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Sommario del 07/09/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: cristiani perseguitati oggi nel silenzio complice delle potenze

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Oggi tanti cristiani continuano ad essere perseguitati, nel silenzio complice di tante potenze: è quanto ha detto il Papa durante la Messa del mattino a Casa Santa Marta. Era presente il nuovo Patriarca di Cilicia degli Armeni, Gregorio Pietro XX Ghabroyan, cui Papa Francesco aveva concesso la Comunione ecclesiastica con una lettera del 25 luglio scorso e che ha concelebrato insieme al Pontefice compiendo il rito dello scambio delle Sacre Specie, a conferma della radice eucaristica della comunione tra il Vescovo di Roma, che presiede nella carità, e la Chiesa Patriarcale di Cilicia degli Armeni. Tra i concelebranti anche il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, e tutti i vescovi membri del Sinodo della Chiesa Patriarcale Armeno Cattolica. Il servizio di Sergio Centofanti

Scribi e farisei sono fuori di sé dalla collera perché Gesù ha compiuto un miracolo di sabato e discutono su come ucciderlo. Prendendo spunto dal Vangelo del giorno, Papa Francesco parla delle persecuzioni che subiscono i cristiani, ancora oggi “forse più che nei primi tempi”: sono “perseguitati, uccisi, cacciati via, spogliati solo per essere cristiani”:

“Cari fratelli e sorelle, non c’è cristianesimo senza persecuzione! Ricordatevi l’ultima delle Beatitudini: quando vi porteranno nelle sinagoghe, vi perseguiteranno, vi insulteranno, questo è il destino del cristiano. E oggi, davanti a questo fatto che accade nel mondo, col silenzio complice di tante potenze che potevano fermarlo, siamo davanti a questo destino cristiano. Andare sulla stessa strada di Gesù”.

Il Papa ricorda “una delle tante grandi persecuzioni, quella del popolo armeno”:

“La prima nazione che si è convertita al cristianesimo: la prima. Perseguitata soltanto per il fatto di essere cristiani. Noi oggi, sui giornali, sentiamo orrore per quello che fanno alcuni gruppi terroristici, che sgozzano la gente solo per essere cristiani… Pensiamo a questi martiri egiziani, ultimamente, sulle coste libiche, che sono stati sgozzati mentre pronunciavano il nome di Gesù”.

“E il popolo armeno – ha proseguito - è stato perseguitato, cacciato via dalla sua patria, senza aiuto, nel deserto”. Questa storia – ha osservato – è cominciata con Gesù: quello che hanno fatto “con Gesù, durante la storia è stato fatto con il suo Corpo, che è la Chiesa. Oggi – ha detto Papa Francesco - vorrei, in questo giorno della nostra prima Eucaristia, come fratelli vescovi, a te, caro fratello Patriarca e a tutti voi vescovi e fedeli e sacerdoti armeni, abbracciarvi e ricordare questa persecuzione che avete sofferto e ricordare i vostri santi, tanti santi morti di fame, di freddo, nella tortura, nel deserto per essere cristiani!”.

Il Signore - è la preghiera del Papa – “ci dia una piena intelligenza per conoscere” il “Mistero di Dio che è in Cristo” e “porta la Croce, la Croce della persecuzione, la Croce dell’odio, la Croce di quello che viene dalla collera” dei persecutori che è suscitata dal “padre del male”:

“Che il Signore, oggi, ci faccia sentire nel Corpo della Chiesa l’amore per i nostri martiri e anche la nostra vocazione martirale. Noi non sappiamo cosa accadrà qui. Non lo sappiamo! Ma che il Signore ci dia la grazia, se un giorno accadesse questa persecuzione qui, del coraggio e la testimonianza che dato avuto tutti questi cristiani martiri e specialmente i cristiani del popolo armeno”. 

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Papa: dare ai giovani proposta "convincente" del Vangelo

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Per affascinare i giovani con il Vangelo, in un’epoca di diffusa indifferenza religiosa, è necessario che il Cristo del catechismo sia reso visibile dalla testimonianza di vita del catechista e della comunità che lo attornia. È uno dei pensieri centrali del lungo discorso consegnato da Papa Francesco ai vescovi del Portogallo, ricevuti in visita “ad Limina”. Il servizio di Alessandro De Carolis

Quando Cristo domandò un giorno ai suoi discepoli: “Anche voi volente andarvene?” e Pietro rispose a nome dei Dodici: “Da chi andremo? Tu solo ha parole di vita eterna”, quel giorno gli Apostoli – sottolinea a un certo punto del discorso il Papa – dimostrarono un fatto evidente: che “la proposta di Gesù li aveva convinti”. Invece molte Chiese locali del 21.mo secolo, spopolate di giovani, lo sono, obietta Francesco, perché “oggi la nostra proposta di Gesù è poco convincente”.

Conversione, comunione, missione
Quella che sviluppa il Papa è una lucida autocritica, preceduta da una serie di positive constatazioni sulla Chiesa del Portogallo: è guidata da un “episcopato fraterno”, “ascoltata” dalla “maggior parte della popolazione e delle istituzioni nazionali, anche se non sempre è seguita la sua voce”, radicata “nella preghiera e nella carità”. Una Chiesa che nel 2013 ha messo in moto un processo di rinnovamento, specie nel campo della pastorale, chiedendo ai suoi membri essenzialmente tre cose, ricordate nel suo indirizzo di saluto dal cardinale patriarca di Lisbona, Manuel Clemente: conversione, comunione e missione.

Il vestito della Prima comunione
Nell’accogliere questi fermenti “con grande soddisfazione”, Francesco tocca qualche nervo scoperto che evidenzia gli ostacoli che rallentano la realizzazione di questi propositi – anche se la portata delle sue considerazioni supera evidentemente i confini della Chiesa del Portogallo. Come cartina di tornasole sull’efficacia dei modelli pastorali, il Papa prende lo “sbandamento” che colpisce molti giovani oggi. “Chiediamoci: la gioventù lascia perché ha deciso così? O decide così perché non è interessata all'offerta ricevuta? Non è interessata all'offerta perché essa non dà risposte ai problemi e alle questioni che oggi la turbano?”. E aggiunge con un tocco di ironia: non sarà semplicemente perché i giovani hanno da tempo smesso di indossare il “vestito della Prima comunione”, mentre la comunità cristiana insiste “su cosa debbano indossare?”.

Cristo vivo nei cristiani
Certo, riconosce Francesco, “il pensiero dominante corrente, che vede l'essere umano come apprendista-creatore di se stesso e totalmente ebbro di libertà”, rende “difficile – asserisce – accettare il concetto di vocazione, nel senso più alto di una chiamata che arriva alla persona dal Creatore della sua stessa  vita”. E tuttavia, osserva, “penso che nelle guide preparate per i successivi anni di catechesi la figura e la vita di Gesù siano ben presentate”, ma “forse più difficile diventa incontrarlo nella testimonianza di vita del catechista e di tutta la comunità che lo invia e sostiene”. Se, prosegue, “la proposta è Gesù Cristo crocifisso e risorto nel catechista e nella comunità, se questo Gesù percorre il cammino con i giovani e parla al loro cuore, questo sicuramente li infiamma”.

Esperienza, non solo “cultura”
In sostanza, ribadisce il Papa, “il catechista e tutta la comunità sono invitati a passare dal modello scolare al modello catecumenale: non solo conoscenza intellettuale, ma un incontro personale con Gesù Cristo, vissuto nelle dinamiche di formazione vocazionale, secondo la quale Dio chiama e l'uomo risponde”. Non può essere, soggiunge, cha “abbiamo tanti giovani disoccupati e il Regno dei Cieli manca di operai e servitori…”.

