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Sommario del 23/07/2015
- Giornata vita in Inghilterra. Papa: difenderla dall'inizio alla fine
- Card. Filoni: la preoccupazione del Papa per l'eroica Chiesa irachena
- Tweet Papa: chi aiuta i malati e i bisognosi tocca la carne di Cristo
- Nomina episcopale di Papa Francesco in Corea
- Sindaci lanciano alleanza contro povertà e inquinamento nelle città
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Un anno fa la guerra a Gaza: Caritas, pericolo nuovo conflitto
- Violenze in Indonesia. Il nunzio: episodi isolati, prevale tolleranza
- Usa: chiusura della base di Guantanamo "nelle fasi finali"
- Somalia: forze internazionali liberano Bandere da al Shabab
- Unioni gay. Cardia: non lasciarsi ingannare, obiettivo è adozione bambini
- Piazza della Loggia: condanne che fanno storia ma poca giustizia
- Nasce l'associazione "Giornalisti amici di padre Dall'Oglio"
- Comunità Sant'Egidio: tour solidale dei giovani in Calabria
- In aumento nel mondo la tratta di esseri umani
- Iraq: anche a Kirkuk espropriate le case dei cristiani
- Cina: lo Stato riconosce gli studi nei 6 Seminari del Paese
- Cattolici filippini aderiscono a petizione sul clima
- Vescovi Polonia: delusione per legge su fecondazione in vitro
- Seminario interreligioso all’Istituto ecumenico di Bossey
Giornata vita in Inghilterra. Papa: difenderla dall'inizio alla fine
Papa Francesco assicura il suo sostegno alla Chiesa inglese e gallese in occasione della Giornata per la vita che si celebra questa domenica sul tema “Coltivare la vita, accettare la morte”. E in un tweet lanciato oggi afferma: “Chi aiuta i malati e i bisognosi tocca la carne di Cristo, vivo e presente in mezzo a noi”. Il servizio di Sergio Centofanti:
Difendere vita dal concepimento alla morte naturale
Promuovere “la dignità di ogni persona umana dal momento del concepimento fino alla morte naturale”: è l’appello di Papa Francesco nel Messaggio inviato per la Giornata che quest’anno in Inghilterra è dedicata al fine-vita. Il Papa parla di un appuntamento “significativo”, che tra l’altro si inserisce nella Campagna promossa dai vescovi inglesi e gallesi in vista del voto alla Camera dei Comuni sul progetto di legge relativo al suicidio assistito, previsto l’11 settembre. La proposta mira a rendere possibile, per i malati terminali adulti, la scelta di porre fine alla propria vita con una specifica assistenza medica.
Eutanasia nascosta di tanti anziani
Papa Francesco più volte è intervenuto sul tema denunciando quella che ha definito “eutanasia nascosta” di tante persone anziane e deboli. “Ogni anziano – afferma - anche se infermo o alla fine dei suoi giorni, porta in sé il volto di Cristo”. La vita umana è sempre “inviolabile”, “non c’è una vita qualitativamente più significativa di un’altra”. Non ci sono vite da scartare. “Il pensiero dominante propone a volte una falsa compassione” che ritiene “un atto di dignità procurare l’eutanasia”. Invece, osserva il Papa, occorre “prendersi cura della persona soprattutto quando è sofferente, fragile e indifesa”.
Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana
Francesco ricorda l’opzione della Chiesa per gli ultimi: “per quelli che la società scarta e getta via”. Tra questi deboli “ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo”. “Non è progressista – afferma con forza - pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana”. E’ il comportamento “dei mafiosi: c’è un problema, facciamo fuori questo …”. E non è “una conquista scientifica ‘produrre’ un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre”.
Difendere la vita: non è problema religioso ma scientifico
“La fedeltà al Vangelo della vita” – sottolinea – “a volte richiede scelte coraggiose e controcorrente che, in particolari circostanze, possono giungere all’obiezione di coscienza”. Non si tratta di “un problema religioso”, come alcuni pensano, spiega il Pontefice: “è un problema scientifico, perché lì c’è una vita umana”. E non è una questione di modernità, perché “nel pensiero antico e nel pensiero moderno, la parola uccidere significa lo stesso!”.
Progresso si misura dalla capacità di custodire la vita in tutti i suoi aspetti
“Il grado di progresso di una civiltà - rileva ancora il Papa - si misura proprio dalla capacità di custodire la vita, soprattutto nelle sue fasi più fragili” e di combattere contro gli attentati alla vita in tutti i suoi aspetti: “È attentato alla vita la piaga dell’aborto. È attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. È attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. È attentato alla vita la morte per denutrizione. È attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza; ma anche l’eutanasia. Amare la vita è sempre prendersi cura dell’altro, volere il suo bene, coltivare e rispettare la sua dignità trascendente”.
Card. Filoni: la preoccupazione del Papa per l'eroica Chiesa irachena
“La Chiesa in Iraq” questo il titolo del libro scritto dal cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Il volume ripercorre la storia, lo sviluppo e la missione della chiesa irachena, dagli inizi ai nostri giorni. “Una Chiesa eroica”, come l’hanno definita Benedetto XVI e Papa Francesco, che anche oggi sta dando una testimonianza di fede a causa delle persecuzioni dei jihadisti dell’Is. Il card. Filoni è stato 5 anni nunzio apostolico in Iraq durante la Guerra del Golfo e Papa Francesco lo ha inviato due volte in missione tra i profughi iracheni. Al microfono di Roberto Piermarini il porporato spiega quanto è viva la preoccupazione del Papa per i cristiani iracheni:
R. – E’ vivissima per vari motivi. Innanzitutto perché i cristiani in questo momento insieme alle altre piccole minoranze sono i poveri, veramente i poveri di questa situazione perché hanno dovuto abbandonare tutto, non solo le proprie case ma anche i propri averi e anche quel poco, rimanendo con quel poco che avevano addosso. Grazie alla solidarietà internazionale e soprattutto all’appello del Papa, quando mi inviava un anno fa in Iraq, soprattutto nel Kurdistan, a visitare i nostri cristiani e le minoranze, che erano state cacciate via da Isis… Il Papa ha avuto un ruolo importante e tutti glielo riconoscono per aver focalizzato l’attenzione internazionale sulla situazione di guerra e comunque dei nostri cristiani, che sono stati cacciati. Quindi grande attenzione perché oggi sono i poveri di questa situazione insieme alle altre minoranze e poi perché la guerra è sempre un’ingiustizia: la sopportano le popolazioni. E qui vediamo che tutte le popolazioni e non solo quelle cristiane, anche quelle musulmane, anche le altre minoranze, portano le conseguenze della distruzione, della morte, delle famiglie divise. Quindi questa grande attenzione per una situazione politica che purtroppo pesa come sempre sulla popolazione e su coloro che sono i più fragili.
