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Sommario del 31/07/2015
- Il Papa concede l'indulgenza plenaria ai pellegrini del Cammino Ignaziano
- Carriquiry: Francesco non è pauperista, fa sue sofferenze dei poveri
- Mons. Auza: i piccoli Stati insulari rischiano di scomparire
- Giubileo della Misericordia: presentato manifesto associazionismo
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Attacco coloni ebrei: muore bambino palestinese a Nablus
- Cina: proteste nello Zhejiang per la rimozione delle croci
- Cina e Iran i Paesi con più condanne a morte. Santa Sede: colpisce più deboli
- Afghanistan: Mansour nuovo capo dei talebani
- Cresce disoccupazione in Italia. Vaciago: urge piano d'investimenti
- Pedopornografia: rete internazionale operava nel deep web
- Pellegrinaggio giovani da Teramo a Santuario di San Gabriele
- Card. Cottier a Civiltà Cattolica: Anno misericordia illuminerà lavori Sinodo
- Pyongyang arresta missionario protestante: "Voleva teocrazia nel Nord"
- Giappone: Coe a Hiroshima e Nagasaki per 70.mo bomba atomica
- Pakistan: Chiesa chiede moratoria sulla pena di morte
- Elezioni Sri Lanka: i vescovi per un voto libero e giusto
- Congo: intervento della Chiesa sul dialogo politico
- Chiesa in Colombia: ancora bambini soldato nelle Farc
- Brasile: pellegrinaggio in memoria di sr. Dorothy Stang
Il Papa concede l'indulgenza plenaria ai pellegrini del Cammino Ignaziano
Papa Francesco, attraverso due decreti della Penitenzieria Apostolica, ha concesso l’indulgenza plenaria ai pellegrini che si recano nei Santuari di Loyola e Manresa, in Spagna, durante la celebrazione del primo Anno giubilare del Cammino ignaziano che inizia oggi, nella memoria di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Il servizio di Sergio Centofanti:
Un Cammino di quasi 700 chilometri
Stiamo per entrare nel Giubileo della Misericordia e Papa Francesco con questa indulgenza invita a mettersi in cammino sulle orme di Sant’Ignazio di Loyola per incontrare Gesù misericordioso. E’ il Cammino inaugurato nel 2012 che ripercorre in quasi 700 chilometri l’itinerario geografico e spirituale del fondatore dei Gesuiti attraverso i paesaggi suggestivi dei Paesi Baschi, Navarra, La Rioja, Aragona e Catalogna.
Un cammino per decentrarsi
Il cammino cristiano – ha affermato più volte il Papa gesuita – porta a decentrarsi, a uscire da se stessi, dall’amore di sé, per mettere al centro Gesù. E’ un cammino non facile, perché siamo sempre peccatori: “ci sono giornate di buio – dice il Papa – anche giornate di fallimento, anche qualche giornata di caduta”. Si cade, ma non bisogna “avere paura dei fallimenti”. “Nell’arte di camminare quello che importa non è di non cadere, ma non rimanere caduti”: dunque “rialzarsi presto” e “andare avanti con forza e con fiducia nel Signore”, perché con Gesù “tutto si può”.
Camminare nella Chiesa e con la Chiesa
Il Papa invita a “camminare in comunità, con gli amici”. Il cristiano non è una persona isolata: “alla centralità di Cristo corrisponde anche la centralità della Chiesa: sono due fuochi che non si possono separare: io non posso seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa”. Papa Francesco sottolinea l’importanza di un cammino “creativo” per raggiungere le periferie, i lontani, ma sempre all’interno della Chiesa, “con questa appartenenza che ci dà il coraggio di andare avanti” perché “servire Cristo è amare questa Chiesa concreta e servirla con generosità e obbedienza”.
La santa inquietudine
Si tratta di una cammino inquieto, quello di Sant’Ignazio – ricorda il Papa – perché guarda “l’orizzonte che è la gloria di Dio”: lo percorre chi è in continua ricerca di Dio con “un cuore che non si adagia” e non è mai soddisfatto. E’ una “santa e bella inquietudine”.
Camminare con magnanimità
Francesco indica una disposizione per mettersi in marcia: “la magnanimità”. Significa avere un “cuore grande, senza paura” che scommette sui grandi ideali. Ma è un cuore grande anche nelle piccole cose, nelle cose quotidiane. Significa “camminare con Gesù con il cuore attento a quello che Gesù ci dice” tutti i giorni. E’ dunque un cammino di profonda conversione che ci fa domandare: “Metto veramente Cristo al centro della mia vita?”. E’ un cammino fatto da persone deboli, da peccatori, che però desiderano “lasciarsi conquistare da Cristo”.
Carriquiry: Francesco non è pauperista, fa sue sofferenze dei poveri
In meno di tre mesi, Papa Francesco visiterà due volte il Continente americano. Dopo la visita in America Latina, sarà la volta di Cuba e Stati Uniti, quasi i due tempi di uno stesso grande avvenimento. Sull’importanza di questi viaggi del primo Papa latinoamericano, Alessandro Gisotti ha intervistato il prof. Guzmán Carriquiry, segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina:
R. - Il Papa ha voluto cominciare la sua visita pastorale in America Latina dalle periferie emergenti: Ecuador, Bolivia e Paraguay. Adesso si prepara al viaggio a Cuba … in una Cuba – grazie a Dio – già pienamente inserita all’interno della famiglia dei Paesi latinoamericani. Dunque ci sarà una continuità, ma allo stesso tempo gli Stati Uniti, una grande nazione, che merita un messaggio a sé che ricollego all’America Latina alla luce della Ecclesia in America... questo rapporto sempre più forte di comunione tra le Chiese e di solidarietà tra i popoli di tutto il Continente americano, che viene da quell’intuizione profetica di San Giovanni Paolo II, quando convocò il Sinodo per l’America. Ci sarà un nesso evidente che ricollegherei anche ad un’altra prospettiva: è importante che gli Stati Uniti accolgano il messaggio che il Papa darà riguardo la loro società complessa, sulla responsabilità internazionale di questo grande Paese ma, allo stesso tempo, è importante che gli Stati Uniti sappiano rispecchiarsi nelle proprie periferie.
D. - In America Latina abbiamo visto in modo straordinario la dimensione del vescovo con il suo popolo: questa "Chiesa di popolo" può dare nuova energia anche ai cristiani un po’ stanchi dell’Occidente?
R. - A me non piace presentare la Chiesa latinoamericana come un "modello". La Chiesa latinoamericana è importante per tutta la cattolicità, perché più del 40 percento dei cattolici vive in essa; oggi la Chiesa cattolica in America Latina è posta dalla Provvidenza di Dio in una situazione molto singolare: il primo Papa latinoamericano della storia della Chiesa! E la Chiesa, i popoli, le nazioni dell’America Latina devono confrontarsi con questo fatto sorprendente che affascina la nostra gente, la pone in movimento. Io sono preoccupato, non tanto di porre la Chiesa latinoamericana a modello, ma di sottolineare la grave responsabilità che la Chiesa latinoamericana ha di saper cogliere questo tempo sorprendente di grazia, tempo favorevole dell’evangelizzazione, di assumere fino in fondo la domanda del Papa di una conversione personale che radichi sempre più il Vangelo a fondo nel cuore delle persone, dei latinoamericani; una conversione pastorale che forse vuol dire, prima di tutto, conversione dei pastori. Abbiamo la testimonianza eloquente del pastore universale, una conversione missionaria: riprendere con forza la missione continentale, uscire, andare verso coloro che sono più lontani e poi una conversione alla solidarietà per amore preferenziale ai poveri, come il Papa ci sta dicendo e mostrando coerentemente giorno dopo giorno.