Sentirsi a casa nella Chiesa
Più in generale, il Papa esorta i vescovi “a perseverare nell'impegno di una evangelizzazione costante e metodica”, senza perdersi d'animo per situazioni che – nota – “provocano perplessità e causano amarezza”. Ad esempio, per la “stagnazione di alcune parrocchie” e la situazione di altre “centrate e chiuse sul ‘loro’ parroco” – al quale peraltro “la scarsità di sacerdoti” impone, dice, “l’apertura a una logica di comunione più dinamica ed ecclesiale”. O per la vita di “alcuni sacerdoti che, tentati dall'attivismo pastorale, non coltivano la preghiera e la profondità spirituale, essenziale per l'evangelizzazione”. O, appunto, per il gran numero di giovani che abbandona “la pratica cristiana, dopo il Sacramento della Cresima, per il vuoto nell'offerta parrocchiale di formazione cristiana giovanile post-Cresima”. Quello che più sta a cuore al Papa è che tutto parta dalla “conversione personale e pastorale di pastori e fedeli” perché tutti possano dire con verità e gioia: ‘La Chiesa è la nostra casa’”.

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Papa, accogliere famiglie di profughi. Riccardi: non è invasione

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Di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi “che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame” il Vangelo ci chiede di essere “prossimi” dei più piccoli e abbandonati. Sono le parole del Papa, ieri all’Angelus, in cui il Pontefice ha rivolto un appello alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa affinché si accolga “una famiglia di profughi”. Un intervento “coraggioso” che “non rimarrà inascoltato”, secondo l'arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola. Le parole del Papa “incoraggiano la comunità cristiana di Roma a perseverare nel percorrere con generosità la strada dell'accoglienza e dell'ospitalità”, ha sottolineato il cardinale vicario Agostino Vallini. Ancora un “maggiore coinvolgimento di tutte le parrocchie” ha assicurato l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori. “Una buona idea, umile, realistica e molto confortante”, ha commentato in un tweet il cardinale Philippe Barbarin. arcivescovo di Lione, aggiungendo che “una famiglia in ogni parrocchia si può”. Un’esortazione a riflettere e agire, secondo Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio che in questi giorni a Tirana sta tenendo l’Incontro Internazionale delle religioni per la pace. L’intervista è della nostra inviata Francesca Sabatinelli

R. – L’Europa si deve ripensare, aprendosi ai rifugiati. Non sono così tanti, non è una invasione. E’ una realtà di cui noi abbiamo bisogno e che viene ad arricchire la nostra stessa realtà. Non abbiamo fatto mai un ragionamento su questo: abbiamo considerato sempre l’immigrazione e i rifugiati un’emergenza che “in due mesi passa”. Non c’è stata una preparazione in tal senso. Penso che ora bisogna fare veramente un ragionamento sul lungo periodo. E’ una grande occasione per ridire che cos’è l’Europa: un Continente che non vive e non può vivere per se stesso, che sta invecchiando nella paura. Abbiamo dato troppo spazio ai populismi e poco spazio alle voci vere, che sono quelle della gente. E quando la gente ha sentito la voce di Papa Francesco o ha visto l’orientamento della cancelliera Merkel allora si è mossa. La gente ha bisogno di incoraggiamento e noi parliamo per questo. Secondo me c’è un’anima buona, accogliente, quando la gente vede i bambini. Noi europei siamo così, ma non possiamo nasconderci dietro ai muri.

D. – Professor Riccardi, qual è la proposta della Comunità di Sant’Egidio, anche sulla scia delle parole del Papa all’Angelus, con cui ha invitato le parrocchie, le diocesi ad aprire le porte alle famiglie di profughi?

R. – Qui la domanda è: “Cosa abbiamo fatto”? Non molto! In questo senso ha ragione anche il cardinale Schönborn: gli episcopati europei sono andati un po’ per conto loro e direi che, in questo senso, il Papa ci richiama a una linea coerente; lui dice: “in tutte le parrocchie”. E’ un invito a tutta la Chiesa cattolica ed è un invito ai cristiani. Io credo che, a questo punto, dobbiamo fare i conti con noi stessi. E’ l’occasione per ripensare quello che significa Europa: cosa significa Europa rispetto al mondo e rispetto al Mediterraneo? Noi abbiamo proposto l’uso dello strumento della “sponsorship” e cioè che una famiglia italiana e una famiglia europea possa accogliere una famiglia siriana, una famiglia di rifugiati che è già arrivata in Europa ed evitare il terribile passaggio attraverso il Mediterraneo o la strada ardua dei Balcani. La “sponsorship” c’era e non si è capito perché sia poi scomparsa. Noi abbiamo seminato lungo le nostre frontiere ‘cavalletti di frisia’ e poi dopo piangiamo sul bambino curdo ritrovato morto su una spiaggia turca. Ma quel bambino curdo, quella vita poteva essere salvata se ci fosse stato lo strumento della “sponsorship”.

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Messaggio Papa a Tirana: non dobbiamo rassegnarci alla guerra

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“Possa dalla terra d’Albania, terra di martiri, partire una nuova profezia di pace” perché il mondo non si può rassegnare alle guerre e alla violenza. E’ il cuore del messaggio inviato da Papa Francesco a Tirana, dove si è aperto questa domenica l’Incontro Internazionale delle religioni per la pace. Fino a martedì, oltre 400 persone, tra leader religiosi, esponenti della cultura e della politica di tutto il mondo, dialogheranno sui principali temi che attraversano le odierne società: dalle migrazioni, ai conflitti che insanguinano intere aree geografiche, dall’ambiente alla globalizzazione della solidarietà. Il servizio della nostra inviata, Francesca Sabatinelli: 

Non dobbiamo mai rassegnarci alla guerra! Il Papa, ancora una volta, torna con forza a ricordare che non si può “restare indifferenti di fronte a chi soffre per la guerra e la violenza”. Nel suo messaggio inviato ai partecipanti all’incontro di Tirana, Francesco riprende il titolo del meeting “La pace è sempre possibile” per chiedere che si riaffermi questa verità “soprattutto oggi, mentre in alcune parti del mondo sembrano prevalere le violenze, le persecuzioni e i soprusi contro la libertà religiosa, insieme alla rassegnazione di fronte ai conflitti che si trascinano”. E’ però violenza – si legge ancora – “anche alzare muri e barriere per bloccare chi cerca un luogo di pace”, ed è violenza “respingere indietro chi fugge da condizioni disumane nella speranza di un futuro migliore. E’ violenza scartare bambini e anziani dalla società e dalla stessa vita! E’ violenza allargare il fossato tra chi spreca il superfluo e chi manca del necessario!” Il Papa si rivolge a Sant’Egidio, per incoraggiare gli incontri per la pace che la Comunità organizza da anni “nel solco tracciato da san Giovanni Paolo II con il primo storico Incontro di Assisi dell’ottobre 1986”. In un momento in cui “mutano gli scenari della storia e i popoli sono chiamati a confrontarsi con trasformazioni profonde e talora drammatiche” è importante l’incontro tra le diverse religioni, così come il dialogo, e il cammino insieme per collaborare “in quello ‘spirito di Assisi’ che fa riferimento alla luminosa testimonianza di San Francesco”. Francesco quindi conforta gli organizzatori nella scelta della città di Tirana come luogo di incontro, perché “capitale di un Paese diventato simbolo della convivenza pacifica tra religioni diverse, dopo una lunga storia di sofferenza”. Una scelta condivisa dal Papa che, esattamente un anno fa, visitò l’Albania, scelta quale “primo tra i Paesi europei da visitare, proprio per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica dopo le tragiche persecuzioni subite dai credenti albanesi nel secolo scorso”. Paese che oggi ricorda i molti suoi martiri, ma che racconta anche della “forza della fede che non si lascia piegare dalla prepotenza del male”. “In nessun altro Paese al mondo – ricorda Francesco – è stata così forte la decisione di escludere Dio dalla vita di un popolo”. Popolo che però, una volta ritrovata la libertà, ha ritrovato la sua capacità di vivere insieme, in pace, indipendentemente dalla religione, ciò che chiede lo spirito di Assisi,  che ci ricorda che “la pace e la convivenza hanno un fondamento religioso. La preghiera è sempre alla radice della pace!” La pace è possibile, quindi, conclude Francesco, è ciò che permette di gridarlo ad alta voce è la fede in Dio.

