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Sommario del 13/10/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Lombardi: Lettera riportata dai media non corrisponde a realtà

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La lettera di alcuni Padri Sinodali al Papa era riservata e quanto pubblicato da alcune fonti non corrisponde, né nel testo né nelle firme, a quanto consegnato al Pontefice, tanto che almeno quattro cardinali hanno smentito. Così padre Federico Lombardi, durante il briefing quotidiano relativo al Sinodo sulla famiglia. Il direttore della Sala Stampa della Santa Sede ha poi sottolineato che il clima dei lavori in Aula è comunque positivo. Il servizio di Isabella Piro

Pubblicare la lettera, un atto di disturbo. Non lasciarsene condizionare
Torna sul caso della lettera di alcuni Padri sinodali al Papa, padre Lombardi, aprendo il briefing quotidiano sul Sinodo dedicato alla famiglia. Ricorda quanto dichiarato dal cardinale Pell, ovvero che la missiva al Pontefice era e doveva rimanere riservata e che quanto pubblicato non corrisponde, né nel testo né nelle firme, a quanto consegnato al Papa. Quattro Padri Sinodali, infatti – i cardinali Scola, Vingt-Trois, Piacenza e Erdö – hanno smentito la loro firma. Dal suo canto, padre Lombardi aggiunge:

“Nella sostanza le difficoltà della lettera erano state evocate lunedì 5 ottobre, la sera, in Aula, come avevo detto, anche se non così ampiamente e dettagliatamente. Avevo parlato di obiezioni e dubbi sulla procedura. Come sappiamo il segretario generale del Sinodo, card. Baldisseri, ed il Papa avevano risposto con chiarezza la mattina seguente, martedì 6 ottobre. Quindi, chi ha dato a distanza di giorni questo testo e questa lista di firme da pubblicare, ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai firmatari. Occorre perciò non lasciarsene condizionare”.

Al Sinodo, ampia collaborazione e clima positivo
“Si possono fare osservazioni sulla metodologia del Sinodo, che è nuova – spiega ancora padre Lombardi – Ciò non stupisce, ma una volta che è stata stabilita, ci si impegna ad attuarla nel migliore dei modi”. Tanto che “vi è una vastissima collaborazione per far progredire bene il cammino del Sinodo”.

“Il clima generale dell’Assemblea è senz’altro positivo”.

Card. Napier non mette in discussione diritto del Papa di scegliere Commissione per Relazione finale
Poi, padre Lombardi si fa portavoce di una dichiarazione del card. Napier, a proposito di una sua affermazione riportata erroneamente in un’intervista:

“A proposito della composizione della Commissione di dieci membri nominata dal Papa per l’elaborazione della Relazione finale del Sinodo, è stato scritto erroneamente: ‘Napier mette in questione il diritto di Papa Francesco di fare questa scelta’. Il cardinale Napier mi ha detto di correggere, affermando esattamente il contrario, cioè: ‘Napier non mette in questione il diritto di Papa Francesco di scegliere questa Commissione’ “.

La questione del legame tra vocazione e vita familiare
Al briefing in Sala Stampa è intervenuto anche il rev. Jeremias Schröder, arciabate presidente della Congregazione benedettina di Sant'Ottiliain, in rappresentanza dei dieci superiori generali partecipanti al Sinodo, il quale si è soffermato sulla questione del legame tra la vocazione e la vita familiare:

“Tanti giovani monaci non provengono più da famiglie cattoliche ben formate, ma spesso il cammino vocazionale è, allo stesso tempo, un cammino catechetico, cioè l’avvicinarsi alla fede poi comporta anche la riflessione sulla vocazione. In questo ambito, stiamo vedendo cambiamenti profondi nella base sociale delle nostre vocazioni”.

Il tema del diaconato femminile
Rispondendo, poi, alla domanda di un giornalista sul tema del diaconato femminile, dibattuto in Aula, il rev. Schröder ha spiegato:

“Io sono rimasto impressionato, perché mi è parso un tema audace ed anche, per me, convincente, tanto che io potrei immaginare un simile cammino. Ma ho avuto l’impressione che questo argomento, per ora, non abbia avuto una grande eco in Aula. Abbiamo ascoltato un’opinione, ma per il momento rimane lì”.

Testimonianza dal Rwanda: la famiglia aiuta a ricostruire il Paese dopo genocidio
Tra i partecipanti al briefing, anche Thérèse Nyirabukeye, consulente e formatrice per la Federazione africana dell'azione familiare, presente al Sinodo in veste di uditrice. Originaria del Rwanda, la sig.ra Thérese ricorda il genocidio vissuto dal Paese vent’anni fa e sottolinea l’importanza della famiglia nel processo di ricostruzione nazionale perché, spiega, la famiglia è testimone di amore e riconciliazione. Un’altra uditrice, infine, la sig.ra Moira McQueen, esprime soddisfazione il ruolo che viene dato agli uditori durante i lavori sinodali: “Siamo ascoltati – dice – e possiamo intervenire. E questo è un processo democratico”.

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Mons. Gadecki: dottrina non cambia, pastorale la attualizza

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La dottrina sul matrimonio sia riscoperta. E’ questo uno dei suggerimenti offerti alla discussione da alcuni Padri sinodali secondo i quali l’amore misericordioso verso quanti vivono in situazioni irregolari non può prescindere dal mostrare loro ciò che la Chiesa e il Vangelo indicano come bene e vero, male e peccato. Al microfono di Paolo Ondarza, la riflessione in proposito del presidente della Conferenza episcopale polacca, mons. Stanisław Gadecki

R. – Molti dicono: non ripetiamo la dottrina, non ripetiamo queste cose che sono conosciute, concentriamoci sull’attività pastorale. Questo è un grande sbaglio perché l’impressione che tutti conoscano la dottrina sulla famiglia è del tutto falsa. Le opinioni diffuse tra i cattolici mostrano che la gente non è capace di ricordare i fondamentali dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. Quindi, dobbiamo fare come ha fatto anche il Concilio Vaticano II, che era un Concilio pastorale: ha riproposto l’insegnamento della Chiesa e partendo da questo presupposto poi ha formulato una pratica pastorale ortodossa. La seconda questione è che noi abbiamo dimenticato il concetto del peccato: diciamo che siamo tutti peccatori, però il peccato non esiste. La misericordia, la conversione sono unite in modo stretto, ma senza la coscienza del peccato non è possibile parlare della misericordia.

D. – Potremmo dire che in una Chiesa attenta all’umanità ferita con le porte aperte è importante non dimenticare temi come il peccato?

R. – Senz’altro. Perché se la misericordia è una cosa incondizionata, indipendente dalla conversione. Allora perché parlare di giudizio universale? Perché parlare poi anche della condanna? Tutte queste cose non sono degli spauracchi ma, rivelano la condizione umana e sono parte integrante dell’antropologia cristiana.

D. – La critica che talvolta viene mossa alla Chiesa è di proporre una dottrina astratta…

R. – La pastorale è proprio immergere la dottrina nel tempo moderno. La pastorale fa sì che la dottrina non sia una cosa astratta, ma una risposta alle nostre condizioni odierne.

D. – Pensando alle situazioni “ferite”, come la questione dell’accesso alla comunione per divorziati e risposati civilmente, che cosa si può dire?

R. – La comunione ai divorziati e ai risposati civilmente è una questione molto delicata. Loro sono parte integrante della Chiesa, della vita della Chiesa. Hanno tante possibilità di realizzarsi all’interno della vita della Chiesa: nell’educazione dei figli, nelle opere di carità, nell’ascoltare la parola di Dio, nella presenza e la preghiera nella Chiesa. Quindi, non sono esclusi dalla vita della Chiesa a causa del divorzio. Però, quando parliamo della comunione, parliamo sempre di quell’unione integrale con Cristo di cui l’immagine è l’Eucaristia. All’Eucaristia può accedere colui che non è in uno stato del peccato, che si è confessato, che ha cercato di convertirsi, invece l’adulterio permane tra queste persone che sono divorziate e risposate. Si può parlare dell’empatia, della misericordia verso queste persone, ma il diritto dell’uomo non deve prevalere sul diritto di Cristo, sulle esigenze che Cristo ha posto nel Vangelo. Cambiare il Vangelo sarebbe una cosa molto pericolosa.

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Sinodo. Parroco invitato dal Papa: famiglie ritrovino calore

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Altra sfida da raccogliere per la Chiesa è il rapporto famiglia-lavoro. Se ne discute al Sinodo in Vaticano dove viene evidenziata la duplice problematica rappresentata da un lato dalla piaga della disoccupazione e dall’altro dal “troppo lavoro” che spesso minaccia la vita familiare. Ne parla al microfono del nostro inviato Paolo Ondarza, don Roberto Rosa, parroco di San Giacomo Apostolo a Trieste, nominato personalmente dal Papa tra i Padri sinodali: 

R. – É stata una cosa imprevista, iniziata con una lettera che io ho inviato al Papa nei primi giorni di agosto su alcune questioni pastorali. Gli ho scritto senza neppure pensare che l’avrebbe letta. Qualche giorno dopo mi è giunta una telefonata diretta di Papa Francesco, il quale aveva la mia lettera in mano e assieme abbiamo parlato di alcuni problemi pastorali, della famiglia. Poi ci siamo salutati. Qualche giorno dopo, mi è arrivata la nomina, inaspettata, di partecipare come padre sinodale a questo Sinodo sulla famiglia.