D. - A proposito degli ultimi: in alcuni ambienti anche negli Stati Uniti è stato criticato come "pauperista" il grande discorso di Francesco ai movimenti popolari tenuto in Bolivia. Qual è la sua opinione a riguardo? Lei era lì con Papa Francesco …
R. - È stato un discorso duro, dobbiamo riconoscerlo, un discorso nel quale Papa Francesco ha tentato di tradurre con coraggio, con creatività il patrimonio del grande pensiero sociale della Chiesa confrontandolo con l’esperienza delle organizzazioni popolari molto diverse tra di loro; non era certamente un incontro facile. Chi legge il discorso seriamente, onestamente, si rende conto, in filigrana, che il Papa sviluppa questi tre grandi pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa: dignità della persona, sussidiarietà e solidarietà. Quell’amore del pastore per i poveri non ha nulla di “pauperismo” e men che meno di “pauperismo ideologico”. Il Papa è pastore che vede e si commuove in ogni incontro con i poveri, questo sguardo del pastore che fa sue le sofferenze dei poveri che portano nelle proprie piaghe ciò che ancora manca alla Passione di Cristo. Se non c’è questa commozione nel cuore e nell’anima, allora il rapporto con i poveri diventa assistenzialista o politico ideologico. Il Papa sa bene che questa situazione di povertà, di disuguaglianza che soffrono i poveri, si spiega all’interno di un sistema idolatrico del denaro che è alla base di queste disuguaglianze, di questi sfruttamenti, di queste situazioni di povertà, di violenza e di distruzione della natura.
D. - Francesco visiterà Cuba e gli Stati Uniti dopo lo storico disgelo trai due Paesi. La cultura dell’incontro, si potrebbe dire, cammina sulle gambe del Papa. C’è dunque anche un significato politico in senso alto di questo viaggio?
R. - C’è ancora un cammino da percorrere nel quale la Santa Sede certamente non sarà disinteressata o assente. Poi il Papa parlerà al Congresso degli Stati Uniti e all’Assemblea delle Nazioni Unite. Ci si può immaginare dunque che questo viaggio sia segnato da questa alta politica alla quale lei fa riferimento. Ma per il Papa anche questi risvolti che noi chiamiamo di “alta politica” sono posti all’interno di una prospettiva pastorale. Sono convinto che se parliamo al Papa dell’alta politica nei viaggi non gli piacerebbe affatto perché essenzialmente è pastore! E va a Cuba non con il primo scopo di continuare ad essere presente nel dialogo tra Cuba e Stati Uniti! No, va a Cuba innanzitutto per confermare la fede dei cubani. Il Papa va soprattutto per questo.
Mons. Auza: i piccoli Stati insulari rischiano di scomparire
I piccoli Stati insulari rischiano di scomparire a causa dei cambiamenti climatici. A lanciare l’allarme, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite. La sollecitazione è ad un’azione collettiva che punti all’assunzione di responsabilità, agli investimenti finanziari e ad un maggiore accesso alle energie rinnovabili per i Paesi poveri. Il servizio di Gabriella Ceraso:
Aumento della temperatura e del livello del mare, riscaldamento atmosferico, cicloni tropicali ed extratropicali, modifiche nelle precipitazioni. E’ questo che minaccia, non solo l’ambiente e lo sviluppo dei piccoli Stati insulari della Terra, ma la loro stessa “esistenza”. ”Abbiamo” dice mons. Auza,”l’obbligo morale di fare progressi” e di farli insieme” modificando innanzitutto l’approccio allo sviluppo, puntando cioè “all’efficienza energetica” e alla “sostituzione dei combustibili fossili”. Politica, religione, economia, scienza, ciascuno, è la raccomandazione di mons. Auza, deve dare il suo contributo e l’approccio deve essere integrale, perché “crisi ambientale e sociale sono inseparabili” come spiega il Papa nell’Enciclica Laudato Si’. Tre gli ambiti in cui agire subito, secondo l’osservatore permanente della Santa Sede, che sollecita: coraggio politico ai leader mondiali nel prossimo vertice di Parigi sul clima, perché la responsabilità prenda il posto della logica del profitto; impegno finanziario in favore di uno sviluppo sostenibile e aiuto dei Paesi ricchi ai più poveri perché possano aumentare l’accesso alle energie rinnovabili. Dunque l’emergenza per la scomparsa di interi piccoli Stati insulari è reale e l’aumento del livello del mare è ciò che fa più paura, come spiega Antonello Provenzale, direttore dell’Istituto di geoscienze e georisorse di Pisa:
R. – Il punto più preoccupante è che è una crescita non uniforme ma è una crescita che negli ultimi anni è diventata più rapida. Quindi ci si aspetta che per i prossimi 80 anni, dal 2.100, dovrebbe essere almeno di 50 cm, che è moltissimo, perché va a influenzare zone del mondo che sono basse in particolare le isole del Pacifico, ma anche le Maldive nell’Oceano Indiano, le Isole Figi per le quali si sta addirittura discutendo di trasportare la popolazione altrove, le isole della Micronesia, Capo Verde, Paesi che in realtà hanno partecipato poco alla emissione di gas serra, quindi dovremmo ricordarci di questi posti non solo quando si pensa a una vacanza esotica, ma anche a capire che sono potenzialmente minacciati.
D. - Quando si alza il livello del mare, non sono solo le isole che vengono coperte ma è una salinità che cresce anche nell’invadenza dell’acqua sul terreno, penso alle coltivazioni…
R. - Certo si ha una maggiore influenza dell’acqua di mare sulle falde costiere. Le falde acquifere sono l’acqua del futuro e quindi una comprensione di come le varie falde reagiscono sia alle possibili intrusioni saline da parte dell’acqua del mare o anche dell’acqua profonda e anche allo sfruttamento, è uno dei problemi importanti anche per le regioni continentali, non solo per le isole.
D. – La comunità scientifica spera che si possa fare veramente un passo sostanzioso nella conferenza di Parigi?
R. – La speranza c’è sempre. Le indicazioni non sono così incoraggianti. Si fanno molte discussioni ma si riesce difficilmente a trovare degli accordi. Non è un problema facile, nel senso che il problema del clima è tipicamente una proiezione nel futuro che va affrontata con decisioni difficili, costose e potenzialmente impopolari subito. La riduzione delle emissioni di gas serra non è una cosa facile da ottenere. E’ chiaro che è un obiettivo primario ma richiede una serie di cambiamenti nella produzione di energia, proprio nella struttura iniziale. E di fianco a questo che sta andando abbastanza a rilento c’è tutto il discorso dell’adattamento che è quello del dire: se anche congelassimo le emissioni ai livelli attuali, la temperatura continua ad aumentare e quindi dobbiamo adattarci. E adattarci vuol dire definire l’agricoltura per cui ci possono essere specie vegetali che resistono meglio alla siccità piuttosto che alle precipitazioni estreme, strategie di gestione dell’acqua, strategia anche di salute pubblica… Quindi l’adattamento è necessario, non può essere una scusa per non cercare di ridurre le emissioni ma va implementato di fianco. L’Unione Europea chiede che ciascuna nazione abbia strategie di adattamento ai cambiamenti climatici.
Giubileo della Misericordia: presentato manifesto associazionismo
Presentato oggi a Roma il “Manifesto dei cittadini e dell’associazionismo”, in vista del Giubileo della Misericordia voluto da Papa Francesco, che inizierà l'8 dicembre prossimo e terminerà il 20 novembre 2016. Ventiquattro associazioni che condividono l’urgenza per dare risposte concrete alle necessità, al disagio sociale e ad una migliore qualità del vivere. Il servizio di Alessandro Filippelli:
“Ci prendiamo cura della nostra città” è questo il titolo del manifesto dei cittadini e dell’associazionismo per il Giubileo. “L’Anno Giubilare sia anche il tempo del ripensamento su diverse questioni che spesso impediscono partecipazione, programmazione, lavoro, trasparenza e legalità”. E’ questo l’invito delle 24 associazioni per realizzare non solo grandi opere ma incoraggiare anche una nuova cultura della solidarietà e del sociale. Pino Galeota presidente dell’associazione "Corviale Domani":
“Noi puntiamo all’inclusione, alla consapevolezza e alla partecipazione della nostra città; delle fasce innanzitutto più attive, e poi in modo tale che sui territori possano essere veicoli di comunicazione, di partecipazione, di attivazione sociale e quant’altro. Noi dobbiamo pensare a queste cose, e in più dobbiamo fare in modo che il Giubileo sia un momento di riappropriazione culturale, etica e morale della città. Siccome i tempi sono strettissimi, noi chiediamo l’istituzione di alcuni presidi socio-culturali-ambientali aperti alla cittadinanza. Quindi non nuove strutture, ma rigenerazione, riqualificazione, ristrutturazione e dotazione di nuovi strumenti di comunicazione di rete nelle varie periferie. L’altra cosa è la lotta alla povertà: noi crediamo che sia uno dei temi. Anche questa va strutturata, sia in termini culturali, come anche sociali, perché le povertà non sono solamente alimentari, sono anche sociali, culturali ambientali e quant’altro. Quindi tutte queste cose rappresenteranno il nostro contributo al Giubileo della Misericordia”.
