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Sommario del 09/09/2015
- Francesco: urgente alleanza tra famiglie e parrocchie, no a chiese-musei
- Il Papa: giustizia, libertà e solidarietà prevengono la guerra
- Mons. Forte: riforma processo canonico semplifica lavoro Sinodo
- Mons. Gallagher, “dialogo interreligioso antidoto al terrorismo”
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Migranti: Juncker, in 160 mila da ricollocare. Intervista con Martin Schulz
- Astalli e Migrantes: importante richiamo di Juncker all'Europa
- Mons. Audo: Siria allo stremo, no a soluzioni imposte dall'esterno
- Yemen: azione su vasta scala contro i ribelli sciiti Houti
- Mons. Nosiglia: ogni parrocchia di Torino ospiti 5 profughi
- Il record di Elisabetta II: regna da 63 anni e 216 giorni
- Ue: riconoscere unioni gay. Gambino: anticostituzionale
- Mortalità infantile in calo del 53%: Unicef presenta nuovi dati
- Convegno ecumenico di Bose su "Misericordia e perdono"
- Mostra Cinema di Venezia: toccante documentario sulle Guardie Svizzere
- Cuba: festeggiata la Vergine della Carità, in attesa del Papa
- Colombia: cultura dell'incontro per la settimana per la pace
- India: vittime cristiane di Orissa incontrano il presidente
- Mozambico: Nyusi riconosce ruolo della Chiesa nella riconciliazione
- Vescovi siciliani: seminario sul fenomeno migratorio
- Kenya: convegno internazionale su vita consacrata in Africa
- Pellegrinaggio del corpo di S. Maria Goretti negli Usa
Francesco: urgente alleanza tra famiglie e parrocchie, no a chiese-musei
E’ indispensabile “ravvivare l’alleanza tra la famiglia e la comunità cristiana”. E’ quanto affermato da Papa Francesco nell’udienza generale in Piazza San Pietro dedicata al legame tra famiglie e parrocchie. Il Pontefice ha ribadito che le chiese devono essere case accoglienti con le porte aperte, altrimenti diventano musei. Dal Papa, infine, un’esortazione a rafforzare il legame tra famiglie e chiese contro i “centri di potere” della nostra società. Il servizio di Alessandro Gisotti:
“I grandi eventi delle potenze mondane si scrivono nei libri di storia e lì rimangono. Ma la storia degli affetti umani si scrive direttamente nel cuore di Dio; ed è la storia che rimane in eterno”. Papa Francesco ha iniziato la sua catechesi con un’immagine poetica di grande impatto. Ancora una volta, nell’appuntamento del mercoledì in Piazza San Pietro, il Papa torna dunque a soffermarsi sulla famiglia, questa volta puntando lo sguardo sul rapporto con la comunità cristiana.
Gesù ci insegna “legame naturale” tra Chiesa e famiglia
Un legame, osserva subito, “naturale, perché la Chiesa è una famiglia spirituale e la famiglia è una piccola Chiesa”. Francesco rammenta così che Gesù stesso imparò la storia umana per questa via e la percorse fino in fondo:
“E’ bello ritornare a contemplare Gesù e i segni di questo legame! Egli nacque in una famiglia e lì ‘imparò il mondo’: una bottega, quattro case, un paesino da niente. Eppure, vivendo per trent’anni questa esperienza, Gesù assimilò la condizione umana, accogliendola nella sua comunione con il Padre e nella sua stessa missione apostolica”.
Le chiese siano accoglienti, non con le porte chiuse
Poi, soggiunge, quando Gesù comincia la sua vita pubblica forma intorno a sé una comunità, un’assemblea di persone e questo è proprio il “significato della parola chiesa”. L’assemblea formata dal Signore, sottolinea, ha la “forma di una famiglia ospitale, non di una setta esclusiva, chiusa”. Gesù, riprende, non “cessa di accogliere e di parlare con tutti” e questa, avverte, “è una lezione forte per la Chiesa”. Di qui l’incoraggiamento “a ravvivare l’alleanza tra la famiglia e la comunità cristiana”:
“Potremmo dire che la famiglia e la parrocchia sono i due luoghi in cui si realizza quella comunione d’amore che trova la sua fonte ultima in Dio stesso. Una Chiesa davvero secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, con le porte aperte, sempre. Le chiese, le parrocchie, le istituzioni, con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei!”.
Famiglie e chiese alleate contro i centri di potere
Oggi, riprende, questa tra famiglie e chiese è “un’alleanza cruciale contro i centri di potere ideologici, finanziari, politici”. Noi, esorta, siamo chiamati a riporre la nostra speranza “nei centri dell’amore”, che sono le famiglie, “ricchi di calore umano, basati sulla solidarietà e la partecipazione”. Certo, riconosce, “c’è bisogno di una fede generosa per ritrovare l’intelligenza e il coraggio per rinnovare questa alleanza”:
“Le famiglie a volte si tirano indietro, dicendo di non essere all’altezza: ‘Padre, siamo una povera famiglia e anche un po’ sgangherata’, ‘Non ne siamo capaci’, ‘Abbiamo già tanti problemi in casa’, ‘Non abbiamo le forze’. Questo è vero. Ma nessuno è degno, nessuno è all’altezza, nessuno ha le forze! Senza la grazia di Dio, non potremmo fare nulla. Tutto ci viene dato, gratuitamente dato! E il Signore non arriva mai in una nuova famiglia senza fare qualche miracolo”.
Superare atteggiamenti direttivi verso le famiglie
Naturalmente, aggiunge Francesco, “anche la comunità cristiana deve fare la sua parte”, cercando “di superare atteggiamenti troppo direttivi e troppo funzionali”. Al tempo stesso, prosegue, “le famiglie prendano l’iniziativa e sentano la responsabilità di portare i loro doni preziosi per la comunità”:
“Tutti dobbiamo essere consapevoli che la fede cristiana si gioca sul campo aperto della vita condivisa con tutti, la famiglia e la parrocchia debbono compiere il miracolo di una vita più comunitaria per l’intera società”.
Al momento dei saluti ai pellegrini, il Papa ha ricordato la memoria liturgica del gesuita San Pietro Claver, patrono delle missioni d’Africa. “Cari giovani – ha affermato – il suo instancabile servizio agli ultimi vi sproni a scelte di solidarietà verso i bisognosi; il suo vigore spirituale aiuti voi, cari ammalati, ad affrontare la croce con coraggio; il suo amore per Cristo sia modello per voi, cari sposi novelli, affinché l’amore sia il centro della vostra nuova famiglia”.
Il Papa: giustizia, libertà e solidarietà prevengono la guerra
«Un’occasione propizia» per «rinnovare la responsabilità nel cercare mezzi per prevenire ogni minaccia di conflitto armato, attraverso la promozione di una maggiore giustizia sociale, libertà e solidarietà». È quanto auspica Papa Francesco nel messaggio a firma del sostituto della Segreteria di Stato, arcivescovo Angelo Becciu, in occasione dell’inaugurazione del restauro dell’opera La guerra e la pace nel Palazzo delle Nazioni Unite a New York. I due grandi affreschi dipinti dall’artista contemporaneo brasiliano Candido Portinari (1903-1962) – riferisce L’Osservatore Romano - sono stati infatti restituiti all’antico splendore dopo un accurato restauro durato cinque anni. E dall’8 settembre è possibile ammirarli di nuovo nella sede dell’assemblea generale dell’Onu, dove si è svolta la cerimonia inaugurale.
Le opere di 14 metri di altezza e 10 di larghezza — che illustrano la rovina e la desolazione dell’umanità da un lato e la raffigurazione di un mondo sano e armonioso dall’altro — sono state esposte anche in Brasile e in Francia grazie al «Progetto Portinari» diretto dal figlio dell’artista José Candido Portinari e legato all’Università cattolica di Rio de Janeiro.
Le parole del Pontefice — prosegue il messaggio indirizzato al cardinale Orani João Tempesta arcivescovo di São Sebastiao do Rio de Janeiro — sono oggi rivolte a tutte le persone in questo mondo che, come denuncia l’Evangelii gaudium, «è lacerato dalle guerre e dalla violenza, o ferito da un diffuso individualismo che divide gli esseri umani e li pone l’uno contro l’altro ad inseguire il proprio benessere» (n. 99). Da qui la conclusione: «Nella fedeltà all’impegno sottoscritto in questo edificio dalle Nazioni Unite qui a New York, attendiamo con ansia il tempo in cui le nazioni “spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2, 4)».
