di aver bisogno urgente di cure mediche in ospedale
Dopo mesi di silenzio, ieri è emerso un video di padre Tom Uzhunnalil, il salesiano indiano sequestrato da un commando estremista riconducibile al sedicente Stato Islamico (Is) ai primi di marzo nel sud dello Yemen. Nel filmato rilanciato in rete, il sacerdote declina le proprie generalità e afferma di “aver bisogno urgente di cure mediche in ospedale”. Leggendo un testo preparato in precedenza, egli avverte che i suoi rapitori hanno cercato a più riprese di contattare il governo indiano, il Presidente e il Primo Ministro “invano” e “nulla è stato fatto” per la liberazione. 

E' nelle mani di un gruppo jihadista legato all'Is
Dal 4 marzo scorso padre Tom Uzhunnalil è nelle mani del gruppo jihadista, con tutta probabilità legato all'Is, che ha assaltato una Casa di riposo per malati e anziani delle missionarie della Carità ad Aden, nel sud dello Yemen. Nell’attacco sono state massacrate quattro suore di Madre Teresa e altre 12 persone, presenti all’interno della struttura.

Si hanno ragioni plausibili per ritenere che il sacerdote sia ancora vivo
In queste ore il vicariato apostolico dell’Arabia meridionale ha diffuso una comunicazione ufficiale sulla diffusione del video del salesiano indiano, da quasi 10 mesi nelle mani del gruppo jihadista. “La persona nel video - spiega il comunicato del vicariato, inviato per conoscenza ad AsiaNews - assomiglia molto a padre Tom Uzhunnalil. Tuttavia, la fonte del video, la data della sua realizzazione e le circostante nelle quali è stato girato sono sconosciute”. Sebbene al momento non vi siano ulteriori informazioni sul luogo in cui è detenuto, aggiunge la nota, “abbiamo ragioni plausibili per ritenere che egli sia ancora vivo”.

Papa Francesco ha chiesto la liberazione del sacerdote
Dal primo giorno del suo sequestro la Chiesa ha rilanciato numerosi appelli “fino ai più alti livelli” per assicurarne la liberazione e sono in atto “sforzi concreti” in collaborazione con canali diplomatici internazionali e locali. E lo stesso Papa Francesco, ricorda il vicariato d’Arabia, ha ricordato in passato il sacerdote indiano chiedendo la sua liberazione e quella di tutte le persone imprigionate nelle aree teatro di conflitti armati.

Preghiere da tutto il mondo per la sua liberazione 
E lo stesso mons. Hinder nel contesto delle recenti celebrazioni natalizie ha rinnovato l’appello alla preghiera per il rilascio di padre Tom. In particolare, durante la Messa del 25 dicembre, in cui ha pregato assieme alle decine di migliaia di fedeli riuniti nella chiesa parrocchiale di san Giuseppe ad Abu Dhabi per la salute del sacerdote indiano. Preghiere e vicinanza sono state espresse anche dalle varie comunità salesiane sparse per il mondo e dalla Conferenza episcopale indiana. (D.S.)

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Pearl Harbor: prima storica visita del premier giapponese Abe

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Il premier giapponese Shinzo Abe è atterrato nelle isole Hawaii e nelle prossime ore visiterà Pearl Harbor, dove il 7 dicembre del 1941 il Giappone attaccò gli Stati Uniti segnandone l’entrata nella seconda guerra mondiale. Sarà la prima volta che un leader nipponico visiterà il memoriale dell’Uss Arizona, la nave affondata durante l’attacco e a bordo della quale morirono oltre mille persone. Come anche nella visita di Obama ad Hiroshima dello scorso maggio non saranno chieste scuse ufficiali. Sul significato di questo evento Michele Raviart ha intervistato Federico Niglia, professore di Storia Contemporanea alla Luiss: 

R. – La visita di Abe a Pearl Harbor si inserisce in un discorso più ampio che riguarda l’identità giapponese, e cioè un progressivo ripensamento del passato giapponese, anche di quello più oscuro. Dunque, è un percorso di riconquista della memoria, anche di quella negativa, che ha caratterizzato la storia giapponese, e che riguarda la guerra ma anche i crimini commessi. Questo è il primo grande valore storico di questa visita, cioè l’aver affermato l’esistenza di un pezzo di memoria giapponese da scrivere.