Già nel 1998, in occasione dell’Anno Santo Giubilare del 2000, centinaia di associazioni costituirono una simile iniziativa promossa da associazioni, comitati, cittadini attivi: fu così che si confrontarono, elaborando documenti, avanzando proposte alle istituzioni e alle autorità religiose. Buona parte dei temi e delle proposte di allora sono ancora oggi attualissimi, aggravati da una crisi dalla quale si stenta ad uscire. Gianni Palumbo, portavoce del Forum Terzo Settore del Lazio:
“Noi vorremmo che fossero create delle occasioni di partecipazione, di presenza, per una serie di realtà territoriali che possono dare una risposta alle domande che si fanno tutti quanti in questo momento: come si esce dalla crisi, come viene contrastata la povertà, come aiutiamo la marginalità. L’idea è quella di mettersi a disposizione perché nascano dei centri socio-culturali, che mettano a disposizione strutture e strumenti per poter operare”.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
Con Francesco nell'Anno della misericordia: il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione ha aggiornato il calendario.
Giulia Galeotti sulla "sola regola": una giornata con gli ospiti di Sergio Mattarella.
Un articolo di Gaetano Vallini dal titolo "Buenos Aires in una pozzanghera": Grete Stern e Horacio Coppola in mostra al Moma di New York.
Basta salvarne uno: Sabino Caronia recensisce l'ultimo romanzo di Tommy Wieiringa sullo sfruttamento dei migranti.
Quell'avambraccio mai restaurato: Cristian Martini Grimaldi su Francesco Saverio a Malacca City.
Attacco coloni ebrei: muore bambino palestinese a Nablus
Un bambino palestinese di un anno e mezzo è morto nella notte vicino Nablus, in Cisgiordania, a causa di un incendio appiccato da alcuni coloni israeliani. Ricoverati in condizioni critiche i familiari del bambino. Dura la condanna del primo ministro israeliano Nethanyau che ha parlato di “atto terroristico”, mentre il presidente dell’Autorità nazionale palestinese ha detto di voler ricorrere alla Corte penale internazionale contro Israele. Il servizio di Michele Raviart:
“Vendetta”. “Viva il Messia” e una grossa stella di David. Le scritte sui muri della casa bruciata di Duma, vicino Nablus in Cisgiordania, sono la firma degli attentatori, con ogni probabilità coloni ebrei. Il rogo, forse una ritorsione per l’uccisione di un colono avvenuta lo scorso mese nella stessa zona, è divampato in due case. Una vuota, l’altra abitata dalla famiglia del bambino ucciso dal fuoco. “E’ un chiaro atto di terrorismo e Israele agisce con durezza contro il terrorismo a prescindere da chi sono gli autori”, ha detto il primo ministro israeliano Nethanyau. Per l’Autorità Nazionale Palestinese, Israele è invece direttamente responsabile per la sua politica sugli insediamenti, per Abu Mazen ci sono i presupposti per denunciare Israele alla Corte dell’Aia per “crimini di guerra”. Intanto, Hamas ha invitato tutti gli abitanti di Nablus a scendere in piazza per protesta dopo la preghiera del venerdì, mentre un’auto di coloni è stata colpita da alcuni proiettili vicino Ramallah. Il tragico evento e la risoluta condanna di Nethanyau riporta alla luce il ruolo dei coloni nella politica israeliana, come spiega Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera:
R. – È evidente che Israele – e Netanyahu lo sa benissimo – non può assolutamente non prendere le distanze in maniera netta e determinata contro episodi di questo genere, anche perché il rischio è che vi siano delle componenti imitative di questi episodi e si potrebbe anche pensare, temere, che ci possano essere delle gravi conseguenze all’interno di tutti i Territori occupati. Netanyahu ha cercato in qualche misura di porre un freno, anche in maniera molto dura. E io credo che questo sia un segnale forte anche per la componente di estrema destra del suo governo, come dire: “Io sono il primo ministro, non pensate di condizionarmi accettando o non condannando episodi di questo genere!”.
D. – Qual è la politica del governo sugli insediamenti, e, dall’altra parte, qual è il rapporto dei coloni con il governo?
R. – La politica del governo sugli insediamenti è quanto di più ambiguo si possa immaginare. Netanyahu stesso, da una parte, cerca di vellicare le spinte più estreme della sua componente governativa e anche spinte più estreme – penso proprio al partito dei coloni. Dall’altra parte, sa benissimo che questo è un punto discriminante anche per quella che lui ha chiamato: “La strategia del nuovo rapporto” con tanti Paesi, con l’Europa… Io credo che la sua sia soprattutto tattica, perché se lui parlasse della strategia degli insediamenti, avrebbe contro gran parte non solo dell’opinione pubblica, ma anche dei Paesi del mondo.
D. – Chi sono i coloni? Sono estremisti o c’è una componente che riesce a vivere in pace con i palestinesi?
R. – Ci sono delle situazioni molto, molto diverse. Per esempio una componente di coloni molto estremista è quella che si trova vicino a Hebron, soprattutto accanto alle tombe dei patriarchi. Dall’altra, ci sono delle situazioni dove i coloni non hanno un cattivissimo rapporto – al di là delle esigenze e la domanda di autonomia – con la popolazione palestinese. Certo vicino a Nablus, certo vicino a Hebron, certo anche nelle periferie di Gerusalemme purtroppo la componente più estremista è quella prevalente. La componente mediana tra quella dialogante, che è ultra-minoritaria, è quasi tacitata da queste violenze, violenze che forse la maggioranza dei coloni stessi non accetta.
D. – Dall’altra parte l’Anp ha detto che la responsabilità di questo gesto è tutta di Israele…
R. – Sicuramente quanto dice l’Autorità Nazionale Palestinese è comprensibile, ma non tanto perché Israele sia direttamente colpevole di quello che è accaduto, questo no! Ma è responsabile nel senso che la politica degli insediamenti, il fatto di non avere creato una forte resistenza alla parte più estremista dei coloni, è ritenuta responsabilità dello stesso governo. Se Israele vuole interrompere questa catena di violenza e di morte, sa quello che deve fare: deve smettere di schiacciare l’occhiolino ai coloni anche ai più estremisti e deve prendere delle decisioni con compromessi anche dolorosi.
Cina: proteste nello Zhejiang per la rimozione delle croci
Nella provincia cinese orientale dello Zhejiang, secondo quanto riporta l’agenzia AsiaNews, le autorità hanno arrestato 16 fra fedeli e pastori protestanti con l’accusa DI “portare avanti affari illegali”. Per l’avvocato del gruppo sono stati arrestati perché volevano evitare la distruzione delle croci. La rimozione del simbolo religioso ha colpito in un anno più di 400 edifici, a causa di un provvedimento che considera abusive le croci di grandi dimensioni. Elvira Ragosta ha parlato di questo fenomeno con Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:
R. Il fenomeno riguarda in primo luogo la città di Wenzhou, chiamata la “Gerusalemme della Cina”, perché è una città dove ci sono effettivamente molti edifici religiosi buddisti. ma anche cristiani, protestanti soprattutto, ma anche cattolici. Dunque questa presenza religiosa, quella dei cristiani in particolare, è molto visibile.