Mons. Forte: riforma processo canonico semplifica lavoro Sinodo
Le due Lettere “Motu Proprio” di Papa Francesco, che riformano il processo canonico di nullità matrimoniale, possono essere lette come una nuova sottolineatura del primato della misericordia di Dio. A sostenerlo è mons. Bruno Forte, teologo, arcivescovo di Chieti-Vasto e segretario speciale del prossimo Sinodo ordinario dedicato alla famiglia. L’intervista è di Fabio Colagrande:
R. – Mi sembra che la riforma del processo canonico vada inserita nella più generale opera di riforma della Chiesa alla luce del Vangelo che Papa Francesco sta portando avanti. Ecco perché non esiterei a dire che si tratta anzitutto di una riforma in senso evangelico, nel senso cioè di dare sottolineatura al primato della misericordia di Dio, alla prossimità alle situazioni umane, alla ricerca di vie ispirate insieme alla giustizia e alla carità. Dal punto di vista delle soluzioni giuridicamente proposte, mi sembra che alcune siano di grande importanza. La prima è che una sola sentenza basti per la dichiarazione della nullità, mentre finora era obbligatorio che ci fosse una doppia sentenza conforme. Questo da una parte riduce molto i tempi, dà molta più serenità alle coppie che non devono restare in lunghe attese, e certamente semplifica il processo canonico. Poi, anche il ruolo centrale del vescovo che diventa il punto di riferimento – anche in questo campo – dei suoi fedeli. Mi sembra che qui ci sia un riconoscimento della ecclesiologia del Vaticano II, del valore della sacramentalità dell’episcopato, del valore della collegialità episcopale.
D. – Un altro aspetto della riforma di Papa Francesco è quella di tempi più veloci e costi più bassi, snellimento e scelta della gratuità. Che significato ha?
R. – Per me, un significato molto molto grande. Proprio in quanto moderatore di un tribunale ecclesiastico regionale, mi rendo conto come a volte la giustizia lenta sia ingiusta, non sia giustizia. Dunque è assolutamente necessario che i tempi siano contenuti, in modo da dare serenità a persone che a volte hanno atteso per anni una risposta importante per la loro coscienza. Dall’altra parte, la gratuità più ampia possibile consente a tutti, specialmente ai poveri, di affidarsi al giudizio della Chiesa e di fidarsi di essa perché ne hanno bisogno: è un principio assolutamente necessario su cui Papa Francesco insiste e che rende più possibile, proprio per questo maggiore carattere pastorale, questa maggiore vicinanza del giudice al fedele, che la riforma stabilisce.
D. – Quanto questa riforma di Papa Francesco recepisce delle istanze che sono maturate durante il Sinodo straordinario e durante tutto il percorso che sta portando al nuovo Sinodo ordinario sulla famiglia?
R. – Credo moltissimo. Perché è stata unanime da parte di tutti i vescovi del mondo questa richiesta che si abbreviassero e semplificassero i processi per la nullità matrimoniale e si mettesse in luce anche questo principio, il più possibile ampio, di gratuità, di prossimità alla gente. Mi sembra che Papa Francesco abbia esattamente scelto, in questa direzione. Quindi questa riforma – naturalmente, con l’autorità che ha il Vescovo successore di Pietro e quindi con il suo discernimento ultimo – è voce anche di tutto l’episcopato che si era espresso in questa direzione.
D. – Quindi che tipo di influenza potrà avere questa riforma sulla prossima discussione sinodale, secondo lei?
R. – Di fatto, semplifica molto il lavoro, perché molti punti che sarebbero stati nuovamente ripresi sono stati, con questa riforma, approvati, risolti; e dall’altra parte, naturalmente, c’è il grande lavoro che poi spetta a tutti i vescovi del mondo: l’applicazione della riforma a partire da quell’8 dicembre prossimo in cui essa diventerà di fatto operativa. E occorre attrezzarsi, occorre anche su questo, forse, come vescovi, aiutarsi gli uni con gli altri per trovare le vie più adeguate per corrispondere allo spirito e alle norme delle nuove procedure.
Mons. Gallagher, “dialogo interreligioso antidoto al terrorismo”
“Il valore della vita, la dignità umana, la libertà religiosa, la pace e l‘armonia tra le persone e i popoli” è questa “la posta in gioco” davanti al “perpetuarsi di violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte dello Stato Islamico presunto e da altre parti coinvolte” nei conflitti mediorientali. A ribadirlo è mons. Paul Richard Gallagher, Segretario per i rapporti con gli Stati, intervenuto ieri a Parigi alla Conferenza sulle vittime di violenze etniche e religiose in Medio Oriente. Tre gli aspetti sottolineati dal rappresentante vaticano: “La consapevolezza della comunità internazionale per affrontare l’emergenza umanitaria e garantire condizioni minime di sicurezza per le minoranze e comunità cristiane; garantire il diritto dei rifugiati di tornare in patria e vivere in dignità e sicurezza; affrontare il fenomeno del terrorismo e promuovere il dialogo interreligioso”.
Garantire condizioni di sicurezza per le minoranze e comunità cristiane
In merito al primo punto mons. Gallagher ha ravvisato la necessità di adottare altre misure “indispensabili per garantire la presenza nella loro terra” di migranti e rifugiati. Tra le sfide da affrontare quella relativa al rispetto dei diritti umani, in particolare “il diritto alla libertà di religione e di coscienza”. Il Segretario per i rapporti con gli Stati ha ricordato che “la libertà di religione comprende, naturalmente, la libertà di cambiare religione. Tuttavia, in molti Paesi del Medio Oriente, c’è libertà di culto, ma a volte, lo spazio lasciato alla libertà di religione è piuttosto limitato. Estendere questo spazio di libertà diventa una necessità per assicurare a tutti i membri della varie comunità religiose la vera libertà di vivere e professare la propria fede”. A tale riguardo mons. Gallagher ha spiegato che “è opportuno che gli Stati della regione siano direttamente coinvolti, con il resto della comunità internazionale, nella tutela dei diritti fondamentali dei cristiani e delle persone appartenenti ad altre minoranze religiose”.
Diritto dei rifugiati di tornare in patria e vivere in dignità e sicurezza
Altro diritto da difendere è quello dei rifugiati a “tornare in patria e vivere in dignità e sicurezza”. Anche qui la comunità internazionale, con gli Stati i cui cittadini sono rifugiati e sfollati, è chiamata ad attivarsi. Per mons. Gallagher “il concetto di cittadinanza deve essere compreso nel suo senso più ampio, così da costituire un punto di riferimento nella vita sociale”.
Sul fenomeno del terrorismo, promuovere il dialogo interreligioso
Circa il terzo punto l’esponente della Santa Sede ha ricordato l’importanza dell’educazione come strumento per affrontare “in modo serio” il fenomeno del terrorismo. Attenzione dunque all’“educazione nelle scuole, all’uso di internet, ai contenuti della predicazione dei leader religiosi che non dovrebbero dare sfogo ad atteggiamenti intransigenti o alla radicalizzazione, ma, al contrario, promuovere dialogo e riconciliazione”. Stessa attenzione, ha affermato mons. Gallagher, deve essere posta in Occidente per evitare “provocazioni e offese verso ciò che è ritenuto caro e anche sacro da alcune religioni”. Antidoto al fondamentalismo è “il dialogo interreligioso”. Dal Segretario per i rapporti con gli Stati è arrivato un appello ai leader ebrei, cristiani e musulmani a “promuovere la comprensione reciproca e a denunciare chiaramente la strumentalizzazione della religione per giustificare la violenza”. “È necessario - ha concluso - promuovere una separazione positiva e rispettosa tra religione e Stato, due sfere che possono coesistere senza conflitti attraverso il dialogo”. (R.P.)
Oggi su "L'Osservatore Romano"
In prima pagina, "Alleanza cruciale per contrastare i centri di potere ideologici, finanziari e politici"; all’udienza generale Papa Francesco parla del legame tra famiglia e comunità cristiana.
Sotto, Prime ricognizioni aeree della Francia in Siria in vista di un intervento contro i miliziani dell’Is.
A fondo pagina, bombardata Sana’a; intensificati i raid dopo il sanguinoso attacco degli huthi nella provincia di Marib.
In cultura, La medicina salvò l’etica (o forse no) di Carlo Petrini sul rapporto tra scienza e dignità umana e "Un finto corrispondente che diceva la verità" Gli articoli di Federico Alessandrini dal 1933 al 1938.
Migranti: Juncker, in 160 mila da ricollocare. Intervista con Martin Schulz
L'immigrazione è “una risorsa”. Così il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker nel suo discorso sullo Stato dell'Unione, stamani al Parlamento di Strasburgo. Chiesta la redistribuzione di 160 mila profughi nei Paesi membri. Il servizio di Giada Aquilino:
Gli stati membri adottino “il ricollocamento di 160 mila profughi” al prossimo consiglio dei ministri interno, “abbiamo bisogno di fatti”. Jean Claude Juncker chiede così di redistribuire i richiedenti asilo da Italia, Grecia e Ungheria: 120 mila in più rispetto ai 40 mila proposti a maggio. Roma, Atene e Budapest, ha aggiunto, “non possono essere lasciate sole nell'affrontare questa sfida enorme”.
“The numbers are impressive”…
“I numeri sono impressionanti”, ha dichiarato, ma ora è il “momento di agire”, con un meccanismo di “redistribuzione permanente” che ogni Paese dovrà seguire, ha tra l’altro specificato, senza “selezionare i rifugiati per la loro religione o le loro convinzioni: non c'è religione o filosofia – ha spiegato - quando si tratta di aiuto umanitario”. Nelle 14 proposte della Commissione Ue non figura l’abolizione di Schengen. Si pensa a rafforzare i confini esterni: “bisogna cambiare il trattato di Dublino, la prima regola dev’essere la solidarietà”, ha assicurato Juncker, annunciando il rafforzamento di Frontex. A inizio 2016 la Commissione Ue presenterà un pacchetto di proposte sull'immigrazione legale.
