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Sommario del 31/03/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Confessione è abbraccio di Dio. Mons. Forte: riconciliamoci

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“La Confessione è il sacramento della tenerezza di Dio, il suo modo di abbracciarci”. È il messaggio per il Martedì Santo che Papa Francesco ha affidato a un tweet: un invito ad accostarsi al Sacramento della Riconciliazione, tante volte ripetuto in due anni di Pontificato. Alessandro De Carolis ha chiesto all’arcivescovo di Chieti-vasto, mons. Bruno Forte, cosa gli suggeriscano i richiami di Francesco alla Confessione come tenerezza e abbraccio di Dio: 

R. – Suggerisce un’immagine evangelica e cioè quella del Padre del Figliol prodigo che sta alla finestra, vede il figlio tornare di lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Dunque, mi sembra che Papa Francesco abbia voluto evocare la profonda misericordia di Dio, il fatto che il Dio di Gesù Cristo è un Padre che ci ama, che ci rispetta anche quando noi scegliamo qualcosa che è contro la sua volontà ed egli è sempre pronto ad accoglierci, ad aspettare il nostro ritorno e a far festa quando torniamo. Dunque, piuttosto che la visione del tribunale – che a volte nel passato aveva dominato la visione del Sacramento della penitenza, dove il sacerdote era in qualche modo il giudice che doveva poi assolvere – siamo di fronte all’immagine di un incontro d’amore, di un’attesa, di un’accoglienza festosa, di una misericordia traboccante.

D. – Lei ricorda l’immagine di Dio come quella di un Padre che perdona sempre. Papa Francesco lo ha detto dall’inizio del Pontificato: “Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”. Perché si perde la fiducia nel perdono di Dio?

R. – Il meccanismo del peccato è un meccanismo che intacca profondamente l’integrità della persona umana e l’effetto primo, devastante, del male è il male che si fa a se stessi. Si perde il senso della propria dignità e si smarrisce proprio per questo la fiducia nelle possibilità che Dio ci ha dato. Ecco perché il volto della misericordia è fondamentale per ritrovare la strada della riconciliazione. Un Dio giudice manterrebbe ancora lontani coloro che hanno peccato. Un Dio di misericordia infinita, come ama sottolineare Papa Francesco, è un Dio che ti attrae, che sollecita il tuo cuore ad aver fiducia di Lui nonostante tutto.

D. – Papa Francesco una volta, da Santa Marta, parlando della Confessione ha detto: bisogna avere semplicità e anche coraggio. Perché queste qualità tante volte sembra siano smarrite dai cristiani quando si avvicinano al Sacramento della Riconciliazione?

R. – La semplicità è necessaria perché essere semplici significa essere veri, cioè saperci porre davanti a Dio senza alibi e senza difese. Senza quelle sovrastrutture che a volte complicano i rapporti umani e a volte complicano anche il nostro rapporto con Dio. Ciò che Papa Francesco non si stanca di ricordare è che Dio è amore e che dunque ogni rapporto con Dio deve essere vissuto nel segno dell’amore, che significa della fiducia, dell’affidamento, della libertà dalla paura e del coraggio di ritrovare nell’amore la forza per essere se stessi secondo il disegno di Dio. In fondo, il coraggio è una virtù inseparabile dalla fiducia e dall’amore. Se non hai amore, se non hai fiducia, se non ti senti amato, anche il coraggio viene meno. Se invece c’è tutto questo, il coraggio ti fa aprire a quelle che un grande teologo evangelico come Karl Barth chiamava le “impossibili possibilità di Dio”: proprio quelle che nella Settimana Santa ci vengono rivelate.

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L'11 aprile Papa pubblica la Bolla d'indizione del Giubileo

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L’Anno Santo della Misericordia, che inizierà il prossimo 8 dicembre, verrà indetto ufficialmente da Papa Francesco nel pomeriggio di sabato 11 aprile, quando alle 17.30 inizierà la cerimonia della pubblicazione della Bolla d’Indizione del Giubileo.

Il rito
Il rito della pubblicazione, informa una nota ufficiale, “prevede la lettura di alcuni brani della Bolla davanti alla Porta Santa della Basilica Vaticana. Successivamente, Papa Francesco presiederà la celebrazione dei Primi Vespri della Domenica della Divina Misericordia, sottolineando con ciò in maniera peculiare quello che sarà il tema fondamentale dell’Anno Santo straordinario: la Misericordia di Dio”.

Date, tempi e frutti sperati
La bolla d’indizione di un Giubileo, “specie nel caso di un Anno Santo straordinario – prosegue la nota – oltre a indicarne i tempi, con le date di apertura e di chiusura, e le modalità principali di svolgimento, costituisce il documento fondamentale per riconoscere lo spirito con cui viene indetto, le intenzioni e i frutti sperati dal Pontefice che lo indice per la Chiesa”.

Storia della Bolla
Nel caso degli ultimi due Anni Santi straordinari, del 1933 e 1983, la Bolla di Indizione, viene precisato, “fu pubblicata in occasione della Solennità dell’Epifania del Signore. Per il prossimo Anno Santo straordinario, anche la scelta dell’occasione in cui avverrà la pubblicazione della Bolla manifesta chiaramente l’attenzione particolare del Santo Padre al tema della Misericordia”.

La Bolla, che anticamente era la capsula metallica impiegata per proteggere il sigillo in cera di documento importante, in modo da attestarne l’autenticità, attualmente  indica il documento stesso, “così che oggi esso è utilizzato per tutti i documenti pontifici di particolare importanza che portano, o almeno tradizionalmente dovrebbero portare, il sigillo del Pontefice”.

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Papa nomina card. Versaldi prefetto dell'Educazione Cattolica

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Cambio al vertice della Congregazione per l'Educazione Cattolica: Papa Francesco ha nominato come nuovo prefetto il cardinale Giuseppe Versaldi, 71 anni, finora presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede. Il porporato sostituisce il 75.enne cardinale Zenon Grocholewski.

Piemontese di nascita, il neoprefetto ha compiuto gli studi presso il Seminario di Vercelli ed è stato ordinato sacerdote nel 1967. Cinque anni dopo è giunto a Roma per completare gli studi, conseguendo la licenza in Psicologia e la laurea in Diritto canonico presso la Pontifica Università Gregoriana. Nei primi anni di ministero si è occupato di pastorale familiare e successivamente è stato parroco nel vercellese, conseguendo nel frattempo anche il titolo di avvocato rotale.

Alla Gregoriana è tornato per insegnare Diritto canonico e Psicologia e nel 1993 è divenuto professore ordinario dell’Ateneo. Nel 1994, l’allora arcivescovo di Vercelli, Tarcisio Bertone, lo ha nominato vicario generale dell’arcidiocesi, periodo nel quale ha ricoperto vari incarichi, finché nell’aprile 2007 Benedetto XVI lo ha nominato vescovo di Alessandria. Due anni dopo, Papa Benedetto lo ha nominato visitatore apostolico dei Legionari di Cristo, servizio che lo ha impegnato fino al maggio 2010. Nel settembre del 2011 è maturata la nomina a presidente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede. Infine, Benedetto XVI lo ha creato e pubblicato cardinale nel Concistoro del 18 febbraio 2012.