D. – Lei è stato nunzio apostolico in Iraq proprio durante la Guerra del Golfo ed è tornato come inviato del Papa due volte in Iraq. Quale è stata la sua esperienza di questi due incontri che lei ha avuto con la popolazione irachena e con i cristiani iracheni?
R. - Il primo è stato un incontro scioccante perché ci trovavamo in mezzo a loro, in mezzo a migliaia di famiglie che erano fuggite e dormivano per terra, dove era possibile, sotto gli alberi, in situazioni assolutamente disumane, con un caldo che - si sa - durante l’estate in Iraq arriva anche a 45, 48 gradi. Quindi immaginiamo questa povera popolazione scappata via senza acqua, senza condizioni tali da poter vivere dignitosamente e decentemente, anche con tutti i problemi legati anche alle malattie, al cibo, all’acqua potabile… Quindi uno choc formidabile per come queste famiglie nel giro di 24 ore si siano venute a trovare. La seconda visita è stata quasi per far sentire ai nostri cristiani e alle altre minoranze che ho visitato che non ci siamo dimenticati di loro: voleva essere un gesto, come il Papa usa dire spesso, una “carezza”, una carezza che non va fatta una volta, va anche ripetuta perché questa gente senta che noi siamo vicino a loro e non li abbiamo dimenticati. E la cosa bella in questa seconda circostanza è stata che in questo caso ho potuto portare, era il periodo di Pasqua, la colomba pasquale donata da tante famiglie di Roma. Quindi non c’era solamente la solidarietà del Papa ma c’era anche la solidarietà, l’affetto, la stima, l’incoraggiamento, il pensiero di tante famiglie della diocesi del Papa. Quindi la prima visita è stata una condivisione delle sofferenze. La seconda io l’ho definita un “pellegrinaggio” perché era il periodo della Settimana Santa e quindi vedevo il calvario, la sofferenza, la via crucis di questa gente.
D. – Cosa rappresentano oggi i cristiani in Iraq?
R. – La cosa interessante è non solo ciò che noi pensiamo dei nostri cristiani. E sappiamo bene, poi il mio libro lo descrive, proprio in questa storia, in questo sviluppo loro hanno una parte fondamentale perché hanno contribuito alla vita, alla tradizione, alla cultura di questa terra. Ma non è solo quello che noi pensiamo e che io ho cercato di far vedere attraverso le vicende di quasi 2000 anni di storia ma soprattutto ciò che pensano anche gli altri. Perché sono tanti, alcuni lo dicono, me l’hanno detto, altri lo pensano, altri forse non lo dicono: i nostri cristiani sono parte integrante della storia della vita del Medio Oriente in generale e della vita dell’Iraq in particolare. Io penso che questa sia una cosa molto bella. Anche le stesse autorità, dicono: “Voi avete il diritto nativo di stare qui. Noi siamo venuti dopo, sia come religione dell’islam sia anche come popoli che in questa terra - che è stata sempre una terra di passaggio dove tutti poi si sono innamorati e sono rimasti - abbiamo trovato anche noi, dopo di voi, un posto. Quindi non possiamo non riconoscere questa tradizione che voi avete, questo diritto nativo di stare qui”. Ora, non è una questione puramente accademica ma effettivamente poi i nostri cristiani attraverso l’educazione dei propri figli, attraverso le capacità che hanno saputo esprimere nel contesto anche di una realtà islamica molto più vasta, sia sciita sia sunnita, hanno portato il contributo straordinario delle loro capacità o acquisite, a volte attraverso i figli che studiavano all’estero, ma anche attraverso le loro culture e le loro tradizioni. D’altronde non dimentichiamo che questa è anche la terra dove la cultura occidentale ha messo le radici.
D. – Cardinale Filoni, c’è un capitolo del suo libro che dice: “Quale Iraq oggi?”. Io le chiedo se c’è il rischio di una spartizione settaria del Paese tra curdi, sunniti e sciiti? E qual il futuro per la minoranza cristiana?
R. – Io mi rifaccio, normalmente, un po’ a come è nato l’Iraq e come sono nati tutti gli altri Paesi, compresi la Giordania, la Siria, il Libano e la stessa Turchia: sono nate da un collasso dell’Impero Ottomano, circa 90 anni fa. Era il 1920, quando si stipulava in Europa la divisione dell’Impero Ottamano e si creavano i regni della Giordania, dell’Iraq, dell’Arabia Saudita; la Turchia stessa ne usciva ridimensionata dopo la I Guerra Mondiale. Dunque non è un luogo o una terra in cui c’è una antichissima tradizione nel senso di unità di Stato: c’erano molte nazionalità, molte etnie, molti gruppi che convivevano. Proprio questo fatto ha creato anche tante tensioni, perché la formazione degli Stati è stata una formazione voluta in Occidente e non rispondeva alle esigenze locali. Questo non è mai stato del tutto superato: è stato sempre un elemento che, in vari momenti, è stato ripreso per lotte e per rivendicazioni. Pensiamo anche alla guerra in Kuwait, perché in fondo il Kuwait è una realtà costruita solo dopo: le tribù vivevano e passavano dalla parte del deserto oggi iracheno, alla parte del deserto del Kuwait senza alcuna difficoltà… E così si potrebbe dire anche di altre parti. I curdi si sono sentiti traditi, al momento della formazione di questi Stati, per non essere stati riconosciuti come una entità che aveva il diritto ad uno Stato: questo li ha poi portati a delle lotte. Quindi non parliamo di una realtà omogenea, ma parliamo di tante presenze che hanno dovuto convivere e che quindi, di tanto in tanto, trovano delle frizioni. E’ chiaro che in una concezione moderna di Stato, in cui i confini sono una realtà molto relativa, noi dobbiamo chiederci: che futuro avrà questo Iraq, di cui parliamo, quello cioè uscito dal 1920 in poi? Praticamente dopo l’ultima Guerra del Golfo – 13 anni fa – l’Iraq politicamente è cambiato, ma le entità interne politico-religiose sono rimaste: pensiamo agli sciiti che rivendicano – essendo la maggioranza – il loro ruolo; pensiamo ai sunniti che avevano invece da sempre il potere e che quindi non accettano di essere sotto una leadership sciita che controlla l’economia e la politica; pensiamo anche ai curdi che