Non si ferma però quella gestita dalla criminalità: quattro egiziani sono stati fermati in Sicilia con l’accusa di essere gli scafisti del barcone con a bordo 228 migranti, soccorsi e giunti ieri ad Augusta.
Dalla Germania, la cancelliera Angela Merkel, a proposito di coloro che vedono riconosciuto il diritto d’asilo, ha auspicato che vengano integrati e che imparino “velocemente il tedesco”.
Nuove tensioni in Ungheria: tafferugli fra polizia e profughi si sono registrati al centro di prima accoglienza di Roeszke, a ridosso della frontiera con la Serbia; ad Asotthalom, un avviso schock - esposto alle stazioni dei bus e siglato dalle autorità municipali - mette in guardia dal “rischio contagio dalle malattie dei migranti”. Sempre più critica la situazione sull’isola greca di Lesbo, dove 25 mila migranti vivono in condizioni igienico-sanitarie ormai insostenibili.
E proprio la Grecia, ma per questioni legate alla crisi economica, ha occupato la seconda parte del discorso di Juncker a Strasburgo. Citando un colloquio col premier Alexis Tsipras, il presidente della Commissione Ue ha assicurato che la cosiddetta “Grexit era una possibilità, ma non un opzione da menzionare pubblicamente”. Con riferimento alla crisi tra Ucraina e Russia, ha garantito che “le frontiere degli Stati membri sono intoccabili”, in particolare quelle di Polonia e Paesi Baltici. Quindi si è detto convinto di “un accordo giusto” con il governo britannico in vista del referendum del Regno Unito sulla permanenza nell'Unione europea.
C'è stato un “ampio sostegno trasversale per una politica migratoria comunitaria”, riscosso dal discorso del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Così Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo che da tempo invoca misure per fronteggiare l'emergenza immigrazione, ma anche strategie a lungo termine per intervenire nella crisi in Libia e nel dramma in Siria. Lo spiega lo stesso presidente Schulz nell'intervista della nostra inviata a Strasburgo, Fausta Speranza:
R. – Il will cost money to bring the two sides in Libya together; we are well advised to invest …
Costerà denaro, riunificare le due parti in Libia; ma saranno denari investiti bene, perché la Libia è una delle fonti maggiori dei problemi. C’è questa assoluta assenza di strutture statali coerenti e affidabili, ed è uno dei maggiori problemi; in secondo luogo, in Siria invece abbiamo bisogno di tutte le parti: abbiamo bisogno delle opposizioni, abbiamo bisogno del regime di Assad, abbiamo bisogno della Federazione Russa, abbiamo bisogno degli americani, dei turchi, dei vicini diretti della Siria per impostare un dialogo, perché tutti sappiamo che non sarà possibile una soluzione militare. Ma convincere tutte le parti in causa che non c’è soluzione militare, che abbiamo bisogno di una soluzione politica non è cosa facile: suona facile, ma – come si sa – è estremamente difficile. Ciò nonostante, il Parlamento insiste sul fatto che sia fatto ogni sforzo diplomatico e che ogni via diplomatica sia presa in considerazione e sia tentata. Io so che questo è molto difficile … Con Assad, la Siria non ha futuro ma dovremmo anche avere ben chiaro il fatto che – dopo l’era Assad – le minoranze dovranno essere protette, nel Paese, e che noi dobbiamo garantire che non ci sarà – dopo – la grande vendetta del dopo-Assad. Dobbiamo però anche essere molto onesti nei nostri stessi riguardi: il sedicente Stato Islamico è forte, in Siria, e forse avremo bisogno di un’ampia coalizione internazionale contro di esso. Io spero che, ad esempio, un intervento iraniano o russo nella lotta all’Is avvenga nell’ambito di una coalizione internazionale e non nell’ambito di una contrapposizione internazionale tra americani ed europei da un lato e russi e iraniani dall’altro.
D. – Cosa risponderebbe a quei Paesi dell’Europa dell’Est che si oppongono alla ricollocazione dei rifugiati?
R. – That they should discuss with us first of all about our common humanitarian responsibility. …
Che dovrebbero prima di tutto ragionare con noi della nostra comune responsabilità umanitaria. La sfida che ci troviamo ad affrontare in questo momento non è una sfida nazionale: questo non è un problema italiano e nemmeno – come ha detto Urban – un problema tedesco o spagnolo. Questo è un problema europeo, e a sfide globali non si possono dare risposte nazionali: servono risposte europee. In secondo luogo, la solidarietà è alla base di ogni azione dell’Unione Europea. Paesi che – ad esempio – temono una minaccia militare dalla Russia e quindi chiedono sostegno militare in armi e uomini, ne ricevono; Paesi che hanno bisogno di denaro per il loro sviluppo infrastrutturale ed economico, ne ricevono. Questi stessi Paesi devono mettere in conto che non dovrebbero e non potrebbero astenersi né tirarsi indietro quando si parla di rifugiati.
D. – Ma come convincere questi Paesi?
R. – With pragmatic proposals. I had last week prime minister Urban, who came to me and I said …
Con proposte pragmatiche. La settimana scorsa ho ricevuto il primo ministro Urban e gli ho detto: “Guarda, noi distribuiamo le persone che vengono in Europa – diciamo, 500.000 persone. Le distribuiamo su 507 milioni di abitanti nei 28 Paesi membri: questo è il numero degli abitanti dell’Unione Europea. Non è un problema in sé. Ma se concentriamo centinaia di migliaia di persone solo su alcuni degli Stati membri, allora ci saranno problemi. Per questo, dovremo sviluppare parametri e criteri su come distribuire i profughi e uno dei criteri è il numero degli abitanti in relazione alla capacità economica del Paese, tenendo in conto il numero dei rifugiati già presenti nel Paese. E per tornare all’Ungheria, se consideriamo appunto questi tre elementi – numero degli abitanti del Paese, capacità economica e numero dei rifugiati già presenti nel Paese – l’Ungheria ne ricaverebbe un grandissimo vantaggio, rispetto al numero delle persone già presenti nel Paese. Per questo io faccio affidamento a proposte pragmatiche e spero che riusciremo a convincere i Paesi ancora riluttanti. E’ ovvio che Paesi grandi, con un grande numero di abitanti e un forte potere economico, come la Germania, possono sopportare un peso maggiore, più persone, quindi, rispetto a Paesi più piccoli con un minor numero di abitanti e con problemi economici.
Astalli e Migrantes: importante richiamo di Juncker all'Europa
Le parole di Jean-Claude Juncker, il suo appello ai Paesi membri dell’Unione ad agire insieme mettendo da parte la paura, per accettare chi fugge, più che coraggiose sono state realistiche. E’ l’opinione di padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati in Italia. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – Sono certamente parole che vanno nella direzione giusta: una descrizione di un’Europa che non vuole più essere un’Europa che costruisce dei muri ma che accoglie persone che scappano da guerre e persecuzioni.
D. – Questo cambiamento che c’è stato da parte di alcuni Paesi in Europa è possibile che lo si debba solo ed esclusivamente all’impressione, allo sdegno, suscitati dalla fotografia del piccolo bimbo curdo siriano sulla spiaggia?
R. – Io non credo. Credo che forse l’immagine e la forza più sconvolgente sia stata quella della colonna umana di persone che hanno attraversato l’Europa, una forza vitale che in qualche modo non si poteva più far finta di non vedere. Questa fila umana ha riproposto quelle immagini di campi profughi che eravamo abituati a vedere soltanto nei Paesi del Sud del mondo. E invece ce le siamo ritrovate davanti nel cuore dell’Europa e questo credo sia stato un elemento, una scossa, che l’Europa non poteva non considerare.
D. – La Germania accoglie i siriani e oggi parlando di rifugiati si fa riferimento quasi esclusivamente a loro. Ma sappiamo che a fuggire dalle guerre non sono soltanto i siriani, sappiamo che un altissimo numero di persone che attraversa il mare viene, un esempio, anche dall’Eritrea, ma di loro non parla nessuno. Perché?
R. – Perché tra le guerre a volte ci sono anche le guerre dimenticate, le situazioni di Paesi dimenticati. L’Eritrea ha questa situazione ormai da più di 20 anni. Con il tempo, noi rischiamo di non ricordare più delle cose, però la situazione di eritrei, così come di altre popolazioni, rischia di essere altrettanto grave di quella dei siriani, se non a volte peggio, proprio perché si accumula anche la questione del dimenticarsi di loro. Allora, in questi giorni non bisogna dimenticare queste guerre, ma essere più comprensivi. Ci sono tante persone che fuggono da guerre e da persecuzioni, non sono solo i siriani, e se vogliamo veramente aiutare queste persone dobbiamo considerarle nel loro complesso e soprattutto non dimenticarci che esistono altri conflitti e quindi andare alla radice dei conflitti, se vogliamo anche ridurre il numero delle persone che fuggono.