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Nomine episcopali in Rd Congo. Precisazione su mons. Barros

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In Italia, Papa Francesco ha nominato vescovo dell'eparchia di Piana degli Albanesi di Sicilia il sacerdote Giorgio Demetrio Gallaro, del clero dell'Eparchia di Newton dei Greco-Melkiti, negli Stati Uniti d'America. Il neo presule è nato il 16 gennaio 1948 a Pozzallo, Sicilia. Ha compiuto gli studi medi e secondari presso il seminario di Noto. Trasferitosi nel 1968 negli Stati Uniti d'America ha completato i corsi teologici al Saint John Seminary of Los Angeles, California. È stato ordinato diacono nel 1971 e presbitero nel 1972. Dopo aver servito per otto anni due comunità parrocchiali nell'Arcidiocesi di Los Angeles, ha compiuto gli studi superiori al Pontificio Istituto Orientale di Roma e alla Pontificia Università di San Tommaso in Urbe, conseguendo il dottorato in diritto canonico orientale e la licenza in teologia ecumenica. In seguito. ha svolto attività di parrochia e d'insegnamento nella sua Eparchia Melkita di Newton, Massachussets, in quella Ucraina di Stamford, Connecticut, e nell'Arcieparchia Rutena di Pittsburgh, Pennsylvania. Dal 2011 era il Vice-Presidente della Società di Diritto Orientale e dal 2013 Consultore della Congregazione per le Chiese Orientali. Al presente svolge gli uffici di sincello per gli affari canonici e di vicario giudiziale nell'Arcieparchia di Pittsburgh, di docente di diritto canonico e teologia ecumenica al Seminario Bizantino Cattolico dei Santi Cirillo e Metodio di Pittsburgh, e di giudice d'appello per l'Arcieparchia di Philadelphia degli Ucraini.

Nella Repubblica Democratica del Congo, il Papa ha nominato vescovo della diocesi di Kalemie-Kirungu padre Christophe Amade, dei Missionari d’Africa, finora superiore provinciale dei Padri Bianchi per l’Africa Centrale. Mons. Amade è nato il 18 gennaio 1961 a Mune. Dopo gli studi primari a Bidri e a Nyaguma (1967-1973), e quelli secondari nel Seminario Minore Jean XXIII a Vida (Mahagi-Nioka) e al Collegio di Ovoa (1973-1979), ha insegnato all’Institut Technique Agricole di Laybo (Mahagi-Nioka), dal 1979 al 1981. Ha, poi, studiato Filosofia nel Seminario Maggiore Notre Dame de la Ruzizi di Bukavu (1981-1984), prima di entrare nel Noviziato dei Padri Bianchi a Fribourg (1984-1985). Dal 1985 al 1987, ha svolto un periodo di tirocinio pastorale nella parrocchia di Funsi, Diocesi di Wa (in Ghana). Ha completato gli studi di Teologia al London Missionary Institute (1987-1990), in Inghilterra, prima di essere ordinato sacerdote il 25 agosto 1990. Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi: 1990-1993:     Ministero parrocchiale a Funsi, nella Diocesi di Wa, in Ghana; 1993-1998: Studi per la Licenza in Filosofia, a Roma; 1998-2004: docente e poi Rettore del Consortium di Filosofia a Jinja, in Uganda; 2004-2009: Dottorato in Filosofia alla Pontificia Università Gregoriana (2010); 2009-2013: Docente di Filosofia al Consortium di Filosofia a Kumasi, in Ghana; 2013-2014: Docente di Filosofia all’Università St. Augustin a Kinshasa; dal 2014: Superiore Provinciale dei Padri Bianchi per l’Africa Centrale.

La Diocesi di Kalemie-Kirungu (1972), è suffraganea dell’Arcidiocesi di Lubumbashi. Ha una superficie di 71.577 kmq e una popolazione di  5.950.013  di abitanti, di cui 3.663.230 sono cattolici. Ci sono 20 parrocchie. Vi sono 87 sacerdoti diocesani, 13 dei quali studiano nel Paese o in Europa, e 14 vivono fuori Diocesi. Sono presenti in Diocesi anche 13 sacerdoti Religiosi, 5 Fratelli, 120 Suore e 54 Seminaristi. Vacante dal 2010, a seguito delle dimissioni di mons. Dominique Kimpinde, per raggiunti limiti di età, la diocesi finora è stata governata dall’amministratore apostolico mons. Oscar Ngoy, Vescovo di Kongolo.

Sempre nella  Repubblica Democratica del Congo, il Pontefice ha nominato due ausiliari per l’arcidiocesi di Kinshasa: padre Donatien Bafuidinsoni, gesuita, vicario giudiziale della medesima arcidiocesi, mons. Jean-Pierre Kwambamba Masi, del clero di Kenge, officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Mons. Bafuidinsoni è nato l’11 dicembre 1962 a Mai Ndombe (Bandundu). Entrato nel Noviziato della Compagnia di Gesù a Cyangugu (Rwanda) il 29 settembre 1981, ha emesso i primi voti l’11 settembre 1983.  Ha studiato Filosofia nella Facoltà del San Pietro Canisius Kimwenza, a Kinshasa (1983-1986), conseguendo poi la Licenza all’Università di Lubumbashi (1986-1988), e Teologia all’Istituto S.J. Hekima di Nairobi, in Kenya (1989-1992). È  stato ordinato sacerdote il 18 luglio 1993. Dopo l’ordinazione, ha svolto i seguenti incarichi: 1993-1999: Studi per il Dottorato in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma; 1999-2001: Delegato del Padre Provinciale per la formazione dei Gesuiti in Africa; 2001-2008: Provinciale per l’Africa Centrale; 2009-2012: Vicario Giudiziario dell’Arcidiocesi di Kinshasa e Consultore della Comunità dei Gesuiti; dal 2012:  Vicario Giudiziario di Kinshasa; risiede presso la casa St Ignace, dove svolge il servizio di Superiore.

Mons. Kwambamba Masi è nato il 19 agosto 1960 à Ngi, nella Provincia di Bandundu. Dopo gli studi primari a Bandundu e Bulungu (1967-1973), è entrato nel Seminario Minore St Charles Lwanga di Kalonda, dove ha compiuto gli studi secondari (1973-1979). Ha studiato Filosofia nel Seminario Maggiore St Augustin di Kalonda (1979-1982), e Teologia nel Seminario Maggiore Jean XXIII di Kinshasa (1990-1992). È stato ordinato sacerdote il 17 agosto 1986. Dopo l’ordinazione sacerdotale, ha svolto i seguenti incarichi: 1987-1992: Studi per il Dottorato in Liturgia a Sant’Anselmo; 1992-1994: Docente al Seminario Minore St Charles Lwanga di Kalonda; 1994-1998: Vicario Generale della Diocesi di Kenge; 1998-2003: Rettore e docente nel Seminario Maggiore Teologico St Cyprien di Kikwit; dal 2003: Officiale presso la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Cerimoniere pontificio.

Il Santo Padre ha nominato membro dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica il cardinale Rainer Maria Woelki, arcivescovo di Köln, in Germania.

Una scelta vagliata con attenzione e ritenuta idonea. È quanto ha preceduto la recente nomina di mons. Juan de la Cruz Barros Madrid a vescovo di Osorno, in Cile. Alcuni quotidiani hanno dato risalto alle proteste inscenate contro il presule al suo ingresso nella nuova diocesi. In una dichiarazione, il vicedirettore della Sala Stampa vaticana, padre Ciro Benedettini ha affermato che “prima della nomina Congregazione per i Vescovi ha studiato attentamente la candidatura del Presule e non ha trovato ragioni oggettive che ne ostacolassero la nomina”.