D. - Sembra che quest’area della provincia sia da due anni oggetto di una riqualificazione in vista di uno sviluppo economico. Allora come leggere questi eventi? Come un’azione amministrativa contro l’abusivismo o come un atto anti-religioso?
R. - Certamente è presentata dalle autorità come un atto contro l’abusivismo. Il fenomeno riguarda una presenza religiosa cospicua, perché lo Zhejiang è terra di emigrazione dei cinesi e quindi anche di forti rimesse economiche anche da parte di gruppi religiosi che da altri Paesi inviano soldi, soprattutto alle chiese protestanti. Quindi diciamo che si mischia sicuramente la situazione amministrativa con la volontà di contenere un presenza straniera considerata esorbitante. Certamente non si iscrive, almeno esplicitamente, in una politica antireligiosa. Certo, è comprensibile la reazione dei fedeli, perché la distruzione della croce ha una portata forte dal punto di vista della fede cristiana, ma la battaglia viene condotta dalle autorità sul ridimensionamento delle dimensioni esteriori delle chiese e delle croci che sono considerate troppo visibili, tanto è vero che non riguarda ciò che accade all’interno degli edifici ecclesiastici.
D. - Dunque si tratta di un fenomeno locale circoscritto alla provincia o i provvedimenti vengono da Pechino?
R. - No, certamente riguardano le autorità provinciali, tanto che qualcuno lo legge come una forte diffida che viene fatta alle disposizioni che vengono invece dal centro, da Pechino. Le letture politiche qui sono naturalmente molto complicate e difficili da definire. Però, certamente non è un atto che viene dal centro.
D. - Riguardo alla reazione della popolazione dei fedeli, che tipo di mobilitazione si è riscontrata?
R. - La mobilitazione dei fedeli è crescente. Inizialmente è stata limitata, soprattutto da parte dei fedeli protestanti, si sono poi aggiunti i fedeli cattolici, la voce del vescovo cattolico, perché quello che inizialmente è stato considerato tutto sommato un atto spiacevole ma non particolarmente grave, adesso viene considerato eccessivo proprio perché prosegue e si estende anche ad altre città.
D. - Che previsioni si possono fare su questa situazione?
R. - Credo che la tensione per il momento sia destinata a crescere. Tuttavia il fenomeno probabilmente resterà circoscritto.
Cina e Iran i Paesi con più condanne a morte. Santa Sede: colpisce più deboli
E' stato presentato a Roma il Rapporto 2015 dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino” sulla pena di morte. Tra i Paesi che hanno eseguito più esecuzioni al mondo figurano la Cina, almeno 2400 nel 2014, ovvero il 67% del totale, l’Iran (almeno 800) e l’Arabia Saudita (88). Ce ne parla Davide Dionisi:
L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, viene confermata nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015. E' quanto emerge nell’ultimo rapporto elaborato dall'associazione Nessuno tocchi Caino. I Paesi che hanno deciso di abolirla sono oggi 161. L’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità delle esecuzioni, mentre gli Stati Uniti, sono l’unico Paese del continente americano che ha compiuto esecuzioni nel 2014 (33) e nei primi sei mesi del 2015 (17). In Africa, lo scorso anno, la pena di morte è stata praticata in 4 Stati, mentre in Europa, l’unica eccezione in un continente altrimenti libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia. Nonostante venga considerato da più parti uno strumento di vendetta e non di giustizia, nel rapporto figurano Paesi culturalmente avanzati che ancora la applicano. I motivi nella testimonianza di Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e Pace:
R. - Credo che questi Paesi gli argomenti tradizionali a favore della pena di morte trovano ancora terreno fertile. Questi argomenti sono in realtà di natura essenzialmente pragmatica: sarebbe una specie di legittima difesa della società, dal punto di vista morale. Invece, dal punto di vista sociologico, avrebbe una funzione preventiva di dissuasione. In realtà noi sappiamo bene che non è provato minimamente l’effetto dissuasivo.
D. - La pena di morte non riduce i reati e colpisce soprattutto i più deboli. E’ possibile punire in modo efficace l’attività criminale evitando una sanzione di per sé contraria al diritto primario all’esistenza?
R. – Certamente, il fatto che colpisca i più deboli è uno degli argomenti a favore dell’abolizione della pena di morte. Io credo che bisognerebbe studiare dei sistemi in modo da dare maggior peso a questo aspetto riabilitativo della pena, quindi appunto del reinserimento tramite il lavoro, tramite l’accompagnamento psicologico, ma anche molto tramite l’accompagnamento spirituale.
D. - Con la pena di morte il colpevole viene considerato una persona fondamentalmente votata al male quindi irrecuperabile, al di là delle moratorie come cambiare questo approccio?
R. – L’atto criminale è un atto di natura estremamente complessa. Qui si cerca di semplificare tutto e in realtà se uno si ferma a pensare a quanti possono essere gli aspetti che spingono all’atto criminale, aspetti culturali, aspetti di carattere sociologico … ci sono tanti aspetti. Finché non si capisce la complessità dell’atto criminale, io credo che si continui a pensare che chi compie questi atti sia fondamentalmente irrecuperabile. Ma se ci si ferma a riflettere sulle componenti che spingono le persone ad agire in un determinato modo, io penso che l’approccio possa essere diverso. Basti pensare, ai nostri giorni, a tutta la violenza che viene veicolata tramite i mass media, i videogiochi… C’è veramente da pensare che l’atto criminale non sia un atto del tutto proveniente dalla volontà del criminale.
Afghanistan: Mansour nuovo capo dei talebani
E’ stata confermata, ieri, la nomina di Akhtar Mansour alla guida del movimento dei talebani, dopo che, nei giorni scorsi, era stata diffusa la notizia del decesso del mullah Omar, fondatore e storico leader del gruppo fondamentalista afghano. Descritto come un negoziatore, Mansour potrebbe svolgere un ruolo importante nei colloqui di pace, appena iniziati, fra i talebani e il governo di Kabul. Giuliano Battiston, giornalista esperto di Afghanistan, racconta le ultime evoluzioni di una situazione tragica e complessa al microfono di Giacomo Zandonini:
R. - Akhtar Mansour è stato per anni il numero due del movimento ed ha guidato, al posto del Mullah Omar, che per molto tempo è stato evanescente, il Consiglio della Leadership, cioè il massimo organo di rappresentanza politica dei Talebani. Negli anni '80 ha combattuto – sembra – proprio al fianco del Mullah Omar nel "jihad" contro i sovietici. Mansour è sicuramente un pragmatico all’interno della galassia talebana, incline al negoziato politico: fa parte della vecchia guardia dei “Turbanti neri”, quelli che hanno fondato il movimento e che sanno che è arrivato il momento di tessere un negoziato di pace con il governo di Kabul. Quindi, la sua nomina potrebbe far ben sperare per il futuro del Paese e del conflitto afghano. Il guaio è che oltre a lui sono stati nominati due vice: uno di questi è Sirajuddin Haqqani, il figlio del fondatore del Gruppo Haqqani, che tra i movimenti anti-governativi in Afghanistan è quello più spietato, quello a cui si attribuiscono gli attentati più clamorosi in Afghanistan.
D. – Per quanto riguarda invece il ruolo del sedicente Stato Islamico, che cosa c’è in gioco?
R. – Lo Stato Islamico sta cercando di conquistare terreno e uomini all’interno dell’Afghanistan e ai talebani questo non piace, perché ci sono differenze dottrinarie e ideologiche, e anche pratiche. Mullah Mansour, l’attuale numero uno dei Talebani, proprio qualche settimana fa ha scritto una lettera di suo pugno, resa pubblica e destinata al califfo al-Baghdadi in cui diceva: “Mettete giù le mani dal nostro Paese, il jihad qui è nostro, non va aperto un nuovo fronte”. Il rischio però è che con la mancanza di una leadership riconosciuta, e che teneva insieme le diverse anime dei “Turbanti neri”, si possano approfondire le spaccature esistenti all’interno del movimento e potrebbe giovarne proprio lo Stato Islamico.