D. – Qui al Sinodo, quindi, porta i problemi concreti vissuti dalla gente che frequenta la sua parrocchia e che lei sperimenta ogni giorno…

R. – È quello che io posso portare; l’esperienza di una vita quotidiana accanto alle persone, alle famiglie, soprattutto portando quella che è la bellezza dell’amore umano vissuto nella famiglia, ma anche quelli che sono i problemi delle famiglie di oggi.

D. – Quali sono i problemi delle famiglie, oggi, che lei ritiene più urgenti?

R. – Prima di tutto, quello del lavoro. Molte volte manca un lavoro continuativo per cui la famiglia soffre di questa mancanza, perché quando manca il lavoro, manca il pane e quindi la dignità. Poi, dall’altra parte invece, c’è anche un assolutizzare il lavoro, quando entrambi i genitori lavorano per stare meglio dal punto di vista economico, per avere di più, però poi trascurano quella che è l’intimità della vita famigliare, come lo stare a tavola insieme, non c’è tempo... I figli – lo vedo in parrocchia – risentono di questa assenza dei genitori dovuta tante volte al lavoro. Tante famiglie giovani vedono che i loro genitori sono stanchi, parlano poco…

D. – Rimane poco tempo, poca energia da dedicare alla famiglia?

R. – Poca energia da dedicare alla famiglia, per cui i giovani hanno l’impressione che la famiglia sia qualcosa che stanchi. Quando, poi, la famiglia diventa un albergo, non ci si parla, non ci si vuole bene, non ci perdona, non ci si accoglie, c’è veramente il rischio anche di arrivare qualche volta alla separazione.

D. – Turni, spesso anche scomodi, a cui sempre più frequentemente vengono sottoposti molti lavori. Ad esempio, il lavoro domenicale: penso agli esercizi commerciali o addirittura al lavoro notturno. Anche queste sono cose che vanno a incidere sull’equilibrio della famiglia, sulla serenità, sulla condivisione in famiglia...

R. – Si pensi per esempio all’impossibilità, qualche volta, di celebrare la festa in famiglia anche dal punto di vista cristiano: si è lì, come se fosse un giorno come tutti gli altri, perché magari la mamma lavora in un supermercato, il papà è impegnato da un’altra parte, i figli non riescono nemmeno a venire in chiesa, non possono muoversi. Qualche volta, c’è la fortuna di avere i nonni anche e soprattutto per la trasmissione della fede.

D. – Lo stato delle cose oggi porta anche ad un confronto tra generazioni lontane, i nonni e i nipoti proprio per questo motivo, dettato dal lavoro, dall’impossibilità dei genitori a seguire come prima, come una volta, i propri figli…

R. – Certamente. È una fortuna avere i nonni che aiutano a legare la famiglia, a tenerla unita. Molte volte sono loro che portano i ragazzi in parrocchia, a scuola, che li seguono, sempre in contatto con i genitori. Per cui, in questo momento sono figure che vanno valorizzate.

D. – Tornando al tema del lavoro, il Sinodo che prospettive può offrire? La Chiesa può aiutare nello stabilire un rapporto equilibrato con la dimensione del lavoro?

R. – Penso di sì. Ma direi che la Chiesa, soprattutto, dovrebbe proporre a quelli che sono imprenditori cattolici, impegnati nell’area del commercio, nei supermercati per fare un esempio, a fare una scelta coraggiosa: vivere la domenica e farla vivere anche ai loro dipendenti. Va riscoperto il valore del lavoro, che chiaramente è uno strumento per portare avanti la propria famiglia – "ora et labora", noi siamo stati creati da Dio anche per lavorare – però, il fine ultimo della nostra vita non è il lavoro, è la festa. Direi che il Signore ci ha creati per la domenica. È lì che c’è il senso di tutto il lavoro.

D. – C’è un cammino da percorrere che è controcorrente rispetto a quello che la società a volte impone con i suoi ritmi e con le sue regole?

R. – Certo, il Vangelo va sempre controcorrente, è sempre una grande novità che rende più bella la vita degli uomini, del mondo, della Chiesa. Quindi riscoprire il Vangelo della vita, di una vita piena!

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Nomine episcopali in Sri Lanka e Perù

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Nello Sri Lanka, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Jaffna, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Thomas Savundaranayagam Emmanuel. Al suo posto, il Papa ha nominato mons. Justin Bernard Gnanapragasam, vicario generale della medesima Diocesi. Il presule è nato il 13 maggio 1948, a Karampon, Kayts, in Diocesi di Jaffna. Dopo la scuola elementare presso il St. Anthony’s College, a Kayts, è entrato nel Seminario Minore di Jaffna ed ha continuato la scuola secondaria nel St. Patrick’s College. Ha completato la formazione filosofica nel Seminario Nazionale di Kandy e quella teologica nel Papal Seminary di Poona, in India. È stato ordinato sacerdote per la Diocesi di Jaffna il 24 aprile 1974. Dopo l’ordinazione sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: 1974-1975: Vicario parrocchiale nelle missioni di Kilinochchi e Valaipadu; 1975-1976: Vicario parrocchiale nella missione di Uruthirapuram; 1976-1979: Vicario parrocchiale a S. Anna, Ilavalai; 1979-1980: Studi di Teologia Ecumenica presso l’Università di Hull, Regno Unito; 1980-1985: Parroco nella missione di Mareesankoodal e Vice-Rettore di St. Henry’s College; 1986-1989:  Studi in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Southampton, Regno Unito; 1990-1994:   Direttore di un gruppo di Scuole statali; Rettore del St. Henry’s College; 1995-2002: Decano del Decanato di Ilavalai (9 parrocchie); 1992-2006:  Visiting Professor nel Seminario Maggiore di Jaffna; 2002-2007: Rettore, St. Patrick’s College, Jaffna; dal 2002:  Esaminatore di tesi dottorali, Università di Jaffna; dal 2007: Vicario Generale di Jaffna; dal 2008: Direttore della tipografia cattolica di Jaffna.

La Diocesi di Jaffna (1886), suffraganea dell’Arcidiocesi di Colombo, ha una superficie di 4.400 kmq e una popolazione di 1.505.000 abitanti, di cui 247.315  sono cattolici. Ci sono 59 Parrocchie, servite da 162 sacerdoti  ( 100 diocesani e 62 religiosi), 97 Fratelli Religiosi,  230 suore e 31 seminaristi.

In Perù, il Pontefice ha nominato ausiliare della diocesi di Chosica padre Arthur J. Colgan, della Congregazione della Santa Croce, finora vicario generale della medesima diocesi. Il neo presule è nato l'8 novembre 1946 a Dorchester, Massachussetts, arcidiocesi di Boston (Stati Uniti). Emise la prima professione nella Congregazione della Santa Croce il 16 luglio 1966 e la solenne l'11 agosto 1971. È stato ordinato presbitero il 27 ottobre 1973. Dopo gli studi elementari, il P. Colgan ha frequentato corsi di specializzazione filosofica e teologica negli Stati Uniti e in Cile. Ha ricoperto diversi incarichi di pastorale diretta, di governo diocesano e di governo all'interno del suo Istituto religioso, quale: Superiore della Congregazione di Santa Croce in Perú (1974-1975); Parroco di Santa Cruz, diocesi di Chimbote (1975-1982); Vicario Generale della diocesi di Chimbote (1978-1980); Parroco di El Señor de la Esperanza in Canto Grande, diocesi di Chosica (1982-1987); Segretario Esecutivo della Commissione Episcopale per l'Azione Sociale della Conferenza Episcopale Peruviana (1982-1992); Vicario Episcopale dell'arcidiocesi di Lima (1993-1997); Assessore Teologico della Commissione Episcopale per l'Azione Sociale della Conferenza Episcopale Peruviana (1999-2000); Superiore Provinciale della Eastern Province della Congregazione di Santa Croce a Bridgeport, Connectiut, Stati Uniti (2000-2009); dal 2010 è Vicario Generale della diocesi di Chosica.

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Papa: vivere la solidarietà. Bregantini: aprire cuore a bisognosi

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“Impariamo a vivere la solidarietà. Senza la solidarietà, la nostra fede è morta”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account twitter @Pontifex. Un richiamo particolarmente significativo a poche settimane dall’inizio del Giubileo della Misericordia. Sul binomio solidarietà-fede, Alessandro Gisotti ha intervistato l’arcivescovo di Campobasso-Bojano, mons. Giancarlo Maria Bregantini

R. – “Dai da mangiare a chi ha fame”. Sentiamo che le opere di misericordia concretizzano, passo dopo passo, secondo anche i volti della storia, il grande bisogno di dire che in quella fede c’è l’energia vitale. La solidarietà ti dà il volto dove esprimere, con la certezza che il gesto di fede nella solidarietà diventa più autentico, più vitale e la solidarietà dà alla fede quella luminosità anche di testimonianza che si fa catechesi. E’ molto bella la saggezza della Chiesa di mettere insieme il volto dell’Eucaristia e il volto del povero, la mensa e la Messa, come abbiamo visto con Madre Teresa, è da sempre la forza della santità cristiana.