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Cor Unum in Iraq: la solidarietà del Papa nel dramma degli sfollati

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Mentre è in corso la visita in Iraq del Prefetto di Propaganda Fide il card. Fernando Filoni, è rientrata a Roma da Baghdad, la delegazione vaticana guidata dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il dicastero della Carità del Papa, che ha portato la solidarietà del Papa e della Chiesa agli sfollati cristiani iracheni, fuggiti dalle zone occupate dal sedicente Stato Islamico. Sulla finalità di questa missione, Roberto Piermarini ha intervistato il sotto-segretario di Cor Unum a capo della missione, mons. Segundo Tejado Muñoz: 

R. – La finalità è stata anzitutto quella di andare ad incontrare le persone sfollate e le famiglie sfollate, che hanno dovuto lasciare la loro terra e che sono stati cacciati, espulsi. E poi, come Pontificio Consiglio Cor Unum, essendo incaricati di tutte le agenzie di carità e di solidarietà, anche quella di andare a visitare queste Agenzie e gli operatori che lavorano lì, quindi in primis la Caritas e infatti era con noi anche il segretario generale della Caritas Internationalis, il dottor Michel Roy; il presidente della Caritas del Medio Oriente, il professor Farah. Quindi una delle nostre finalità era propria quella di visitare tutte gli operatori che stanno lavorando lì e che molte volte sono i più dimenticati, mentre invece sono le nostre braccia, perché noi non possiamo stare lì e non tutti possiamo andare lì ad aiutare. Noi abbiamo delle braccia, la Chiesa ha delle braccia che ci aiutano e che, con il nostro contributo, portano avanti dei programmi, che possono andare ad aiutarli e che possono incoraggiarli… Tante volte lavorano veramente in situazioni difficilissime.

D. – Come stanno operando?

R. – Appoggiati alla Chiesa locale, perché quelle sono realtà che, se non hai un appoggio locale, è molto difficile e molto complicato riuscire a capire, riuscire a capirne le dinamiche, le situazioni e le difficoltà. Per cui la Caritas Iraq ha preso in mano tutto il coordinamento di questa missione e lo fa in situazioni veramente difficili. Ci sono famiglie che sono state mandate vie dalle loro abitazioni e questo genera in loro anche un rancore, sviluppa una violenza che poi rischia di esplodere in tutti i sensi. Ci hanno parlato delle difficoltà, degli uomini che non lavorano e stanno tutto il giorno senza far niente… Sono situazioni molto complicate, che generano molte tensioni. Lavorare in queste situazioni – da quello che noi abbiamo capito e da quello che loro stessi ci hanno spiegato – è veramente difficile. Portare a queste persone - che sono lì, che stanno lavorando - il sostegno della Chiesa, a noi sembra veramente molto, molto importante anche per poter poi aiutare concretamente i poveri e per svolgere un lavoro che non sia semplicemente portare da mangiare o cercare di fornire loro un alloggio; ma portare anche qualche altra cosa, che è questa presenza del Signore, anche in questa situazione assurda e completamente ingiusta.

D. – Quale è stato l’itinerario della vostra missione lì in Iraq?

R. – Siamo arrivati a Erbil, nella zona curda, perché lì l’aeroporto è ancora aperto. Da lì ci siamo mossi verso il villaggio di Duhok, dove è presente la gran parte degli sfollati della Piana di Ninive: ci sono cristiani, ma anche non cristiani e appartenenti alle altre minoranze; ci sono soprattutto gli yazidi. Lì abbiamo visitato alcuni Campi e abbiamo potuto vedere alcuni dei progetti che sta facendo la Caritas Iraq, soprattutto riguardo al tema dell’educazione e della sanità, ma anche riguardo all’affitto di abitazione o alla costruzione di abitazioni per le famiglie: si cerca di dare anche una dignità abitativa, perché le tende tante volte non aiutano… Da lì siamo poi tornati a Erbil, dove abbiamo visitato altri tipi di Campi, composti da container o da palazzi ancora non terminati, che sono stati divisi con delle mura affinché vi possano alloggiare le famiglie. Abbiamo poi incontrato il vescovo di Erbil, così come in precedenza il vescovo di Duhok; abbiamo avuto anche incontri con le organizzazioni umanitarie che operano lì, quindi con la Caritas, con il Jrs dei Gesuiti, la Focsiv… Ci sono tantissime realtà che operano. Abbiamo avuto anche un incontro molto interessante con il rappresentante delle Nazioni Uniti, che ci ha illustrato tutta la situazione: le Nazioni Unite sono molto preoccupate, perché purtroppo stanno venendo meno i fondi e c’è il rischio di dover tagliare alcuni progetti. Approfitto di questa occasione per fare appello alla solidarietà dei cattolici, perché non dovremmo chiudere alcun progetto per mancanza di fondi. Credo che sia una situazione abbastanza complicata e dal punto di vista umanitario molto, molto grave.

D. – Avete portato anche la solidarietà di Papa Francesco?

R. –Sì. Il giorno prima di partire – il 25 marzo – sono andato con mons. Khaled Ayad Bishay, che è l’officiale della Congregazione delle Chiese orientale, con il quale abbiamo fatto questo viaggio. Abbiamo portato due icone della “Madonna che scioglie i nodi”, perché abbiamo capito che in Iraq e in tutta questa situazione ci sono tanti nodi da sciogliere: quale segno migliore se non portare la Madonna che scioglie i nodi? Quindi abbiamo portato questa Madonna benedetta dal Papa ai vescovi, ai rappresentanti di queste Chiese, di queste agenzie, di questi poveri, di questi sfollati. Il Papa, prima di partire, ci ha benedetto, ci ha incoraggiato ad andare e siamo andati lì con questa benedizione. Abbiamo portato, in questo tempo pasquale, la notizia che Cristo è risorto e che anche in una situazione così difficile – è un vero e proprio inferno quello che vivono tante famiglie – c’è sempre una luce, che è la Resurrezione di Cristo, che ha vinto la morte e ci ha fatto partecipi della sua vita immortale. Quindi abbiamo portato questo messaggio ai cristiani e abbiamo portato anche la speranza a chi non è cristiano di un futuro ritorno… Ma anche ritornare alle abitazioni che hanno lasciato adesso non è facile. Volevamo portare questa testimonianza e il Papa ci ha incoraggiato e ci ha inviato.