D. – Non si può non notare la puntualizzazione che viene fatta da tutti: l’accoglienza è per le persone che hanno i requisiti per richiedere lo status di rifugiato, perché in fuga da guerre e persecuzioni, un altro discorso sono i migranti di tipo economico. Eppure, padre Ripamonti, tra questi migranti non possiamo non pensare a tutti coloro che fuggono dalle situazioni di gravissima miseria e di gravissima povertà in cui versano i loro Paesi…
R. – Dobbiamo fare attenzione a non dimenticarci di loro. Situazioni anche spesso molto gravi che invitano l’Europa a ripensare alle politiche sull’immigrazione. Certamente noi in questi giorni stiamo affrontando la questione dei rifugiati, delle persone che scappano da guerre e persecuzioni ma non dimentichiamo che l’immigrazione è un fenomeno più ampio, più vasto, e che una parte non da sottovalutare interessa quelle persone che scappano da situazioni di fame, anche per loro è un diritto andare in una situazione in cui la vita sia migliore. Non dobbiamo dimenticarlo e soprattutto dobbiamo fare in modo che politiche europee sull’immigrazione tengano in considerazione anche questo.
Per mons. Guerino Di Tora, presidente della Commissione Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes, si deve prendere atto che quello dell’Europa è un discorso ancora in via di costruzione. Ascoltiamolo al microfono di Francesca Sabatinelli:
R. – L’unione delle persone, delle culture è ancora ben lungi da venire e quindi su questo si dovrà ancora molto lavorare. Dobbiamo ancora acquisire una coscienza unitaria e Juncker ha ben evidenziato alcuni aspetti. Per esempio, il fatto che ci troviamo in un momento in cui dobbiamo prendere coscienza della verità della situazione di fronte alla quale lui ci invita a non scoraggiarci, perché la realtà europea – lui ha detto – in questo momento ha i mezzi sia legislativi sia economici per affrontare questa situazione che rappresenterebbe lo 0,11 per cento della popolazione, quindi non è una realtà tale da non poter governare.
D. – La Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana, la Fondazione “Migrantes” come rispondono all’invito di Papa Francesco, che ha chiesto di aprire le porte alle famiglie di profughi?
R. – L’invito è già stato pienamente accolto e raccolto, e ci siamo immediatamente messi in movimento per poter costruire degli orientamenti, delle realtà legislative, da poter dare come regole un po’ per tutti. L’importante è che, messi in movimento, presenteremo al prossimo Consiglio di presidenza della Cei, questo “pacchetto” in modo che diventi qualcosa di appropriato per tutta la Chiesa italiana. Dobbiamo veramente poter regolamentare e far sì che non sia qualcosa “alla buona”, ma che rappresenti veramente un valore di accoglienza per la dignità delle persone, per quelli che, fuggendo da realtà di morte, di guerra, possano sentire veramente un afflato.
Mons. Audo: Siria allo stremo, no a soluzioni imposte dall'esterno
Dall’Unione Europea che oggi vara un piano unitario per l‘accoglienza dei profughi si alzano anche venti di guerra nei confronti dell’Is in Siria, responsabile in parte dell’ondata migratoria. Francia e Gran Bretagna, appoggiate dall’Australia, sono pronte a raid mirati, ma sul terreno a confrontarsi sono Washington e Mosca, dopo che la Russia ha rafforzato le sue posizioni militari in difesa del regime. Intanto i jihadisti hanno occupato l'ultima base aerea dei lealisti nella provincia nord-occidentale di Idlib, uccidendo decine di militari. Si aggravano dunque i rischi per la popolazione, già perseguitata e in fuga, specie nelle comunità cristiane. Gabriella Ceraso ne ha parlato con mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei Caldei e presidente di Caritas Siria:
R. – Come Chiesa, come cristiani, fino ad oggi abbiamo sperato nella pace e continuiamo a farlo: è questa la nostra speranza per la Siria, che è il nostro Paese, la nostra casa, il luogo dove sono le nostre famiglie e dove c’è il nostro avvenire. Allo stesso tempo, però, in Siria la guerra e le distruzioni continuano: usano ogni metodo possibile per compiere queste distruzioni, come è accaduto già anche in Iraq, in Libia… E se continuano le violenze, le persone fuggono. E in particolare, per quello che ci riguarda, vediamo le partenze numerose dei cristiani, o, una dopo l’altra, delle famiglie e soprattutto dei giovani. Questi hanno paura del servizio militare, non hanno un lavoro, e vivono in una condizione di pericolo: per questo fanno di tutto per andare via.
D. – Quindi, lei dice che un’assenza di una strategia e di una soluzione politica, se si pensa solo ad un intervento militare, potrebbe aggravare ancora di più questa fuga, in particolare dei giovani?
R. – Sì, penso proprio di sì, ci troviamo in una situazione di distruzione totale! In più non abbiamo né acqua né elettricità; da tre giorni ci troviamo di fronte ad una tempesta di sabbia terribile che sta colpendo tutta la Siria… E sono i poveri che pagano il prezzo.
D. – Ieri c’è stata a Parigi una conferenza in cui, per la prima volta, si è parlato di un impegno maggiore da parte dei Paesi, soprattutto di un aumento degli aiuti umanitari da destinare alla Giordania; la Turchia; il Libano e l’Iraq affinché questi possano accogliere. Si è anche ribadita la necessità di lottare perché si possano denunciare alla Corte Penale Internazionale i crimini più gravi che sono accaduti anche in Siria. Si è pensato in particolare ai cristiani d’Oriente. Aiuti in questo senso vi sarebbero di sostegno, vi occorrerebbero?
R. – Per me non è questa la soluzione: bisogna cercare una soluzione politica, che venga dall’interno della Siria, e non imposta dall’esterno.
D. – Qual è la situazione umanitaria in questo momento a livello Caritas? Quali sono le urgenze maggiori?
R. – Adesso lavoriamo su due livelli. Il primo riguarda le necessità di accesso al cibo, alle medicine e all’istruzione. Abbiamo fatto uno sforzo importante per aiutare i bambini e i giovani ad andare a scuola; gli anziani; e i profughi che devono pagare gli affitti delle case. Questi sono i grandi programmi della Caritas Siria. Ma le urgenze adesso sono i problemi psicosociali, dobbiamo aiutare e sostenere la gente che è stanca; fare dei programmi per i giovani. Speriamo di riuscire a portarli a termine..... ma con la guerra che continua, è veramente difficile.
Yemen: azione su vasta scala contro i ribelli sciiti Houti
Nello Yemen si intensificano i raid aerei della coalizione araba, a guida saudita sulla capitale Sanaa. Secondo gli osservatori sarebbe imminente un’azione su vasta scala per cacciare definitivamente i ribelli sciiti Houti, visto che anche il Qatar ha confermato l’invio nell’area di propri soldati. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Eleonora Ardemagni, analista geopolitica e collaboratrice dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale):
R. – Le milizie yemenite e i reparti dell’esercito fedeli al presidente Hadi in questa settimana stanno riguadagnando territorio a discapito dei miliziani sciiti, degli Houthi e delle forze fedeli all’ex presidente Saleh. Quindi la coalizione sostenuta dall’Arabia Saudita cerca di sfruttare questo momento favorevole che arriva dopo mesi di stallo. Il tentativo è quello di giocare, purtroppo, questa battaglia che comporta tante perdite umane nella capitale Sanaa, che ancora oggi è sotto il controllo dei miliziani sciiti.
D. - Come valutare il crescente coinvolgimento da parte del Qatar?
R. - Tutte le monarchie del Golfo si stanno impegnando militarmente in maniera considerevole. Gli Emirati Arabi Uniti in particolare hanno subito la scorsa settimana un grave attentato contro una delle loro unità impegnate in Yemen. Sono morti 45 militari emiratini, altri 10 dell’Arabia Saudita e 5 del Bahrein. C’è da dire che le monarchie del Golfo considerano da sempre lo Yemen un territorio di sicurezza nazionale e non di politica estera. Quindi l’impegno di tutte e anche del Qatar, che ha messo a disposizione un migliaio di uomini pronti ad entrare nello Yemen al confine con l’Arabia Saudita, rientra in questa logica di sicurezza nazionale.
D. - Siamo davvero alla stretta finale contro gli Houthi?
R. - Penso che in realtà il conflitto sia purtroppo destinato a durare a lungo: è un conflitto a bassa intensità e ci sono bombardamenti, ma c’è soprattutto una moltitudine di milizie sul campo che combattono contro gli Houthi e contro i reparti ancora fedeli all’ex presidente Saleh. Ma dobbiamo ricordare che queste milizie, prevalentemente sunnite, non sono tutte favorevoli ad un ritorno del presidente Hadi, ancora in carica, in quanto sono motivate da agende politiche diverse. Ci sono poi secessionisti meridionali, tribù sunnite ostili ad Hadi e ci sono anche qaedisti. E questo è preoccupante in un Paese dove la presenza jihadista è forte e radicata da anni.
D. - Quali scenari si aprono anche alla luce del comportamento e degli interessi degli altri attori regionali?
R. - L’Iran sostiene gli Houthi ma dobbiamo dire che loro perseguono un’agenda politica locale, a differenza per esempio degli hezbollah libanesi che sono sempre più impegnati fuori dai confini del Libano. Inoltre, l’Iran, in questo momento, a livello di sostegno a gruppi transnazionali e di coinvolgimento militare diretto è già sovraesposto in Siria - che è il campo di battaglia principale - ed in Iraq contro il sedicente Califfato. Per cui penso che l’impegno dell’Iran in Yemen in questa fase sia soltanto come un’azione di disturbo orientata contro gli interessi sauditi.