da sempre hanno rivendicato una loro entità culturale, linguistica, oltre che territoriale; e pensiamo poi alle altre piccole minoranze, come sono i cristiani. E’ chiaro che i cristiani sono sempre vissuti n mezzo a tutti: non hanno mai avuto storicamente – da quando è nato l’Iraq – una rivendicazione territoriale. Hanno sempre rivendicato, per così dire: noi siamo qui – ad esempio – nella Piana di Ninive, vogliamo continuare a vivere secondo le nostre tradizioni. Ma non era politica e nemmeno amministrativa particolare. Dunque le piccole minoranze e gli stessi yazidi, sono praticamente vissuti nella realtà in cui tradizionalmente sono convissuti. Queste piccole minoranze si sono sempre adattate alle grandi maggioranze. Allora, quale futuro ci può essere in una realtà sciita molto forte? In una realtà sunnita molto forte? In una realtà curda molto forte? Dietro di loro ci sono poi altri potentati: pensiamo ai sunniti, pensiamo agli sciiti dell’Iran, pensiamo ai curdi anche di altre parti… Ecco, bisogna allora uscire da una logica in cui ci si identifica solamente con i confini ed entrare nella logica di convivenza nel profondo rispetto gli uni degli altri. E questa non è tolleranza, ma è rispetto dei diritti. La tolleranza è una concessione: “io permetto a te di stare qui o di avere questo o di avere quell’altro”… Se noi passiamo ad una nuova logica, che è quella del diritto di ciascuno di vivere in quanto cittadino, i diritti umani, i diritti sociali, i diritti politici, che tutti devono avere, è chiaro che questo può permettere una convivenza. Ma bisogna anche uscire dalla logica di chi è maggioranza che usa il potere come se fosse poi una dittatura - “comando solo io, solo perché siamo una maggioranza” – che è una rivendicazione rispetto a quanto, per esempio, i sunniti avevano il potere, al tempo del Baath, e praticamente come minoranza usavano il potere soltanto dal loro punto di vista e quindi come una dittatura, come un regime. Ecco, anche lì bisogna cambiare le menti, ma per questo ci vuole ovviamente del tempo. E’ una prospettiva nella quale lavorare, ma se non c’è la pace, se non c’è questa buona volontà, ovviamente anche l’Iraq e il Medio Oriente rimarranno terre difficili dove vivere.
Tweet Papa: chi aiuta i malati e i bisognosi tocca la carne di Cristo
“Chi aiuta i malati e i bisognosi tocca la carne di Cristo, vivo e presente in mezzo a noi”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex in 9 lingue.
Nomina episcopale di Papa Francesco in Corea
Il Papa ha nominato ausiliare della diocesi di Suwon, in Corea, il rev.do John Moon Hee Jong, parroco, direttore diocesano del Dipartimento per l’Evangelizzazione e Docente del Seminario Maggiore, assegnandogli la sede titolare vescovile di Muzia.
Sindaci lanciano alleanza contro povertà e inquinamento nelle città
Una “Alleanza per lo sviluppo sostenibile urbano”: questo il progetto lanciato ieri, in Vaticano, da oltre 70 sindaci del mondo che, insieme ai rappresentanti dell’Onu, si sono confrontati su cambiamenti climatici e lotta alle schiavitù moderne. L’Alleanza verrà presentata ufficialmente a New York il 24 settembre, alla vigilia della visita di Papa Francesco alle Nazioni Unite. Tra i punti salienti del progetto, l’eliminazione della corruzione, la fine della povertà e della tratta. Il servizio di Isabella Piro:
È un’Alleanza “aperta, volontaria e partecipativa” quella siglata in Vaticano dai sindaci di tutto il mondo per promuovere uno sviluppo urbano sostenibile. Desideroso di “coinvolgere tutte le parti interessate”, il neo-progetto si pone undici obiettivi ben definiti: al primo posto c’è la fine della povertà estrema e della fame; l’assicurazione delle pari opportunità tra uomo e donna; la garanzia dell’accesso universale alla sanità, all’educazione ed ai servizi di prima necessità.
No a corruzione e a tratta di esseri umani. Cercare nuove forme di energia
I firmatari si impegnano, poi, a porre fine al traffico di esseri umani e a tutte le forme di schiavitù moderna, così come a fermare la corruzione e l’impunità che minano lo sviluppo sostenibile. Centrale anche il richiamo all’uso di sistemi energetici diversi dal carbone, per ridurre il riscaldamento globale.
Lavoro sia dignitoso. Le Università diventino poli innovativi per sviluppo sostenibile
Nell’ottica di quel “piano comune” e di quel “consenso globale” citati nell’Enciclica Laudato si’ del Pontefice, l’Alleanza mira anche a creare anche “nuovi canali” affinché il finanziamento urbano sia sostenibile e la pianificazione a lungo termine. Forte, poi, l’appello alla creazione di “lavori dignitosi che garantiscano i diritti umani ed aiutino i senza-tetto”. Allo stesso tempo, gli Stati ed i governi vengono esortati a “potenziare le città affinché possano adempiere i loro impegni anche grazie ad un appropriato decentramento di poteri e di finanziamenti”. Infine, si esorta a “promuovere e rafforzare le università perché diventino poli di innovazione per lo sviluppo sostenibile”.
24 settembre, presentazione dell’Alleanza a New York
L’Alleanza verrà lanciata ufficialmente il prossimo 24 settembre, proprio alla vigilia della visita di Papa Francesco alla sede dell’Onu, a New York. Papa Francesco del quale i sindaci raccolgono l’appello a praticare una “ecologia umana” e ad “agire subito” per contrastare “le terribili minacce per le generazioni future”, come i cambiamenti climatici, il lavoro-schiavo, la prostituzione, il traffico di organi, la crescita degli squilibri sociali. Di qui, l’impegno dei primi cittadini a “lavorare insieme per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile in ogni città”.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
Un articolo di Paolo Vian dal titolo "Storia dei vinti": nuova occasione di incontro con il medievista Vito Fumagalli.
Cinque sorelle per una rivoluzione: Egidio Picucci su femminismo e fine del patriarcato nella società israelita.
L'arte di scomparire: elogio della discrezione in un articolo di Alberto Fabio Ambrosio.