D. – Proprio domenica scorsa, durante la visita in Molise del card. Parolin, è stato inaugurato a Campobasso un dormitorio per i poveri della Caritas diocesana…

R. – E’ stato benedetto, ma era aperto ormai da 7-8 mesi, forse di più… La necessità è nata una sera: un poveraccio intirizzito dal freddo, dopo che lo abbiamo nutrito alla mensa a mezzogiorno, gli diamo un pasto caldo e lo mettiamo in un letto all’interno, vicino alla mensa… Il letto che serviva agli operatori per l’emergenza! Da quel segno è nato successivamente, sera per sera, un crescendo; fino ad essere più di 100, durante l’estate, accolti in una tenda della Protezione Civile in sinergia con noi. Il card. Parolin, con molta dolcezza, ha ascoltato, visto, parlato, anche le lingue che lui possiede, specie con il mondo dei pakistani… E’ stato molto bello questo momento di ascolto, che ci ha fatto anche capire quanto sia stato provvidenziale aver aperto questo canale: per cui accanto al cibo, c’è il letto, c’è la casa, c’è l’esperienza di una accoglienza vera. Ed è proprio vero quello che dice anche qui Gesù: “Ero straniero e mi avete accolto; avevo bisogno di una casa e mi avete dato un posto letto al caldo”.

D. – Il Giubileo della Misericordia si avvicina: cosa si aspetta, come pastore, da questo anno voluto da Papa Francesco?

R. – Grandi cose e non per le cose che si fanno, ma perché sentiamo che è stata veramente una ispirazione di Dio. Ci accorgiamo che la misericordia è il sapore delle cose, è il segno della porta aperta, immagine del cuore, forza trainante per una società che non deve avere paura del profugo o del povero o di chi ha dei problemi. Questa circolarità ci farà sentire la stessa gioia di una donna di Lidia che – negli Atti degli Apostoli – viene presentata come la donna dell’accoglienza: lei apre il cuore, apre la sua casa e apre la comunità a Paolo. Così vorremmo che fossero nel Giubileo anche le nostre comunità: con un cuore aperto alla Parola e alla preghiera, con una casa aperta ai vicini di casa e una comunità aperta a chiunque bussi.

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Festival di musica e arte sacra dedicato a S. Giovanni Paolo II

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Un festival dedicato a San Giovanni Paolo II a dieci anni dalla morte e ispirato ai valori del dialogo, della pace e della carità. E’ quanto vuole essere la XIV edizione del Festival di Musica e Arte Sacra che torna Roma dal 28 ottobre al 4 novembre. Come ogni anno le Basiliche Papali ospiteranno i concerti con artisti provenienti da 9 paesi del mondo. Orchestra in residence, quella austriaca, dei Wiener Philharmoniker, in un’edizione che apre al repertorio sacro contemporaneo e al dialogo ecumenico, mantenendo l’impegno per la raccolta fondi destinata al restauro delle più belle chiese della capitale. Il servizio di Gabriella Ceraso: 

“Noi cerchiamo, tramite la musica sacra, di portare la gente al Signore, sensibilizzando in queste belle basiliche: quando loro sentono questa bella musica, di pensare anche che queste basiliche vanno restaurate”. 

Dunque fede, arte e bellezza: nelle parole di Hans Albert Courtial, presidente della fondazione Pro Musica e Arte sacra, c’è l’essenza invariata del Festival, nato quattordici anni fa. Comune ed entusiasta la scelta di dedicarlo ed affidarlo a San Giovanni Paolo II, "un grande esempio di coraggio", che ricorda il cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica Papale di San Pietro, "già in gioventù rimasto solo nel contesto della Seconda Guerra Mondiale, ci ha insegnato a non rassegnarci al male":

“Questo giovane 21enne in un contesto di violenza, in un baratro di cattiveria, che dice: 'Signore, ti metto a disposizione la mia vita per aprirti strade nella storia degli uomini'. E l’ha fatto. Oggi il mondo sta vivendo momenti bui, dobbiamo fare come lui: Dio ha bisogno di questo, di uomini così”.

L’appuntamento più atteso quest’anno è il 28 ottobre nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura con la settima e ottava Sinfonia di Beethoven affidate ai celebri Wiener Philharmoniker guidati da uno dei massimi direttori viventi, Herbert Blomstedt, alla presenza e in onore dei principi di Liechtenstein, grandi sostenitori dell’impegno artistico del Festival.

Curiosità e sfida invece della quattordicesima edizione è l’apertura alla musica sacra contemporanea. Sarà nel programma del 31 ottobre, del coro svedese da camera St Jacobs guidato da Gary Garden e sarà anche, a chiusura del Festival, nella prima italiana della Toccata, Canzone e fuga in re maggiore per organo a canne, di Giovanni Allevi, che del ruolo della musica parla così:

"Per me la musica deve essere un potente veicolo di avvicinamento alla trascendenza. Credo che, in un’epoca come quella che stiamo vivendo oggi, piena di dissidi, sia necessario che la musica ci possa trascinare verso orizzonte sempre nuovi e sempre più alti"

Rispondendo ad una vocazione di dialogo e pace,il Festival ospita il 31 ottobre nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, il concerto del Coro e dell'Orchestra delle Nazioni, diretto da Justus Frantz, in cui serbi e sloveni, israeliani e siriani, francesi e cinesi, russi e ucraini parlano una lingua comune che è la musica. Anche in questa edizione inoltre si rinnova la vocazione del Festival a promuovere un cammino ecumenico. Ad esibirsi insieme, in un progetto avviato nel 2012, si trovano i cantori del Coro della Cappella Musicale Pontificia Sistina e i componenti del St Jacob's Chamber Choir complesso luterano di Stoccolma, che hanno insieme preparato il programma del concerto del primo novembre nella Basilica di Santa Maria Maggiore, come sottolinea il direttore della Sistina il M° Massimo Palombella:

“Dovendo lavorare con un coro luterano che tendenzialmente fa un programma contemporaneo al concerto, la scelta è stata quella di un programma identitario della scuola rinascimentale che si è venuta creando qui a Roma con autori come Palestrina, Lasso, da Victoria, quindi un programma decisamente rinascimentale con due brani eseguiti insieme, un bis a sorpresa e una conclusione sul Tu es Petrus di Palestrina. Per quanto riguarda invece la questione dell’ecumenismo, l’arte, la musica e le fonti comuni sono proprio i veicoli primi per trovare punti di contatto e scoprire che sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono, dal punto di vista globale”.

Dunque appuntamento il 28 ottobre alle ore 17 in San Pietro per la Messa d'apertura del festival e poi spazio a circa 600 artisti da nove Paesi del mondo, insieme al motto di "L'Arte salva l'Arte"

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Esplode la violenza in Israele e Hamas proclama la Giornata della rabbia.

Segno di vicinanza: il cardinale Giovanni Battista Re sul messaggio di Fatima ieri e oggi.

Prima incontrare poi organizzare: Beniamino Stella sul sacerdote e la misericordia.

Non problema ma parte della soluzione: l'arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati su libertà religiosa e diritti umani nell'Europa del XXI secolo.

Il martirio sfiorato: Francesco Scoppola sulla persistenza degli enigmi in Caravaggio.

Mister Ripley della bicicletta: Emilio Ranzato recensisce il film di Stephen Frears sulla vita di Lance Armstrong.

Lo storico nella rete: Gaetano Zito illustra le nuove risorse di una disciplina antica.

Gabriele Nicolò su c'era una volta Eton.

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Oggi in Primo Piano



Gerusalemme, tre morti tra cui un rabbino in due attentati

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Ci sono  almeno tre morti e una ventina di feriti negli attacchi di stamattina a Gerusalemme. Tra i morti anche il rabbino Yeshaye Krishevsky. La polizia ha precisato che sono stati due e non tre, come riferito in un primo momento, gli attentati in contemporanea. Si aggiungono, però,  i due accoltellamenti a Raanana. Continua, dunque, l’ondata di violenze che viene definita l’"Intifada dei coltelli”. "Riteniamo il governo israeliano completamente responsabile per l'escalation di violenza a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza", ha affermato da Ramallah il segretario generale dell'Olp, Saeb Erekat. Fausta Speranza ha chiesto una riflessione a Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento: 

R. – Anche le precedenti Intifade, soprattutto la prima – perché la seconda sicuramente aveva un carattere meno spontaneo – sono sempre state caratterizzate dall’impegno sia delle donne che degli adolescenti. In questo caso, le donne sono più legate magari a gruppi più estremisti rispetto soprattutto alla prima Intifada, ma in ogni caso la loro presenza non è sicuramente maggiore rispetto agli altri momenti di rivolta nei confronti del governo israeliano.