Mons. Nosiglia: ogni parrocchia di Torino ospiti 5 profughi
“Chiedo alla Caritas, alla San Vincenzo e alle altre realtà che operano nel sociale di ospitare 5 profughi, presso le parrocchie, gli istituti religiosi, le case di risposo, e altre strutture ecclesiali presenti sul territorio". E’ l’appello lanciato a fine agosto dall’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, a cui hanno fatto eco le parole del Papa nell’Angelus di domenica scorsa sull’ accoglienza agli immigrati. E proprio in questi giorni nel capoluogo piemontese, si sta attivando un piano d’azione perché questo richiamo diventi una realtà concreta. Marina Tomarro ha intervistato Sergio Durando, direttore dell’ Ufficio della Pastorale dei Migranti di Torino:
R. – L’appello che ha fatto il vescovo della città va alle comunità pastorali che sono raggruppamenti di parrocchie con l’idea che questi mettano insieme e avviino un’esperienza di accoglienza. Il vescovo di Torino ha ragionato su cinque persone, perché Torino ha 60 unità pastorali, quindi il ragionamento è questo: 60 unità, ognuna accoglie cinque persona vuol dire accogliere 300 persone. Questa sarebbe già una risposta importante a questa emergenza umanitaria. In seconda istanza questo permette anche di distribuire maggiormente sul territorio le persone e non avere concentrazione in grandi strutture, di non aver solo alcuni grandi enti che si occupano dell’accoglienza di grandi numeri, ma un’accoglienza di tante comunità cristiane che si attivano. Questa proposta non è stata pensata solo per le parrocchie ma rivolta anche alle famiglie, alle congregazioni religiose, alle associazioni, ai movimenti laicali, … Quindi in questo momento stiamo organizzando tutte le risposte, le segnalazioni, le disponibilità che arrivano.
D. - Quando partirà questo progetto?
R. - Questa e la prossima settimana raccoglieremo tutte le disponibilità che stanno arrivando e subito dopo intendiamo partire. Chiaramente le disponibilità che arrivano in qualche situazione riguardano un alloggio, a volte due; molte famiglie mettono a disposizione una camera dicendo di poter accogliere una persona, … Ma la cosa bella è in alcuni casi abbiamo anche questa esperienza bella di famiglie che si incontrano, decidono insieme, parlano della situazione che stanno vivendo oggi milioni di persone che scappano.
R. – Quanto è importante la conoscenza l’accoglienza e la conoscenza del prossimo?
R. – Credo che sia molto importante. Forse tante esperienze di questo tipo sul territorio possono diventare anche narrazione di una storia dove la solidarietà può essere fatta di concretezza, dove l’incontro può essere arricchente - già lo stiamo sperimentando -; abbiamo delle esperienze dove la conoscenza diventa un’opportunità di crescita davvero importante per le persone. Questo è quello che si sta avverando. Se si supera in qualche modo la paura, se ci si incontra forse si riscopre che la conoscenza crea un’occasione importante.
Il record di Elisabetta II: regna da 63 anni e 216 giorni
La regina Elisabetta II è ufficialmente la sovrana più longeva della storia britannica: il record, finora detenuto dalla sua trisnonna Vittoria, sarà battuto oggi, mercoledì 9 settembre, alle 17.30. Nel corso del suo lunghissimo regno ha finora incontrato quattro Papi: l’ultimo incontro – in ordine cronologico – quello con Francesco il 4 aprile 2014 in Vaticano. Il servizio di Roberta Barbi:
63 anni e 216 giorni: è così lungo – fino ad oggi – il regno di Elisabetta II, che ha superato il primato segnato dalla regina Vittoria il 23 settembre 1896. Per brevità tutti la indicano come la regina d’Inghilterra, ma per dovere di cronaca, Elisabetta II è regina anche del Canada, dell’Australia e della Nuova Zelanda, nonché di altri 12 regni, dalle Isole Salomone nel Pacifico alla Giamaica nei Caraibi. È anche a capo del Commonwealth delle nazioni, l’associazione di 53 Stati indipendenti anticamente membri dell’Impero britannico e governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra.
Il suo primo contatto con un Pontefice fu con Pio XII nel 1951, a pochi mesi dalla sua incoronazione, ma il primo Papa che incontrò ufficialmente fu Giovanni XXIII, che la accolse in Vaticano il 5 maggio 1961. In quell’occasione il "Papa buono" sottolineò il prezioso contributo della Gran Bretagna al mantenimento della pace nel mondo e rivolse un pensiero particolare “ai tanti figli della Chiesa cattolica” che nei vasti territori del Commonwealth contribuivano a fare la loro parte per il proprio Paese. A proposito di figli, il Pontefice chiese alla sovrana come si chiamavano i suoi, perché “i nomi dei figli pronunciati da una madre hanno tutto un altro suono”.
Il 17 ottobre 1980 tornò in Vaticano per incontrare Giovanni Paolo II, che in quell’occasione auspicò che la Gran Bretagna affrontasse “la grande sfida spirituale” del tempo: fondare la pace sui valori dello spirito che definiscono anche il modo corretto di usare i beni materiali. Due anni dopo fu il Papa a essere ricevuto in Gran Bretagna, il primo a compiere un viaggio apostolico nel Regno Unito. Nel 2000 Elisabetta II e Giovanni Paolo II si ritrovarono nuovamente in Vaticano nel corso dell’Anno giubilare e durante questo incontro il Papa espresse apprezzamento per l’impegno britannico nella cancellazione del debito dei Paesi poveri.
Benedetto XVI è stato accolto dalla sovrana nel Palazzo reale di Edimburgo il 16 settembre 2010; durante quell’incontro evocò “le profonde radici cristiane tuttora presenti in ogni strato della vita britannica”, riflettendo sul pericolo dell’esclusione di Dio dalla società e sul rispetto dei valori tradizionali che il secolarismo imperante non tollera più. Il 4 aprile dello scorso anno Elisabetta II torna nello studio dell’Aula Paolo VI accolta da Papa Francesco: un colloquio cordiale durato una ventina di minuti e accompagnato da uno scambio di doni, tra cui un mappamondo d’argento che il Pontefice ha donato al principe George, che di lì a poco avrebbe compiuto un anno.
Ue: riconoscere unioni gay. Gambino: anticostituzionale
Il Parlamento Europeo ha chiesto con una risoluzione a nove Stati membri, tra cui l'Italia, di "considerare la possibilità di offrire" alle coppie gay istituzioni giuridiche come le unioni di fatto registrate e il matrimonio. Un pronunciamento non vincolante ma che ha suscitato un vivace dibattito. Ma cosa rappresentano queste risoluzioni dell'Europarlamento? Risponde il giurista Alberto Gambino, al microfono di Alessandro Guarasci:
R. – Per il Parlamento europeo rappresentano un volontà politica e di grande sintesi: quindi un atto politico rilevante. Ovviamente non vincolante, perché questi documenti del Parlamento Europeo invitano gli Stati a legiferare, ma non possono obbligarli, tanto più che la materia del matrimonio e della famiglia è sottratta alle competenze dell’Unione Europea.
D. – Rischiamo che questo pronunciamento in qualche modo influenzi l’opinione pubblica europea?
R. – Il richiamo al “matrimonio”, l’uso di questa espressione con riferimento alle unioni tra persone dello stesso sesso, disattende il percorso costituzionale italiano che – viceversa – esclude che di matrimonio si possa parlare quando due persone dello stesso sesso si incontrano e vogliono convivere. Non si può utilizzare l’istituzione del matrimonio, che è nata per persone di sesso diverso.
Mortalità infantile in calo del 53%: Unicef presenta nuovi dati
I tassi di mortalità annuali dei bambini sotto i 5 anni sono crollati a meno della metà di quelli registrati nel 1990: si è passati da oltre 12 milioni nel 1990 a 5,9 milioni nel 2015. È quanto emerge dai nuovi dati presentati oggi dal Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, Banca Mondiale e Dipartimento di economia e affari economici delle Nazioni Unite. Nonostante gli importanti progressi, il mondo non ha raggiunto l’Obiettivo di sviluppo del millennio di ridurre di due terzi il numero di morti infantili sotto i 5 anni. Maria Caterina Bombarda ha intervistato Giacomo Guerrera, presidente dell'Unicef-Italia:
R. - Sì, indubbiamente è un successo per la comunità internazionale, per la comunità mondiale, che la mortalità infantile abbia un trend in discesa perché siamo passati da 12.7 milioni di bambini che morivano all’anno nel 1990 e siamo oggi a 5.9 milioni. Per carità, è una cifra assurda, terribile. Quello che è importante è che sia sceso questo trend, che dimostra fra l’altro che quando la comunità mondiale si impegna a migliorare le condizioni di vita presso questi Paesi, con scelte serie, i successi ci sono. Noi non continuiamo a dire agli italiani: aiutateci ad aiutare questi bambini qui da noi ma anche nei Paesi di origine, perché è solo così che può migliorare la loro condizione. Quando diciamo di diminuire la mortalità infantile è un modo di aiutare queste persone a vivere nei loro Paesi.