Il peso del cuore: Gabriele Nicolò recensisce l'avvincente thriller "I'm pilgrim".
Ministri di riconciliazione: intervista di Nicola Gori al cardinale Luigi De Magistris.
Un anno fa la guerra a Gaza: Caritas, pericolo nuovo conflitto
Esattamente un anno fa Gaza viveva drammatici giorni di guerra, la terza nella zona. L’8 luglio 2014 infatti le forze israeliane diedero il via all’operazione militare ‘Margine di protezione’ in risposta al lancio di razzi e colpi di mortaio da parte di Hamas e di altri gruppi palestinesi armati della Striscia. In 51 giorni di conflitto, fino alla tregua raggiunta in Egitto a fine agosto, morirono oltre 2.200 palestinesi, di cui - riferisce un rapporto delle Nazioni Unite - 1463 erano civili e un terzo di questi bambini; 73 le vittime israeliane, perlopiù militari, e 1.600 feriti. Ma come si vive oggi a Gaza e nella Striscia? Risponde padre Raed Abusahlia, direttore generale di Caritas Gerusalemme, intervistato da Giada Aquilino:
R. – Un anno dopo la fine della guerra, a Gaza e nella Striscia, niente è cambiato. Anche oggi, dunque, si vive una situazione drammatica: tutta la Striscia di Gaza è ancora chiusa, sotto il blocco; la disoccupazione arriva al 60 per cento; la povertà all’80 per cento. La gente, dunque, è delusa perché dice di aver pagato un prezzo molto alto, ma niente è cambiato nella vita quotidiana.
D. – Esattamente oggi cosa serve alla gente di Gaza?
R. – Tutto. In primis hanno bisogno di togliere il blocco, dell’apertura dei passaggi e dell’entrata degli aiuti umanitari e soprattutto hanno bisogno delle materie prime per ricostruire quello che è stato distrutto durante la guerra. Quasi 15 mila case, infatti, sono state completamente distrutte e le macerie non sono state neppure rimosse. La cosa più importante per loro poi è trovare lavoro: non ce n’è. Avranno bisogno di altri cinque anni e di 5 miliardi di dollari per ricostruire quello che è stato distrutto in 50 giorni. Ma niente è successo fino ad oggi.
D. – Cioè: la ricostruzione, valutata in 5 miliardi di dollari, non è partita?
R. – Niente è partito. Prima di tutto non sono arrivati i soldi e poi non entra niente. Dalla parte israeliana, ogni giorno fanno passare 500-600 camion di cibo, di viveri. Le materie prime per le costruzioni, però, non entrano, è proibito. Dalla parte egiziana, il passaggio di Rafah durante tutto l’anno scorso è rimasto aperto per meno di due settimane. Tempo fa ho detto - e non ho paura di ripeterlo - che tutte le parti, sia Israele, sia Hamas o l’Autorità palestinese, devono veramente tornare al Cairo, sedere attorno ad un tavolo ed arrivare ad un accordo per risolvere i problemi che sono alla radice di questo conflitto. Altrimenti non facciamo altro che prepararci ad una prossima quarta guerra, che sarà peggiore di quella dell’anno scorso.
D. – Proprio in questo scenario di emergenza si inserisce questo pericolo di un quarto conflitto di Gaza, che oltre ad Israele ed Hamas potrebbe coinvolgere anche il sedicente Stato Islamico, secondo la stampa internazionale…
R. – Sì, secondo me ambedue le parti si preparano alla quarta guerra, anche se non servirà a niente. L’unica e più grande lezione che dovevano imparare dall’ultima guerra è che non c’è soluzione militare per questo conflitto.
D. – Ma c’è il pericolo di infiltrazioni di jihadisti dello Stato islamico a Gaza?
R. – Certamente, dalla parte dell’Egitto, nel Sinai, la guerra è aperta contro i jihadisti e forse - non posso affermare questo con certezza - sono già a Gaza. La prova in questi ultimi mesi è stata nel fatto che il confronto abbia coinvolto i salafiti, gli appartenenti alla Jihad Islamica e Hamas. Non so chi stia provocando questo conflitto interno, ma non serve a niente.
D. – Qual è l’impegno di Caritas Gerusalemme nella Striscia di Gaza?
R. - Siamo già nella Striscia di Gaza dal 1990 con un centro medico ed una clinica mobile. Siamo poi intervenuti per le emergenze durante e dopo le tre guerre. E adesso, dall’inizio del mese di maggio, abbiamo lanciato un intervento di recupero per gli studenti delle scuole, nell’ambito della salute e della nutrizione. In più - una bella cosa – abbiamo mandato un clown italiano che fino ad agosto tiene spettacoli per i bambini della Striscia di Gaza. Abbiamo fatto, dunque, il possibile. Solo che gridiamo, gridiamo al mondo di aiutarci, ma non si vuole capire che noi siamo in uno stato di emergenza continuamente.
Violenze in Indonesia. Il nunzio: episodi isolati, prevale tolleranza
“Sono episodi drammatici ma isolati, nel Paese prevale un clima di tolleranza”. Queste le parole del nunzio apostolico in Indonesia, mons. Antonio Guido Filipazzi, a commento delle violenze a sfondo religioso registrate negli ultimi giorni nel Paese asiatico. Fonti locali parlano di un morto, si tratterebbe di un manifestante colpito dalla Polizia e del danneggiamento di due chiese e una moschea. L’allerta diramata ieri dal governo, spiega mons. Filipazzi, mirerebbe dunque a prevenire ulteriori violenze. Ascoltiamo il presule al microfono di Giacomo Zandonini:
R. – Il mese del Ramadan si è svolto, in generale, in maniera pacifica e serena. Però prima dell’inizio del Ramadan e in seguito c’è stata una tensione a Giacarta, non riguardante i cristiani, ma riguardante un piccolo gruppo che viene considerato eterodosso, quello degli Ahmadiyya, un gruppo fondamentalista ha cercato di impedire la loro preghiera. Durante il Ramadan ci sono state anche delle tensioni nella zona di Yogyakarta, in Java centrale, soprattutto con proteste da parte di piccoli gruppi musulmani, che hanno messo in discussione il permesso di azione e di attività di alcuni luoghi di culto cristiani. Infine, dopo la conclusione del Ramadan, nella città di Tolikara c’è stato uno scontro fra membri della Evangelical Church of Indonesia, che avrebbe cercato di impedire ai musulmani locali di radunarsi per celebrare la fine del Ramadan. Una moschea è andata a fuoco, insieme anche ad alcuni negozi, c’è stato un intervento della polizia ed è stato registrato un morto e alcuni feriti. Questo episodio è avvenuto in Papua, in una zona maggioritariamente cristiana. Si tratta di episodi puntuali, che si sono verificati in zone molto limitate. Ovviamente questo crea sempre delle preoccupazioni, anche nelle autorità.