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Tweet: Maria aiuti le famiglie, soprattutto quelle senza lavoro

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Il Papa ha lanciato un nuovo tweet dall'account @Pontifex: "Chiediamo alla Vergine Maria che aiuti tutte le famiglie, specialmente quelle che soffrono per la mancanza di lavoro". L'account pontificio in nove lingue in questi giorni ha superato i 23 milioni di follower.

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Oggi in Primo Piano



Migranti: Ue verso 60% dei profughi a Germania, Francia e Spagna

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“Un approccio comune per condividere equamente le responsabilità” in materia di migrazione. Lo chiede l’Onu ai leader europei, lo ribadisce l’Alto rappresentante per la Politica estera comunitaria, Federica Mogherini. Eppure il Vecchio Continente non parla ancora con un’unica voce. Il servizio di Giada Aquilino

L’Unione Europea chiederà a Germania, Francia e Spagna di accogliere circa il 60% dei 120 mila rifugiati da ricollocare: a Berlino 31 mila, a Parigi 24 mila, a Madrid quasi 15 mila. Lo anticipano fonti di Bruxelles proprio quando il premier ungherese Viktor Orban chiede a Vienna e Berlino di interrompere l’accoglienza, contrariamente a quanto deciso la scorsa settimana: “l'Europa – dice - deve chiudere le frontiere o rischia l'arrivo di milioni di migranti”.

Ma la linea tedesca appare ormai scritta: il governo ha fatto sapere che interverrà con un totale di 6 miliardi di euro a favore dei profughi che in questi giorni entrano nel Paese, mentre la cancelliera Angela Merkel ha ringraziato tutti coloro che si sono mobilitati in questo weekend per l'emergenza migranti, mostrando – ha sottolineato - “un'immagine” della Germania che “rende orgogliosi”. Apprezzamento per le posizioni tedesche da parte del premier italiano Matteo Renzi, che in un colloquio telefonico con la Merkel ha parlato di “un cambio di segno e di passo significativo” da parte dell’Europa. Alla stazione di Monaco in 48 ore sono intanto arrivate oltre ventimila persone provenienti dall’Ungheria, dove i migranti giunti negli ultimi tre giorni attraverso i Balcani sono più di 5 mila. Alcuni di essi sono stati condotti a Vienna da un gruppo di austriaci che, con un corteo di auto, sono andati a prenderli oltre confine.

In Spagna, nella notte, le forze anti-sommossa sono intervenute nel centro per stranieri di Zapadores, a Valencia, per reprimere la rivolta dei residenti, perlopiù nordafricani in attesa di espulsione.

Tafferugli tra polizia macedone e migranti si sono registrati nelle ultime ore al confine con la Grecia, quando circa 2 mila migranti in attesa nella località greca di Idomeni hanno cercato di entrare in massa in Macedonia.

A breve la Gran Bretagna annuncerà il piano di accoglienza per i siriani. Ma in mare si continua a morire, nonostante la fotografia del bimbo curdo riverso senza vita sulle rive turche abbia scioccato e scosso le coscienze: sono almeno una ventina le vittime del naufragio al largo delle coste libiche, riferito da alcuni dei 107 migranti salvati ieri dalla Guardia costiera italiana e sbarcati a Lampedusa.

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Sako: bene accogliere migranti, ma serve soluzione stabile

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Per la prima volta in Iraq, l’aviazione di Baghdad ha utilizzato gli F16 acquistati dagli Stati Uniti per attaccare i jihadisti dell’Is. Quindici i raid effettuati negli ultimi quattro giorni, ha indicato lo Stato maggiore iracheno, che avrebbero toccato le provincie di Salaheddin e di Kirkuk, a nord della capitale. Della situazione in Iraq, ma anche di quella in corso negli altri Paesi toccati dalla violenza del sedicente Stato islamico, si sta parlando in queste ore a Tirana, dove proseguono i lavori dell’Incontro internazionale “La pace è sempre possibile”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. La nostra inviata a Tirana, Francesca Sabatinelli

La violenza che scuote Iraq, Siria e Medio Oriente è uno choc. L’umanità non rimanga a guardare di fronte alle immagini che arrivano da quei Paesi. E’ dal palco inaugurale del meeting di Sant’Egidio che Sua Beatitudine Luis Rapahel Sako torna a ribadire che la soluzione di fronte a quanto accade può solo essere una vera cittadinanza comune, senza logiche tribali o settarie. Una possibilità attuabile a suo giudizio, già dimostrata dall’impegno che molti hanno assunto di fronte alla gravissima crisi umanitaria provocata dalla violenza, e il pensiero va al Kurdistan, che ha accolto un impressionante numero di rifugiati di tutte le religioni. Di fronte a ciò che accade in queste ore in Europa, attraversata da migliaia di persone in fuga dai loro Paesi, qual è il pensiero di Mons. Sako?

R. – Io ho paura di questo esodo, perché non è ben studiato. Questa gente va via, come va via? Chi sono? È vero che hanno delle difficoltà, ma perché non fare la pace, costruire la pace nei loro Paesi e rimanere lì? Perché andare via? Adesso loro vanno via, altri andranno via e dopo? C’è tutta una rottura con tutta la storia, la tradizione, perché è un’altra cultura, un’altra società, questa soluzione è provvisoria. Perché la comunità internazionale non fa qualcosa per una soluzione politica, per costruire la pace in questi Paesi? La gente va via, ma quelli che non possono che futuro hanno? C’è una solidarietà umana, la gente, anche quella semplice, accoglie queste famiglie nelle loro case, ma bisogna pensare: per quanto tempo sarà possibile? Un mese, due mesi, un anno e dopo? Loro tornano, non tornano? Ma c’è anche una responsabilità morale verso questi Paesi: perché la guerra, perché tutta questa violenza? È politicizzata! Perché non fare la pace? Bisogna educare la gente alla pace, è una questione di formazione. Così può durare! Questo Paese, in cui siamo, l’Albania, 30 anni fa, com’era? Adesso c’è una costituzione civile, secolare, tutti sono cittadini, c’è la coesistenza e tutto va bene. Lì, il problema è la formazione e la politica, non è economico, perché questi Paesi sono ricchi. Quindi, penso che la comunità internazionale abbia il compito di cercare una soluzione stabile per la pace in questi Paesi.

D. – Che tipo, però, di soluzione politica si dovrebbe adottare?

R. – La pace è un progetto. Tutti devono contribuire a costruire questa pace, non c’è altra soluzione. Perché anche questa gente, quando va in Germania, o in Francia, che cosa farà? È una cultura totalmente diversa. E’ gentile e generoso accogliere, ma penso che bisogna cercare soluzioni stabili. Questa gente ha case, lavoro, scuole, bambini... Tutto il futuro è fermo, è buio. E’ triste se l’Occidente o gli Stati Uniti volessero sconfiggere I’Is, potrebbero in una settimana, neanche una settimana.

Nel  frattempo, però, continuano fughe e persecuzioni, sotto gli occhi di tutto il mondo. Il destino di molte donne delle minoranze yazida e cristiana, è cosa tristemente nota,  è stato quello di essere rapite, torturate, stuprate, esibite e vendute come animali nel mercato dei miliziani dell’Is per poi divenire loro schiave sessuali. Khairi Bozani, presente a Tirana, è il Direttore generale del ministero degli Affari per gli yazidi del Kurdistan:

In questo momento quasi 400 mila yazidi si trovano fuori dalle loro case e vivono nei campi profughi, 5.800 ragazze yazide sono cadute nelle mani del sedicente Stato islamico, purtroppo. Finora, per fortuna, ne abbiamo fatte liberare 2.200, ma oggi ce ne sono ancora 3.800 e più sotto le mani dell’Is, che fa tutto quello che vuole con loro... Al momento, gli yazidi continuano a stare sotto le tende, a vivere come rifugiati, si trovano fuori dalle loro case, certo sono nel territorio del Kurdistan, ma il problema è che sono costretti a vivere sotto i tendoni quando fuori è freddo e quando è caldo. Provate a immaginare come sia la vita di una famiglia che vive sotto una tenda. Dobbiamo fare una dichiarazione da qui: tutti gli aiuti umanitari inviati dalle Nazioni Unite e dai diversi Paesi non riescono a soddisfare i nostri bisogni: sono veramente, veramente, pochi! E non siamo neanche contenti di come ci arrivano e della maniera in cui vengono spartiti e suddivisi.