D. – Qual è il sentore dei cittadini afghani rispetto a una situazione di conflitto protratta nel tempo?
R. – Credo ci siano due sentimenti prevalenti: il primo è la speranza che questi negoziati di pace finalmente portino a qualcosa di definitivo, e mettano fine a una guerra che dura da moltissimi anni. Il secondo però è un certo sospetto, piuttosto diffuso, riguardo ai talebani, che si sono macchiati di crimini orrendi e che quando hanno governato il Paese l’hanno fatto andando contro i sentimenti della maggioranza della popolazione. Quindi c’è speranza per un futuro accordo di pace, ma c’è anche sospetto e attenzione verso le concessioni che verranno fatte ai talebani durante i negoziati di pace.
D. – Ci sono anche attori regionali e attori interni, che avranno un peso importantissimo…
R. – Gli attori regionali sembrano aver cambiato un po’ la propria politica: il Pakistan, che è sempre stato accusato di sostenere gli islamisti armati, sembra aver capito che la minaccia talebana rischia di affondare anche il proprio Paese e sembra determinato a favorire il processo di pace, però siamo ancora in alto mare e si vedrà tutto nei prossimi mesi.
Cresce disoccupazione in Italia. Vaciago: urge piano d'investimenti
Confermano trend poco rassicuranti, e già consolidati, i dati sull’occupazione diffusi dall’Eurostat e dall’Istat. Nell’Eurozona, dove i disoccupati sono oltre 23 milioni, resta stabile il tasso di disoccupazione, di poco superiore all’11%. Cresce invece in Italia attestandosi al 12,7%, con una diminuzione a giugno di 22 mila occupati rispetto al mese precedente. Su questo preoccupante scenario si sofferma, al microfono di Amedeo Lomonaco, l’economista Giacomo Vaciago:
R. – Conferma che l’Europa cresce poco e che l’Italia va indietro. Ma questa, purtroppo, non è una novità: lo sappiamo da anni e tardano i rimedi! Il rimedio è un piano di investimenti che faccia ripartire la domanda. Ma stiamo accumulando ritardi!
D. – Le note più dolenti arrivano dal dato riferito al livello della disoccupazione giovanile: le situazioni più critiche sono quelle di Grecia e Spagna, attorno al 50 per cento; in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è del 44 per cento…
R. – Serve un futuro migliore! Al momento, noi stiamo scaricando tutti i costi dell’aggiustamento della crisi, della recessione sulle nuove generazioni. E lo facciamo soprattutto nei Paesi dell’Europa Meridionale che, a differenza dell’Europa del Nord, non hanno questo concetto di solidarietà tra generazioni. Il dramma italiano, a sua volta, è aggravato nel Mezzogiorno, la parte più debole del Paese. Se andiamo a vedere cosa sta succedendo oggi ai giovani meridionali, l’unica loro speranza è che qualcuno regali loro una valigia per andarsene… E questo vuol dire che è un territorio senza futuro.
D. – Un territorio senza futuro, a rischio di sottosviluppo permanente secondo l’ultimo rapporto Svimez. Gli occupati sono poco più di 5,8 milioni e al Sud lavora solo una donna su cinque. Davvero l’unica possibilità è quella di andare altrove?
R. – Purtroppo sì! Negli ultimi anni si è andati indietro e ci sono zone del Paese che sono un deserto, da cui si può solo fuggire…
D. – In Germania gli effetti delle riforme sull’occupazione si sono visti dopo diversi anni, anche dopo 15 anni… Quanto tempo ci vorrà in Italia?
R. – Anzitutto dobbiamo deciderci: è meglio un mini-job come la riforma di Schröder di 10 anni fa o è meglio rimanere con le mani in tasca fuori da un bar? Perché anche in Italia, quando si parla delle riforme del mercato del lavoro tedesco, molta gente disprezza quelle riforme, dicendo: “Sono lavori part-time, sono sottopagati… E’ meglio essere disoccupati!”. No, non è mai meglio essere disoccupati! Anche lavorare per poco è comunque ‘esser dentro’, mentre stare con le mani in tasca fuori dai bar non è mai educativo e non fa mai bene ad un giovane. Quindi anche un modello di part-time, di mini-job come la riforma che fece Schröder nel 2003, è meglio di niente. E’ un buon inizio. Poi il mondo cresce, poi se lavori troverai più facilmente un miglior lavoro… Rinunciare è avere una generazione perduta, che è il nostro vero rischio. Gente che tutta la vita starà con le mani in tasca fuori dai bar a far niente. Questo è distruggere il capitale umano. E’ una cosa tristissima!
Pedopornografia: rete internazionale operava nel deep web
Ennesima operazione della polizia postale italiana contro una rete di pedofili, con ramificazioni internazionali, gestita da un italiano. Contenuti pedopornografici sono stati individuati nel cosiddetto “deep web”, il lato sommerso della rete dove confluiscono informazioni e materiali illegali di vario genere. Su questo turpe fenomeno, Grazia Serra ha intervistato don Fortunato Di Noto, fondatore dell’associazione “Meter”, in prima linea contro la pedopornografia:
R. – La produzione del materiale con bambini reali, lo scambio del materiale stesso, sia video sia foto, ormai passa attraverso il cosiddetto “deep web”, il mondo sommerso di internet, dove il traffico criminale, soprattutto quello riguardante i bambini, è molto florido. Di conseguenza, l'associazione Meter segnala più volte come il pagamento arrivi con il 'bitcoin', cioè con queste nuove forme che sembrano virtuali ma che invece sono guadagni veri e propri su questo scempio che avviene sui bambini. Quindi nuovi mercati, nuove aperture. Bisogna necessariamente rivedere forse anche l’azione di contrasto e di repressione nei confronti di questo crimine contro l’infanzia.
D. – E’ proprio nel “deep web”, nel lato oscuro della rete, che la pedofilia continua sempre più indisturbata la sua opera. Può darci dei dati sulla dimensione del fenomeno?
R. – Il fenomeno del “deep web” è un fenomeno estremamente incontrollabile: un dato certo non lo possiamo avere se non soltanto attraverso le segnalazioni. Io parlo della nostra realtà associativa: se pensiamo al report 2014, abbiamo segnalato circa 700 mila, tra video e foto, coinvolgendo 400 mila bambini circa. Però stiamo parlando sempre di bambini da 0 a 12 anni perché il fenomeno della pedopornografia e della pedofilia si nutre dei bambini al di sotto dei 12 anni. Quindi già questo dato dovrebbe far scattare una molla di protesta sociale, di protesta politica, culturale, di un’intenzione nuova di come dobbiamo contrastare il fenomeno. Qui non è il problema di chiudere il sito, non serve a nulla. Qui il problema è individuare i bambini, dare loro un nome e un cognome, dare giustizia. E’ veramente un fenomeno così globale che questa ultima operazione mostra come la struttura della pedocriminalità si sviluppi sempre sulla pelle e sulla carne dei bambini.
D. – Il sequestro del materiale pedopornografico garantisce che in futuro le immagini non circolino più?
R. – No, assolutamente, non c’è nessuna garanzia. L’unica garanzia è che il materiale sequestrato possa diventare trattabile: attraverso dei database che gli inquirenti hanno a disposizione - ma dovrebbero essere rese un po’ più pubblici questi dati - la speranza più grande è individuare i bambini. Se dobbiamo essere onesti, alcuni bambini sono stati individuati proprio perché sono state rese “pubbliche” le foto dei bambini anche a distanza di una decina di anni. Se non diamo un nome e un cognome, il vertice di questa nuova forma di schiavitù - lo voglio ripetere: è una nuova forma di schiavitù molto estesa, pericolosa ma soprattutto strutturata - il circolo vizioso, di morte, di sfruttamento sarà sempre costante.