D. – Negli ultimi giorni c’è stato un intervento delle autorità e delle forze di polizia proprio in questo senso…
R. – Sì, sì. Esatto. Tutti hanno chiaramente ricordato che occorre preservare questa caratteristica dell’Indonesia, che - pur essendo maggioritariamente musulmana - è un Paese pluriforme anche dal punto di vista religioso e ha una tradizione di convivenza pacifica, che dura tutt’ora nella gran parte dei casi.
D. – La Chiesa cattolica ha dei rapporti con le comunità religiose, quelle musulmane come con le altre comunità del Paese...
R. – La Chiesa cattolica ha molti rapporti. Vorrei solo ricordare che proprio in occasione della fine del Ramadan è abbastanza comune che ci siano visite alle famiglie musulmane e addirittura durante il Ramadan, anche con le istituzioni cattoliche - è capitato anche qui a Giacarta con l’arcidiocesi - si organizza il pasto con cui si conclude il digiuno della giornata. Vengono anche offerti dei doni ai musulmani più poveri e alle famiglie più disagiate. Quindi anche la Chiesa cattolica, con i suoi membri, partecipa a questo momento così particolare dei cittadini islamici.
D. – Nel Paese prevale un clima di rispetto reciproco fra le comunità e di convivenza?
R. – Sì. Questa è un po’ la situazione e, allo stesso tempo, questo è anche un impegno, perché una situazione del genere non è conseguita una volta per sempre, ma deve essere custodita e deve essere preservata sempre di più, anche favorendo – dal punto di vista della legislazione e dell’amministrazione – tutto ciò che permette di creare una maggiore convivenza pacifica e garantendo ciò che fa parte del diritto di libertà religiosa di tutti.
D. – C’è questo impegno da parte delle istituzioni?
R. – E’ difficile dare un giudizio, perché essendo l’Indonesia un Paese così grande, dove vi è una decentralizzazione amministrativa molto forte, è chiaro che ogni situazione è abbastanza diversa e quindi anche i comportamenti delle autorità possono essere diversi da luogo a luogo. Mi sembra di poter dire che questa attenzione a preservare la coesistenza pacifica, a livello di religioni diverse, è certamente attestata continuamente dal governo in carica.
Usa: chiusura della base di Guantanamo "nelle fasi finali"
Il piano di Obama per chiudere il carcere di Guantanamo a Cuba è “nelle fasi finali” e sarà presto presentato al Congresso. Lo afferma la Casa Bianca, che considera la questione una priorità dopo la riapertura delle relazioni internazionali con l’isola caraibica. Nella prigione militare sono rinchiuse da oltre tredici anni oltre un centinaio di persone legate al terrorismo internazionale, spesso senza capi d’imputazione né processi. Su questa importante decisione Michele Raviart ha intervistato il giornalista Dennis Redmont, ex-direttore dell’Associated Press Italia:
R. – “Siamo alla stretta finale” è un modo di dire. Siamo proprio all’inizio di una battaglia politica di Obama. Obama, tre giorni dopo essere stato eletto, ha promesso di chiudere Guantanamo. Questa promessa gli è stata richiesta da alcune frange del partito democratico in America, perché i repubblicani non sono d’accordo per la chiusura e sappiamo che il Congresso americano è dominato dai repubblicani. Anche i militari, però, non sono a favore. Il fatto, quindi, che abbia svelato un piano, non vuol dire che riuscirà.
D. – Quanto è importante questa chiusura di Guantanamo nella politica di Obama? E’ una cosa solo simbolica? Ricordiamo che Guantanamo è stato uno dei simboli negativi dell’amministrazione Bush e del periodo post 11 settembre…
R. – Ci sono due fattori. Primo: in America una promessa elettorale è una promessa elettorale e perciò il presidente che compie le promesse elettorali è visto come un grande presidente. Secondo: per la reputazione globale degli Stati Uniti, questo potrebbe essere l’inizio di un nuovo corso dove gli Stati Uniti sono visti in modo molto più positivo che durante l’amministrazione Bush. Sta chiudendo, infatti, una prigione che, francamente, è diventata un simbolo ed è stata utilizzata nella propaganda di tutti i gruppi che si oppongono agli Stati Uniti e ai suoi alleati.
D. – A livello di diritto internazionale, che cosa implica la chiusura di Guantanamo? Ci sono ormai poco più di un centinaio di detenuti e sono in gran parte accusati di far parte del terrorismo internazionale, quando sono accusati di qualcosa nello specifico. La chiusura riporta questi terroristi o presunti terroristi nell’alveo del diritto? Che cosa ne sarà di loro?
R. – Sarebbe molto interessante fare un elenco di dove sono stati trasferiti alcuni di questi terroristi, perché ce ne erano molti di più prima. Alcuni li ha presi l’Uruguay, altri il Portogallo, altri l’Africa. Alcuni di questi sono stati accettati nelle prigioni di altri Paesi, perché il loro processo potesse continuare. Ma a livello della legislazione internazionale, certamente questo crea un dilemma, perché sono stati portati lì anche senza un processo.
D. – Quindi è improbabile che questi detenuti vengano, almeno nel breve periodo, giudicati negli Stati Uniti?
R. – Questo è il grande interrogativo. Come il problema della possibilità che anche un solo prigioniero di Guantanamo poi si ritrovi nell’Is, nel Daesh, e si dimostri che il fatto che l’America abbia cambiato idea su Guantanamo crei un pericolo (per gli Stati Uniti).
D. – Quanto su questa decisione pesa la riapertura delle relazioni diplomatiche fra Stati Uniti e Cuba e il ruolo del Vaticano?
R. – La chiusura di questa prigione non può non essere relazionata con le negoziazioni diplomatiche. Perciò sta venendo a fruizione un progetto in atto praticamente da 6 anni, da quando Obama è stato eletto. Visto il ruolo preminente del Vaticano nel ristabilimento delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba, la prossima visita del Pontefice in America metterà certamente questo tema sull’agenda.