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Decisioni Ue sui migranti: Kyenge, serve unità in Europa

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L’Unione Europea discute in questi giorni misure concrete per un’azione unitaria in campo migratorio. Si attendono i dettagli del piano che il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, presenterà mercoledì al riguardo. Fausta Speranza ha intervistato l’eurodeputata Kashetu Kyenge, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier immigrazione, che viene votato nella sessione che si apre domani a Strasburgo: 

R. – Volevo ringraziare Papa Francesco che, come al solito, ci ha fatto vedere la strada: l’apertura di tutte le parrocchie ad accogliere i profughi è un esempio da seguire. Credo che ognuno di noi debba fare tesoro di questi insegnamenti relativi al primato della vita: cioè, in qualunque momento noi incontriamo una persona in difficoltà - sul mare, via terra - deve essere salvata. Allora, il primo dei punti più importanti è la distribuzione dei migranti su tutto il territorio europeo, cercando di superare anche quelle che sono sempre state le norme del regolamento di Dublino, che obbligava gli Stati a poter mantenere sul loro suolo le persone che mettevano piede per la prima volta nello spazio Schengen. Questo punto si chiama “ricollocazione”: dovrebbe essere un punto in discussione anche per rivedere le cifre che erano state prese in precedenza, che erano quelle di 32 mila e 35 mila. Il tetto fissato è a 40 mila, ma si sta rivedendo. Addirittura le Nazioni Unite propongono 200 mila. Il secondo punto è quello del reinsediamento che è un punto già quasi assodato, perché costituisce i corridoi umanitari: si prendono persone che hanno già lo status di rifugiato nei Paesi che sono nei dintorni della Siria, come il Libano, la Giordania, che sono nei campi profughi e per alleggerire questi Stati dal carico di accoglienza le persone vengono insediate in altri territori. L’Unione Europea ne prenderà 20 mila circa. Il terzo punto è una missione navale molto importante condotta dalla nostra marina militare e si chiama “Eunav for Med” e ha come obiettivo quello di poter annientare tutta la rete della criminalità organizzata, lottando contro il traffico di esseri umani, anche da parte degli scafisti, seguendo la transazione finanziaria di tutta questa criminalità organizzata e sequestrando gli strumenti che ha a disposizione con un’equa ripartizione delle responsabilità. Questo deve essere lo spirito che deve guidare l’Europa.

D. – Abbiamo visto in questi giorni un’Europa solidale, con le decisioni della Germania, dell’Austria, ma azioni davvero unitarie non ne abbiamo viste: è così?

R. – E’ così, ma oggi è un nuovo giorno, cioè dopo la decisione della cancelliera Merkel tutto cambia: la Germania ha un peso molto influente all’interno del Consiglio ma l’Europa per fare tutto questo deve essere unita. Io sono relatrice di un dossier che il Parlamento mi ha affidato; è un dossier che porta avanti sia l’emergenza, sia il medio e lungo termine, cioè come intervenire sulle cause profonde che muovono le persone. E’ nostra responsabilità, ma è responsabilità anche di una comunità internazionale.

D.  – Che cosa intende per comunità internazionale in particolare? L’Onu?

R. – Le Nazioni Unite prima di tutto. Io sono appena tornata da 3-4 giorni alle Nazioni Unite, per dire: questa emergenza umanitaria deve essere affrontata con le Nazioni Unite, con tutte le organizzazioni anche internazionali, con tutti i Paesi, i governi e ogni Stato deve avere la responsabilità di aprire le sue frontiere, nel suo interno, alle persone che sono in difficoltà e anche elaborare politiche inclusive.

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Le due parrocchie del Vaticano si mobilitano per i profughi

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Dopo l’appello di Papa Francesco all’Angelus ad accogliere famiglie di profughi rivolto anche alle due parrocchie del Vaticano – San Pietro e Sant’Anna – si sta cominciando ad organizzare l’ospitaliltà. Ne parla al microfono di Tiziana Campisi padre Bruno Silvestrini, agostiniano, parroco di Sant’Anna in Vaticano: 

R. – Come parrocchia di Sant’Anna, parrocchia di San Pietro, realtà del Vaticano, in comunione con l’elemosiniere di Sua Santità e con il centro della Caritas che abbiamo qui nella parrocchia di Sant’Anna, abbiamo pensato di offrire due appartamenti. Ma non solo gli appartamenti, perché per vivere non bastano le mura: noi ci impegneremo a trovare il lavoro per il capo famiglia in modo che possa affrontare dignitosamente questo periodo, questo tempo che rimarranno in questo luogo per poter affrontare poi l’inserimento in questa società - se sarà necessario - oppure andare altrove, secondo le loro necessità. Per noi adesso c’è il momento dell’accoglienza, l’accoglienza che vogliamo dare qui in Vaticano, in modo particolare anche con il sorriso sulle labbra, con l’entusiasmo cristiano di chi accoglie amando le persone che sono di fronte a noi.

D. – La parrocchia di Sant’Anna in Vaticano da anni offre assistenza e aiuti per tante persone che vengono a bussare alla porta della chiesa…

R. – Sì, ormai è risaputo, la nostra parrocchia è una parrocchia di confine, di frontiera. E’ aperta tutti i giorni e tutte le persone possono venire, al di là della lingua, al di là della razza, della religione, della cultura. Tutti vengono per chiedere, altri vorrebbero dare la loro disponibilità. Noi aiutiamo tutti per quel che possiamo, come possiamo, sempre in comunione con l’elemosiniere, con la Caritas della parrocchia che si dà da fare a trovare cibo, vestiario, quello che è necessario.

D. – In particolare che tipo di servizi offre la Caritas della parrocchia di Sant’Anna in Vaticano?

R. – Noi offriamo il centro di ascolto per chi vuole chiedere, vuol domandare, anche per alcune rivendicazioni e situazioni di difficoltà. Abbiamo esperti, persone che danno la loro disponibilità come volontariato. Poi abbiamo una Caritas che si impegna ad accogliere quotidianamente e vedere tutte le varie necessità concrete per quello che si può aiutare. E poi abbiamo il venerdì che è un giorno un po’ particolare per noi per l’impegno dalle 7 della mattina: ci sono delle persone, pensionati, persone che danno il loro tempo, per la distribuzione del cibo. Abbiamo anche la dolcezza dell’accoglienza delle persone anziane, delle persone sole, delle persone che sono abbandonate un po’ da tutti, quindi cerchiamo di accogliere e cerchiamo di ascoltare e aiutare.

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Bombardamenti turchi su basi del Pkk dopo l'attentato curdo

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“Un attacco contro l’unità nazionale della Turchia”. Così il presidente Erdogan ha definito il sanguinoso attentato rivendicato dal partito curdo Pkk. In un’azione armata, 15 soldati di Ankara hanno perso la vita nella regione sud-orientale di Hakkari, al confine con Iraq e Iran. Intanto l'esercito turco ha fatto sapere che 13 obiettivi del Pkk sono stati bombardati in risposta all'attentato. Sulla situazione conflittuale tra Turchia e curdi, Giancarlo La Vella ha intervistato il giornalista Alberto Rosselli, esperto di questioni mediorientali: 

R. – Esiste uno stato di conflittualità interna in zona siriana. Esiste una situazione di instabilità nel nord dell’Iraq ed esiste anche una situazione anche di carattere internazionale nella quale né le grandi potenze né la Turchia sono omogenee nel comportamento. Il problema è che nonostante sia in corso una guerra praticamente dichiarata fra Nato, Stati Uniti, Turchia e Unione Europea nei confronti del cosiddetto Stato islamico e nonostante il movimento curdo sia avversario dell’Is, non è la prima volta che la Turchia preferisce mantenere il controllo su quello che è il movimento indipendentista curdo.