D. - Sebbene progressi importanti, significativi, il 45% dei decessi sotto i 5 anni avviene nel periodo neonatale, quali sono quindi le cause principali della morte prematura?
R. - In questo periodo la morte avviene per situazioni veramente poco costose che si possono aggredire con un costo quasi insignificante ma che danno il massimo dei risultati. In questo periodo i bambini muoiono per che cosa? Muoiono innanzitutto per le complicazioni alla nascita, quello che avviene, quindi c’è una carenza di assistenza. Ma sicuramente muoiono perché l’allattamento al seno ancora non è diffuso come dovrebbe esserlo e poi le vaccinazioni sono altrettanto importanti... Se noi riuscissimo a rilanciare questi impegni, sicuramente potremmo ottenere dei risultati.
D. - Quali sono i Paesi dove gli obiettivi sono stati raggiunti maggiormente e dove ancora c’è bisogno di operare?
R. - Nonostante i bassi redditi dobbiamo dire che sicuramente tutta una serie di Paesi sono riusciti ad ottenere successi sulla mortalità infantile. Ciò che invece purtroppo ancora ha un ritardo, ma proprio perché ancora le condizioni di vita non sono adeguate, è la fascia subsahariana dove purtroppo la mortalità infantile non è diminuita.
D. - Quali sono le Campagne per la riduzione della mortalità infantile che Unicef promuove e quali soluzioni per raggiungere l’obiettivo di sviluppo del millennio?
R. - La metà di queste morti avvengono nei primi 28 giorni di vita. Questo fatto ci porta a dover concentrare il nostro impegno in questi primi momenti di vita perché è inevitabile che se noi riuscissimo ad abbattere questo numero - e lo si può fare perché i costi sono veramente irrisori - il resto, naturalmente, lo dovremmo concentrare su quello che è tutto il sistema di prevenzione che presenta dei costi: le vaccinazioni costano, mantenere la catena del freddo ha un costo, cioè i costi ci sono per trasferire e soprattutto per somministrare ovunque le vaccinazioni. Sono questi gli interventi ai quali noi facciamo molto riferimento.
Convegno ecumenico di Bose su "Misericordia e perdono"
Fin dal settembre dello scorso anno, la Comunità monastica di Bose aveva deciso di dedicare al tema "Misericordia e perdono" il XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di Spiritualità Ortodossa, che si apre oggi presso il monastero piemontese e prosegue fino al 12 settembre. Papa Francesco, nel suo messaggio augurale ai convegnisti, pervenuto tramite il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, ricorda che “la misericordia è la grande luce di amore e tenerezza di Dio che porta in sé il perdono”. Tra i relatori rappresentanti di tutte le Chiese ortodosse, della Chiesa cattolica, della Chiesa d’Inghilterra e delle Chiese della Riforma, biblisti, patrologi e teologi. Al microfono di Fabio Colagrande, ascoltiamo Enzo Bianchi, Priore di Bose.
R. – Crediamo che la misericordia sia davvero il dono più grande e indispensabile: l’unica cosa che è veramente necessaria agli uomini, ai cristiani e alla Chiesa. E quindi abbiamo voluto che questa misericordia non restasse semplicemente qualcosa che meditano i cattolici, ma fosse aperta alle altre confessioni, in modo che ci sia davvero una meditazione su questo tema – una ricerca – anche tra gli ortodossi e i protestanti. Ed è per questo che c’è già stato un incontro con le Chiese della Riforma, mentre questo sarà essenzialmente con le Chiese ortodosse: una quarantina di vescovi ortodossi saranno presenti. E l’impegno che abbiamo chiesto è che poi questo tema si allarghi all’interno delle Chiese, e non resti solo il tema di un convegno ecumenico.
D. – Quale dimensione del perdono cristiano può essere riscoperta attraverso lo studio della scrittura, degli scritti dei Padri, della tradizione monastica?
R. – Soprattutto la dimensione che la misericordia non ha confini, che il “settanta volte sette” che ha chiesto Gesù è qualcosa da applicarsi sempre: la Chiesa stessa non sempre è riuscita ad essere all’altezza di questa infinita misericordia di Dio annunciata in Gesù. E questo credo che sia importante: non c’è passato sul quale non vinca la misericordia di Dio, e questo dobbiamo assolutamente impararlo. E poi in questo momento è importante leggere anche l’espressione evangelica: fare misericordia come un aiuto concreto – quotidiano – verso chi soffre, chi è ultimo, chi è vittima e chi è povero. Queste due dimensioni tolgono l’individualismo a questa virtù, e la rendono una virtù nella storia concreta: questo è davvero necessario per noi e per tutte le Chiese.
D. – Verrà esaminato durante il convegno anche il tema del perdono tra le Chiese: le Chiese ortodosse e la Chiesa di Roma…
R. – La Chiesa cattolica già dal 2000 si è messa su questo cammino con la Liturgia del Perdono fatta da San Giovanni Paolo II, perdono che poi lui ha chiesto in varie occasioni; perdono che aveva già chiesto Papa Paolo VI; perdono che la Chiesa continua a chiedere anche recentemente, come ha fatto Papa Francesco ai valdesi. Si attenderebbe anche, ma senza pretesa – in piena umiltà – che anche le altre Chiese chiedessero perdono reciprocamente, perché il perdono deve essere dato da una sola parte, perché il Vangelo ci chiede la gratuità e non vuole che ci sia il contraccambio. Però, ogni Chiesa deve applicare a sé questa responsabilità del perdono, e noi avremmo bisogno che alcune di queste, certamente ferite, avessero anche loro la forza di chiedere perdono, perché anche loro sovente hanno commesso il male o hanno difeso la verità con metodi non evangelici. Quindi non ci sono delle Chiese colpevoli e delle altre solo vittime: sovente anche quelle che sono state vittime poi hanno praticato la vendetta - la rivalsa - o su altri hanno esercitato violenza. Il perdono deve essere davvero reciproco, di tutti i figli di Dio: un perdono al Signore, un perdono reciproco tra noi che ancora viviamo come Chiesa militante sulla terra.
Mostra Cinema di Venezia: toccante documentario sulle Guardie Svizzere
La Santa Sede oggi per la prima volta rappresentata alla Mostra del Cinema di Venezia con un toccante documentario, "L'esercito più piccolo del mondo" sulla Guardia Svizzera Pontificia, diretto da Gianfranco Pannone e prodotto dal Centro Televisivo Vaticano. Il servizio di Luca Pellegrini:
I saluti alla famiglia, il volo per Roma, l'arrivo al Portone di Sant'Anna, l'ingresso nella Città del Vaticano e la presa di coscienza che un servizio al Santo Padre e alla Chiesa, di altissimo livello, di storica tradizione e di grande responsabilità, è iniziato. Così accade fin dal XVI secolo, così accade per i protagonisti del bel film di Gianfranco Pannone che porta alla Mostra del Cinema le immagini, fino ad oggi sconosciute, della vita quotidiana, dell'addestramento e dell'impegno di alcune giovani Guardie svizzere: la loro giornata, la loro vita di ragazzi, la loro dimensione di fede, l'emozione di servire Papa Francesco. Il sergente Urs Breitenmoser, spiega il significato di questa produzione cinematografica per il Corpo cui appartiene da 17 anni:
R. – Per il Corpo sicuramente è una bella possibilità per presentare la Guardia com’è veramente; dunque, il fatto di guardare dietro le quinte di un’istituzione così antica ma nello stesso tempo così moderna. La parte del servizio, invece, è molto complicata perché noi siamo qui in Vaticano, chiamati per prestare servizio e tutte le riprese sono state fatte nel tempo libero: quindi abbiamo dovuto anche provvedere all’incastro dei turni, che tutto funzionasse alla perfezione. Io personalmente sono stato chiamato a preparare il programma insieme al regista anche per considerare le sue esigenze e capire di cosa avesse esattamente bisogno. Una sfida per me, penso anche per il regista, per Gianfranco stesso, per vedere come funzioniamo all’interno del nostro Corpo.
D. – René è il protagonista del film, insieme ai suoi colleghi d’arma. Quali sono stati i suoi primi pensieri quando gli è stato chiesto di essere uno dei protagonisti del film di Gianfranco Pannone?
R. – Also … ich habe mir nicht allzu viele Gedanken gemacht … Die Schweizergarde an sich …
Bè … non mi sono posto molte domande … Già il fatto stesso di entrare a far parte della Guardia Svizzera è un’esperienza grande e un grande cambiamento di vita: partendo dalla quotidianità della vita dello studente, nella quale mi trovavo, e prendere la decisione di entrare nella Guardia Svizzera, ecco, già questo è un grande passo e una grande esperienza. Il fatto poi di essere “seguito” da una telecamera, in tutto questo percorso … non mi sono posto grandi domande ... Adesso, a cose fatte, guadando il risultato strepitoso, questo film bellissimo, ricordo i bei momenti di lavoro con Gianfranco, con il cameramen … Naturalmente, è stata una bella esperienza e anche un bell’approccio alla vita nelle Guardie Svizzere a Roma.
D. – Si è ragazzi e si è Guardie Svizzere: come un ragazzo che oggi fa la Guardia Svizzera riesce ad equilibrare queste due dimensioni?