Somalia: forze internazionali liberano Bandere da al Shabab
Forze dell’Unione Africana (Ua) e dell’esercito somalo hanno strappato ai militanti al Shabab il controllo della città strategica di Bardere, nella parte meridionale del Paese. Una settimana fa la missione Amisom dell’Ua ha lanciato una nuova offensiva contro le milizie qaediste, e gli al Shabab sono stati quasi completamente cacciati dalla Somalia centrale. Per un’analisi della situazione politico-militare nel Corno d’Africa, Marco Guerra ha intervistato l’analista strategico Alessandro Politi:
R. – Questa vittoria va letta come un altro passo avanti nel ridurre le capacità di al Shabaab dal punto di vista militare, il che non significa averle ridotte dal punto di vista politico e sociale, perché Bardere è un nodo di comunicazione abbastanza importante, tanto perché ha un fiume, quanto per un aeroporto, quanto per un nodo di strade che attraversano questa cittadina. Però non basta questo per dire veramente che la campagna contro al Shabaab è vinta se la gestione del processo politico di pacificazione non è equilibrata dal punto di vista politico e sociale e se poi tutte le operazioni vengono percepite come guidate da eserciti stranieri.
D. – Una settimana fa l’Unione africana ha lanciato una nuova offensiva contro gli al Shabaab. Da mesi poi sono stati poi completamente cacciati dalla Somalia centrale, ma le milizie qaediste in Somalia sono veramente vicino alla sconfitta oppure poi, come si vede, rialzano la testa e riescono a colpire oltre i confini somali?
R. – Al Shabaab non è la prima volta che cede il controllo di città quasi senza combattere, perché vuole cedere spazio in cambio di tempo e di linee logistiche vulnerabili per le forze nemiche, soprattutto quelle d’oltre frontiera, quindi etiopiche e keniote. E questo per ora è il caso: cioè, è prematuro parlare di svolta decisiva nei confronti di al Shabaab che ancora occupa e soprattutto controlla vasti territori e rende molto divise le zone occupate dal governo legittimo di transizione e dalle forze dell’Amisom.
D. - La Somalia, sappiamo, è uno dei territori più instabili del pianeta. In questa regione africana come si colloca la realtà al Shabaab?
R. – Le varie forze di guerriglia e terroristiche hanno connessioni di comunicazione o di percezione ma dal punto di vista operativo, anche se la Somalia si trasformasse in un "giardino di pace" domani, questo non cambierebbe granché le cose nello Yemen e nemmeno in Nigeria e nemmeno in Mali e nemmeno nella vasta fascia del Sahel e nemmeno nel Sinai, tanto per dare esempi pratici. Questo collegamento globale, infatti, è soprattutto un collegamento politico e di propaganda ma poi dal punto di vista operativo è una faccenda locale che va risolta con strumenti politico-militari adeguati, soprattutto politici alla fine.
D. – Certo, per evitare che queste cellule terroristiche siano un serpente a cui ricresce sempre la testa, come abbiamo visto in altri Paesi, va pacificata tutta quella fascia che ha appena citato dove c’è una instabilità generalizzata…
R. – L’instabilità generalizzata è spesso frutto – e questo lo si vede bene in Somalia e Yemen - dello sfarinamento dello Stato nazionale che qualche volta è stato lasciato andare in malora nell’indifferenza più totale della comunità internazionale e qualche volta anche con un certo aiuto perché faceva comodo ad alcuni potenti attori. Se non si capisce questo si continuerà a dare a lungo la caccia a un fantasma terrorista senza però colpire la malattia che è causa del sintomo. Il terrorismo è un sintomo.
Unioni gay. Cardia: non lasciarsi ingannare, obiettivo è adozione bambini
Gli oneri delle unioni civili per le finanze pubbliche italiane sono di "3,5 milioni nel 2016 e 6 milioni nel 2017”. E' quanto comunicato oggi dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. Un dato che si inserisce nell’acceso dibattito parlamentare sull’approvazione delle unioni gay. Dal canto suo, il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, ha affermato che il governo non deve fare “dei bisogni dei singoli la misura per regolare il bene comune”. Al microfono di Alessandro Gisotti, il giurista Carlo Cardia si sofferma sul dibattito in corso, a partire dalla sentenza della Corte di Strasburgo che ha contestato la legislazione italiana per mancanze in materia di unioni civili:
R. – Il primo punto è che la sentenza della Corte di Strasburgo censura l’Italia per una carenza, non impone affatto il matrimonio gay, anzi ricorda che lei non è abilitata a imporre alcunché in materia familiare. Il matrimonio per gli omosessuali si può introdurre, dipende dallo Stato, dalla volontà del legislatore nazionale. Questo chiarisce che metà del dibattito è falsato perché se io esco con un articolo di giornale con commenti del tipo: “Quindi a questo punto dobbiamo introdurre il matrimonio gay”, questo non c’entra niente con la sentenza. Se non partiamo da questo noi impostiamo un dibattito, un discorso, ideologico. Nessun Paese d’Europa è obbligato a introdurre il matrimonio gay.
D. – Lei su “Avvenire” ha scritto proprio questo: “Quando si parla di unioni gay bisogna innanzitutto pensare al bene decisivo che è quello dei figli” …
R. – Certamente perché noi ci troviamo di fronte agli esseri più deboli che esistono sulla faccia della terra, bambini che nascono e non hanno nulla! Che cosa ha il bambino quando nasce? Ha un babbo e una mamma! Voler negare, attraverso la soddisfazione delle esigenze del matrimonio gay, questo diritto fondamentale a chi non ha ancora nulla, perché il bambino appena nato non ha nessuna forza, né di farsi sentire né di agire: deve essere protetto. Negare questo diritto fondamentale è questo: è un elemento che non può essere aggirato attraverso legislazioni più o meno melliflue, più o meno insincere.
D. – Quando da parte di alcuni che vogliono un’approvazione del cosiddetto matrimonio gay aggiungono che però non si arriverà al passo dell’adozione, lei dice: in realtà c’è già nel fatto stesso, il matrimonio presuppone che poi sia possibile. Quindi è solo una questione di tempo e di passaggio ulteriori?