D. - Che cosa le ha lasciato questa esperienza e questa missione in Iraq?

R. – Io avevo vissuto già la guerra del Kosovo, quando ero il direttore della Caritas Albania: anche lì abbiamo dovuto accogliere gli sfollati che venivano dal Kosovo. E’ stato un po’ rivivere quel momento. Era la stessa situazione. Una famiglia che viene costretta a lasciare la propria casa, la propria vita, a prendere i propri bimbini e andare verso una terra che non conoscono; non sanno se saranno accolti o se non saranno accolti: è un dramma veramente enorme! Per una persona sola forse è diverso, ma per una famiglia è una cosa molto seria. Io ho vissuto la stessa situazione e mi ricordo quando arrivano dal Kosovo con i trattori, con il nonno, con la nonna, con i bambini; tutta la famiglia. Erano disperati per aver dovuto lasciare tutto. Subito dopo sono tornati e la stessa cosa accede qui: quello che desiderano è tornare, tornare nella loro casa. Tante volte ci dicevano: “Non sarà facile, perché spesso siamo stati denunciati anche dagli stessi vicini; siamo stati minacciati e costretti ad andare via dai nostri vicini, perché ci dicevano che quando sarebbe arrivato l’Is, ci avrebbero denunciato”. Quindi adesso tornare è una situazione complicata: qualcuno di loro, parlandoci, ci ha mostrato questa difficoltà di tornare. E’ veramente una situazione drammatica! Anche vedere questi bambini che, nonostante tutto, sono bambini e quindi sempre allegri, che corrono; si mettevano davanti a noi per fare le fotografie… E’ la vita. Però in questa vita che sorge c’è il dramma di un popolo che viene costretto a fuggire. Si parla di 2 milioni e mezzo di sfollati, senza parlare poi della Siria. Solo in Iraq! Sono molte persone, molte famiglie, molti drammi: li abbiamo toccati con mano, certamente poco, perché pochi sono stati i giorni che siamo stati lì; abbiamo toccato con mano la sofferenza di queste persone, di queste famiglie. 

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Mons. Auza: Comunità internazionale fermi uso dei bambini soldato

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“Quanto tempo dovrà ancora passare prima che smetteremo di distogliere il nostro sguardo?” E’ il drammatico interrogativo con cui mons. Bernardito Auza, Osservatore permanente della Santa Sede presso l'Onu, ha concluso il suo intervento al dibattito sui bambini nei conflitti armati che si è tenuto di recente presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York. Il servizio di Adriana Masotti

L’uso dei bambini soldato nei conflitti rappresenta una sfida crescente di fronte alla quale la Comunità internazionale non si può sottrarre. Gli strumenti ci sono, mancano però la volontà politica e il coraggio morale. Non usa mezzi termini mons. Auza per richiamare i governi nazionali e Nazioni Unite alle loro responsabilità.

“Il 2014, afferma l’ arcivescovo, è stato l’anno peggiore nell’era moderna” per l’uso dei bambini come soldati. Solo in Siria e in Iraq ne ha coinvolto più di 10.000. “Dobbiamo tutti fare il primo passo e affermare uniformemente che il reclutamento e l’uso di bambini nei conflitti armati non è solo una grave violazione dei diritti internazionali umanitari e umani, ma è anche un male abominevole che va condannato. Questa affermazione non deve essere fatta solo dai Governi, ma da tutti i leader sociali, politici e religiosi”.

Mons. Auza ricorda al Consiglio di sicurezza dell’Onu la sua missione fondativa, quella di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Essa non permette di voltare le spalle ai conflitti in nome di interessi politici nazionali o di dissensi geopolitici con altri Paesi. La responsabilità della protezione dei cittadini spetta ai Governi nazionali, ma sollecita, dunque, anche la comunità internazionale a intervenire. “Nel caso di attori non statali che reclutano con la forza e usano bambini soldato in tutto il mondo o che commettono brutali violenze contro minoranze religiose ed etniche, quando lo Stato non è disposto o è incapace di affrontare tali atrocità, è responsabilità di questo organismo fornire, una volta esauriti tutti gli altri strumenti e mezzi, gli strumenti militari necessari a proteggere i cittadini da simili aggressori disumani”.

L’uso della forza però non basta. “Il primo passo, sottolinea mons. Auza, consiste in un rinnovato impegno nell’affrontare situazioni umanitarie, sociali, politiche ed economiche che portano ai conflitti in cui i bambini vengono costretti a combattere. A tale riguardo, le comunità religiose possono svolgere un ruolo fondamentale nel servire le comunità colpite, reintegrando gli ex bambini soldato” , offrendo loro percorsi di assistenza e di riconciliazione,  e condannando “le organizzazioni che cercano di giustificare l’uso dei bambini per perseguire obiettivi ideologici motivati da visioni distorte della fede e della ragione”. Occorre da parte di tutti uno scatto di volontà e di coraggio per far fronte a questa sfida, ribadisce l’arcivescovo che conclude con un appello accorato: “Poiché i bambini vengono sequestrati fin dalla scuola per essere schiavizzati, poiché sono costretti a diventare attentatori suicidi e poiché vengono drogati e torturati per fare di loro dei bambini soldato, quanto tempo dovrà passare prima che smetteremo di distogliere il nostro sguardo?

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Aiuti insufficienti alla popolazione siriana: alla terza conferenza mondiale dei donatori le agenzie dell'Onu denunciano la mancanza di fondi.

Missione a Arbil e Duhok: intervista di Gianluca Biccini al sottosegretario di Cor unum.

Pastore e non funzionario: il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero, sulla spiritualità presbiteriale.

La Stalingrado del comunismo: il filosofo ceco Tomas Halik su Solidarnosc e i regimi totalitari.

Lo vuole il Papa: l'intervento di Pio XII in favore degli ebrei perseguitati nei diari di quattro monasteri femminili.

Sulla cena pasquale di Marc Chagall, un'anticipazione dal volume di Lauretta Colonnelli.

Mauro Papalini sull'orologio della passione e Melo Freni sulla settimana santa in Sicilia.

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Oggi in Primo Piano



Yemen, ancora raid. Intersos: in 15 milioni sono a rischio

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Sesto giorno di raid aerei della coalizione sunnita a guida saudita sullo Yemen. La missione "Tempesta Risolutiva", decisa contro i ribelli sciiti Houthi, colpisce obiettivi dei miliziani ma anche la popolazione civile. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

La notte scorsa, il fuoco si è scatenato contro un quartiere del pieno centro di Aden, roccaforte dell’ex presidente Mansour Hadi, alla cui periferia stanno premendo i miliziani sciiti e le forze fedeli al deposto presidente, Abdullah Saleh. Forti bombardamenti anche sulla capitale Sana'a, forse i più intensi da quando sono iniziati, secondo testimoni, e che hanno colpito anche l'aeroporto. Tra le vittime, e si parla di decine di morti, vi sarebbero donne e bambini presenti in un campo di sfollati interni, una notizia che il portavoce della coalizione, il generale saudita al Asisi, non conferma ma che invece rilanciano le organizzazioni umanitarie, che denunciano anche l’altissimo numero di civili a rischio. E’ Intersos a parlare di 15 milioni di vite in pericolo. Alessandro Guarino è il direttore regionale dell'organizzazione per lo Yemen:

R. – Oggi, nello Yemen rischiano tutti. In primis, rischiano le persone più vulnerabili, i bambini e le donne, che si trovano a dover fronteggiare una situazione di guerra in cui ad Aden e a Sana’a ci sono combattimenti in corso e si trovano a fronteggiarla partendo da una situazione che era già molto compromessa. Sono oltre 10 milioni le persone a rischio di insicurezza alimentare. E poi ci sono problemi di acqua e i servizi di base sono estremamente compromessi.