D. – E’ anche vero che la realtà curda è fatta di diverse anime…

R. – Il problema generale è che in ambito mediorientale, se leviamo gli Stati istituzionali, esistono dei movimenti che a loro volta sono anche frammentati. In effetti è molto difficile riuscire a dire: “Parliamo col popolo curdo”. Il problema però è uno: la Turchia col popolo curdo non vuole discutere per un motivo molto semplice e cioè per il fatto che l’indipendenza nazionale, per quello che riguarda la porzione di Kurdistan all’interno della Turchia, è messa fuori da qualsiasi discussione.

 

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Burundi, un anno fa l'eccidio delle suore: "Aspettiamo la verità"

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E’ passato un anno dal massacro in Burundi di tre suore Saveriane nella missione di Kamenge, nel nord della capitale Bujumbura. Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernadetta Boggian sono state barbaramente uccise nel loro convento, in circostanze non ancora chiarite dalle autorità inquirenti. A pochi giorni dal triplice delitto, era stato arrestato un uomo, Christian Butoyi, reo confesso. Ma la versione dei fatti riportata dalla Polizia non aveva convinto. Poi, la "Radio Pubblica Africana" (Rpa) aveva ipotizzato che le tre suore fossero state eliminate perché a conoscenza di traffici illeciti. La denuncia, che coinvolgeva i Servizi segreti del Burundi, aveva portato all’arrestato del direttore dell’emittente Bob Rugurika, poi rilasciato. Roberta Gisotti ha intervistato suor Teresina Caffi, missionaria Saveriana, che bene conosceva le tre suore uccise: 

R. – Lucia, Olga e Bernardetta erano tre persone serene, ciascuna aveva un settore diverso di apostolato: Lucia continuava a esercitare il suo compito di ostetrica ed era veramente innamorata di questo suo lavoro di servizio alla vita. Olga era una catechista e il suo desiderio era quello di poter portare a Gesù e alla Chiesa attraverso i sacramenti tutto quelli che poteva. Bernardetta ha lavorato moltissimo nella promozione della donna. Era una persona a cui era facile parlare, da cui ci si sentiva capiti. La gente ricorda in questo modo lei e le altre sorelle.

D. – Ricordiamo l’auspicio del Papa all’indomani della notizia della tragica morte: “Che il sangue versato diventi seme di speranza per costruire l’autentica fraternità tra i popoli”. Come è proseguita la vita nella missione dove operavano le tre suore?

R. – A volte il seme gettato non dà subito i frutti, perché dopo la loro morte il Burundi ha vissuto ancora – e sta ancora vivendo – momenti molto precari. Sono morte decine di persone chiedendo una situazione diversa per il Paese. Quindi, i frutti non sono immediati, non arrivano nel giorno in cui vogliamo, però sono anche frutti tutta questa partecipazione straordinaria nel dolore che la gente del Burundi e del Congo, ha manifestato. Proprio oggi in Burundi e in Congo ci saranno celebrazioni per ricordarle. Credo che resti un messaggio – un messaggio di amore, di fraternità – secondo il quale vale la pena dare la vita per Gesù, in qualsiasi maniera questo dono possa poi realizzarsi nella storia.

D. – A che punto sono le indagini per la verità su questa tragica triplice uccisione?

R. – Questo aspetto della storia sta a cuore alle famiglie, alle comunità di origine di queste sorelle e al popolo che è rimasto ferito da questo fatto. Tante persone ci hanno chiesto scusa nonostante non avessero avuto a che fare con la loro uccisione, ma erano indignate da questa vicenda. Ora, le indagini si sono arenate. Sembravano aver dato dei risultati immediati – in realtà la persona, tra l’altro disabile mentale, accusata fin dall’inizio sembra essere fuori dal gioco. Per quanto riguarda il resto, ci sono state delle prese di posizione, ma non si è ancora arrivati alla verità. Noi desideriamo la verità dalle autorità del Burundi e uno sforzo maggiore anche da parte del nostro Paese. Non vogliamo ricorrere a investigazioni private, non ci sembra il caso e non ci sembra giusto nello spirito della condivisione nel quale vivevano queste nostre sorelle. Desideriamo che la verità esca fuori, tantissimi la desiderano. Penso che la verità sia come la gramigna: ci puoi mettere sopra del cemento, ma prima o poi uscirà come penso sia giusto, perché è l’impunità che genera episodi di questo genere.

D. – Sappiamo che nel corso di questo anno sono emerse altre piste: tra le ipotesi, vi era che le tre suore fossero a conoscenza di traffici illeciti e per questo sarebbero state eliminate. Ci sono novità su questo aspetto, oppure voi ne eravate a conoscenza?

R. – Anche noi abbiamo letto queste notizie. Ci hanno sorpreso, perché queste nostre sorelle erano anziane, tra i 75 e gli 83 anni. Le sorelle nostre responsabili che le visitavano frequentemente non hanno mai sentito parlare di questo. Sembra veramente inverosimile. Per noi resta ancora una domanda: perché e chi?

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Sud Sudan: continuano le violazioni della tregua

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In Sud Sudan sono sempre più frequenti le violazioni del cessate-il-fuoco dopo l’accordo siglato nei giorni scorsi tra le due fazioni guidate dal presidente Salva Kiir e l’ex vice-presidente Riek Machar. A complicare la situazione ci sono anche diversi gruppi armati che non riconoscono l’intesa. Eugenio Bonanata ne ha parlato con Anna Bono, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Torino: 

R. – La speranza che questo cessate il fuoco tenesse è stata smentita fin dalle prime ore dopo la firma; scontri più o meno importanti si sono verificati nell’immediato e, purtroppo, continuano. La ragione principale è questa: anche se i due contendenti hanno sottoscritto l’accordo, né l’uno né l’altro sono in grado di controllare i loro seguaci, sia i gruppi armati che seguono il dissidente Machar sia una parte dell’esercito che dovrebbe obbedire agli ordini del presidente Kiir.

D. - Cos’altro è mancato all’accordo?

R. - L’accordo è stato fatto con riserva. Il presidente Salva Kiir ha subito detto che una serie di punti di questo accordo andava ridiscussa e verificata. Io credo che il problema principale sia che questo accordo sia stato strappato quasi a forza ai due contendenti e che non ci sia una reale volontà di mantenere gli accordi presi, anche tenendo conto di eventuali verifiche e modifiche che possono essere introdotte nei prossimi giorni e nelle prossime settimane.

D. - Qual è il problema di fondo?

R. - È quello che ha scatenato il conflitto nel 2013, cioè che i due principali gruppi etnici, i Dinka e i Nuer, si contendono il potere e tutto fa pensare che continueranno a farlo. Aldilà degli scontri che continuano, il grande punto interrogativo è se nelle prossime settimane i colloqui che dovrebbero portare molto presto alla nascita di un governo di unità nazionale andranno a buon fine. Questo, in altre parole, significa se Salva Kiir per i Dinka e Riek Machar per i Nuer riusciranno a mettersi d’accordo sulla spartizione degli incarichi a tutti i livelli governativi e poi via via amministrativi. Lo scontro è iniziato proprio per questo, perché i Dinka stavano accentrando il potere e quindi ad un certo punto la seconda etnia più importante del Paese si è ribellata. È una situazione che molto probabilmente potrebbe verificarsi di nuovo.