R. – Su questo bisogna essere molto chiari: è una finzione, è una bugia. Perché se io dichiaro che due persone sono sposate per logica indefettibile, anzitutto logica lessicale, e per logica giuridica, io posso adottare dei bambini. Su questo bisogna, se posso usare questo termine, non ingannarci. E infatti lo scontro è sempre su questo. Il dibattito non va impostato sulla questione della sentenza che chiede una tutela, va fatta, questa tutela effettivamente va riconosciuta, va estesa alle coppie conviventi. Ma c’è il problema di tutelare il bambino perché abbia come tutti i bambini del mondo un babbo e una mamma. E sa perché non lo vogliono affrontare spesso? Perché questo è un qualcosa che convince tutti noi, ci tocca da vicino, no? Qui non c’è bisogno di una grande spiegazione: perché ha bisogno del babbo e della mamma? Siamo ai livelli di quelle verità elementari che non hanno bisogno di grandi dimostrazioni perché sono ovvie, immediatamente percepite.
D. – Il segretario generale della Cei mons. Galantino, ha affermato che non bisogna fare dei bisogni dei singoli la misura per regolare il bene comune. Questo è un altro punto, anche, che anche un non credente può accettare, qui la questione è molto “laica”…
R. – Se lei ha fatto caso, tutto quello che io ho detto è profondamente laico, perché è percepibile da chiunque, da qualsiasi persona, che sia figlio, che sia padre, che sia zio, che abbia avuto, abbia contatti con un bambino piccolo, questo lo percepisce chiunque. E’ un elemento profondamente laico che non vuol dire che non sia anche religioso... Quello che ha detto mons. Galantino è molto giusto ma io aggiungerei una cosa: non si può fare della soddisfazione dell’esigenza del singolo la misura di tutte le cose. Sa perché? Perché si violano i diritti di altri singoli, di altre persone! Io non posso assolutizzare il mio bisogno, il mio desiderio di avere un figlio costringendo delle persone a non avere il babbo o a non avere la mamma perché io sono omosessuale e non glielo voglio dare, gli voglio dare due padri o due madri. Se io erigo il singolo a misura della disciplina per tutti, io colpisco altri e colpisco i più deboli. Quindi noi avremmo un conflitto tra diritti, dove però è il debole che cede.
Piazza della Loggia: condanne che fanno storia ma poca giustizia
Dopo 41 anni, 3 inchieste e 12 processi, la giustizia ha stabilito che a firmare l’attentato di piazza della Loggia, a Brescia, furono Carlo Maria Maggi, ispettore dell’organizzazione neofascista "Ordine Nuovo" e Maurizio Tramonte, ex fonte dei servizi segreti, entrambi condannati all’ergastolo. La sentenza è arrivata ieri sera, dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. Era il 28 maggio del 1974 quando l’esplosione di una bomba, durante una manifestazione antifascista, uccise 8 persone e ne ferì cento, tra le vittime Livia Bottardi. Oggi il marito, Manlio Milani, è presidente dell’Associazione vittime della strage di piazza della Loggia, e presidente della Casa Della Memoria di Brescia. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – Per la prima volta ci siamo trovati di fronte a una dichiarazione di responsabilità da parte della magistratura: l’individuazione dei colpevoli. Il tema della mancanza del colpevole è sempre stato un problema che ci ha accompagnato in questi anni, perché la mancanza del volto ti dice moltissime cose. Ti dice intanto che manca una giustizia ma, soprattutto, ti impedisce di poter avviare un dialogo con il colpevole e attraverso lui capire il perché determinati fatti possono accadere e come una persona possa arrivare anche al punto di ucciderne altre, addirittura, in questo caso, senza nemmeno conoscerle, trattandosi di una bomba collocata in mezzo alle persone. Questo è indubbiamente un elemento, almeno personalmente, molto importante. Ti dà certezza di giustizia e ti porta anche, allo stesso tempo, a poterti interrogare: adesso ho davanti a me un volto del colpevole e quindi come mi comporterò con lui nei prossimi anni?
D. – Lei ha anche detto però che questa è una giustizia depotenziata…
R. – Sì, il tempo depotenzia le cose. La verità di oggi, se noi l’avessimo saputa 40 anni fa, non soltanto avrebbe avuto un valore diverso nella sua immediatezza ma, proprio perché scoperta immediatamente, avrebbe potuto portare ad evitare altri orrori. Maggi, condannato perché è il mandante di una strage come quella di Brescia, dirà: “Questo fatto non deve restare isolato”. Due mesi dopo avemmo la strage dell’Italicus (nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 ndr). Non dico che lui sia dietro anche all’Italicus, dico che però se si fosse intervenuti immediatamente probabilmente, altri fatti avrebbero potuto essere evitati. Soprattutto avremmo avuto la possibilità di intervenire immediatamente sui meccanismi di copertura che purtroppo hanno caratterizzato la storia di questi eventi. Allo stesso tempo io credo che le istituzioni democratiche avrebbero tratto un grande vantaggio dalla immediata verità proprio dal punto di vista della credibilità istituzionale. Noi siamo di fronte a questa sentenza che ci dice che il quinquennio ’69-’74 non può essere letto in modo separato, ma in una continuità complessiva, soltanto così possiamo farlo. Questa sentenza ci aiuta a entrare nella storia, nel merito delle analisi della storia, e a capire con maggiore chiarezza ciò che è avvenuto, perché è avvenuto, quali le responsabilità ma, ripeto, soprattutto, i meccanismi che hanno intaccato il processo democratico.
D. – La fotografia che la ritrae al capezzale di sua moglie, a piazza della Loggia subito dopo l’attentato, non è possibile cancellarla dalla memoria di nessuno. E lei ha detto più volte: “Per me il tempo si è fermato quel giorno”. E’ così ancora oggi?
R. – Sì, perché rimane comunque dentro di te una domanda: cosa saremmo stati noi se quella mattina non fosse avvenuto ciò che è avvenuto ? Però, nello stesso tempo, oggi, posso dire che finalmente quei corpi prima privi di giustizia, che erano come fantasmi che vagavano, oggi con questa sentenza, con questa verità raggiunta, possono finalmente riposare in pace. E questo modifica di molto la percezione di quel giorno.
A seguire per il Corriere della Sera gli anni del terrorismo nero e rosso fu Antonio Ferrari, importante firma del quotidiano milanese che, al microfono di Francesca Sabatinelli, così ricorda quel lontano giorno del 1974:
R. – Appena sentita la notizia corsi al giornale, ero a Milano cominciai a fare delle telefonate. Chiamai il nostro corrispondente da Brescia e subito dopo iniziai anch’io insieme ad altri colleghi a seguire questa faticosissima inchiesta sull’orlo di questa emozione. Eravamo già a 5 anni dalla strage di piazza Fontana, però per noi quel momento era un momento quasi di conferma di quella strategia della tensione. Ecco perché ogni giornalista che aveva curiosità si era lanciato su questa vicenda per cercare di capire.