D. – A livello internazionale, quanto pesa questa visita?

R. – La visita di Abe rappresenta un tassello importante di quello che è il dialogo tra gli Stati Uniti e il Giappone in un momento di cambiamento, che riguarda gli Stati Uniti con il cambio di leadership, ma che riguarda anche l’Asia; e questo porta il discorso molto sulla Cina. Il Giappone rappresenta l’interlocutore principale degli Stati Uniti nell’ottica di un bilanciamento della Cina; di una gestione della questione coreana, in particolare di quella nord-coreana ovviamente; e degli assetti geopolitici, come ad esempio il Mar Cinese orientale, che sono oggetto di discussione sempre più accesa tra i soggetti dell’area.

D. – Come anche Obama ad Hiroshima, non ci saranno delle scuse ufficiali per gli atti compiuti: questo cosa significa a livello di relazioni diplomatiche e di rapporti tra Paesi?

R. – Il chiedere scusa è il riconoscimento della propria responsabilità per un atto che viene ritenuto sbagliato. Qui le scuse non si chiedono perché, sostanzialmente, ciascuno dei due soggetti resta convinto della, non dico correttezza, ma della necessità di quell’azione: una necessità che ha spinto i giapponesi ad utilizzare l’attacco di Pearl Harbor, ma anche gli statunitensi ad utilizzare la bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Non si chiede scusa peraltro perché qui l’opinione pubblica non è coesa e unita nel pensare che vadano chieste delle scuse: i tweet di Trump ce lo confermano.

D. – Nell’identità giapponese, che cosa significa Pearl Harbour?

R. – Pearl Harbor è un momento in cui, un Giappone che si è sentito in molte occasioni vessato dai Paesi più avanzati, si prende la rivincita. Il Giappone, se noi ne guardiamo la storia che va dagli anni Settanta dell’800 a Pearl Harbor per l’appunto, è una potenza emergente: è una potenza che si proietta verso il mare circostante, ma anche verso la Cina. Queste ambizioni sono state frustrate sempre dagli Usa in primis, ma anche dalle altre potenze presenti nell’area. Quando i giapponesi attaccano a Pearl Harbor, si dice, nella retorica giapponese, che là si va a “levare l’onta” di tutte le vessazioni precedenti. Naturalmente, questo senso è stato perso progressivamente con le generazioni del dopoguerra, anche perché gli Stati Uniti, da primo nemico, sono diventati il primo alleato ed interlocutore del Giappone. Dunque si è avuta un’ovvia attenuazione, se non proprio una cancellazione, di quella vicenda.

D. – Il rapporto tra Stati Uniti e Giappone è dunque sempre più solido o è solo una funzione anti-cinese, come accennavamo?

R. – Il rapporto tra Stati Uniti e Giappone è solido in termini assoluti. Il momento in cui il Giappone compie una svolta è il Trattato di pace di San Francisco del 1951, con cui il Giappone fa pace con il passato di guerra ed entra progressivamente nell’orbita americana. È ovvio che la questione cinese giochi oggi, come negli ultimi anni, un ruolo determinante. Va però detto che c’è una convergenza oggettiva di prassi, valori, che rendono il Giappone una potenza “proiettata” – mettiamola così – verso gli Stati Uniti, e in un certo qual modo anche verso l’Occidente: condivide una serie di principi e di valori che non riguardano solo il contenimento della Cina. 

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Parroco invita a Messa per boss. Mons. Cacucci: grave scandalo

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Ha suscitato polemiche l’iniziativa di don Michele Delle Foglie di Grumo Appula, nel barese, di invitare i fedeli, tramite un manifesto funebre affisso in città, ad una Messa per Rocco Sollecito, esponente di spicco del crimine organizzato italiano in Canada ucciso 7 mesi fa. La Messa era fissata per le 18.30 di oggi. Al parroco è arrivato però il divieto di celebrare in forma pubblica, sia dall’arcivescovo di Bari-Bitonto, mons. Francesco Cacucci, sia dal questore che, per motivi di ordine e di sicurezza, aveva disposto che il rito fosse spostato alle 6 di questa mattina. Ma oggi le porte della chiesa di Grumo Appula sono rimaste chiuse. Lo conferma, al microfono di Adriana Masotti, lo stesso mons. Cacucci: 

R. – No, non ha celebrato, ma non era obbligatorio, celebrare questa mattina. Il divieto mio – divieto anche del questore – era di celebrare questa sera alle 18.30, perché questo avrebbe avuto un carattere pubblico e quindi sarebbe diventato occasione, per quanto riguarda la Chiesa, di scandalo, per quanto riguarda il questore una turbativa dell’ordine e della sicurezza pubblica.