Pellegrinaggio giovani da Teramo a Santuario di San Gabriele
Arriveranno all’alba del 2 agosto gli oltre 7000 giovani che, domani sera, prenderanno parte al XXV Pellegrinaggio a piedi che parte da Teramo per giungere al Santuario di San Gabriele dell’Addolorata ai piedi del Gran Sasso. Oltre 30 i chilometri che i partecipanti percorreranno nella notte per poi giungere al luogo nel quale riposano le spoglie mortali del Santo, dove saranno accolti e benedetti dal rettore della basilica e potranno partecipare alla Messa conclusiva del pellegrinaggio. Marina Tomarro ha intervistato padre Francesco Cordeschi, coordinatore dell’iniziativa:
R. – Sono 35 anni che facciamo questo pellegrinaggio ed è nato proprio dentro l’esperienza della tendopoli di San Gabriele: da 35 anni c’è questo movimento giovanile che vive nel Santuario di San Gabriele, e che è diffuso in tutta l’Italia. Da allora quel gruppo inizia questo pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è una scuola educativa, perché il pellegrinaggio ci educa alla vita ed al cammino; ma soprattutto facciamo questo pellegrinaggio perché San Gabriele lo ha fatto, per ripercorrere le tappe e il cammino del Santo, quando venne da Morrovalle, passò per Teramo e poi venne al Santuario. Quindi il pellegrinaggio è come educare i giovani a camminare, a uscire fuori da sé per cercare un senso alla vita.
D. - Cosa spinge un giovane a partecipare a questa iniziativa, secondo lei?
R. – Quello che mi impressiona è vedere che partecipano convinti! La motivazione che io cerco di capire sono i ragazzi che si trovano dinanzi a problemi seri esistenziali, concreti, che non trovando risposte intorno a loro – penso al lavoro, penso ai problemi dei matrimoni che falliscono – c’è gente che viene lì a chiedere di pregare per la propria moglie, per il proprio marito. L’incapacità a risolvere i problemi concreti che abbiamo li spinge a mettersi in un cammino penitenziale per domandare aiuto, per domandare la grazia e la forza per rispondere e affrontare la realtà che a volte è dura e difficile.
D. – Perché i giovani sono così attirati dalla figura di San Gabriele?
R. – Lo sentono molto vicino a loro: è morto a 24 anni, era un brillante studente, aveva più o meno gli stessi problemi dei ragazzi di oggi in termini diversi. Gli piaceva un certo tipo di vita, di teatro, di vita di mondo. Quindi c’era una similitudine di comportamento che hanno molti ragazzi di oggi. E quindi questo sicuramente spinge i giovani a seguirlo e ad imitarlo. Quindi chiedono la forza: come lui è riuscito a rispondere al Signore sperano che ci possano riuscire anche loro.
D. – Cosa portano a casa secondo lei i ragazzi da questo pellegrinaggio?
R. – Il tema del pellegrinaggio di quest’anno è “Camminiamo con un religioso che è vissuto in una famiglia santa”. Ricordiamoci che San Gabriele era undicesimo di tredici figli. Il papà aveva una forte esperienza cristiana di preghiera, di testimonianza e di carità. Quindi che cosa riportano i ragazzi: questo! Che è necessario avere i piedi gonfi dalla fatica, si riportano che la necessità che la vita, se non è fatica, non serve a niente! Si riportano a casa una consapevolezza che solo una vita donata è una vita ritrovata. Il pellegrinaggio di notte, 30 chilometri, è per loro un motivo di forte maturazione e di scelta.
Card. Cottier a Civiltà Cattolica: Anno misericordia illuminerà lavori Sinodo
“La misericordia è dottrina. E’ il cuore della dottrina cristiana. Solamente una mentalità ristretta può difendere il legalismo e immaginare misericordia e dottrina come due cose distinte”. E’ quanto afferma il card. Georges Cottier in una lunga intervista del direttore di Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, pubblicata sull’ultimo numero della rivista dei gesuiti. Il teologo emerito della Casa Pontificia, ricordando l’istituzione della Domenica della Divina Misericordia da parte di San Giovanni Paolo II, sottolinea che la Chiesa “ai nostri giorni, ha compreso che nessuno, qualunque sia la sua posizione, può essere lasciato solo. Dobbiamo accompagnare le persone, giusti e peccatori”.
Annunciare la divina misericordia è missione prioritaria per la Chiesa
Il porporato svizzero insiste che lo Spirito Santo “ha indotto la Chiesa a prendere sempre più coscienza della sua missione prioritaria di annunciare al mondo la forza sovrana della divina misericordia”. Quest’ultima, aggiunge, deve “segnare con il suo sigillo tutte le iniziative pastorali della Chiesa. E’ necessario che questo messaggio raggiunga proprio tutti”. D’altro canto, il card. Cottier precisa che la misericordia che la Chiesa “ha la missione di far incontrare è la misericordia divina”, “non è quindi solamente una specie di empatia nei confronti della sofferenza umana”. Ancora, afferma che “le iniziative di misericordia, assunte a favore di coloro che vivono in situazioni dolorose, apparentemente senza via di uscita, debbono, con la compassione e il sollievo, aiutare il sofferente ad aprire il suo cuore alla fiducia nel Padre della misericordia”.
Contare sulla forza di Dio, senza trincerarsi dietro opere fortificate
Riguardo all’annuncio del Vangelo oggi, anche di fronte a fenomeni come secolarizzazione e relativismo, il card. Cottier è convinto che “i mezzi umani contribuiscono” all’espansione del Regno di Dio. Tuttavia, afferma nel dialogo con padre Spadaro, “sono convinto che oggi in modo particolare spetti alle cose divine proteggere le cose umane e vivificarle. Invece di trincerarsi dietro le opere fortificate, i cristiani dovrebbero entrare nel più profondo del mondo, contando sulla forza di Dio, che è la forza dell’amore e della verità. Sono le cose divine che salveranno le cose umane. I mezzi umani di difesa della civiltà diventano sempre più inadeguati nei confronti della gravità della crisi della cultura”.
Anno della Misericordia illuminerà i lavori del Sinodo sulla famiglia
Il card. Cottier offre, dunque, la sua riflessione sul prossimo atteso Sinodo sulla famiglia, auspicando una pastorale nuova “che risponda alla gravità della crisi” perché “la pratica attuale è divenuta insufficiente”. Il porporato riflette anche sulle famiglie ferite, sui “divorziati risposati”, sui figli “vittime del divorzio dei genitori”. Sul piano della pastorale, sottolinea, “si devono rispettare le coordinate esistenziali della vita spirituale delle persone. Nel rigorismo è insita una brutalità che è contraria alla delicatezza con cui Dio guida ogni persona”. Per il card. Cottier, “non vi è dubbio che l’Anno della Misericordia illuminerà i lavori del Sinodo 2015 e ne impronterà lo stile”. “Sempre e comunque, qualunque giudizio si esprima – ribadisce – esso deve essere presentato e spiegato in un linguaggio che faccia intendere chiaramente la sollecitudine materna della Chiesa”. Papa Francesco, conclude, “insiste sulla bellezza e la gioia della vita cristiana che la Chiesa deve presentare. Attraverso la voce dei suoi pastori la Chiesa deve sempre lasciare intendere di essere guidata dalle esigenze della misericordia divina”. (A cura di Alessandro Gisotti)
Pyongyang arresta missionario protestante: "Voleva teocrazia nel Nord"
Il regime della Corea del Nord ha annunciato l’arresto di un pastore protestante canadese, che avrebbe confessato di essere parte di un “piano sovversivo teso a rovesciare il governo e creare al suo posto uno Stato ad impronta religiosa”. La “confessione” di Hyeon Soo-lim è stata riportata dalla Kcna, agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang. La pratica di arrestare stranieri come spie - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha una lunga tradizione nella parte nord della penisola, ma l’accusa di voler creare una teocrazia nell’ultimo Stato stalinista al mondo, è nuova.
Hyeon Soo-lim ha sempre lavorato per attività umanitarie
Il pastore protestante ha 60 anni e di base vive a Toronto. L’arresto è avvenuto nel gennaio 2015, quando è entrato nel Paese per attività umanitarie. Lim guida la Light Korean Presbyterian Church, e negli anni ha compiuto diverse missioni di questo tipo nel Nord. La famiglia ha rilasciato una dichiarazione in cui definiscono i suoi progetti “sostenuti e ben conosciuti dal governo. Lavora da sempre per migliorare le condizioni della popolazione”.