D. – Una innegabile recrudescenza di violenza. Ma soddisfano le dichiarazioni rilasciate, da una parte e dall’altra, dalle autorità?

R. – No, non soddisfano, anche perché entrambe le autorità – mi riferisco cioè sia al governo d’Israele che all’Autorità palestinese – dovrebbero fare un forte mea culpa. E’ passato il tempo e non si riesce a trovare una qualsiasi soluzione, anche minima. C’è un reciproco disconoscimento, un tentativo di indebolirsi vicendevolmente, e naturalmente chi ne fa le spese non sono tanto coloro i quali sono al potere, ma naturalmente le persone che risentono della occupazione israeliana, da una parte, o della violenza da parte dei gruppi terroristici palestinesi, dall’altra.

D. – Lamentavamo uno stallo nel negoziato di pace: era una calma sicuramente preoccupante. In questo momento siamo in un’altra fase, molto più preoccupante…

R. – Sì, molto più preoccupante, anche per una ragione, secondo me: il fatto che il movimento palestinese in questo momento non abbia una vera leadership, nel senso che Abu Mazen è stato indebolito sia dall’interno che dall’esterno. Sembrava che la manifestazione pubblica, quando è stata issata la bandiera palestinese all’Onu, fosse stata una sua grande vittoria, ed è sicuramente una vittoria, ma viene sentita soprattutto nelle strade della Cisgiordania come una minima vittoria, come una vittoria di facciata, che non ha alcuna ricaduta vera sulla vita comune quotidiana delle persone. Dall’altra parte, lo stesso Netanyahu non ha fatto nulla per irrobustire la leadership di Abu Mazen. Questo indebolimento di Abu Mazen, però, purtroppo poi sul campo porta invece al rafforzamento dei gruppi estremisti, sia a Gaza sia in Cisgiordania, che naturalmente non fanno altro che tentare di mettere in difficoltà in maniera violenta il governo di Israele.

D. – Il muro non può essere l’unica soluzione da perseguire…

R. – La rivolta avviene generalmente a Gerusalemme o nei dintorni di Gerusalemme, cioè praticamente dove il muro non c’è. Il muro è servito soprattutto a proteggere dai grandi attentati con esplosivo e questo è stato un successo. Naturalmente, è difficile controllare tutte le persone che attraversano i posti di blocco, una per una. E’ soprattutto ai posti di blocco che le persone tentano di farsi saltare in aria e generalmente questo per fortuna non avviene. Il problema del passaggio, da Gerusalemme est a Gerusalemme Ovest, invece non può essere fermato perché tra Gerusalemme Est e Gerusalemme Ovest non ci sono muri, non ci sono barriere, non ci sono dei posti di blocco, a meno che non si parli naturalmente degli ingressi nelle aree sacre, come può essere il muro occidentale o l’ingresso alla Spianata delle moschee. No, non è l’unica soluzione da perseguire. E’ al tavolo delle trattative che le soluzioni devono essere trovate. Non si può continuamente dire “no” a tutte le proposte che vengono o da una parte o dall’altra. Una soluzione deve essere trovata. Di certo, ci sono degli incontri segreti tra le due parti, ma gli incontri segreti non hanno portato al momento ad alcun risultato. E questo, naturalmente, non fa altro che innalzare la tensione e soprattutto aumentare l’umiliazione delle persone per strada, soprattutto nella Cisgiordania.

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Rapporto Fao 2015: protezione sociale per obiettivo "fame zero"

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Protezione sociale e sostegno all’agricoltura: al centro del Rapporto 2015 sullo stato dell’alimentazione nel mondo, presentato stamane a Roma nella sede della Fao, dal direttore generale dell’Agenzia Onu, José Graziano da Silva. Il servizio di Roberta Gisotti: 

Alla vigilia della Giornata mondiale sull’alimentazione del 16 ottobre, la Fao presenta il suo piano per raggiungere l’obiettivo, "fame zero", fissato dall’Onu nella nuova Agenda per lo sviluppo al 2030. Una sfida enorme per tutti i Paesi - ha detto il direttore generale da Silva - che richiede dalla politica altri fondi da destinare a programmi di protezione sociale nelle zone rurali, dove vive l’80% dei poveri. Programmi che oggi beneficiano circa 2 miliardi di persone, permettendo l’uscita dalla povertà estrema a 150 milioni di persone. Bisogna alzare questi numeri . La Fao stima che 67 miliardi di dollari - appena lo 0,1% del Pil mondiale - per integrare il reddito dei più poveri, possono eradicare la fame nei prossimi 15 anni, come spiega Marco Knowles, economista della Fao:

R. – Bisogna affrontare il problema della povertà e della fame nel mondo con un pacchetto di interventi che includano sia interventi di protezione sociale, sia interventi di agricoltura. Interventi di assistenza sociale possono essere dei trasferimenti di soldi o di cibo, che aiutino le famiglie ad affrontare alcuni problemi gravi, come alleviare la fame e la povertà nel tempo immediato. La ricerca dimostra però anche che questi interventi aiutano le famiglie ad investire nello sviluppo agricolo. D’altro canto le politiche di sviluppo agricolo aiutano a risolvere dei problemi strutturali, come l’accesso ai servizi, l’accesso ai mercati.  

D. – Queste misure devono arrivare dall’aiuto allo sviluppo dei Paesi esteri o anche dagli stessi Paesi interessati?

R. – I Paesi interessati stanno investendo sempre di più: ci sono esempi come il Kenya, il Lesotho, la Zambia, che stanno aumentando i loro contributi a questi programmi di protezione sociale. Ma stiamo comunque parlando di Paesi molto poveri e quindi c’è bisogno anche di aiuto dai Paesi più sviluppati, anche per dimostrare l’efficacia di questi interventi.

D. – La protezione sociale, in quali ambiti deve essere applicata?

R. – Inizialmente la protezione sociale veniva applicata nei contesti più di emergenza – tipo una siccità, un'inondazione o un innalzamento dei prezzi – adesso, però, si sta pensando alla protezione sociale in maniera diversa, perché la ricerche dimostrano che non è efficace solamente in un momento di emergenza, ma la protezione sociale può contribuire allo sviluppo, alleviare dei problemi più strutturali, assieme ad altre politiche: chi riceve, per esempio, l’assistenza sociale investe una parte del capitale  per mandare i bambini a scuola, per migliorare la nutrizione, per la sanità e anche facendo degli investimenti produttivi nelle proprie attività agricole.

D. – Ecco, per quanto riguarda l’agricoltura, bisogna anche indirizzare le popolazioni rurali verso le giuste coltivazioni, affinché siano anche sostenibili…

R. – Sì, è importante che ci sia un intervento che includa sia aiuti di protezione sociale che all'agricoltura, perché le famiglie che ricevono sostegni possano beneficiare delle informazioni che può dare il ministero dell'agricoltura, informando loro su quali siano i prodotti agricoli che hanno più mercato, come coltivarli e quindi dando loro accesso alle informazioni importanti e anche accesso ai mercati.

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Stop a traffico migranti: la campagna Vis-Missione Don Bosco

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Un migrante su due non conosce i rischi del viaggio per l’Europa e sei su dieci si muovono per motivi economici. Sono tra i principali dati illustrati oggi durante la presentazione della campagna “Stop-Tratta – Qui si tratta di essere/i umani”, realizzata da Missioni Don Bosco e Vis e rivolta a Paesi di origine e transito dell’Africa Subsahariana: Ghana, Senegal, Nigeria, Costa d’Avorio ed Etiopia. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

Partono per l’Europa per ragioni di studio o di lavoro, ma senza sapere a cosa vanno incontro, e senza sapere quali rischi si corrono a non sapere nuotare o a non conoscere il deserto e la sua pericolosità. Il rapporto di Vis e Missioni Don Bosco delinea i contorni dei migranti economici che lasciano l’Africa Subsahariana, con un focus su Ghana, Senegal e Costa d’Avorio, Paesi da dove la percentuale di giovani che vuole partire si aggira attorno al 60 per cento. La consapevolezza dei rischi del viaggio non è però la stessa per tutti, laddove sono i ghanesi a sembrare totalmente ignari del destino che potrebbe attenderli. La riflessione di Nico Lotta, presidente del Vis:

R. – Da quello che ci viene detto dalle comunità salesiane in loco e dai nostri volontari, le vittime sono per la gran parte inconsapevoli e incoscienti dei rischi che vanno a correre. Una prima parte della campagna è stata proprio la raccolta di indagini, di interviste, di informazioni sul posto, andando ad intervistare le comunità a più alto tasso di emigrazione. In Ghana, otto migranti su dieci sono incoscienti dei rischi che vanno a correre e non considerano la morte come una possibilità. Se si fa una media in tutti i Paesi dell’Africa subsahariana, in cui abbiamo fatto questa intervista, uno su due non ha coscienza dei rischi e non mette in conto la possibilità di morire. Da questo nasce l’idea, da un’esigenza che viene manifestata dalle comunità locali salesiane e dai nostri volontari: il fare controinformazione, raccontare la verità, soprattutto ai giovani che si mettono in viaggio attraverso la migrazione illegale, attraverso i trafficanti di esseri umani.