D. – Il parroco mantiene fermo il suo pensiero e dice addirittura che vorrebbe parlarne con il Papa, essere ricevuto da lui e spiegare …

R. – Bisogna dire che ogni sacerdote ha il diritto di parlare con il Papa, può chiedere; però, è del tutto singolare non rendersi conto che quando una celebrazione  liturgica possa avere il  carattere di scandalo  per le persone, questo non debba essere fatto.  Questo è accaduto in tanti altri casi nella Chiesa …

D. – Le ripropongo quello che il parroco ha detto, a sua giustificazione: “Le Messe per i defunti non si celebrano per onorare i defunti, ma perché questi hanno bisogno di preghiere; quindi, tanto più sono peccatori tanto più ne hanno bisogno”.

R. – Però si sa che un vescovo può anche vietare una celebrazione quando questa celebrazione può ingenerare nei fedeli un dubbio. Ora, questo dubbio è molto più consistente quando il parroco stesso ha invitato i fedeli a partecipare a questa celebrazione.

D. – Il Papa addirittura ha parlato di scomunica per chi appartiene alle organizzazioni criminali …

R. - Sì, sì; ma qui non si tratta, da parte del parroco, di appartenere: qui è mancato l’equilibrio ed è mancata la prudenza.

D. – Lo dicevo in riferimento al boss per cui si voleva pregare: c’è una condanna da parte della Chiesa della mafia e di organizzazioni simili …

R. – Certo: c’è una condanna, ma è chiaro che la condanna della mafia sia scontata. Ma in questo caso io ho condannato questo atteggiamento di non chiarezza che sarebbe potuto derivare da una celebrazione alla quale il parroco stesso invita. E’ un’eccezione, posso dire comunque, nell’ambito della Chiesa locale…

D. – Il parroco ha invitato, ma insieme alla famiglia: ancora questa commistione, questo sentirsi in qualche modo legati alla religione, cristiani, pur facendo traffici illeciti. Esiste ancora forte, questo sentire? Essere insieme uomini religiosi e uomini di malaffare?

R. – Io credo che questo ci sia. Ora, quanto questa contraddizione in loro sia consapevole, credo che solo la loro coscienza e Dio possano saperlo. In ogni caso, il compito della Chiesa è anche un compito educativo, che non riguarda soltanto la coscienza delle persone: riguarda i riflessi che possono avere questi atteggiamenti sul popolo. E allora, per evitare qualsiasi tipo di dubbio in proposito io sono intervenuto in modo deciso.

D. – Per chiarire che la Chiesa non ha legami …

R. – Perché nemmeno il dubbio che possa esserci una … non dico una connivenza, ma un atteggiamento debole o leggero nei confronti di questi episodi, possa essere accettato.

D. – Lei pensa di essere stato capito dalle persone di Grumo Appula e della sua diocesi?

R. – Io credo che quando un vescovo deve intervenire, interviene soprattutto per orientare le coscienze. Io sono convinto che la stragrande maggioranza delle persone comprende il mio intervento, anzi: io sto ricevendo continuamente attestati di sostegno da ogni dove. Poi, se qualcuno non condivide, questo fa parte della libertà di ognuno.

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India. Orissa: a Natale 45mila indù rendono omaggio al Bambinello

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Nel giorno di Natale circa 45mila indù hanno reso omaggio al Bambino Gesù. È avvenuto a Bhubaneshwar, capitale dell’Orissa. Si tratta di un evento storico - riferisce l'agenzia AsiaNews - che assume ancora più rilevanza per il fatto che lo Stato indiano nel 2008 è stato luogo della più feroce persecuzione contro i cristiani mai perpetuata in India.