D. - Cosa significa questo stato di cose per la diplomazia internazionale?

R. - Direi che è la conferma ennesima di quanto è difficile dall’esterno influire e interferire in termini sia postivi che negativi sulle sorti di un Paese. È vero che si possono fare pressioni soprattutto a livello economico e che si possono minacciare sanzioni di vario tipo. Ma poi, in sostanza, stiamo parando di Stati sovrani con le loro dinamiche, i loro rapporti di forza tra le varie componenti e alla fine la partita si gioca all’interno.

 

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Giubileo: a Roma a piedi attraverso la nuova Via Francigena

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La via Francigena, la storica strada che collegava l’abbazia di Canterbury a Roma e poi a Gerusalemme, sarà ripristinata completamente nel suo tratto romano e laziale in vista del Giubileo straordinario della Misericordia. I dettagli del progetto, coordinato dall’ente regionale “RomaNatura”, sono stati presentati a Villa Mazzanti a Roma. Il servizio di Michele Raviart

Partito a piedi da ogni parte d’Europa, il pellegrino raggiungeva Monte Mario da nord e ammirava la bellezza di Roma sotto di lui. Un’esperienza perduta negli ultimi secoli e che sarà ora possibile rivivere attraverso la riqualificazione della Via Francigena per il prossimo Anno Santo. Un tratto che va da Campagnano Romano al Parco di Monte Mario, attraverso l’area naturale dell’Insugherata. Mons. Pasquale Iacobone, del dipartimento arte e fede del Ponitificio Consiglio della Cultura:

“Il pellegrinaggio a piedi è stato quello tradizionale sia della visita a Roma nell’antichità, sia poi soprattutto dei Giubilei dall’antichità fino al più recente passato. Devo dire che l’interesse per la natura e per l’ambiente ha sollecitato un po’ questa ripresa del cammino. Noi stiamo cercando di far sì che all’attenzione ambientale si abbini l’attenzione spirituale: fare cioè in modo che il cammino a piedi sia – come avviene sul Cammino di Santiago – un cammino in cui l’aspetto religioso, l’aspetto di fede, l’aspetto ambientale, l'aspetto comunitario, possano ritornare a essere quelli più importanti”.

Saranno realizzati tre sentieri alternativi, lunghi tra i 15 e i 25 km, costruiti nuovi ponti e nuovi passaggi pedonali, utilizzando materiali della zona, come il tufo e il legno. Sarà migliorata la cartellonistica e messo in sicurezza il percorso, che non incrocerà mai il traffico automobilistico. Un investimento da 1,7 milioni di euro, di provenienza sia pubblica che privata. Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio:

"Vogliamo una riscoperta del pellegrinaggio come opportunità di ricostruzione di un rapporto tra persone e con il territorio. ‘Pellegrinaggio’ significa camminare e incontrare gli altri. Anche in questo io trovo una straordinaria forza del messaggio giubilare che  - non  dimentichiamo mai - è sulla Misericordia e cioè sull’invito che Papa Francesco fa di pensare innanzitutto agli altri”.

“Il pellegrinaggio non ha solo unito l’Europa, ma è anche stato uno strumento di cultura”, ha detto mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, secondo cui l’iniziativa “è un tassello in più per riscoprire la bellezza di Roma”. I lavori cominceranno la prossima settimana e termineranno per l’inaugurazione del Giubileo.

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Venezia. Al regista iraniano Makhmalbaf il Premio Bresson

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Mohsen Makhmalbaf ha ricevuto questa mattina dalle mani di mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, il Premio Bresson della Fondazione Ente dello Spettacolo, in collaborazione anche con il Pontificio Consiglio della Cultura, consegnato nell'ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Il regista iraniano esprime nei suoi film tutto il dolore e tutta la speranza dell'umanità. Dal nostro inviato a Venezia, Luca Pellegrini

Mohsen Makhmalbaf conosce la prigione: diciassettenne, venne arrestato dalla polizia politica dello Scià perché schieratosi con chi voleva la caduta di quel regime. Conosce la tortura. Conosce la bellezza dell'arte, il valore della libertà e della pace, la meraviglia del cielo, il dolore dei popoli, la speranza di tanti. Il Premio Bresson, che gli è stato consegnato questa mattina, è un riconoscimento ulteriore alla sua dimensione di regista, di uomo, di artista e di padre. Attento alle politiche mediorientali, al dramma delle migrazioni e dei rifugiati, alle dittature disseminate nel mondo che provocano orrore, agli eroi grandi e piccoli che si oppongono alle barbarie, Makhmalbaf si presenta con la dolcezza tipica del suo Paese, l'Iran, dal quale è stato costretto a fuggire nel 2005, ma che rimane nel suo cuore. Mons. Claudio Maria Celli ha spiegato ai nostri microfoni perché ha trovato significativa e attuale la scelta del regista iraniano per questo Premio che coinvolge anche i due dicasteri pontifici:

"Io ritrovo le tematiche affrontate da questo regista di una attualità sorprendente. Credo che sia una dimensione tipica della cinematografia, specialmente di una certa filmografia, essere accanto, manifestare e esprimere quello che è il cammino dell’uomo, che molte volte ha le sue sofferenze, le sue inquietudini e le sue speranze in questo momento che il mondo vive. Stiamo osservando tutto il tema dei rifugiati… Ebbene, Makhmalbaf ha vissuto lui stesso questa esperienza per motivi politici: lui sa cosa l’uomo soffra nello sperimentare la prigione per una propria visione politica della vita. Mi sembra importante che il Premio Bresson, quest’anno, venga attribuito proprio a un regista iraniano, che ha toccato con la sua cinematografia, nei suoi film, questa dimensione profonda dell’uomo: l’uomo che cerca, l’uomo che vive in una sofferenza interiore, ma con un’ansia e con una speranza continua. Io ritengo che questi suoi film abbiano veramente questa capacità di manifestare il cammino dell’uomo, nella sua pienezza".

Mohsen Makhmalbaf confessa di avere sempre avuto un rispetto profondo per Robert Bresson e una profonda sintonia con le sue opere:

"For me, Bresson is more than a great film-maker…
Per me, Bresson è molto più di un grande regista. Bresson è un po’ un “profeta” del cinema: Bresson non è un regista ordinario, un normale intellettuale o soltanto un semplice artista e regista. E questo perché nel suo cinema e nella sua arte segue e persegue la moralità, l’umanità. E questo è quello che mi fa pensare che lui sia un profeta nel cinema. Per me è un profeta del cinema. Bergman è un profeta, Tarkovskij è un profeta. Questi tre registi sono profeti: sono stati messaggeri, sono più di semplici film-maker. Ho detto che Bresson cerca costantemente di diminuire la sofferenza dell’essere umano: cerca di ridurre la sofferenza. Io credo in questa teoria: il Paradiso è ridurre la sofferenza dalla vita degli esseri umani. Soltanto alcuni film-maker cercano di ridurre la sofferenza degli esseri umani, mentre molti altri aggiungono la sofferenza nella nostra vita, come i feroci film di Hollywood. Quindi, sono molto felice e molto orgoglioso di ricevere questo prestigioso e significativo premio. Vorrei dedicare questo premio al regista ucraino, Oleg Sentsov, che è stato condannato la scorsa settimana in Russia a 20 anni di prigione. E questo per puntare le luci su di lui, perché lo rispetto. Il modo in cui ha agito è stato come un atto profetico. Un profeta è un uomo che sta per cambiare il mondo".

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria. Mons. Audo: ci adoperiamo per tener viva la speranza

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L'appello di Papa Francesco affinché le parrocchie e i santuari europei accolgano ciascuno una famiglia di profughi “esprime la sua sollecitudine verso chi soffre, ed è un invito a tutti i cristiani ad aiutare con evangelica concretezza chi si trova in situazioni di emergenza, come quelle vissute da chi veniva respinto alle frontiere”. Nello stesso tempo, “davanti alle guerre che stravolgono il Medio Oriente, il nostro desiderio come cristiani e come Chiesa è quello di rimanere nel nostro Paese, e facciamo di tutto per tener viva la speranza”. Così mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei Caldei e presidente di Caritas Siria, espone all'agenzia Fides alcune considerazioni in merito all'iniziativa pontificia volta a mobilitare le comunità cristiane d'Europa nell'accoglienza ai profughi provenienti dalle aree di conflitto dell'Africa e dell'Asia.