D. – Sapendo quali sono le motivazioni, fortissime, che spingono queste persone a lasciare i loro Paesi, ad intraprendere viaggi così rischiosi, i vostri avvertimenti in qualche modo li dissuadono?

R. – C’è la seconda parte dell’azione: provare a studiare, anche con singole persone, dei progetti sostenibili. La parola chiave che vogliamo dare è quella della consapevolezza, il rendere coscienti di quale sia il rischio che si va ad affrontare. La seconda fase è provare ad immaginare insieme percorsi sostenibili, in chiave migratoria, ma provare anche a dare delle possibilità, restando nelle comunità di partenza, non con lo spirito di “aiutiamoli a casa loro” o “blocchiamo il flusso di migrazione”, ma cercando di assecondare il progetto di vita di ognuno. È una cosa ovviamente complicata, ma è questo l’approccio che vogliamo provare ad avere.

D. – Questo è il primo rapporto, che dati presentate?

R. – Quelli di interviste a gruppi target, che ovviamente non hanno la pretesa di avere un valore statistico, ma testimoniano i risultati di centinaia di interviste fatte nei gruppi da cui provengono la maggior parte delle migrazioni di quell’area. I dati che presentiamo sono proprio questo: il capire quale coscienza c’è dei rischi che si vanno ad affrontare; quali sono le falsità e le bugie che i trafficanti di esseri umani raccontano ai gruppi vulnerabili, per convincerli ad intraprendere il viaggio; e poi un’indagine che ci consente di capire quali sono i mezzi di comunicazione che meglio funzionano in ogni singola area: dai giornali ai social media, a incontri che fisicamente si possono organizzare nelle parrocchie e nei centri salesiani delle aree più remote. L’indagine ha vari aspetti: il capire le motivazioni; quali siano i mezzi di intervento più efficaci; il rendersi conto del grado di consapevolezza che hanno i giovani che si mettono in marcia.

D. – Ma questi uomini, soprattutto, non mantengono i contatti con il loro Paese di origine tanto da avvertire gli altri di ciò che loro stessi hanno dovuto subire?

R. – Quello che dice lei è assolutamente vero. Un aspetto è che, spesso, il descrivere il fallimento di un percorso migratorio non sempre avviene nella verità. In molti casi, cioè, ci si vergogna di dover ammettere un fallimento. L’altro aspetto è che non sempre le comunità dei salesiani, nelle zone più remote, hanno la possibilità di questo tipo di aggancio. I due aspetti quindi sono questi: la “vergogna” nel dover o tornare indietro o ammettere un fallimento, inoltre chi rientra normalmente nasconde, per la maggior parte, le violenze subite o le torture a cui è stato sottoposto, e magari viene visto come una persona che è arrivata, che ha una possibilità e che spicca nel resto della comunità. E’ un aspetto culturale molto delicato su cui cercheremo di intervenire. Ovviamente, interveniamo dall’estero come osservatori del fenomeno. Quello che ci aiuta nell’elaborare delle strategie sono le comunità salesiane, che sono lì da decine di anni, con molti salesiani locali, che quindi ci aiutano a capire, assieme alla comunità di intervento, quale sia la chiave comunicativa giusta per quella fetta di popolazione, che evidentemente non può essere un discorso generale per tutta l’Africa subsahariana.

D. – Avete in qualche modo anche monitorato ciò che accade regolarmente alle persone che arrivano in Europa provenienti da quei Paesi?

R. – Per i nostri dati siamo partiti da quelle che sono le comunità dei salesiani che in Italia fanno accoglienza dei migranti, ascoltando quella la loro prospettiva di partenza e quello che poi invece si sono trovati a vivere. L’altro gruppo target su cui lavoriamo sono i migranti di rientro, persone che hanno rinunciato al viaggio, che non sono riusciti a completarlo e grazie a Dio sono sopravvissuti, ma sono tornati a casa assolutamente in condizioni di impoverimento, sia reale che psicologico, in situazioni di grande frustrazione. L’aspetto di questa campagna è il lavorare in rete in maniera integrata. Proveremo a far passare i nostri messaggi a partire dai centri salesiani, ma anche in collaborazione con le diocesi, con le parrocchie, per dare la più profonda diffusione sia della parte informativa sia della possibilità di avere dei progetti di sostegno per realizzare dei progetti sostenibili. Ugualmente importante è l’azione che si fa in Italia sia di sensibilizzazione sia di accoglienza. Il problema dell’emigrazione non può più essere affrontato per slogan o facendo leva sulla paura, ma deve essere affrontato in tutta la sua complessità ed in tutte le sue fasi. Questo è quello che la campagna, nel nostro piccolo ovviamente, con le nostre forze si propone di fare: agire e intervenire, studiare, riflettere su tutte le tappe del percorso migratorio.

Obiettivo della campagna è quello di contrastare quindi il traffico di esseri umani sensibilizzando le potenziali vittime sui pericoli dei viaggi, e prevedendo inoltre progetti di sviluppo diretti a gruppi particolarmente vulnerabili e diversificati a seconda del Paese. 

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Giornata Onu disastri ambientali: cooperare per prevenirli

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Sono oltre 19 milioni gli sfollati nel mondo solo nel 2014 per cause ambientali. Oltre 157 milioni di persone in 6 anni, dal 2008 al 2014, sono fuggite dai loro Paesi per colpa degli eventi meteorologici estremi. Questi i dati ricordati oggi, nella Giornata internazionale indetta dall'Onu per la riduzione dei disastri naturali che minacciano l'uomo. Si avverte dunque sempre più l’esigenza di prenderci cura della nostra "casa comune", così come ha chiamato la terra Papa Francesco nella sua Enciclica "Laudato si'". Francesca Di Folco ha parlato con Andrea Masullo, presidente di Green Accord, Associazione culturale per la salvaguardia del Creato, del sottotitolo della giornata che, quest’anno, ha per tema la prevenzione e mitigazione degli effetti delle catastrofi: 

R. – Chiariamo che i disastri non sono mai naturali: le cause scatenanti sono eventi naturali, ma poi le conseguenze sono dovute all’azione sconsiderata dell’uomo. Quindi, questa Giornata ha un significato molto particolare proprio quest’anno in cui proprio in questo momento in cui siamo alla vigilia dell’incontro di Parigi, della Cop21, che si terrà nei primi giorni di dicembre, e dopo l’Enciclica “Laudato si’”, in cui il Papa ha sottolineato propri l’importanza dello sforzo della famiglia umana a salvare la nostra casa comune, sottolineando soprattutto il fenomeno più grave che è quello dei cambiamenti climatici.

D. – L’attenzione è puntata sul valorizzare le capacità delle persone e delle comunità a ridurre i danni provocati dall’ambiente. Eppure, come specifica Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si’”, spesso i disastri climatici maggiori si abbattono proprio nelle zone del sud del mondo, in cui le popolazioni sono già vessate da condizioni ostili…

R. – Certo! Questo è il problema che nasce dal momento in cui i disastri naturali non sono più locali, ma diventano disastri globali. Per cui, la causa scatenante avviene nei Paesi ricchi e le conseguenze sono su tutto il pianeta: ma i Paesi ricchi sono più in grado di farvi fronte e porvi rimedio, mentre i Paesi poveri non hanno le risorse sufficienti per difendersi da questi disastri. E’ fondamentale il coinvolgimento della popolazione: altro tema molto sottolineato nell’Enciclica. Cosa che, purtroppo, non sta avvenendo: c’è bisogno di un coinvolgimento sia come informazione, sia come educazione al cambiamento degli stili di vita per abbracciare stili di vita compatibili con la lotta ai cambiamenti climatici. Quindi, responsabilità sì delle nazioni e degli organismi competenti, ma anche delle singole persone.

D. – Oggi, stiamo assistendo a migrazioni dovute a guerre, almeno per la maggior parte. Papa Francesco, nella sua Enciclica “Laudato si’”, scandisce invece bene come molte migrazioni possono essere causate da catastrofi naturali: una per tutte è Haiti…

R. – Certamente. Le guerre, secondo gli analisti che studiano i cambiamenti climatici, sono sempre più guerre non solo per l’accaparramento delle risorse, ma per sfuggire alle conseguenze dei cambiamenti climatici: desertificazione, carenze di acqua potabile, territori resi inabitabili… Ormai sempre più si sta affermando nel fenomeno migratorio, anche nel computo delle Nazioni Unite, la categoria dei rifugiati ambientali: persone che fuggono dall’inquinamento, ma che fuggono anche dalle catastrofi naturali. Certamente, Haiti è uno degli esempi più drammatici di questo, ma ci sono anche esempi – diciamo – che crescono con gradualità e che quindi non creano l’effetto notizia come un fenomeno improvviso come quello di Haiti…

D. – Assennata pianificazione per lo sfruttamento delle terre, migliori sistemi di allerta, oculata gestione ambientale, piani di evacuazione. Quali sono, invece, le regole per mitigare e prevenire i rischi ambientali che ognuno d noi, nel suo piccolo, in base anche alle nuove tecnologie, può attivare…

R. – Alla base di tutto c’è ovviamente l’educazione ambientale. Noi siamo portati a comportamenti standardizzati, dettati dal sistema consumista senza porci il problema delle conseguenze delle nostre scelte quotidiane. La cosa fondamentale è prendere coscienza delle conseguenze delle proprie azioni. Potremmo parlare di uno stile di vita orientato più alla sobrietà e che rifiuti il consumismo ottuso del giorno dopo giorno, dettato dai meccanismi pubblicitari, desideri coatti che ci spingono poi a fare scelte sconsiderate. Sicuramente è uno stile di vita che va riformato e soprattutto un approccio etico alla considerazione dell’ambiente. 