Il pastore costretto alla confessione pubblica
Sempre secondo la Kcna, il pastore è apparso ieri in una conferenza stampa nella capitale in cui ha ammesso che le sue iniziative “erano una copertura per un piano sovversivo. Si tratta di attività sinistre, tese a costruire uno Stato religioso. La Corea del Nord, ha dichiarato l’uomo, dovrebbe collassare con l’amore di Dio”. Anche la pratica di costringere a fare "confessioni pubbliche" è una tradizione del Paese e della dittatura dei Kim. (R.P.)
Giappone: Coe a Hiroshima e Nagasaki per 70.mo bomba atomica
Una delegazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Coe), composta da rappresentanti dei 7 Paesi chiamati a decidere sulla messa al bando delle armi nucleari, si recherà in questi giorni in pellegrinaggio a Hiroshima e Nagasaki, in Giappone, per commemorare il 70.mo anniversario dei bombardamenti atomici del 6 e 9 agosto 1945. L’iniziativa rientra nell’ambito dei Pellegrinaggi di giustizia e pace del Coe organizzati con l’obiettivo di promuovere l’impegno per cause comuni e allo scopo di fare emergere l’autentica vocazione della Chiesa a denunciare conflitti, ingiustizie e sofferenze. Dalla Germania, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Giappone, Norvegia, Pakistan e Paesi Bassi giungeranno nelle due città nipponiche vescovi e pastori per incontrare sopravvissuti, leader religiosi ed esponenti del governo. Al rientro rivolgeranno appelli all’azione, chiedendo in particolare ai rispettivi governi un rinnovato impegno internazionale perché venga disposta l’interdizione formale delle armi nucleari.
L’appello del Coe al disarmo nucleare accolto in 113 Paesi
Sono già 113 i Paesi che hanno rilanciato l’appello promosso dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, mentre “40 governi contano ancora su armamenti nucleari, 9 Stati possiedono arsenali atomici ed altri 31 sono disposti a lasciare che gli Stati Uniti ne usino per loro conto” ha affermato Mary Ann Swenson, vescovo della Chiesa metodista unita degli Stati Uniti, vicepresidente del Comitato centrale del Coe che guiderà la delegazione in Giappone. “Invitiamo i cristiani del mondo intero a unirsi nella preghiera in occasione di questo pellegrinaggio” ha detto ancora Mary Ann Swenson.
Ancora oggi 70 governi a favore delle armi atomiche
“Questo pellegrinaggio terminerà con una critica morale e spirituale sul dilemma posto 70 anni fa ai governi che continuano ancora oggi a fare affidamento sulle armi nucleari – ha dichiarato Isabel Apawo Phiri, segretaria generale associata del Coe –. Il nostro obiettivo è di aiutare il mondo politico a cogliere questa occasione unica per mettersi in sintonia con la maggioranza dell’opinione pubblica e per impegnarsi a favore del bene comune”.
La delegazione del Coe che si recherà in Giappone
Della delegazione del Coe che giungerà in Giappone fanno anche parte il pastore Chang Sang (Chiesa presbiteriana della repubblica di Corea e presidente del Coe per l’Asia); il vescovo Heinrich Bedford-Strohm (presidente della Chiesa evangelica di Germania); il pastore Baekki Heo (Chiesa cristiana coreana in Giappone); l’arcivescovo Nathaniel Uematsu (Comunione anglicana del Giappone); il vescovo Tor Jorgensen (Chiesa di Norvegia); la pastora Karin van den Broeke (Chiesa protestante dei Paesi Bassi); il vescovo Samuel Azariah (Chiesa del Pakistan); il pastore Stephen Sidorak (responsabile ecumenico della Chiesa metodista unita degli Stati Uniti e membro della Ceai); Peter Prove (direttore della Ceai); Jonathan Frerichs (esperto del Coe). Tutti i Paesi dai quali provengono – con l’eccezione del Pakistan che dispone di un proprio arsenale atomico – si sono formalmente impegnati a favore del disarmo nucleare, ma continuano ad affidarsi a quelle stesse armi che tanta distruzione hanno provocato 70 anni fa a Hiroshima e Nagasaki e che ancora oggi sono una minaccia per l’umanità. (T.C.)
Pakistan: Chiesa chiede moratoria sulla pena di morte
La Chiesa cattolica ha chiesto al governo del Pakistan di ripristinare la moratoria sulla pena di morte dopo che ieri altri otto detenuti sono stati giustiziati nella provincia del Punjab.
Giustiziato un cristiano minorenne
“La Chiesa cattolica apprezza la santità dell'uomo e crede che nessuno dovrebbe avere il diritto di togliere la vita. Ci opponiamo con forza alla pena capitale, specialmente perché, al momento, il sistema giuridico in Pakistan è imperfetto", ha detto Cecil Chaudhry, direttore esecutivo della Commissione nazionale di pace e giustizia (Ncjp) della Chiesa in Pakistan, deplorando l'esecuzione di Aftab Bahadur Masih, un cristiano condannato a morte che è stato impiccato il mese scorso poco prima dell'inizio del Ramadan nonostante seri dubbi sulla sua età. La famiglia del condannato, Masih, ha sempre sostenuto che aveva solo 15 anni quando fu accusato di aver commesso un omicidio.
Appello al Pakistan anche dell'Onu
L’appello della Chiesa per fermare le esecuzioni - riferisce l'agenzia Misna - ha fatto eco a un simile appello rivolto dalle Nazioni Unite poco prima che gli otto detenuti fossero messi a morte. Allo stesso tempo, l'Onu ha chiesto al governo pachistano di commutare senza indugio le sentenze di quelli in attesa di esecuzione. "La pena di morte è una forma estrema di punizione e, se utilizzata, dovrebbe essere solo per i crimini più gravi, dopo un giusto processo che rispetti le severe garanzie richieste dal diritto internazionale dei diritti umani" ha dichiarato Christof Heyns, relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie. Heyns ha anche richiamato l'attenzione sul caso di Shafqat Hussain, il cui processo, dice, non ha rispettato le norme internazionali. Shafqat è condannato per un crimine commesso quando era minorenne e dovrebbe essere giustiziato il 4 agosto. (P.L.)
Elezioni Sri Lanka: i vescovi per un voto libero e giusto
“Il nostro Paese è alle soglie di un'altra elezione generale. I cittadini hanno quindi, ancora una volta, la possibilità di eleggere i loro rappresentanti al Parlamento” afferma la Conferenza episcopale dello Sri Lanka in una dichiarazione sulla prossime elezioni generali. In un comunicato si sottolinea anche che a causa del 19° emendamento alla Costituzione, che ha dato ulteriori poteri al Commissario elettorale, sembra che ci sia un clima favorevole per uno scrutinio libero e giusto.
Votare con discrezione e discernimento
"E 'incoraggiante notare che la società civile, in generale, - afferma si legge nella dichiarazione ripresa dall'agenzia Misna - sta diventando sempre più consapevole della necessità di riflettere seriamente sulla situazione esistente e di votare con discrezione e discernimento. La Chiesa cattolica ha sempre sostenuto l'importanza di eleggere come rappresentanti del popolo candidati meritevoli. Formazione, cultura generale, integrità e onestà, rispetto per la legge e l'ordine sono le qualità che dovrebbero caratterizzare, coloro che aspirano alla leadership politica”.
Eleggere chi ha realmente interesse allo sviluppo del Paese
I vescovi del Paese, affermano inoltre che è importante che siano eletti coloro che sono realmente interessati allo sviluppo del Paese e alla promozione della pace, della riconciliazione e dell'unità, mentre l'affiliazione tradizionale e la lealtà verso un proprio partito politico non dovrebbe essere l'unico criterio nell'esercizio del diritto di voto.
Invito ai fedeli a scegliere candidati meritevoli
"Noi, pertanto, - affermano i vescovi - esortiamo tutti i nostri fedeli e tutti i cittadini di buona volontà a fare del loro meglio nella scelta di candidati meritevoli per il Parlamento alle prossime elezioni politiche. L'affermazione che - si ottiene il governo che ci meritiamo - è stato vera in passato. Pensiamo dunque al nostro Paese, alle generazioni presenti e future e agiamo con grande responsabilità in modo da eleggere i nostri rappresentanti con grande attenzione e ottenere un governo che realmente sia interessato allo sviluppo della nostra madre-terra “.