Rispetto per le famiglie che hanno i bambini e vanno via
Proprio gli emigranti fuggiti dalla Siria e diretti in Germania – che ha aperto loro le porte – sono in questi giorni al centro dell'attenzione mediatica globale. I criteri con cui il presidente di Caritas Siria guarda a questi fenomeni sono quelli del lucido realismo geopolitico e della sollecitudine pastorale: “La situazione di degrado, l'aumento della povertà, la difficoltà a curare le malattie dopo quattro anni e più di guerre” racconta mons. Audo “ci stanno logorando tutti. Ad Aleppo l'estate trascorsa, con problemi di rifornimento idrico ed elettrico, è stata terribile. Oggi la città è stata avvolta da una tempesta di polvere, non si vede niente, e ci siamo detti tra noi: ci mancava solo questo.... Nello stesso tempo, non ce la sentiamo di dire alla gente: scappate, andate via, che qualcuno vi accoglierà. Rispettiamo le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per noi è un dolore vedere le famiglie partire, e tra loro tante sono cristiane. E' un segno che la guerra non finirà, o che alla fine prevarrà chi vuole distruggere il Paese”.

I giovani fuggono: in Siria rimarranno solo i vecchi
Lo scenario prefigurato dal vescovo caldeo è quello di una lenta, mortale emorragia che svuota il Paese delle sue forze migliori: “Anche ad Aleppo sento i racconti di giovani che dicono tra loro: facciamo un gruppo e andiamo via, fuggiamo da soli, senza chiedere il permesso alle nostre famiglie....E' un fenomeno grave, di disperazione. Ma è quello che sta accadendo. Vuol dire che qui rimarranno solo i vecchi”. Inoltre, rispetto al fenomeno dei profughi e delle fughe di massa, il presidente di Caritas Siria denuncia il sistematico occultamento delle dinamiche geopolitiche e militari che lo hanno provocato: “Noi facciamo di tutto per difendere la pace” spiega a Fides il vescovo Audo, “mentre in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare questa guerra infame. E' questo il paradosso terribile in cui ci troviamo. E non riusciamo più nemmeno a capire cosa vogliono davvero”. (G.V.)

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Israele: sciopero a oltranza delle scuole cattoliche

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“Proseguiremo con lo sciopero a oltranza, fino a che non verranno riconosciuti i nostri diritti. Siamo di fronte a un progetto mirato a colpire le scuole cattoliche, ma la nostra missione continuerà; abbiamo già affrontato altre crisi in passato, anche questa prima o poi passerà”. È quanto racconta all'agenzia AsiaNews padre Abdel Massih Fahim, sacerdote francescano e direttore dell’Ufficio delle scuole cristiane della Custodia di Terra Santa, in prima linea nella battaglia lanciata dagli istituti cattolici contro il governo israeliano. Il prossimo 9 settembre è in programma un nuovo incontro fra rappresentanti della Chiesa e autorità governative: “Speriamo sia fruttuoso - aggiunge - perché non vorremmo lanciare una ‘intifada’ per difendere il nostro diritto all’istruzione”. 

Le scuole cattoliche si sentono discriminate
Da alcuni giorni le scuole cristiane in Israele sono in sciopero. Professori e alunni denunciano una doppia discriminazione nei confronti delle istituzioni cristiane: il governo ha ridotto le sovvenzioni che ormai coprono solo il 29% delle spese; allo stesso tempo, il governo pone un limite alle rette che le scuole possono ricevere dalle famiglie. In questo modo, diverse scuole non riescono più a far fronte alle spese annuali e rischiano di chiudere. La discriminazione è un dato di fatto evidente, se si paragona a quanto avviene con le scuole ebraiche ultra-ortodosse, che vengono sovvenzionate in toto dal governo e non subiscono ispezioni dal ministero dell’Educazione, sebbene esse non siano in regola col curriculum degli studi. 

I fondi per le scuole cristiane ridotte del 34%
In Israele vi sono ad oggi 47 scuole cristiane, che garantiscono istruzione a oltre 33mila bambini, il 60% dei quali cristiani e circa il 40% musulmani, e una piccola rappresentanza ebraica. Anche i maestri e il personale non docente non è solo cristiano, poiché vi sono anche insegnanti (su un totale di 3mila) musulmani ed ebrei. Fino a qualche anno fa i fondi governativi coprivano il 65% delle rette, ma sono stati ridotti fino al 34% per poi scendere oggi al 29%, una cifra considerata insufficiente per coprire i costi. 

33mila studenti sono ancora a casa
“Per ora non vi sono sostanziali novità” spiega padre Abdel, “abbiamo parlato col ministero dell’Istruzione ma non vi sono stati risultati concreti. Abbiamo chiesto loro di formulare una proposta concreta in vista della riunione di dopodomani, ma finora non è emerso nulla di nuovo”. Di certo vi è che “33mila studenti sono ancora a casa”, prosegue il francescano, “a dispetto degli annunci dell’esecutivo che, il primo giorno di scuola, ha detto che tutti gli alunni del Paese erano regolarmente in classe”. 

Le nuove direttive cambiano lo status delle scuole cattoliche
Da qualche anno il governo tratta le nostre scuole “in maniera differente”, accusa padre Abdel, “negando sempre più i nostri diritti. Ci siamo rivolti ai vari ministri dell’Istruzione, alcuni dei quali non ci hanno nemmeno ascoltato”. Ora, con lo sciopero, “iniziano a prestare attenzione, anche se ad oggi non è emersa alcuna soluzione”. “Vogliono cambiare lo status delle scuole - prosegue il sacerdote - da istituti cattolici a scuole ufficiali, dove la Chiesa non può più scegliere il direttore, i maestri, e disporre a loro piacimento dell’edificio”.  “Vogliamo difendere il nostro stile di insegnamento” conclude il direttore dell’Ufficio delle scuole cristiane della Custodia di Terra Santa, “perché esso fornisce un risultato ottimo a livello di qualità a tutto il Paese. Se riconoscete questo ruolo, garantiteci il nostro diritto a essere trattati non con un regime preferenziale, ma secondo quanto stabilisce la legge. Anche se siamo una minoranza, abbiamo i nostri diritti e li vogliamo difendere”. (R.P.)

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Visita pastorale del card. Filoni in Bangladesh, India e Nepal

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Il card. Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, è in partenza per una visita pastorale in Asia. Dal 9 al 13 settembre sarà in Bangladesh, dove presiederà le celebrazioni per il giubileo della diocesi di Rajshashi, visiterà alcuni centri per malati ed handicappati 

In India la Messa sulla tomba di Madre Teresa
Il 14 e 15 settembre il Prefetto del Dicastero Missionario sarà nell’arcidiocesi di Calcutta (India), dove incontrerà vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici della regione. Un incontro sarà riservato ai formatori, ai seminaristi e ai novizi e alle novizie. La mattina del 15 settembre celebrerà la Santa Messa sulla tomba della Beata Madre Teresa.

L'ultima tappa tra i terremotati del Nepal 
L’ultima tappa del viaggio, dal 15 al 19 settembre, sarà dedicata al Nepal, dove il card. Filoni giungerà in segno di solidarietà dopo il tremendo terremoto del 25 aprile, e dove avrà occasione di prendere visione della situazione attuale incontrando quanti si sono prodigati per l’emergenza, oltre a sacerdoti, religiosi, laici e fedeli di alcune parrocchie. (S.L.)

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Laos: cristiani arrestati con l’accusa di proselitismo

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Due cristiani sono stati arrestati dalla polizia nella provincia di Khammouan, nell’Est del Laos, per accuse di presunto proselitismo. La polizia ha fatto irruzione nella casa di un cristiano nel villaggio di Nong-hang, arrestando Bountheung Phetsomphone, 43 anni, leader cristiano di un altro villaggio, e Neuy, 40 anni, anch’egli residente in un villaggio vicino.