In Orissa il cristianesimo è molto più conosciuto tra persone di fede diversa
Secondo padre Prasanna Pradhan, parroco della pro-cattedrale di St. Vincent, la popolazione dell’Orissa “nutre profondo rispetto e onore nei confronti di Gesù, che disperde le tenebre della discordia e della divisione e rafforza i legami tra le persone”. Il sacerdote ritiene che dopo le violenze settarie scatenate dagli indù nell’estate del 2008, che hanno provocato la morte di circa 100 persone e la distruzione di 300 tra chiese e luoghi di culto, “in Orissa il cristianesimo è molto più conosciuto tra persone di fede diversa”. Tra le migliaia di fedeli indù giunti nella pro-cattedrale di Bhubaneshwar, vi era anche Leena Dutta, giovane donna di Patia. “Ho studiato in un istituto di suore – racconta – dove ho conosciuto la vita di Gesù. Per questo vengo a fargli visita ogni anno durante le festività natalizie”.

Le celebrazioni del Natale si sono svolte in piena scurezza
Nel distretto di Kandhamal, il più colpito dalla barbarie settaria, le celebrazioni del Natale si sono svolte in piena sicurezza. Questo è stato possibile – raccontano i cristiani – grazie alla sorveglianza costante delle forze di polizia, dispiegate come ogni anno per prevenire ogni ipotesi di aggressione. Anche nel 2007, quando iniziava a soffiare il vento dei pogrom, la polizia era presente e ha scongiurato l’attacco di 2.500 indù inferociti, armati di bastoni e armi da taglio, che volevano vendicare la morte di un indù colpito dal crollo di una croce.

Mons. Barwa ha spiegato il significato del Natale
Mons. John Barwa, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar, ha ringraziato il governo statale per aver “assicurato la protezione ai cristiani, soprattutto a quelli perseguitati del Kandhamal”. “Il Natale – ha aggiunto – parla di Cristo. Parla di come Egli ha spogliato se stesso per salvare i peccatori. Il Natale parla di come il Figlio di Dio si è fatto uomo e di come ha vissuto sulla terra. Il Natale parla di ciò che Gesù ha compiuto sulla croce e di come ha sconfitto la morte. Il Natale ci dice in che modo un peccatore può riunirsi con Dio”.

Il lavoro caritatevole fa crescere l'amore e unità
Nella capitale il 25 dicembre è stato anche il giorno dedicato alla cura dei poveri e dei bisognosi. Le Missionarie della Carità, istituto fondato da Madre Teresa di Calcutta, hanno distribuito un pasto caldo a centinaia di indigenti. Suor Olivet, superiora regionale, spiega: “Al tempo della nascita di Gesù, nessuna porta era aperta e nessuno lo ha accolto. Quando noi diamo da mangiare ai poveri ricordiamo la frase ‘servire l’uomo è servire Dio’”. Il pranzo è stato offerto da Abhisek Das, manager dell’azienda Tata Steel, che visita la casa delle suore ogni tre mesi. “Quando vedo che il mio umile gesto – afferma – fa nascere il sorriso sul volto di orfani e poveri, mi sento immensamente felice. Ogni religione ci insegna a fare il bene. Il lavoro caritatevole fa crescere in noi amore e unità: in questo modo diventiamo agenti di pace e armonia”. (P.N.)

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Germania: preghiera di solidarietà per i cristiani perseguitati

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I cattolici tedeschi sono stati chiamati ieri, festa di Santo Stefano, primo martire della cristianità, alla “Giornata di preghiera per i cristiani perseguitati e oppressi”. Nelle liturgie del 26 dicembre sono stati invitati a rivolgere le proprie intenzioni ai fratelli e alle sorelle nella fede che nel mondo sono vittime di violenze ed esclusioni. Il pensiero per il 2016 in particolare è stato rivolto ai cristiani in Arabia Saudita, che sono costretti a vivere la loro fede in segreto, spiega la Chiesa tedesca. La Segreteria della Conferenza episcopale - riporta l'agenzia Sir - aveva predisposto materiale esplicativo destinato alla visualizzazione nelle vetrine delle parrocchie, per l’alto valore solidale ed ecclesiale della preghiera per i fratelli perseguitati. Tra le raccomandazioni alle comunità locali c’è quella di rendere i momenti di preghiera gioiosi, anche in considerazione del periodo natalizio. 

La Giornata è stata istituita dai vescovi tedeschi nel 2003
​La “Giornata di preghiera per la solidarietà con i cristiani perseguitati e oppressi nel nostro tempo” è stata istituita nel 2003 dai vescovi tedeschi e da 13 anni l’impegno verso le Chiese del silenzio e della sofferenza è continuo nella Chiesa cattolica di Germania. Il presidente della Commissione per la Chiesa internazionale della Dbk, l’arcivescovo di Bamberg, mons. Ludwig Schick, insieme con il vicario apostolico del vicariato del Sud Arabia di Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti) il 1 ° dicembre 2016 ha presentato un documento informativo sulla situazione dei cristiani nella penisola arabica. (A.P.)