D. – Questa situazione non differisce tra nord e sud?

R. – Alcune cose sono in comune: la situazione legata alla malnutrizione è presente in tutto il Paese, anche se in alcune aree lo è maggiormente. La situazione di conflitto di queste ultime ore, seppur con modalità diverse, sta riguardando la gran parte del Paese. La preoccupazione è quella che le persone, alle quali noi siamo vicino e cerchiamo di essere vicino in questo momento, partono già da una situazione estremamente precaria e in questi momenti di combattimento, di insicurezza, hanno difficoltà ad accedere a tutto, hanno difficoltà a muoversi. Per non parlare poi delle vittime che sono un po’ tutti: sono i rifugiati, gli sfollati che vivono nei campi, ma sono anche gli yemeniti che vivono nelle città e che si trovano in questo momento a vivere a ridosso o nelle aree in cui il conflitto e gli scontri sono in corso.

D. – Le priorità, quali sono?

R. – Sono tante. Sono ovviamente gli interventi medici di urgenza, la mancanza di acqua che comincia a farsi sentire nelle zone di conflitto, la protezione nei confronti dei bambini e delle donne più vulnerabili, la paura e lo stress che stanno attanagliando le persone che si trovano in questa situazione. E in tutto questo, il timore che a breve ci si possa trovare in una situazione sempre più compromessa, legata alla carenza di cibo e alla mancanza di elettricità.

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Siria, terza Conferenza donatori. Onu: solo 10% degli aiuti

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La critica situazione in Siria, giunta al quinto anno di conflitto, è al centro della terza Conferenza umanitaria internazionale dei donatori aperta oggi a Kuwait City. Presenti 70 Paesi e una quarantina di Organizzazioni non governative. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto più “generosità”. Le prime risposte sono arrivate dall'Unione Europea, che ha promesso oltre un miliardo di dollari, e da Stati Uniti e Kuwait, che hanno promesso 500 milioni ciascuno. Roberta Gisotti ha intervistato Daniele Donati, responsabile emergenze della Fao, che in questa occasione ha lanciato un appello speciale: 

La guerra in Siria: 220 mila morti, un numero incalcolabile di feriti e mutilati, 10 milioni a rischio fame e 11 milioni senza acqua potabile, 2 milioni e mezzo di bimbi senza scuola. Per fronteggiare questo disastro umanitario servono, secondo l’Onu, 8,4 miliardi di dollari solo nel 2015, ma gli aiuti finora arrivati sul campo sono appena il 10% di quanto richiesto negli scorsi anni. Aprendo la Conferenza, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha espresso “vergogna, profonda rabbia e frustrazione” per il fallimento della comunità internazionale, che non ha saputo fermare il “bagno di sangue” e non sta aiutando abbastanza il popolo siriano, in gran parte fuggitivo. Da qui l’appello dell’Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, rivolto all’Europa perché tenga aperti i suoi confini, in particolare per i siriani, che sono in gran parte fuggitivi, come ci conferma Daniele Donati, dirigente Fao:

R. – Ci sono circa 10 milioni di siriani lontano dalle loro case in questo momento: 7,6 milioni nel Paese e quasi 4 milioni all’estero. Dieci milioni di persone sono in uno stato di insicurezza alimentare, di cui il 70% in stato di grave insicurezza alimentare. Va ricordato che oltre il 70% della popolazione siriana dipende direttamente o indirettamente dall’agricoltura. E l’agricoltura, nel corso degli ultimi 5 anni, è caduta globalmente di oltre il 50% del livello produttivo di prima della crisi.

D. – Che cosa chiede la Fao alla comunità internazionale?

R. – La Fao chiede complessivamente circa 120 milioni di dollari, distribuiti quasi in egual misura tra la popolazione uscita e quella rimasta in Siria: su 23-24 milioni di abitanti ce ne sono circa 5 milioni ancora nel Paese, che sono in zone totalmente inaccessibili. Noi cerchiamo con i sistemi più diversi di far giungere assistenza agricola, nel senso ampio del termine, includendo anche le attività pastorizie e il restauro delle infrastrutture di irrigazione. Cerchiamo di far arrivare aiuti, soprattutto in termini di sementi, per garantire un livello di produzione tale da almeno controbilanciare il violento aumento dei prezzi che ha creato sempre più poveri in Siria nel corso di questi 5 anni. E nei Paesi vicini tendiamo a fornire lo stesso tipo di supporto non soltanto ai rifugiati ma anche a quelle famiglie libanesi, giordane, irachene, che danno supporto a questa gente arrivata con nulla, solo con quello che hanno addosso.

D. – Siamo arrivati alla terza Conferenza per la Siria: alla Fao sono arrivati gli aiuti richiesti?

R. – Siamo anche noi allo stesso livello, sfortunatamente. Il nostro appello dello scorso anno è finanziato al 10%. Il grande problema è che in questo momento il mondo occidentale sta soffrendo di "trend" finanziari particolarmente negativi. Inoltre, c’è la simultanea presenza di crisi molto importanti in differenti teatri di conflitto. In questo momento, mi vengono in mente i bisogni enormi del Sud Sudan, della Repubblica Centrafricana, la crisi dell’Ebola in Africa dell’ovest, lo Yemen, la crisi in Ucraina, senza contare le crisi di lunga durata, come il Congo, come l’Afghanistan… I bisogni sono smisurati!

D. – L’aiuto giusto è forse portare la pace?

R. – E’ per questo che noi della Fao sosteniamo con grande intensità l’investimento in agricoltura. Noi siamo convinti che riprendere le normali attività agricole è il più poderoso motore di pace che si possa immaginare: riportare la gente a coltivare i suoi campi, fare in modo che i mercati siano di nuovo pieni di prodotti e che compare il cibo per le famiglie sia alla portata del più gran numero di persone possibile, è una realtà che automaticamente riduce il livello di tensione sociale. In questo senso, noi riteniamo che si debba guardare all’agricoltura, come ho detto, a un motore di pace.

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Nigeria: per la presidenza Buhari in testa su Jonathan

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E' in corso, in Nigeria, lo spoglio elettorale dopo le consultazioni presidenziali e legislative dei giorni scorsi. Attualmente, per la carica di capo dello Stato lo sfidante, Muhammadu Buhari, risulta in testa sul presidente uscente, Goodluck Jonathan. Oltre tre milioni lo scarto di voti fra i due candidati. Sullo sfondo di queste consultazioni, la lotta contro i fondamentalisti islamici di Boko Haram che operano nel nordest del Paese. Come potrà concludersi il confronto elettorale tra Jonathan e Buhari? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Michele Luppi, direttore del sito web “Africa-Europa.it”: 

R. – L’invito è alla prudenza perché, anche per quella che è la struttura della legge elettorale nigeriana, bisogna aspettare il conteggio finale dei voti. Chiaramente, il dato che Buhari sia in vantaggio è un segno anche un po’ sorprendente, nel senso che è pur vero che Buhari era dato in crescita e qualcuno lo vedeva anche come possibile vincitore di queste elezioni; ma, fino proprio alle ultime settimane, si pensava che Jonathan ce la facesse. Quindi, bisogna aspettare fino all’ultimo, perché la legge nigeriana prevede non solo che venga eletto chi ha il maggior numero di voti, ma anche chi ottenga almeno il 25% dei consensi in due terzi degli Stati della Federazione. Questo vuol dire che a Buhari non sarà sufficiente ottenere più voti di Jonathan, ma dovrà ottenere il 25% dei consensi in almeno 24 degli Stati della Federazione. E questa non è una cosa semplice.

D. – Questo confronto non rischia di innescare ulteriori frizioni in un Paese dove già c’è il problema dei fondamentalisti islamici di Boko Haram?