R. – Als ich hierher nach Rom kam, war das eigentlich so die erste …
Quanto sono arrivato a Roma, questa è stata la prima cosa che mi ha colpito. Io sono un po’ più grande dei miei colleghi, ho 27 anni, ho già fatto qualche esperienza e girato un po’ il mondo; ma poi vedere qui come tanti colleghi, che hanno 7-8 anni meno di me, che arrivano qui che sono ancora ragazzini e assumono questo servizio importante nella Chiesa e per la Chiesa, si impegnano per esso con tanta disciplina … che bella esperienza è stata, questa! E poi, so che in Svizzera sembra ci siano molti giovani ancora che riescono a entusiasmarsi per qualcosa: che "non fanno solo scena", ma che vivono questa esperienza con grande motivazione. E questa è stata per me una bella sorpresa!
D. – Dopo l’esperienza di servizio nella Guardia Svizzera pontificia, dopo l’esperienza di essere stato protagonista di un film sulla Guardia Svizzera, che cosa rimarrà, René, come esperienza nella tua vita?
R. – Ich denke, dass mich diese Erfahrung, in der Nähe von Papst Franziskus Dienst leisten zu dürfen, …
Credo che questa esperienza di poter rendere servizio in prossimità di Papa Francesco mi avrà forgiato. Essere vicino a lui e osservare come egli rende il suo servizio alla Chiesa, con quale semplicità e determinazione, con quanta energia lo fa … credo che questo lascerà l’impronta su di me, quando affronterò lo studio della teologia: sicuramente sarà così! Ho anche già qualche idea sullo svolgimento della mia tesi di laurea, sulle sue Encicliche … Penso che porterò con me tanto di questa esperienza: penso semplicemente che tutto quello che Papa Francesco sta facendo in questi anni, lo porterò con me quando tornerò in Svizzera e affronterò lo studio della teologia.
Che cosa ha significato per il Centro televisivo Vaticano produrre questo film oggi portato alla Mostra del Cinema? Lo abbiamo chiesto a Stefano D'Agostini:
R. – Intanto, il Centro televisivo vaticano ha prodotto negli anni diversi documentari storici e artistici; in questa occasione abbiamo seguito un intuito: avevamo capito subito che poteva essere una produzione di cui potevamo occuparci quasi esclusivamente noi. Un po’ per il discorso di delicatezza, di discrezione che è un termine che è ricorso spesso durante le varie riunioni di produzione; e un po’ per una ricerca di crescita delle nostre professionalità, lavorando in un ambiente cinematografico, quindi con un set cinematografico ma un po’ particolare: appunto, discreto e delicato.
D. – Potrà essere un percorso che intraprende, da questo film sulle Guardie Svizzere in poi?
R. – Direi assolutamente sì: dal 2013, con l’arrivo come direttore di mons. Dario Edoardo Viganò, si è dato proprio un nuovo impulso a questa vena documentaristica, e si sta proseguendo: la prossima settimana inizieranno le riprese di un documentario sulle quattro Basiliche papali, in coproduzione con Sky 3D, e ci sono tanti altri progetti.
Cuba: festeggiata la Vergine della Carità, in attesa del Papa
“Ogni anno la festa della Vergine della Carità del Cobre ci riempie di gioia e di speranza, perché ci ricorda la sua presenza amorevole a Cuba da più di 400 anni. E poi, una cosa molto importante: il prossimo anno 2016 sarà il centenario della Dichiarazione della Vergine della Carità del Cobre come patrona di Cuba, quindi preghiamo la Vergine perché il Papa Francesco chieda per noi che l'8 settembre sia giorno festivo". Così è scritto nel messaggio di mons. Domingo Oropesa Lorente, vescovo di Cienfuegos, per la festa liturgica della Natività della Vergine Maria, 8 settembre, giorno in cui a Cuba viene celebrata “La Virgen de la Caridad del Cobre”, patrona di Cuba.
L'attesa per la visita di Papa Francesco
Nel testo del vescovo, dopo aver ringraziato la principale radio locale della diocesi attraverso cui il messaggio ha potuto raggiungere migliaia di cubani, mons. Domingo Oropesa - riporta l'agenzia Fides - invita a riflettere sulla figura della Vergine e sull'importanza della prossima visita di Papa Francesco. "Il rapporto, il modo in cui ci rivolgiamo a Lei, l'amicizia con la Vergine, ci fa crescere, ci ricostruisce e ci rende migliori. Se per ogni bambino la figura di una madre, di una buona madre, lo sostiene e lo fa crescere con amore, figuriamoci quanto può fare l'amore della Virgen de la Caridad de El Cobre" afferma mons. Oropesa.
Una serie di attività della Chiesa culminerà con la visita del Papa
Con la festa de “La Virgen de la Caridad del Cobre” in tutta Cuba sono iniziate una serie di attività che si concluderanno con la visita del Santo Padre. Ieri si sono anche conclusi i lavori di ristrutturazione della basilica de El Cobre, dove il Papa celebrerà la Messa il 22 settembre, nello stesso luogo dove si recò Benedetto XVI nella visita del 2012. (C.E.)
Colombia: cultura dell'incontro per la settimana per la pace
È la cultura dell’incontro il tema portante della “Settimana per la pace” in corso in Colombia fino a domenica prossima, 13 settembre. Giunta alla 28.ma edizione, l’iniziativa è promossa dalla Conferenza episcopale locale (Cec) con l’obiettivo – si legge sul sito della Cec – di “ricordare gli atteggiamenti e le esperienze che, nella sequela di Gesù, ci permettono di costruire il sacro dono della pace”. Ed è proprio “in questa dinamica – sottolineano i vescovi – che risalta l’importanza dell’incontro: con il Padre, con gli altri, con se stessi, affinché attraverso di esso si possa comprendere il percorso necessario alla costruzione di un mondo migliore e pacifico”.
“Io saluto”, motto dell’iniziativa
Come motto della Settimana è stata scelta la frase “Io saluto” perché – spiegano i presuli colombiani – “indubbiamente il saluto crea le condizioni necessarie per esprimere quei sentimenti che permettono l’incontro”. Il saluto, infatti, “è di per sé un gesto di pace”; tuttavia “con il passare del tempo, esso si è trasformato in un gesto meccanico ed ha perso il valore dell’incontro con l’altro, con colui che guardiamo negli occhi per esprimergli il nostro desiderio di pace e bene”.
Guardare all’altro senza pregiudizi
“Il saluto ha una forza profonda – continua la Cec – perché è in grado di placare le tensioni ed apre alla possibilità di dialogare”, “unisce l’atteggiamento spirituale alla comunicazione ed alla vicinanza” ed oggi “la Colombia necessita di atteggiamenti, gesti ed espressioni che rendano possibile l’incontro tra coloro che si vedono reciprocamente come nemici”. Non solo: i vescovi di Bogotà ricordano che “il saluto permette di scoprire l’essere umano che c’è in ogni persona al di là dei pregiudizi” e “dell’immagine che ci siamo costruiti su coloro che riteniamo avversari”.
La pace inizia in famiglia e nelle comunità
“Per abbattere i muri di separazione e costruire una nuova società – è dunque il monito dei vescovi – bisogna salutare per la pace e nella pace” perché essa si costruisce “con i gesti quotidiani”, a partire dal saluto che si porge “in ogni famiglia, in ogni comunità, in tutto il Paese”. (A cura di Isabella Piro)
India: vittime cristiane di Orissa incontrano il presidente
Un appello diretto al Capo dello Stato, Pranab Mukherjee, per cercare la giustizia finora negata per i cristiani vittime nell'agosto 2008 delle peggiori violenze settarie dell'India indipendente. L'iniziativa, lunedì scorso, della delegazione del Comitato per la pace e la riconciliazione nel Kandhamal ha voluto evidenziare le mancanze dello Stato di Orissa e quelle del governo centrale nel fornire giustizia e indennizzi ai sopravvissuti e in generale alla sparsa comunità cristiana di origine tribale e fuoricasta, in parte da allora costretta a vivere fuori dalle aree originarie. Allora - riferisce l'agenzia Misna - furono 90 i morti, per gli attivisti cristiani, 38 per il governo; 56.000 gli sfollati tra devastazioni e violenze di ogni genere per le quali le indagini finora condotte hanno trovato pochi responsabili e ancor meno condanne.
Lo Stato di Orissa non ha fatto giustizia delle vittime cristiane
“La giustizia ci ha deluso – ha segnalato padre Ajay Singh, esponenti di spicco del comitato dopo l'incontro con Mukherjee -. Dopo avere bussato a ogni porta dello Stato, non abbiamo trovato qualcuno intenzionato a muoversi per assicurare giustizia alle vittime del Kandhamal”. Il distretto del Kandhamal, all'interno dello Stato orientale di Orissa, fu quello più colpito dalla persecuzione portata in modo organizzato da elementi e gruppi in parte esterni allo stesso distretto e anche allo Stato in quello che a molti è sembrato un tentativo di pogrom organizzato per interessi di potere e economici, ma eseguito da estremisti religiosi indù.