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Fondazione Di Liegro, la solidarietà allevia la disabilità

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Il disagio mentale in Italia è ancora visto come un tabù e sfocia spesso nell’emarginazione, nell’isolamento sociale e nell’assenza di strutture sociosanitarie dedicate, con relativa carenza di percorsi alternativi di inserimento sociale e lavorativo per le vittime colpite da questo fenomeno. Esistono però isole felici come la Fondazione "Don Luigi di Liegro", che aiuta le famiglie concretamente. Federica Baioni ha ascoltato la storia di Marco di Bartolomeo, genitore e volontario della Fondazione Don Luigi di Liegro, del quale ieri si è ricordato il 18.no anniversario della morte: 

R. – La nostra è la storia di una famiglia, una famiglia felice, che improvvisamente, il sorgere di questa malattia mentale ha messo a durissima prova, turbando la nostra quiete e la nostra vita.

D. – Cosa ha trovato di essenziale e di utile nell’aiuto dato dalla Fondazione di Liegro a lei e alla sua famiglia?

R. – Sicuramente, la possibilità di capire un pochino meglio che cosa ci stava capitando. La cosa davvero straordinaria è stata la possibilità di frequentare un corso di formazione in rete per volontari e famiglie sulla salute mentale. Io ho conosciuto la Fondazione attraverso questo corso. La Regione Lazio aveva pubblicato qualcosa al riguardo, allora ho preso contatti con la Fondazione e ho partecipato al loro corso di formazione. E grazie al corso è stato possibile avere molte risposte: si è fatto luce sul problema della nostra famiglia, della malattia del nostro ragazzo, e abbiamo conosciuto un pochino meglio qual era lo stato dei lavori in Italia. E questo è veramente in una situazione di disperazione, tant’è che una famiglia può trovare giovamento collegandosi a strutture di volontari – e ce ne sono tante. La Fondazione internazionale Don Luigi Liegro è in prima linea e tra le più qualificate per aiutare una famiglia che si trova di fronte a problemi come i miei. E lì è nata una rete di contatti, di relazioni umane, che ha fatto una bella differenza e ha consentito di ridurre il disagio, la grande sofferenza e il dolore con cui si deve fare i conti tutti i giorni.

D. – Soprattutto, questa vicinanza, questo raccordo umano – insomma, questo sentire ed essere vicini in prima persona come padre – lei li ha avvertiti ogni giorno. Ci vuole raccontare un aneddoto? Come trascorrevate il tempo, lei e suo figlio?

R. – Abbiamo cercato di risolvere o di attenuare il disagio andando d’istinto. L’istinto di padre è stato quello di dedicarmi ventiquattr'ore al giorno a questo ragazzo e di stabilire con lui un rapporto di amore incondizionato. Questo, senz’altro, ha dato da subito i suoi primi risultati, perché il ragazzo ha cominciato a stare meglio. Abbiamo condiviso insieme la passione per la corsa.

D. – Se dovesse consigliare ad un’altra coppia di genitori con lo stesso problema il suo percorso, lo farebbe?

R. – Volentieri, assolutamente sì! E poi è quello che la stessa Fondazione fa con tutte quelle famiglie che si trovano nelle mie stesse condizioni. Quando una famiglia comincia a frequentare la Fondazione, scatta uno stato di speranza condivisa. E devo dire che questo fa una grande differenza, in quanto si riprende una vita normale e non si è più segregati e lontani dalla società: si ha il senso di appartenenza ad una comunità. La stessa Fondazione organizza molti corsi creativi per questi ragazzi, ma anche per i familiari. Quindi è un punto di incontro importante.

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Indagine su giovani romani: famiglia resta punto fondamentale

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Tra i giovani romani la famiglia rimane un punto di riferimento solido, mentre diminuiscono l’impegno nel volontariato e l’interesse politico. E’ quanto emerge dalla ricerca “Capitale adolescenti. La sfida del passaggio all’età adulta in una società complessa”, realizzata dai Salesiani di Roma in collaborazione con l’Istituto Toniolo e l’Università Cattolica di Milano e presentata oggi in Campidoglio. Il servizio di Michele Raviart: 

Famiglia, scuola, benessere e valori. Su questi grandi temi 700 adolescenti romani iscritti ai primi tre anni di licei, istituti tecnici e professionali hanno espresso le loro opinioni nella ricerca promossa dai salesiani. I ragazzi, per la maggior parte nati tra il 1998 e il 2000, dicono di avere un’alta considerazione della famiglia, come spiega Elena Marta, docente di Psicologia Sociale di Comunità dell’Università Cattolica di Milano:

“Dai dati emerge che la famiglia è e continua a rimanere un punto di riferimento fondamentale per questi ragazzi, dove i ragazzi trovano supporto, dove possono comunicare con entrambi i genitori. E’ un po’ meno ‘famiglie delle regole’, ‘famiglia delle norme’. E’ una famiglia in cui poco si parla e si discute dei temi sociali, in cui lo stile educativo va verso l’individualismo e la sfiducia nel sociale. Un dato che ci ha molto colpito è che mentre qualche anno fa il genitore che era più citato dai ragazzi, con cui i ragazzi dicevano di avere relazioni più buone, era sempre la madre, sia che fossero maschi sia che fossero femmine; questi dati, invece, mettono in evidenza come per i maschi il padre sia tornato ad essere punto di riferimento”.

La scuola è percepita in maniera tendenzialmente positiva e le relazioni con i compagni sono molto buone, meno quando si tratta di compagni stranieri (il 16% del campione). I ragazzi si dicono soddisfatti della loro vita e hanno una buona autostima, anche se nelle ragazze il grado di felicità è più basso. Dal punto di vista sociale solo il 5 per cento fa volontariato e appena l’1,27 per cento si interessa di politica. I luoghi di aggregazione preferiti sono strade, piazze e case private mentre agli ultimi posti si trovano discoteche e locali notturni. L’oratorio è frequentato dall’8,4 per cento di loro, dato che rientra in una tendenza che vede i giovani sempre più lontani dalle istituzioni, siano anche quelle impegnate nel sociale. Nel bicentenario della nascita di Don Bosco l’obiettivo della ricerca “Capitale adolescenti” è quindi quello di fotografare la situazione per porre le basi di un progetto educativo di ampio raggio. Don Leonardo Mancini, superiore salesiano per l’Italia centrale:

“La parola ‘capitale’ ha un doppio significato: indica il raggio di azione della ricerca, che appunto riguarda la città di Roma, ma è soprattutto indicazione di quanto sia preziosa e importante la realtà degli adolescenti, dei ragazzi. Don Bosco definiva i ragazzi  ‘la porzione più delicata e preziosa della società umana’. Allora, sono davvero un capitale, sono un bene – direi – assoluto, un bene inestimabile, un bene perché ci sono! Dire salesiani è dire educazione e quando si educa non si può prescindere da un progetto educativo: il progetto si propone un punto di arrivo. Don Bosco parlava di ‘buoni cristiani, onesti cittadini e felici abitatori del cielo un domani’, ebbene questo è un obiettivo evidentemente molto, molto ampio, però qualsiasi sia l’obiettivo che ci pone, bisogna capire il punto da cui si parte”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Siria. P. Mourad: timori per gli altri 190 cristiani prigionieri dell'Is

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Alla “gioia” per la ritrovata libertà di p. Jacques Mourad si alterna la “forte preoccupazione” per la sorte di oltre 190 cristiani originari di Al Qariatayn, a sud-ovest di Homs, in Siria, tuttora nelle mani delle milizie del sedicente Stato islamico (Is). Sono ore di ansia e soddisfazione per la comunità cristiana siriana - riferisce l'agenzia AsiaNews - che celebra il ritorno del sacerdote siro-cattolico e priore del monastero di Mar Elian, rapito nel maggio scorso nei pressi del luogo di culto distrutto ad agosto dall'Is, e prega per la vita degli altri ostaggi.

Altri 190 cristiani sono nelle mani dell'Is
Una fonte vicina a p. Mourad, contattata da AsiaNews, conferma che non si è trattato di una liberazione, quanto di una fuga dalla prigionia. Il timore, prosegue, “è che vi possano essere rappresaglie” da parte dei jihadisti; ieri sono riusciti a fuggire altre 40 persone, cristiani originari del villaggio di Al Qariatayn. Tuttavia, altri 190 restano ancora nelle loro mani e vi è il rischio che possano essere vittime della vendetta dei miliziani.  È invece finito l’incubo della prigionia per p. Mourad, sacerdote appartenente alla stessa comunità di p. Paolo Dall’Oglio, da 12 anni alla guida della locale parrocchia siro-cattolica. Amico e collaboratore del sacerdote gesuita di origini italiane, è stato uno dei primi monaci della comunità di Mar Musa e, a dispetto dei pericoli derivanti dal conflitto e delle minacce di sequestro, non aveva voluto abbandonare la propria gente. 