R. – In parte, ma il dato che sta uscendo anche da questi rilevamenti sottolinea come a essere punita sia stata soprattutto la leadership di Goodluck Jonathan e la sua incapacità di far fronte alla guerra dilagante di Boko Haram nel nordest del Paese. E quindi, da questo punto di vista bisognerà capire se un’eventuale vittoria di Buhari, che viene visto come uomo forte – lui è stato un ex generale e anche presidente di una giunta militare tra il 1983 e il 1985 – possa riportare un po’ di sicurezza nel nord e nel nordest.

D. – I Boko Haram potrebbero approfittare di questa situazione particolare, con un possibile nuovo presidente, anche per espandersi territorialmente?

R. – Bisogna valutare, secondo me, due aspetti in questo momento: da un lato, il ruolo che sta avendo da un mese a questa parte l’esercito del Ciad, che è intervenuto in Nigeria e che si sta muovendo lungo il confine tra la Nigeria, il Camerun e il Niger. È questo un intervento che ha avuto successo, perché ha favorito la riconquista da parte dello stesso esercito nigeriano di alcune città. Dall’altra parte, non bisogna dimenticare che vari analisti hanno sottolineato come il fenomeno Boko Haram sia certamente legato a influenze del jihadismo che provengono anche da altri Paesi e a un’ideologia che è transnazionale, ma anche che vi siano legami locali e un retroterra fatto da politici, funzionari che avrebbero, nel corso degli ultimi anni, favorito l’avanzata di questo movimento. Quindi, bisogna capire se un cambio di presidenza possa andare a togliere a Boko Haram questo sostegno locale, che comunque il movimento armato ha in alcune zone.

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Coldiretti in piazza per difendere il latte "Made in Italy"

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Ancora una volta gli allevatori scendono in piazza. La Coldiretti ha denunciato che solo una stalla su 5 è sopravvissuta al regime delle "quote latte" che finisce oggi. Migliaia le piccole aziende che questa mattina hanno manifestato in centro a Roma. Il servizio di Alessandro Guarasci

Il latte viene pagato sempre meno agli agricoltori: 0.36 centesimi al litro mentre il cittadino è costretto a spendere anche 1.5 euro per un litro di latte di qualità. Ne deriva che ormai gli allevamenti sono rimasti solo 36 mila. E con la fine del regime delle "quote latte" sono in arrivo 40 milioni di euro di multe della Ue, per chi ha sforato il regime. Ma non solo, secondo il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo:

“Un nuovo rischio di aumento dell’import selvaggio di latte del nostro Paese: questo è un rischio che noi dobbiamo trasformare in opportunità puntando tutto sulla qualità e sulla distintività delle nostre produzioni lattiero-casearie. Quindi, trasparenza assoluta nella filiera, origine in etichetta anche per il latte a lunga conservazione e per tutti i prodotti lattiero-caseari non a denominazione di origine, per i quali oggi l’obbligo di origine non c’è”.

In totale, dall'estero sono arrivati 8,6 miliardi di chili di derivati del latte che vengono utilizzati in latticini e formaggi all'insaputa dei consumatori e a danno degli allevatori perché non è obbligatorio indicare la provenienza in etichetta. Dunque, puntare sulla qualità dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina:

 “Abbiamo tutte le condizioni per promuovere, rafforzare  il latte italiano. Serve l’aiuto di tutti, lasciandoci alle spalle anche un po’ di mala gestione della politica sulla vicenda, in particolare del settore lattiero caseario. Mi riferisco in particolare agli anni in cui la vicenda delle quote latte ha creato parecchi problemi agli allevatori italiani”.

Le sanzioni sono già costate 70 euro ad abitante.

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Chiudono Ospedali giudiziari. "Antigone": misura di civiltà

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Dopo anni di dibattiti, oggi è prevista formalmente la chiusura dei sei Ospedali psichiatrici gudiziari italiani (Opg). Sono alcune centinaia i pazienti presenti ancora in tali strutture che gradualmente potranno essere dimessi e ricevere un progetto terapeutico riabilitativo individuale. Anna Zizzi ha intervistato il presidente dell’Associazione "Antigone", Patrizio Gonnella

R.  Un tempo questi luoghi erano, in modo anche più esplicito, chiamati manicomi criminali. Poi, a un certo punto, ci siamo lavati la coscienza e li abbiamo chiamati ospedali, ma abbiamo lasciato le persone comunque nella stessa condizione. Per tanti anni ne abbiamo raccontato le storie: persone dimenticate in luoghi dove erano costrette a passare una vita anche per aver fatto solamente un reato di furto in un supermercato… Dieci, venti anni in condizioni igienico-sanitarie terribili, internati, legati ai letti e sedati. Oggi, finalmente, siamo arrivati a un cambio di rotta e quindi dobbiamo essere orgogliosi di un Paese che ha deciso di fare un cambiamento importante. Non si può trattare una persona con problemi sanitari come se fosse un detenuto comune.

D. – La Legge 81 del 2014 ha previsto che agli Opg subentrassero le "Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza" (Rems). Cosa cambia?

R. – Dovrebbero essere – nell’intenzione di chi le ha previste – più piccoline, dovrebbero avere non più di venti persone. Quindi, da questo punto di vista, essendo più piccoli i luoghi potranno offrire un trattamento più facile da investire in risorse tali da poter garantire una vita comunitaria degna di questo nome, un maggiore impegno socioeducativo: insegnare un lavoro, un’attività, insegnare a certe persone a sopravvivere, cosa che negli Opg si erano dimenticati.

D. – La stessa legge prevede un percorso terapeutico individuale da offrire al paziente, in modo che non si possa ritenere qualcuno socialmente pericoloso solo per le condizioni economico sociali…

R. – Questo è un passaggio fondamentale. La cosa più incredibile è che siamo stati costretti a scrivere in una legge che la povertà non è una condizione di pericolo. Essere poveri non significa essere pericolosi. Vuol dire che per venti, trenta, quarant'anni abbiamo trattato la povertà come fosse un pericolo. Non dobbiamo trattare i poveri come se fossero dei criminali. Nell’Opg di Aversa, ad esempio, c’erano 96 persone: di quelle 96 persone se ne possono contare una decina che possono essere definite socialmente pericolose perché hanno compiuto seri reati contro la persona. Tutti gli altri erano reati di minima gravità. Se fossero stati presi in cura dalle Asl, dai Servizi di salute mentale, dal territorio, dalla comunità, non sarebbero mai finiti in un Opg. Per esempio, un ragazzo che sta dentro da otto anni per resistenza a pubblico ufficiale, cioè fermato in quanto era andato in escandescenza, ha reagito senza fare chi sa cosa lla polizia che lo fermato e dal 2007 è nell’Opg.

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Nella Chiesa e nel mondo



Capi religiosi libanesi: c'è un piano di frantumazione regionale

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Sostegno unanime e incondizionato alle forze armate, appello a porre fine alla vacanza dell'incarico presidenziale, condanna del terrorismo mascherato sotto argomenti religiosi e annuncio di vertici interreligiosi periodici, da tenersi ogni tre mesi, per considerare insieme la drammatica situazione politica e sociale in cui versa il Paese dei Cedri. Sono questi i principali contenuti emersi nel summit interreligioso svoltosi ieri preso la sede patriarcale maronita di Bkerkè, che ha registrato la partecipazione di tutti i leader cristiani e musulmani del Paese, ad eccezione del patriarca greco ortodosso di Antiochia Yohanna X.