La dichiarazione è firmata dal card. Malcolm Ranjith, presidente della Conferenza episcopale dello Sri Lanka e arcivescovo di Colombo e dal segretario generale mons. Valence Mendis, vescovo di Chilaw. (P.L.)
Congo: intervento della Chiesa sul dialogo politico
"Il dialogo è considerato il principio costruttore della democrazia e della nazione", così il segretario generale della Conferenza episcopale del Congo (Cenco), padre Leonard Santedi parlando a Kinshasa nel corso di un dibattito organizzato dalla Cenco.
La Chiesa insiste sul rispetto della Costituzione
Hanno partecipato un gruppo di politici della Maggioranza Presidenziale (Mp), dell'opposizione, della società civile e un gruppo degli analisti che hanno discusso degli obiettivi per il dialogo politico nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), sulle prossime elezioni e sulla sessione straordinaria del Parlamento. Per padre Leonard Santedi, la Chiesa cattolica non si oppone all'idea di dialogo, ma insiste sul rispetto della Costituzione. "Dialogo sì, ma con rispetto per la legge fondamentale", ha detto.
Contrasti tra governo e opposizione sul concetto di dialogo
La Costituzione congolese prevede scadenze per l'elezione del Presidente della Repubblica e il numero e la durata del suo mandato. Presente a questo incontro, il professor Philippe Biyoya, analista politico, ha detto che il dialogo è il principio stesso della vita comunitaria. "Il dialogo è inteso come principio attivo di tutte le società. E' quello che cura l'armonia sociale", ha detto, André Alain Atundu, comunicatore del Partito di governo. Questa opinione però non è stata condivisa dal membro dell'opposizione, Franck Diongo. Egli ritiene che il dialogo "nel contesto attuale, è una frode. E' una trappola".
No della Chiesa a un terzo mandato del Presidente
La Chiesa cattolica ha ribadito la sua posizione - attraverso la Conferenza episcopale - sul dialogo nazionale promosso dal Presidente Joseph Kabila, che “deve avvenire nel rispetto assoluto del quadro costituzionale e istituzionale in vigore”. Ovvero senza che si arrivi ad un cambiamento costituzionale per permettere al Presidente uscente di presentarsi alle elezioni per ottenere un terzo mandato. (C.E.)
Chiesa in Colombia: ancora bambini soldato nelle Farc
"Tutto questo deve essere denunciato perché fa parte delle cose che dobbiamo fare, l'altra parte è la lotta per contrastare questo problema, perché c'è anche una sorta di protezione mascherata di questi crimini, dalle stesse persone che gestiscono gli Stati, i governi in un modo o nell'altro riescono a metterli al loro fianco, quella protezione camuffata del mercato illegale di esseri umani è difficile da combattere", così l'arcivescovo di Tunja e presidente della Conferenza episcopale di Colombia, mons. Luis Augusto Castro Quiroga, intervenendo ieri alla conferenza stampa sulla Giornata contro la Tratta di esseri umani in Colombia.
Il presule ha denunciato la presenza dei bambini soldato nelle Farc
Il vescovo - riferisce l'agenzia Fides - ha riferito anche della triste situazione colombiana: "una realtà: il reclutamento di bambini per fare la guerra da parte delle Farc, che malgrado, adesso questo gruppo è consapevole del danno causato, essi non hanno preso la decisione convincente di dire di no ai bambini presenti nei loro gruppi di guerriglieri. Questo gruppo deve arrivare a questa decisione, altrimenti il danno che stanno facendo sarà molto grande". Nel suo intervento il vice Ministro dell'Interno, Carlos Ferro Solanilla, ha ribadito l'impegno e la responsabilità dello Stato per continuare a cercare gli strumenti per avere politiche pubbliche per mostrare questo problema, non solo a livello nazionale ma anche regionale.
I religiosi e le religiosi assistono le vittime dello sfruttamento
Suor Vicentina Genoveva Nieto, responsabile dell'iniziative volte a promuovere la prevenzione della tratta, ha ricordato che la Chiesa e i religiosi lavorano intensamente per assistere queste persone che sono state vittime di sfruttamento. Ha anche indicato che ci sono attualmente 22 reti nazionali e continentali presenti in 197 Paesi, "scommettendo tutto su questo lavoro, in modo che ogni volta ci sia una vittima in meno". (C.E.)
Brasile: pellegrinaggio in memoria di sr. Dorothy Stang
Un percorso di fede per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di preservare la foresta amazzonica e ricordare così, nel modo migliore, suor Dorothy Stang, a dieci anni dalla sua morte. Questo il pellegrinaggio che la Chiesa cattolica brasiliana ha compiuto ad Anapu, nel cuore dell’Amazzonia. Noto come “Pellegrinaggio della foresta”, l’evento ha visto la partecipazione anche di molti giovani, tanti agricoltori e numerosi rappresentanti della società civile.
Suor Stang e il Progetto Speranza
Cuore dell’appuntamento, ricordare suor Stang: nata negli Stati Uniti d’America e naturalizzata brasiliana, appartenente alla Congregazione di Notre Dame, la religiosa venne uccisa la mattina del 12 febbraio 2005 con sei colpi sparati a bruciapelo in una località vicina ad Anapu. Per oltre vent’anni, Suor Dorothy era stata impegnata nella Commissione Pastorale della terra, accompagnando con fermezza e passione la vita dei lavoratori dei campi, specie nella regione Transamazzonica dello Stato del Parà. Sua l’idea del “Progetto Speranza”, per lo sviluppo sostenibile di alcune aree di foresta amazzonica e la difesa degli interessi dei contadini senza terra, contro le sopraffazioni dei latifondisti e dei commercianti di legno. A causa della sua denuncia dell’azione violenta dei “fazendeiros e grileiros”, suor Stang sin dal 1999 aveva ricevuto numerose minacce di morte.
Foresta amazzonica, un bene per tutta l’umanità
“Questo pellegrinaggio – spiega padre Amaro Lopes Souza, sacerdote della parrocchia di Anapu – vuole rendere omaggio a suor Dorothy, ma si pone anche l’obiettivo di ricordare quanto è importante preservare la foresta amazzonica, non solo per i brasiliani, ma anche per il bene di tutta l’umanità”. Tale tutela, continua padre Amaro, non passa solo attraverso “uno sfruttamento ragionevole delle ricchezze naturali della foresta, bensì anche tramite la ridistribuzione delle terre ai piccoli abitanti dei villaggi, grazie ad un’apposita riforma agraria”.
L’esempio di suor Dorothy non muore mai
Giunto alla decima edizione, il “Pellegrinaggio della foresta” si è concluso con una Santa Messa celebrata da mons. Erwin Kräutler, vescovo della diocesi di Altamira, in cui rientra Anapu, ed amico di suor Dorothy: “Il mondo intero la conosceva – ha detto il presule – non perché era una religiosa, ma perché ha donato la sua vita come religiosa. Dopo dieci anni, suor Stang è ancora presente tra noi, con le parole e con gli esempi che ci ha lasciato. Ed oggi lei vive con noi, come noi”.
Papa Francesco: Amazzonia, polmone del pianeta colmo di biodiversità
Da ricordare che anche Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’, ribadisce l’importanza di salvaguardare la foresta amazzonica, definendola “polmone del pianta colmo di biodiversità”. “Quando queste foreste vengono bruciate o rase al suolo per accrescere le coltivazioni – scrive il Pontefice - in pochi anni si perdono innumerevoli specie, o tali aree si trasformano in aridi deserti. Tuttavia, non si possono nemmeno ignorare gli enormi interessi economici internazionali che, con il pretesto di prendersene cura, possono mettere in pericolo le sovranità nazionali. Di fatto esistono «proposte di internazionalizzazione dell’Amazzonia, che servono solo agli interessi economici delle multinazionali». (n.38) (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 212