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"Accorgimenti per curare le malattie dell'anima" dono del Papa alla Curia

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“Lo sforzo per acquisire le virtù può vincere tutte le malattie dell’anima” lo scrive nel 1600 Padre Claudio Acquaviva, quinto generale dei Gesuiti e autore di: “Accorgimenti per curare le malattie dell’anima”, libro che Papa Francesco ha donato ai membri della Curia, in occasione degli auguri natalizi. Eugenio Murrali ha chiesto il perché di questa scelta del Pontefice a don Giuseppe Forlai, direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano Maggiore e autore della presentazione del volume: 

R. – Penso che il Santo Padre abbia scelto questo testo perché l’Acquaviva è una lettura consueta all’interno della Compagnia, soprattutto negli anni di formazione – almeno, lo era. Gli accorgimenti dell’Acquaviva sono uno dei pochissimi manuali moderni a uso dei Superiori per guidare e far crescere, soprattutto, nell’esperienza dello spirito, coloro che gli sono affidati. E probabilmente, in occasione di un discorso alla Curia che aveva al centro come attenzione il termine riforma – e la riforma parte sempre dalla riforma interiore, da quello che uno è prima ancora di quel che uno fa – non poteva esserci un testo più indicato.

D. – Papa Francesco si conferma in questo un grande direttore di anime?

R. – Sì. La missione del Papa e di ogni superiore in una comunità, è sempre e soprattutto quella di aiutare le persone affidate a pascolare su prati buoni. Gesù è il pastore che non organizza le persone: Gesù non è il pastore perché organizza una Chiesa o la struttura, ma perché porta e conduce ciascuno di noi alla vita eterna. Sulla Terra, noi, nella fede, desideriamo e crediamo che i nostri pastori facciano lo stesso. I Vescovi, i Superiori di comunità, dovrebbero essere persone che si curano prima di tutto della 'salus animarum', cioè della nostra esperienza di fede. Nella tradizione monastica e della vita religiosa genuina, il superiore ha sempre soprattutto questo ruolo, addirittura un ruolo di direzione spirituale comunitaria, come è l’Abate nella regola di Benedetto. Poi, piano piano, purtroppo, con un certo pragmatismo, soprattutto dopo la Rivoluzione francese, il Superiore anche nella comunità si è ridotto a una figura che coordina le attività dei religiosi.

D. – Incuriosisce anche l’aspetto pratico di questo libro …

R. – L’Acquaviva attinge moltissimo ai Padri, e soprattutto a Cassiano, alla regola pastorale di Gregorio Magno e anche alla sua esperienza personale di direttore di anime. Il principio fondamentale da cui parte Acquaviva è questo: che al Superiore verrà chiesto conto della salvezza delle anime di coloro che gli sono stati affidati. E Acquaviva assume una direttrice investigativa sulle anime delle persone, attraverso l’elencazione classica dei vizi capitali. Il Superiore porta a coscienza in tutti i membri, attraverso la debolezza di un fratello, quello che è un rischio per tutta la comunità. E allora è necessario che ci sia una comunità sempre vigilante e che il Superiore la tenga sempre sveglia: il Superiore non è uno che gestisce il quieto vivere, ma che inquieta quanto alla radicalità del cammino evangelico, della sequela di Cristo.

D. – “Prima di tutto, il Superiore esamini se stesso”: è una delle frasi dell’Acquaviva. Cosa vuol dire questo?

R. – Che il Superiore deve essere in grado di scorgere le malattie spirituali dei fratelli, ma può farlo solamente se conosce le sue. Dice Antonio Abate, che è padre di tutta la vita religiosa, che nessuno può combattere i demoni degli altri se non ha fatto i conti con i propri.