La mancanza di un Presidente mette a rischio la sovranità del Libano
Il comunicato finale del vertice, pervenuto all'agenzia Fides, esprime "profonda preoccupazione" per la persistente vacanza dell'ufficio presidenziale, che agli occhi dei capi delle comunità religiose continua a rappresentare "una minaccia alla sovranità del Libano, alla sicurezza e alla stabilità” e mette a repentaglio anche la sua architettura costituzionale, che tutelando la compartecipazione di cristiani e musulmani alla leadership politica del Paese, rappresenta “un messaggio diretto a tutto il mondo arabo e al mondo intero”. Il lungo periodo di paralisi istituzionale intorno all'elezione del nuovo Presidente - la carica presidenziale è vacante dallo scorso 25 maggio – secondo i leader religiosi mette a rischio la sopravvivenza stessa del Paese, esponendo il suo equilibrio fragile ai conflitti e alle derive settarie che stanno stravolgendo lo scenario mediorientale. "L'elezione di un Presidente cristiano maronita” si legge nella dichiarazione dei leader spirituali cristiani e musulmani, “è la garanzia della continuità della convivenza sociale e quindi dello stesso Libano".

Appello alla comunità internazionale per i profughi iracheni e siriani
Il comunicato conclusivo del summit dedica ampio spazio anche alle emergenze economiche e sociali che stanno soffocando la popolazione, soffermandosi sui problemi connessi con l'insostenibile afflusso di rifugiati siriani e iracheni in territorio libanese. La comunità internazionale è chiamata a "spendere di più" per affrontare le "condizioni disumane" sperimentate dai rifugiati, prendendo atto che la capacità di sopportazione del Libano è limitata “nello spazio e nel tempo”

Il terrorismo è rivestito con la maschera della religione
I capi religiosi cristiani e musulmani hanno anche condannato in maniera unanime “il terrorismo rivestito con la maschera della religione” che sta destabilizzando ampie aree del Medio Oriente e appare funzionale ai piani di frammentazione su base settaria dei singoli Stati mediorientali. In particolare, il comunicato finale ha indicato i cristiani orientali come le prime vittime delle ondate di violenza che sconvolgono la regione, ribadendo che in Medio Oriente i cristiani non sono “ospiti” e la presenza cristiana ha preceduto quella musulmana di centinaia di anni, dando un contributo decisivo alla fioritura della civiltà araba.

Il summit interreligioso si terrà periodicamente ogni tre mesi
​Riguardo al conflitto in atto nello Yemen, i capi religiosi libanesi hanno chiesto che esso rimanga vincolato al rispetto della sovranità del Paese arabo, senza esprimersi nel merito sulle offensive militari guidate dall'Arabia Saudita contro le milizie sciite dei ribelli Houthi. Il comunicato ricorda la solennità dell'Annunciazione da poco trascorsa, che in Libano è divenuta festa nazionale e viene definita come “la prima celebrazione islamo-cristiana della storia”. Inoltre, nel testo approvato da tutti i capi religiosi, si annuncia l'istituzionalizzazione del summit interreligioso libanese, con incontri periodici che si terranno ogni tre mesi. (G.V.)

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Libano: progetto educativo della Chiesa per i rifugiati

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Un progetto di missione educativa in Libano verrà presto avviato, insieme, da due Congregazioni, quella dei Frateli de La Salle e quella dei Fratelli Maristi. L’iniziativa, spiega una nota congiunta, si articolerà in tre fasi: innanzitutto, verrà avviato “un progetto che creerà spazi per accogliere i bambini rifugiati. Poi, verrà stabilito un ufficio internazionale in Libano, per coordinare le attività della vita quotidiana”. Quindi, l’attività verrà espansa per “rispondere ai bisogni dei giovani emarginati”. I destinatari dell’iniziativa, infatti, sono “bambini e giovani, in linea con entrambi i carismi delle Congregazione e all'interno delle loro rispettive competenze di base: l'educazione e la pastorale giovanile”.

Andare nelle periferie esistenziali dell’uomo
Il nome della missione comune - prosegue la nota - sarà “Il progetto Fratelli”. L’idea è nata alla fine del 2014, quando entrambe le Congregazioni “hanno discusso il modo migliore per rispondere alla difficile situazione degli sfollati, ai confini dei diversi Paesi nel mondo di oggi”. Le discussioni si sono inquadrate nel contesto dei rispettivi Capitoli generali dedicati al tema “Verso terre nuove”, per i maristi, e “Oltre i confini”, per i lasalliani. “Sappiamo che queste espressioni non sono semplici riferimenti geografici – ribadisce la nota - ma anche una sfida ad andare alle periferie dei confini personali, culturali, delle congregazioni e delle strutture”.

Sviluppare la logica evangelica della fraternità
L’obiettivo comune, quindi, è quello di “sviluppare la logica evangelica del dono, della fraternità, dell'accettazione della diversità e dell’amore reciproco”. Il tutto lasciandosi ispirare dalla Lettera che Papa Francesco ha scritto a tutti i consacrati, lo scorso novembre, in cui il Pontefice “spinge a considerare la testimonianza profetica di congregazioni che lavorano insieme”. (I.P.)

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Chiesa del Canada: proteggere i civili del conflitto in Siria

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Quattro anni di conflitto, oltre 220mila morti, più di 7 milioni di sfollati, aiuti umanitari necessari per quasi 12 milioni di persone: sono questi i numeri del conflitto in Siria, definito dall’Onu “la più grande sfida umanitaria della nostra epoca”. Di fronte a tale drammatico bilancio, l’organismo cattolico “Sviluppo e pace”, membro della Conferenza episcopale canadese, ha lanciato una petizione al governo di Ottawa, affinché faccia tutto il possibile per tutelare la popolazione civile.

Necessario l’intervento della comunità internazionale
In una nota, Sviluppo e pace ricorda anche che il conflitto siriano si ripercuote sull’insieme della regione, dato che “quasi 4 milioni di persone sono fuggite dalla Siria per trovare rifugio in Libano, Turchia e Giordania” e “tra loro ci sono circa 1,7 milioni di bambini”. “La crisi – prosegue la nota – ha ripercussioni sociali ed economiche senza precedenti sui Paesi ospiti della regione. Essa colpisce la loro stabilità ed esacerba le loro vulnerabilità preesistenti, esercitando una pressione immensa sui servizi sociali di base e creando competizione a causa delle risorse limitate”. Queste nazioni, sottolinea Sviluppo e pace, “non possono assumersi la responsabilità di accogliere e proteggere i rifugiati, senza l’aiuto e l’intervento della comunità internazionale”.

Porre fine al conflitto per via diplomatica
Di qui, l’appello al governo canadese: “Non possiamo restare a braccia conserte – conclude l’organismo caritativo – Agiamo subito e firmiamo una petizione chiedendo al governo canadese di fare tutto ciò che è in suo potere per proteggere i civili in Siria e per porre fine al conflitto per via diplomatica”. (I.P.)

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Vescovi Sud Sudan: leader incapaci di immaginare la pace

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“Crediamo che molti dei dirigenti coinvolti nel conflitto non riescano neanche a immaginare una via d’uscita che porti la pace”: lo scrivono i vescovi del Sud Sudan, denunciando per altro il “fallimento” sia delle parti in lotta che dei mediatori nel porre fine ai combattimenti cominciati nel dicembre 2013.