Minacciato non ha mai firmato l'atto di abiura del cristianesimo
In un’intervista a Tv2000, il priore di Mar Elian ha rivelato alcuni dettagli dei mesi trascorsi nelle mani dello Stato islamico. “Quasi tutti i giorni - racconta - c’era qualcuno dello Stato Islamico che entrava nella mia prigione e mi domandava ‘Chi siete?’. Io rispondevo: ‘Sono nazareno, cioè cristiano’. ‘Allora sei un infedele’ gridavano. ‘E visto che sei un infedele, se non ti converti ti sgozzeremo con un coltello’. Ma io non ho mai firmato l’atto di abiura del cristianesimo”. P. Mourad parla di “miracolo” che “il buon Dio mi ha dato: mentre ero prigioniero aspettavo il giorno della mia morte ma con una grandissima pace interiore. Non avevo alcun problema a morire per il nome di nostro Signore, non sarei stato il primo né l’ultimo, ma uno tra le migliaia di martiri per Cristo”.

La fuga grazie ad un amico musulmano
Egli è riuscito a fuggire da Al Qariatayn camuffandosi, a bordo di una motocicletta, “con un amico musulmano”, ma il suo pensiero va agli altri prigionieri cristiani ancora nelle mani dei jihadisti. Infine rivolge un ringraziamento “per quanti hanno pregato per la mia liberazione, un miracolo che sia sfuggito dalle mani di Daesh (acronimo arabo per lo Stato islamico, ndr), un miracolo che la Vergine Maria ha fatto a me  e ai cristiani in questo momento in Siria”.(R.P.)

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Strage di Ankara: cattolici turchi in preghiera per le vittime

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“Nel silenzio e nella preghiera”: così le piccole comunità cattoliche di Turchia hanno reagito alla strage di Ankara di sabato scorso. “Domenica abbiamo radunato le comunità nelle diverse chiese e abbiamo pregato e offerto le Messe per le vittime, i loro familiari, i feriti e tutte le persone colpite da questo orrendo gesto - dice padre Ruben Tierrablanca, della Fraternità internazionale dei frati minori di Istanbul - e ieri abbiamo celebrato una Messa per la pace. La Turchia - aggiunge il religioso - è sconvolta e ha paura. In vista delle elezioni del 1° novembre, molti si chiedono cos'altro potrà mai accadere, quindi dobbiamo vigilare. La preoccupazione del popolo è evidente. Da parte nostra non sappiamo cosa dire. In questi momenti solo il silenzio e la preghiera possono confortare. Siamo vicini a tutti e cerchiamo di dare il nostro conforto tra i nostri amici turchi”. 

Preghiera e preoccupazione anche ad Antiochia
Qui in Anatolia - riferisce l'agenzia Sir - il parroco, padre Domenico Bertogli, “parla di situazione complicata. Tutti si chiedono cosa stia succedendo. La popolazione è preoccupata e noi cerchiamo di dare un po’ di consolazione”. Domenica, racconta il parroco, “ci siamo ritrovati a Istanbul con le Comunità neocatecumenali, eravamo oltre 160 persone, tutti fedeli locali, e abbiamo pregato per le vittime”. (R.P.)

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Angus Deaton: un Nobel per l'Economia contro la povertà

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Angus Deaton, economista britannico-statunitense, è stato insignito del premio Nobel per l’Economia 2015 “per le sue ricerche sui consumi, la povertà e lo sviluppo”. Studi che, spiega l’annuncio del comitato del Nobel, permettono di “elaborare politiche che aumentano il benessere e riducono la povertà”. Deaton, 69 anni, insegna nell’università di Princeton, negli Stati Uniti. Nel suo ultimo libro, “The great escape”, critica tra l’altro le metodologie ufficiali di calcolo della povertà, che, sostiene, impediscono di vedere come molti gruppi non abbiano ricevuto benefici dalla crescita del prodotto interno lordo dei rispettivi Paesi.

Fenomeno migranti: il risultato di anni di sviluppo disuguale nel mondo ricco
L’economista - riferisce l'agenzia Misna - propone dunque un approccio diverso alla questione, non basato su una linea standard al di sotto della quale si può parlare di povertà, ma sull’individuazione di specifici gruppi tra la popolazione, che vengono analizzati separatamente. Oltre che su problematiche strettamente economiche, l’appena premiato Deaton si è espresso anche sull’attuale situazione dei migranti che tentano di raggiungere l’Europa. “Ciò che vediamo ora - ha spiegato - è il risultato di centinaia d’anni di sviluppo disuguale nel mondo ricco, che ha lasciato gran parte del mondo indietro”. (D.M.)

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Pakistan. Blasfemia: libertà su cauzione per un cristiano

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C’è una buona notizia per la comunità cristiana in Pakistan: al cristiano Pervaiz Masih, arrestato nel distretto di Kasur il 2 settembre scorso per presunta blasfemia, è stata concessa la libertà su cauzione. Lo comunicano all'agenzia Fides gli avvocati dell’Ong “La Voce” ricordando che “è uno dei casi più rari nella storia del Pakistan. E’ molto difficile che ad una persona accusata di blasfemia, tantopiù a un cristiano innocente, sia concessa la cauzione un mese dopo l'arresto, da un tribunale di primo grado”.

Il caso in una delle zone più conservatrici del Punjab
L’avvocato Aneeqa Maria Anthony, che ha curato il caso, nota a Fides: “Molte vittime di presunta blasfemia sono condannate a morte come Asia Bibi e Sawan Masih. Altre, come nel caso del Pastore Aftab Gill sono in carcere ingiustamente: preghiamo per la loro liberazione”. “Per il caso di Pervaiz Masih – prosegue – Dio ci ha benedetti con questo risultato molto importante: Kasur, infatti, è una delle zone più conservatrici del Punjab, ed è molto pericoloso contestare un caso di blasfemia in tale area”. Va notato poi che anche gli operatori dell’Ong “La Voce” sono stati fermati dalla polizia di Kasur nel bel mezzo della notte e hanno subito minacce e intimidazioni polizia. Il caso di Pervaiz Masih ora andrà avanti.

Un altro cristiano condannato ingiustamente all'ergastolo
​Un altro cristiano, Imran Masih, anch’egli accusato di blasfemia, è invece dietro le sbarre dal primo luglio 2009 e nel 2010 è stato condannato all'ergastolo per blasfemia da un tribunale di primo grado. “Le accuse a suo carico sono totalmente false e inventate. Ho deciso che mi batterò per questo caso. L’udienza finale del processo di appello è il 28 ottobre 2015 davanti all’Alta Corte di Lahore”, annuncia alla Fides Khalil Tahir Sindhu, avvocato cattolico e ministro per le minoranze nel governo della provincia del Punjab. “Quando ho incontrato la sorella di Imran, piangeva e singhiozzava per la vita del fratello”, osserva. Nonostante i rischi per la sua sicurezza personale, l’avvocato sarà in tribunale a dimostrare ai giudici che Imran Masih è del tutto innocente. (P.A.)

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Vescovi Congo: appello alla non violenza per il referendum

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Appello alla non violenza della Conferenza episcopale del Congo-Brazzaville in un messaggio indirizzato a tutte le persone di buona volontà. Di fronte alle recenti manifestazioni pro e contro le modifiche costituzionali che permetterebbero al Presidente Denis Sassou Nguesso di essere eletto per un terzo mandato nel 2016, i presuli esortano le forze politiche e civili a vigilare costantemente perché non si verifichino scontri. I congolesi andranno alle urne il 25 ottobre per esprimere si o no al referendum che chiederà se cambiare la costituzione consentendo al Capo dello Stato di esercitare fino a tre mandati consecutivi.

Manifestazioni pro e contro le modifiche costituzionali e un terzo mandato al Presidente
Il 27 settembre scorso a piazza delle Armate a Brazzaville, hanno manifestato i sostenitori del no, sabato scorso, nello stesso luogo, si sono radunati i favorevoli al si che vorrebbero Sassou (a capo della nazione dal 1979) ancora Presidente. “Che il dibattito si svolga dignitosamente, nell’onestà e nella non violenza” scrivono i vescovi chiedendo di privilegiare sempre il dialogo. “La violenza, il sangue dei vostri fratelli e sorelle, le guerre, non vi edificano umanamente – proseguono i presuli rivolgendosi ai giovani –. Che nessun adulto vi inganni contro la nostra nazione”.