I cristiani arrestati stavano pregando in una casa
Come l'agenzia Fides apprende dall’Ong “Human Rights Watch for Lao Religious Freedom” (Hrwlrf), Bountheung si era recato a visitare alcune famiglie cristiane del villaggio di Nong-hang e i fedeli hanno iniziato a pregare in casa. Allora sono arrivati i poliziotti che hanno fatto irruzione nell’abitazione. Entrambi, Bountheung e Neuy, sono sposati e hanno tre figli.

Il governo non vede di buon occhio la crescita del cristianesimo
Le polizia del distretto monitora la crescita del cristianesimo nella zona dal 2008 e non la vede di buon occhio. Informati dell’arrivo del leader cristiano Bountheung, gli agenti hanno lanciato il raid che, secondo Hrwlrf, “è del tutto illegale e contrario alla Costituzione”. Bountheung è già sotto osservazione dal 2012, quando 300 persone si sono convertite al cristianesimo, dopo aver ascoltato la sua esperienza e la sua testimonianza. Era già stato arrestato nell’agosto 2012 e poi rilasciato. Anche Neuy ha avuto in passato gli stessi problemi, controllato dalla polizia con il sospetto che volesse diffondere la fede cristiana. Il Hrwlrf esorta il governo del Laos a “rispettare il diritto del popolo del Laos alla libertà religiosa, garantita dalla Costituzione” e a fermare l’abuso di potere perpetrato dalla polizia del distretto. (P.A.)

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Burkina Faso: messaggio dei vescovi per le prossime elezioni

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“Occorre un cambiamento di mentalità per avere elezioni pacifiche, libere e trasparanti” scrivono i vescovi del Burkina Faso nella loro Lettera pastorale intitolata “L’impegno politico: espressione suprema di carità” con la quale invitano i fedeli a impegnarsi per le elezioni presidenziali dell’11 ottobre. Queste elezioni segneranno la conclusione della fase di transizione, iniziata dopo i moti popolari del 30 e 31 ottobre 2014 che hanno portato alle dimissioni e all’esilio dell’ex Presidente Blaise Compaoré.

Invito dei vescovi ad una vera riconciliazione
Nel loro messaggio, ripreso dall’agenzia Fides, i vescovi lanciano un appello per “ridurre la frattura sociale e a camminare verso una vera riconciliazione”. Nel documento si sottolinea che “l’azione politica deve essere orientata alla ricerca del bene comune con spirito di servizio e di giustizia, avendo speciale attenzione alle situazioni di povertà e sofferenza”.

Tra i problemi reali: sicurezza alimentare nel rispetto dell’ambiente
I vescovi danno alcune indicazioni per il corretto svolgimento delle elezioni. In primo luogo devono svolgersi in uno spirito di riconciliazione. Questo significa tra l’altro, “avere il coraggio di dire la verità, di chiedere, donare e accogliere il perdono; di avere il coraggio di praticare la giustizia, di combattere l’impunità e di votare senza farsi corrompere e senza corrompere”. I vescovi auspicano infine che la nuova classe dirigente che verrà scelta dagli elettori affronti i problemi reali della popolazione, in primo luogo la sicurezza alimentare, nel rispetto dell’ambiente. (L.M.)

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Vescovo di Cùcuta alla marcia per i diritti dei colombiani

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I colombiani che vivono al confine con il Venezuela hanno marciato in difesa della dignità dei loro compatrioti espulsi e per riaffermare la loro fratellanza con questo paese, a due settimane della chiusura del passaggio tra Santander (Colombia) e Tachira (Venezuela).

La marcia iniziata da un luogo simbolo della Colombia
Secondo le informazioni pervenute all'agenzia Fides, ieri, indossando camicie bianche e gialle, i colori della squadra di calcio colombiana, più di 500 persone hanno marciato partendo dallo storico Tempio di Villa del Rosario fino al ponte internazionale Simon Bolivar, che unisce Colombia e Venezuela, punto strategico nei 2.219 chilometri di confine tra le due nazioni. Il punto di partenza della marcia era altamente simbolico, perché qui si insediò nel 1821 il Congresso di Cucuta, dove il Libertador Simon Bolivar e il generale Francisco de Paula Santander diedere vita alla Costituzione della neonata Colombia.

Alla marcia parenti o amici che vivono in Venezuela
"Per la dignità della Colombia", "Per il rispetto dei diritti dei colombiani", "In solidarietà con le vittime delle espulsioni di massa", "Per la riapertura del confine", "Per il rispetto dell'eredità che ci ha lasciato Simon Bolivar": questo si leggeva nei manifesti e nei cartelloni che portavano i partecipanti alla marcia e che ripetevano ad alta voce. La marcia è stata accompagnata dall’esecuzione di musiche di Colombia e Venezuela, e ad essa si sono uniti molti residenti che hanno parenti o amici che vivono in Venezuela.

Il vescovo di Cùcuta invoca un dialogo urgente 
Ha partecipato anche mons. Víctor Manuel Ochoa Cadavid, vescovo di Cúcuta, e il sindaco della città, Donamaris Ramirez. Il vescovo ha ribadito l'appello lanciato dai rappresentanti della Chiesa di entrambi i Paesi a cercare soluzioni attraverso un dialogo urgente. "Il dialogo è necessario, devono parlare i nostri Presidenti. Non possiamo creare ferite in questa situazione e dobbiamo costruire relazioni bilaterali che sono fondamentali per il futuro" ha detto mons. Ochoa. (C.E.)

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Chiesa anglicana: forum sul futuro del Regno Unito in Europa

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Uno spazio aperto di  discussione sul futuro del Regno Unito in Europa. Questo vuole essere  "Re-imagining Europe", il nuovo blog lanciato dalla Chiesa d’Inghilterra e dalla Chiesa di Scozia in vista del referendum del 2017 sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione Europea.

Promuovere un sano dibattito sull’Ue per non lasciare un Paese diviso
L’obiettivo dell’iniziativa – spiega nel suo blog l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby - è di promuovere un sano e vitale confronto di idee in un dibattito che si preannuncia aspro e che, al di là dell’esito della consultazione, rischia di lasciare un Paese profondamente “diviso e scoraggiato”. “Alcuni diranno che non dovremmo prendere il rischio di lasciare l’Europa, mentre altri diranno che lasciarla è meno rischioso che rimanere. L’unica certezza è che si tratta di una decisione importantissima” che divide trasversalmente anche i cristiani, scrive il primate anglicano.

Dare nuovo slancio a principi fondanti  dell’Europa
I contributi raccolti nel blog e che rappresenteranno tutto lo spettro di opinioni sulla questione, inviteranno quindi  “ad immaginare il tipo di rapporti di cui ha bisogno il Paese con l’Europa per promuovere il suo pieno sviluppo umano”. Le domande di fondo alla quale cercherà di dare una risposta il forum di discussione – sottolinea l’arcivescovo Welby – saranno “in che modo dare nuovo slancio a principi fondanti  dell’Europa unita come quello della sussidiarietà, che è uno dei pilastri della dottrina sociale cristiana , e “come incoraggiare una visione dei futuri rapporti del Regno Unito con l’Ue che sia fondata sui valori e che quindi “comprenda, ma non sia ridotta a una dimensione esclusivamente economica e politica”.

Il moderatore della Chiesa di Scozia: necessario dibattito informato
"Re-imagining Europe" sarà “una straordinaria occasione per dimostrare l’importanza di un dibattito informato tra cittadini” interessati alla vita politica del Paese, ha affermato, da parte sua, Angus Morrison, moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, che si è già schierata a favore della permanenza del Regno Unito nell’Ue. Una posizione condivisa da molti cittadini scozzesi, tradizionalmente più filo-europeisti degli inglesi, e il cui voto inciderà in modo significativo sull’esito del referendum. (L.Z.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 250

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.