La Chiesa chiede di fermare i combattimenti
La posizione della Conferenza episcopale - riferisce l'agenzia Misna - è stata resa nota attraverso un messaggio diffuso dopo una nuova tornata di negoziati ad Addis Abeba tra il governo del presidente Salva Kiir e i ribelli legati al suo ex vice Riek Machar. “È inconcepibile – si legge nel documento – trattare su incarichi, responsabilità, percentuali, sistemi di governo, distribuzione delle risorse e altri temi mentre ogni giorno ci sono nuove vittime; i combattimenti si devono fermare, immediatamente, e solo allora questi problemi politici potranno essere affrontati”.

Mai rispettate le intese di cessate il fuoco
Il riferimento è a un accordo sottoscritto a febbraio che prevede l’entrata in carica di un esecutivo di unità nazionale in coincidenza con il quarto anniversario dell’indipendenza del Sud Sudan, il 9 luglio 2015. Le parti avevano ribadito l’impegno a garantire il rispetto di un’intesa di cessate il fuoco già sottoscritta all’inizio del 2014, ma mai rispettata.

Circa 2 milioni le vittime del conflitto
Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto le vittime delle violenze sono già state decine di migliaia, mentre le persone costrette a lasciare le proprie case sono circa un milione e 900.000. (V.G.)

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Costa d'Avorio. Card. Kutwa ai giovani: no a modelli senza Dio

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Abbiate il coraggio di dire no a tutto quello che ostacola la propria crescita umana: all’odio, alla violenza, ai profeti di sventura, ma anche a modelli culturali e stili di vita che escludono Dio e il patrimonio di valori del Vangelo. E’ l’esortazione rivolta dal card. Jean-Pierre Kutwa, ai migliaia di giovani della Costa d’Avorio riuniti nella cattedrale di Abidjan per il loro pellegrinaggio quaresimale.

Rifiutare categoricamente tutto quello che è contrario alla vita
Nel suo intervento l’arcivescovo della città si è soffermato sul ruolo dei giovani nei rapidi cambiamenti socio-culturali in atto nel mondo, ma soprattutto nel disegnare il futuro ancora incerto del Paese, sul quale pende l’incognita delle prossime elezioni politiche, convocate quest’anno dopo un decennio di sanguinosi conflitti etnici e politici. I giovani, che rappresentano “una forza per i nostri Stati africani”, ha detto il card. Kudwa, sono chiamati a “capire i segni che esigono da loro azioni all’altezza dei mali del nostro tempo”. Ciò, implica “avere il coraggio di rifiutare categoricamente tutto quello che aliena l’uomo, che è contrario alla vita, questo bene prezioso che Dio affida alle cure di noi esseri umani: i massacri, gli attentati, i rapimenti di bambini, gli assassinii rituali devono incontrare la barriera della vostra fede che dice no!”. “Siamo stufi di giovani che tendono la mano al primo venuto e che aspettano pigramente che tutto cada dal cielo”, ha aggiunto il card. Kudwa, ricordando ai presenti che solo il lavoro e gli studi affinano l’intelligenza dell’uomo.

Rendere visibile la propria fede nella vita personale
In conclusione, l’arcivescovo di Abidjan ha sottolineato che la sfida che hanno davanti i giovani ivoriani oggi è quella di “rendere visibile” la propria fede nella loro vita personale e tradurre la “vocazione missionaria” dei movimenti e associazioni giovanili in “un’espressione viva della fede in un Paese che cerca la sua unità perduta”. (L.Z.)

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Roma: convegno dei formatori alla Vita consacrata

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Dall'8 all'11 aprile si svolgerà a Roma, presso l'Ergife Palace Hotel, il Convegno dei formatori e formatrici alla Vita consacrata. L'evento, che si colloca all'interno dell'Anno della Vita Consacrata, vedrà riuniti circa 1.200 formatori e formatrici provenienti da ogni parte del mondo che si confronteranno sui fondamenti dell'identità della Vita consacrata e sulle esigenze formative nel mondo contemporaneo.

Il programma
Oltre alle relazioni, più di 50 saranno i 'laboratori' in cui si affronteranno tematiche di grande attualità per la Vita consacrata. Chiuderà il Convegno un forum su 'La formazione nella visione interdicasteriale', cui parteciperanno il card. Beniamino Stella, Prefetto della Congregazione per il Clero, mons. José Rodriguez Carballo, Segretario della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, mons, Vincenzo Zani, Segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica.

Le finalità
Scopo del Convegno è formarsi, cioè prendere la 'forma' di vita del Vangelo, per essere uomini e donne veramente liberi; maturare la propria identità per poter dialogare con tutte le culture e divenire, nell'oggi dei flussi migratori, segno profetico di accoglienza e di comunione. L'evento sarà preceduto da una Veglia di preghiera, cui tutti potranno partecipare, martedì 7 aprile alle ore 20.30 nella parrocchia di S. Gregorio VII. Sabato 11 aprile alle ore 9.30, sarà possibile partecipare alla Celebrazione eucaristica nella Basilica di S. Pietro presieduta dal card. João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica. (R.P.)

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Burkina Faso: convegno dei laici sulla nuova evangelizzazione

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I laici siano “la chiave della ‘buona battaglia’ della nuova evangelizzazione”: questa, in sintesi, l’esortazione emersa dal convegno del Consiglio nazionale dei laici in Burkina Faso, svoltosi dal 26 al 28 marzo presso il Monastero benedettino di Koubri, vicino Ouagadougou. Ispirato al versetto di San Paolo “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”, contenuto nella seconda Lettera a Timoteo, l’appello conclusivo dei lavori ha voluto invitare tutti i laici a “partecipare in modo attivo e decisivo nel mondo, consapevoli del proprio ruolo”.

Promuovere laici responsabili per edificare Chiesa-famiglia di Dio
All’incontro hanno preso parte esponenti di tutte e 15 le diocesi del Burkina Faso, con l’obiettivo, informa una nota sul sito della Conferenza episcopale locale, di “promuovere un laicato formato, maturo e che si impegni risolutamente nell’edificazione di una Chiesa-famiglia di Dio”. “I laici responsabili – continua la nota – sono forze vive che Dio ha disposto nella Chiesa per la ‘conquista’ spirituale del mondo”. Investiti “grazie al battesimo” del loro ruolo “all’interno dell’opera organica della Chiesa”, quindi, “i laici sono coloro che assicurano la vitalità di questa grande famiglia di Dio”.

Istituzione di una équipe di formatori nazionali e diocesani
L’incontro dei giorni scorsi, ha spiegato Bernadette Konfé, presidente del Consiglio nazionale dei laici, “è la prima tappa di una campagna di sensibilizzazione che riguarderà tutti i figli e le figlie della Chiesa-famiglia di Dio in Burkina Faso”. In programma, infatti, c’è l’istituzione di “un’équipe di 55 formatori a livello nazionale e di 15 gruppi di formazione a livello diocesano, uno per ciascuna diocesi del Paese”. Tutti loro avranno “l’incarico di trasmettere, ai fedeli cattolici del Paese ed alle comunità in cui vivono, i contenuti formativi esaminati dal convegno, tra cui questioni di carattere biblico e teologico”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 90

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.