I vescovi invitano la forza pubblica a vigilare sul rispetto della democrazia
Nel clima di tensione di queste settimane, mons. Daniel Mizonzo, vescovo di Nkayi e presidente della Conferenza episcopale del Congo, ha firmato il messaggio a nome di tutti i vescovi lo scorso 4 ottobre esortando la forza pubblica a vegliare sulla sicurezza dei cittadini, ad evitare provocazioni ed intimidazioni inutili e a “rispettare il ‘gioco democratico’” così come vuole la Legge fondamentale”. “La vostra missione è importante in questo periodo per garantire la pace per il bene di tutti” aggiungono i vescovi che hanno anche ricordato le parole rivolte loro da Papa Francesco durante la visita ad limina del 4 maggio scorso: “Nella dimensione profetica del vostro incarico pastorale, è importante che possiate ad una voce, dire parole ispirale al Vangelo per orientare ed illuminare i vostri compatrioti su qualunque aspetto della vita comune, nei momenti difficili per la nazione o quando le circostanze lo esigono”. “Salviamo la nostra giovane democrazia – concludono i vescovi –. Salvaguardiamo la pace acquisita a caro prezzo”. (A cura di Tiziana Campisi)

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Comece: convegno su cambiamenti climatici e mobilità umana

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“Cambiamenti climatici e mobilità umana: sfide e prospettive”; si intitola così l’incontro-dibattito organizzato dalla Comece (Commissioni degli episcopati della Comunità europea) in programma a Bruxelles il prossimo 21 ottobre. “I cambiamenti climatici – spiega una nota dell’organismo episcopale – sono diventati una delle principali preoccupazioni della comunità internazionale. Negli ultimi anni, c’è stata un’attenzione crescente da parte di specialisti e politici riguardo all’impatto di tali cambiamenti sulla mobilità umana”.

Sul clima, troppe incertezze e poca conoscenza
Al contempo, la Comece sottolinea “la conoscenza limitata e l’incertezza sulla vastità di tale fenomeno ed i dubbi relativi all’applicazione di leggi internazionali” nel settore. Il convegno ha quindi lo scopo di risvegliare “la consapevolezza delle potenziali sfide che il clima provoca sulla mobilità umana”, in particolare a livello internazionale, e di trovare “risposte adeguate a questo fenomeno, incluse soluzioni politiche”. All’incontro intervengono: Jo De Becker (Organizzazione internazionale per le migrazioni), Kjeld Rasmussen (Università di Copenhagen) e padre Patrick H. Daly, segretario generale della Comece. (I.P.)

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Cei: Vademecum per accoglienza richiedenti asilo e rifugiati

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Un Vademecum per “accompagnare le diocesi e le parrocchie” nel “cammino” di accoglienza verso i richiedenti asilo e rifugiati. A pubblicarlo è la Cei, come risultato del Consiglio episcopale permanente svoltosi dal 30 settembre al 2 ottobre a Firenze. L’appello lanciato dal Papa nell’Angelus del 6 settembre per rispondere al dramma dei profughi, scrivono i vescovi italiani, “ha trovato già le nostre Chiese in prima fila nel servizio, nella tutela, nell’accompagnamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati”: su circa 95mila persone migranti - ospitate nei diversi Centri di accoglienza ordinari (Cara) e straordinari (Cas), nonché nel Sistema nazionale di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Spaar) - diocesi e parrocchie, famiglie e comunità religiose, accolgono in circa 1.600 strutture oltre 22.000 dei migranti”. 

Vademecum: supplemento di umanità per vincere paura e pregiudizi
 L’obiettivo del Vademecum è di “aiutare a individuare forme e modalità per ampliare la rete ecclesiale dell’accoglienza a favore delle persone richiedenti asilo e rifugiate che giungono nel nostro Paese, nel rispetto della legislazione presente e in collaborazione con le Istituzioni”. “Si tratta di un gesto concreto e gratuito che si affianca ai molti altri a favore dei poveri presenti nelle nostre Chiese”, si legge nel Vademecum: “Un supplemento di umanità, anche per vincere la paura e i pregiudizi”. 

Da dove partire per accogliere i migranti? 
“Prima ancora dell’accoglienza concreta è decisivo curare la preparazione della comunità”, è la risposta del Vademecum. Nelle parrocchie, dunque, la prima tappa è l’informazione, “finalizzata a conoscere chi è in cammino e arriva da noi, valorizzando gli strumenti di ricerca a nostra disposizione”, come il Rapporto immigrazione, il Rapporto sulla protezione internazionale, ma anche schede sui Paesi di provenienza dei richiedenti asilo e rifugiati e “la stessa esperienza di comunità e persone presenti in Italia e provenienti dai Paesi dei richiedenti asilo e rifugiati”. 

Seconda tappa: la formazione
Una formazione volta a “preparare chi accoglie (parrocchie, associazioni, famiglie) con strumenti adeguati”. Tra le proposte, quella di “costruire una piccola équipe di operatori a livello diocesano e di volontari a livello parrocchiale e provvedere alla loro preparazione non solo sul piano sociale, legale e amministrativo, ma anche culturale e pastorale, con attenzione anche alle cause dell’immigrazione forzata”. Di qui l’invito a Caritas e Migrantes, per “curare a livello regionale e diocesano percorsi di formazione per operatori ed educatori delle équipe diocesane e parrocchiali”. Il Giubileo, scrivono i vescovi, è un’occasione per “riscoprire l’attualità delle opere di misericordia corporali e spirituali”, vincendo “la barriera dell’indifferenza”. (R.P.)

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Chiesa croata: incontro sul tema delle migrazioni

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“La migrazione croata, sfortunatamente, non è una cosa del passato, ma al contrario è cresciuta recentemente in modo allarmante, specialmente tra i giovani professionisti ed intellettuali, con le loro famiglie”: è questo uno dei passaggi-chiave dell’appello lanciato dagli Operatori pastorali croati in Europa occidentale, al termine del loro incontro annuale, svoltosi a Kaštel Štafilić dal 5 al 9 ottobre. L’evento, al quale hanno preso parte sacerdoti e responsabili di missioni e comunità cattoliche croate nell’Europa dell’ovest, ha avuto come tema “Religione e salute mentale: il contributo di religione, psicologia e medicina”.

Avviare programmi specifici per fermare ulteriori migrazioni
Ricordando “gli oltre 600mila croati cattolici che sono migrati nelle comunità occidentali d’Europa”, i partecipanti all’incontro affermano: “Con tristezza e preoccupazione, abbiamo visto che molti dei nostri connazionali lasciano la patria con leggerezza e senza alcuna preparazione”. Per questo, poi, “si trovano in grave difficoltà e cercano aiuto presso le missioni cattoliche croate, che però non riescono a provvedere a tutti i loro bisogni”. Di qui, l’appello alle autorità di Zagabria affinché assumano “un atteggiamento positivo nei confronti della diaspora croata, attuando anche programmi specifici per fermare ulteriori migrazioni”.

Non dimenticare i croati in diaspora
​Gli operatori pastorali chiedono anche “un’assistenza più efficace nei confronti dei migranti croati”, in particolare per quanto riguarda le procedure di voto a distanza e la rappresentanza delle persone in diaspora all’interno del governo di Zagabria. Infine, si auspica “la rimozione di ostacoli burocratici per potenziali investitori in Croazia e l’avvio di strategia di ritorno in patria per gli emigrati”. (I.P.)

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Appello vescovi Australia: non emarginare i disabili mentali

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Non stigmatizzare le persone affette da malattia mentale perché anch’esse fanno parte della Chiesa, Corpo di Cristo: questo l’appello lanciato da mons. Terry Brady, presidente della Commissione episcopale per la vita pastorale e del Consiglio cattolico per la disabilità in Australia. Il presule è intervenuto in occasione della Settimana di sensibilizzazione sulla salute mentale, celebrata dal 4 al 10 ottobre e conclusa dalla Giornata mondiale della salute mentale, quest’anno dedicata al tema “La salute mentale comincia da me!”.

Disabili mentali partecipino pienamente alla vita delle comunità
“I malati mentali ed i loro familiari – ha detto mons. Brady – spesso possono sentirsi isolati dalla loro comunità di fede e quindi isolati da Dio”. Ma tale isolamento, ha messo in guardia il presule, “è spesso causato da uno stigma sociale: l’idea che la malattia mentale è un problema caratteriale o una punizione divina”. Di qui, il richiamo del vescovo australiano alle tante opportunità che permettono ai disabili mentali di “partecipare pienamente alla vita della comunità”: si tratta di opportunità “in parte visibili ed in parte ancora da identificare”; tuttavia, una volta riconosciute, “si può lavorare insieme per far sì che tutti i doni della Chiesa, Corpo di Cristo, possano essere condivisi da ciascun membro”.

L’importanza del benessere spirituale
Ricordando, poi, nel 2015 un australiano su cinque ha sperimentato o sperimenterà la malattia mentale, mons. Brady ha sottolineato la responsabilità di ciascuno nella sensibilizzazione su questo tema ed ha ricordato che “la salute mentale è una parte vitale della pastorale della Chiesa”. Le parrocchie, infatti – ha concluso – “possono mettere in luce le qualità ed i talenti dei disabili mentali, offrendo ad essi ed alle loro famiglie una rete di sostegno”, anche attraverso un’attenzione particolare per “il loro benessere spirituale”. (I.P.) 

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 286

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.