Intimidazioni per testimoni, avvocati e attivisti delle vittime
Secondo il comitato, su 3.232 denunce registrate dopo le violenze, solo 827 sono state accolte dalla polizia e di queste 273 sono state successivamente rigettare per presunte mancanza di testimoni o di prove. Le indagini per i restanti sono state profondamente segnate da intimidazioni verso testimoni, avvocati delle vittime e attivisti. Al punto che finora soltanto 33 casi sono arrivati a giudizio con un'assoluzione per la maggioranza e la libertà su cauzione per i pochi giudicati per omicidio. (C.O.)
Mozambico: Nyusi riconosce ruolo della Chiesa nella riconciliazione
“La Chiesa cattolica ha sempre invitato la società mozambicana ad apprezzare tutte le persone, in particolare coloro che sono più vulnerabili e nel bisogno” ha riconosciuto il Presidente del Mozambico, Filipe Jacinto Nyusi, durante il suo intervento in occasione della Messa celebrata nella cattedrale di Tete lunedì 7 settembre, anniversario dell’indipendenza nazionale dal Portogallo. Secondo le informazioni pervenute a Fides, il Presidente ha espresso apprezzamento per il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel preservare la pace e per i suoi sforzi per la riconciliazione nazionale.
L'ultimo conflitto civile risolto con l'intervento della Chiesa
Il 7 settembre 1974 veniva firmato a Lusaka (Zambia) l’accordo tra il Frelimo (Fronte di Liberazione Nazionale del Mozambico) e il Portogallo che metteva fine alla guerra per l’indipendenza nazionale. Subito dopo, nel 1975, scoppiava la guerra civile tra il Frelimo, che aveva assunto il governo del Paese, e la Renamo (Resistenza Nazionale Mozambicana), un movimento armato d’opposizione. Solo nel 1992 il conflitto civile è stato risolto con l’attiva partecipazione della Chiesa cattolica nella trattativa di pace.
L'indipendenza celebrata nel 75° dell’erezione dell’arcidiocesi di Maputo
Le celebrazioni per l’indipendenza nazionale coincidevano quest’anno con il 75esimo anniversario dell’erezione dell’arcidiocesi di Maputo, la capitale del Paese. Essendo impegnato a Tete, il Presidente Nyusi si è fatto rappresentare alle funzioni religiose nello stadio della capitale dal Primo Ministro Carlos Agostinho do Rosario. Questi ha chiesto a tutti i fedeli, e più in generale alla società, di intraprendere azioni concrete per mantenere e consolidare la pace. Riprendendo lo slogan delle celebrazioni dell’anniversario dell’arcidiocesi (“Ringraziate il Signore per le meraviglie realizzate in questi anni”), il Premier ha sottolineato che “solo una vera pace può permettere ai mozambicani di ‘fare meraviglie’ nell’avvenire”. (L.M.)
Vescovi siciliani: seminario sul fenomeno migratorio
I vescovi siciliani, i direttivi degli Uffici regionali della Conferenza episcopale siciliana (Cesi), della Commissione presbiterale regionale, della Consulta delle aggregazioni laicali e i rappresentanti della Vita consacrata sono riuniti da stamani nella Casa diocesana “Card. Pappalardo” a Baida, a Palermo, per discutere di “esodo della famiglia nel tempo della crisi” nell’ambito del seminario di studio che precede i lavori autunnali della Conferenza episcopale siciliana. Fino a domani mattina si parlerà del fenomeno migratorio che interessa i Paesi del Mediterraneo in questo tempo segnato da una profonda crisi, non confinabile negli angusti spazi del problema economico.
Un cammino di riflessione sulla famiglia
I vescovi siciliani hanno cominciato un cammino di riflessione sulla famiglia lo scorso anno, analizzando il fenomeno migratorio da un punto di vista antropologico, guardando ad un’umanità in viaggio, continuamente provocata a lasciare le certezze della condizione stanziale verso l’incerto nella speranza di un futuro migliore. Quest’anno l’obiettivo è: attivare un osservatorio comune a tutte le Chiese di Sicilia per leggere gli attuali segni dei tempi e per un processo continuo di discernimento, al fine di mobilitare la ministerialità istituita e di fatto e favorire la fraternità a tutti i livelli; accrescere il senso di corresponsabilità valorizzando particolarmente il genio femminile. I temi del seminario intendono tracciare strade da percorrere perché le Chiese di Sicilia possano essere una presenza per servire insieme.
Da domani al via ai lavori dell’Assemblea autunnale dei vescovi
A partire da domani pomeriggio e fino all’11 settembre, la Conferenza episcopale siciliana sarà impegnata nell’Assemblea autunnale. Tra gli argomenti all’ordine del giorno gli Istituti pubblici di assistenza e beneficenza (Ipab) e la bozza del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cremazione e la conservazione delle ceneri dei defunti. (T.C.)
Kenya: convegno internazionale su vita consacrata in Africa
“La vita consacrata in Africa ieri, oggi e domani”. Su questo tema si svolgerà dal 22 al 26 settembre a Nairobi, in Kenya, un convegno internazionale organizzato in occasione del corrente anno per la vita consacrata. L’evento, articolato in tre parti, è promosso dalla Commissione per il clero e i religiosi della Conferenza episcopale del Kenya (Kccb), insieme al Tangaza University College della capitale kenyana, all’Associazione degli istituti religiosi femminili del Kenya (Aosk) e alla Conferenza dei Superiori del Paese (Rsck).
Ospite d’onore del convegno il card. Bráz de Aviz
La prima giornata – riferisce l’agenzia Canaa - sarà aperta da una celebrazione eucaristica presieduta dal card. João Bráz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, presso il Subiaco Center for Spirituality di Karen, alla periferia di Nairobi. Il capo del dicastero vaticano incontrerà poi i vescovi e i superiori maggiori del Kenya presso il Dimesse Spirituality Centre di Karen.
Dal 23 al 25 settembre tre giorni di dibattiti al Cuea
Il convegno entrerà quindi nel vivo nelle giornate dal 23 al 25 settembre, quando l’evento si sposterà all’Università cattolica dell’Africa orientale” (Cuea). All’intervento introduttivo del cardinale Braz d’Aviz, seguiranno tre giorni di relazioni e forum di discussione. Tra i temi affrontati dalle sessioni: “Vivere i consigli evangelici in Africa”; “La maturità carismatica: una sfida costante per la vita consacrata in Africa; “Fare formazione in Africa Orientale: contesti, sforzi e possibilità”; “I rapporti tra vescovi e religiosi” e “Il carattere profetico della vita consacrata”. A fare da sfondo ai dibattiti saranno un’analisi sulla situazione della vita consacrata nel Continente e un rapporto sulla protezione dei minori e degli adulti vulnerabili in Kenya.
L’ultima giornata ospitata dal Tangaza University College
L’ultima giornata del convegno sarà ospitata dal Tangaza University College e inizierà con un incontro di preghiera per commemorare i religiosi santi e martiri in Kenya per concludersi con una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Bráz de Aviz. (A cura di Lisa Zengarini)
Pellegrinaggio del corpo di S. Maria Goretti negli Usa
Si chiama “pellegrinaggio della misericordia” quello che inizia il 14 settembre e durerà fino a metà novembre e che vedrà il corpo di Santa Maria Goretti per la prima volta negli Stati Uniti. Da settembre, in coincidenza con la visita del Santo Padre, fino a novembre le reliquie della Santa visiteranno parrocchie, cattedrali e prigioni compreso un braccio della morte.
Un pellegrinaggio in molti Stati
La richiesta al santuario e partita da vescovi e cardinali di Pennsylvania, New Jersey, New York, New Hampshire, Massachussets, Connecticut, Michigan, Illinoís, Wisconsin, Missouri, Indiana, Ohio, Virginia, North Carolina, Georgia, Florida, Louisiana, Texas, Oklahoma. Praticamente buona parte degli Stati Uniti che vedono nel messaggio di perdono e di riconciliazione che la "Santa Bambina" ripropone al mondo attuale soprattutto in attesa del Giubileo della Misericordia voluto da Francesco. E' la seconda volta che il corpo della Santa lascia l'Italia dopo la visita fatta in Canada nel 2012.
Il perdono, culmine di un cammino di santità
Santa Maria Goretti canonizzata nel 1950 da Pio X11 è conosciuta da tutto il mondo cattolico e non solo. Al santuario di Nettuno infatti, arrivano pellegrini da tutti continenti. Il suo perdono ad Alessandro Serenelli ha permesso al suo uccisore di redimersi e rinascere come una creatura nuova. Il suo richiamo al rispetto della dignità della donna insieme alla vita di preghiera e ai valori incarnati dalla famiglia cristiana sono i punti cardini del suo cammino di santità.
La famiglia della Santa ha stretti legami con gli Usa
Ben 3 fratelli emigrarono oltreoceano ed oggi i Goretti vivono nel nord-est degli Stati Uniti. Tra le tappe più significative del “pellegrinaggio della misericordia”, ricordiamo quello di Philadelphia in coincidenza con il Meeting delle Famiglie (24-25 sett.), quello di New York nella cattedrale di S.Patrizio, poi la Holy Cross a Boston ed altre 25 diocesi cattoliche tra le quali Detroit, Chicago, Atlanta, Houston e Oklahoma City. (A cura di Padre Giovanni Alberti)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 252