D. – Un altro aspetto trattato dall’Acquaviva: come unire nel governo la mitezza e la fermezza.

R. – Acquaviva si pone in equilibrio tra un modo di essere superiore, che è quello di un leader-censore, e un leader eccessivamente materno, protettivo che giustifica o che mette a tacere tutto, per la falsa pace della comunità. E invece, Acquaviva si pone proprio come un Superiore che ha come mira la trasformazione in Cristo delle persone. E’ un leader trasformazionale, il Superiore, cioè uno che sa leggere il male e coinvolgere tutta la comunità nel cambiamento. Ma questo è un concetto molto importante che è presente nei Padri, soprattutto in Evagrio Pontico: “Il male che io vedo in un fratello è il male di tutti”. Il Superiore trasformazionale è colui che coinvolge tutti i fratelli nella presa di coscienza del male che va guarito con la grazia di Dio. Ecco: in Acquaviva c’è questa grandissima fiducia nella forza sanante della grazia di Dio.

D. – Questo libro, resta attuale o torna attuale?

R. – E’ sempre attuale, soprattutto perché noi abbiamo bisogno oggi di ricalibrare, a tutti i livelli, la figura, la persona del Superiore. Il Superiore non è un manager, come non lo è il vescovo; ma noi questo, oggi, facciamo molta, molta fatica a capirlo. Acquaviva, che era generale di una Compagnia di Gesù in piena espansione, l’aveva capito molto, molto bene. E aveva problemi pratici molto più grossi dei nostri, problemi organizzativi vastissimi, eppure, in questo suo manuale per i Superiori, si fa cenno esclusivamente alla salute delle anime dei membri della Compagnia.

D. – Perché questo libro nasce sì, dalla conoscenza dei grandi Padri monastici, ma anche dall’esperienza personale sia di Superiore della Compagnia sia di direttore del nascente Seminario Romano …

R. – Ha capito una cosa semplicissima, che poi Papa Francesco ripete: che la riforma nasce dal discernimento. Se noi non ci occupiamo di riformare il nostro cuore, cioè di invocare il dono della conversione, tutti gli aggiustamenti, gli accomodamenti, la sobrietà esteriore non servono a nulla. La riforma nasce sempre dal cuore. Altrimenti avremmo comportamenti che possono durare qualche anno, qualche decennio, ma che non reggono poi alla prova della Storia.

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Caritas Saigon: a Natale assistiti 3mila bambini disabili e senzatetto

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In occasione del Natale, Caritas Saigon (antico nome di Ho Chi Minh City) ha organizzato celebrazioni speciali per migliaia di bambini in difficoltà che vivono nel Centro pastorale della città. Sul tema “Venuto per amare”, 453 operatori sociali sono stati fianco a fianco a 3mila bambini per festeggiare la nascita di Gesù. Suor Anna, religiosa che collabora con il Centro, afferma all'agenzia AsiaNews: “Il giorno di Natale abbiamo servito 125 minori con forti disabilità, 485 bambini sordi, 265 ciechi e più di 2mila che vengono ospitati nei locali messi a disposizione dalla diocesi. Siamo stati aiutati da volontari dei servizi sociali, insegnanti e suore che lavorano con questi bambini da anni”.

Il Centro pastorale di Ho Chi Minh City accoglie bambini di tutte le religioni
Nel Centro sono in funzione piccoli negozi che vendono prodotti realizzati dai bambini. Il luogo è divenuto col tempo un importante luogo dove i ragazzi possono scambiare esperienze lavorative ed acquisire nuove abilità. Hung, membro della Caritas locale, racconta: “Abbiamo predisposto 33 bancarelle di cibo, 10 di giocattoli e altre 10 di souvenir”. Il Centro pastorale di Ho Chi Minh City accoglie bambini di tutte le religioni ed è rivolto alla formazione dei minori disabili; per i festeggiamenti di Natale, il Centro ha ricevuto il sostegno e la sponsorizzazione di aziende vietnamite, come Ánh Hồng, Long Kim e Mina Company.

Raccolta dei rifiuti per finanziate le attività dei bambini disabili
Nel giorno di Natale, a fianco degli operatori sociali c’erano anche alcuni volontari per la protezione ambientale. Uno di loro, membro dei missionari francescani di Maria, racconta ad AsiaNews: “Siamo parte di un progetto per la protezione ambientale. Abbiamo raccolto, registrato e classificato centinaia di chili di rifiuti. Grazie a questa attività siamo riusciti a finanziare le attività dei bambini disabili. Ad Ho Chi Minh City ci sono decine di migliaia di piccoli sfortunati che non hanno da mangiare. Li aiutiamo sia dal punto di vista fisico che psicologico”. (N.H.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LX no. 362

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.