D. – Questa sentenza cosa ci dice che non ci abbiano già detto gli anni passati?
R. – Ben poco, ben poco. Probabilmente le responsabilità saranno acclarate, io però ho molti dubbi. Io penso che questa sia una di quelle soluzioni che in qualche misura lascia intendere che forse si è arrivati vicini alla verità, forse, pensiamo che uno degli imputati (Maggi ndr) ha più di 80 anni, quindi al massimo potrà avere gli arresti domiciliari. E però questo non significa avere scoperto tutto il meccanismo della strage. Io credo che il meccanismo della strage sia molto più complesso di quanto ci dica questo frammento di verità. Non mi consente di andare oltre.
D. – Un frammento di verità che ci consente in qualche modo di sperare forse che si squarcino i veli anche sulle altre grandi stragi di quegli anni, dal ’69 al ’74?
R. – Sperare naturalmente è sempre importante e dobbiamo continuare a farlo. Io non sono particolarmente ottimista, anche se questo indubbiamente nel buio del tunnel è comunque la fiammella di un piccolo risultato. Altre stragi e altre vicende hanno avuto un livello compromissorio temo molto più alto persino della strage di piazza della Loggia. E quindi se questo potesse aiutare a raggiungere anche i mandanti oltre che gli esecutori - a me interesserebbero soprattutto i mandanti dell’intera strategia della tensione – avremmo fatto veramente un passo gigantesco in avanti. Personalmente ne dubito. Sarà, come dire, il pessimismo della ragione, pur con tutto l’ottimismo della volontà io mi sento di dubitare, perché forse non siamo ancora pronti a fare tutti i conti con il passato.
D. - Resta però un punto fermo di questa sentenza, qual è?
R. – La responsabilità dei neofascisti e delle organizzazioni neofasciste collegate con la parte deviata dei servizi segreti. Non dimentichiamo che allora i servizi segreti italiani erano pesantemente "inquinati" ed erano "inquinati" anche dalla P2: Vito Miceli, che era il capo del SID, era iscritto alla Loggia massonica P2 e un altro generale, Gianadelio Maletti, che era il capo dell’ufficio controspionaggio, era anche lui iscritto alla P2. Io credo che queste cose vadano sempre tenute in considerazione, perché se vogliamo gettare un fascio di luce vero dobbiamo andare a indagare sulle commistioni tra servizi segreti deviati o meno, ci sono i deviati ma ci sono anche quelli che hanno accettato di farsi deviare, e altre responsabilità politiche, perché di sicuro ci sono state anche responsabilità politiche.
Nasce l'associazione "Giornalisti amici di padre Dall'Oglio"
“Giornalisti amici di padre Dall'Oglio”, è questo il nome dell’associazione nata a due anni dal sequestro in Siria del missionario gesuita padre Paolo Dall’Oglio, avvenuto a Raqqa, il 29 luglio 2013. La presentazione è avvenuta oggi presso la Federazione Nazionale della Stampa promossa da un gruppo di giornalisti amici del sacerdote. All’evento c’era per noi Alessandro Filippelli:
Ricordare il suo impegno al dialogo tra culture e religioni, ricordare il suo impegno civile, sociale, spirituale. Si può sequestrare un uomo ma non si può sequestrare il suo pensiero. Questo è il messaggio dei giornalisti dell’associazione. “Chi ha rapito padre Paolo – dicono ad una sola voce i promotori - non ha sequestrato la sua testimonianza di fede, il suo impegno, il suo servizio”. Padre Luciano Larivera, scrittore della Civiltà Cattolica:
“Fare questa associazione ‘Giornalisti Amici di padre dall’Oglio’ dice che lui è un cittadino italiano e quindi gli italiani devono farsene carico affettivamente, come di altri cittadini italiani rapiti. In fondo ha svolto una attività giornalista nell’ultima parte della sua vita apostolica, oltre ad essere sempre stata una persona che ha collaborato con i giornalisti. Quindi è un dire “no” a quest’uso del sequestro come arma di intimidazione, che poi è un atto di terrorismo terribile, perché uno quasi si trova nell’angoscia di sperare quasi che un amico sia morto piuttosto che saperlo prigioniero dell’Is sotto chissà quali pressioni e torture… Da un lato viverlo profondamente questo evento e nella fede sapere che ognuno è vivo in Cristo, è vivo in Dio: quindi saper cogliere anche gli elementi di resurrezione cristiani, cioè il suo pensiero, il suo esempio. Lui è lì dove voleva essere, nel modo in cui lui voleva essere, mischiando la sua carne nel sangue e nella terra di questo popolo. Comunque - speriamo che venga liberato - porterà nel suo corpo le stimmate di questa liberazione e di questo dolore. La sua passione non finisce, anche se liberato. Anche se il suo cuore è in Siria, con i siriani, con un popolo oppresso resterà – tra virgolette – nella sofferenza”.
Da due anni non si hanno notizie certe su padre Dall’Oglio. Per 30 anni ha vissuto e lavorato nel suo Paese d’adozione, la Siria, per promuovere il dialogo fra gli esponenti della religione islamica e quelli della religione cristiana. Spesso sono emerse, in questi anni, delle notizie sulla sua morte o sulla sua prigionia. Tuttavia questi fatti non sono stati mai confermati. Immacolata Dall'Oglio, sorella di padre Paolo Dall'Oglio:
“L’iniziativa di oggi degli amici giornalisti di padre Paolo è una iniziativa che, in qualche modo, mostra la molteplicità di relazioni, di messaggi che Paolo aveva lanciato e curato nel suo operato. Anche noi, in questi due anni di attesa, abbiamo toccato con mano questa molteplicità di relazioni come un filo di Arianna, che è proprio frutto della sua vocazione, dell’essere in dialogo e di lavorare per il dialogo e per l’apertura all’altro, anche nei contesti difficili nei quali lui operava. Questa vicinanza, questo affetto espresso da chi si impegna in queste iniziative, in qualche modo, se devo parlare per me, scalda il cuore e ci dà l’idea che Paolo è pensato. E questo aiuta! Mi auguro che aiuti lui in prima persona e aiuta anche noi che gli vogliamo bene. In questo percorso – devo dire – che l’essere presi per mano, mano nella mano, con lo staff della Farnesina, ci aiuta in questa difficile attesa”.
Comunità Sant'Egidio: tour solidale dei giovani in Calabria
Parte oggi il “Sant’Egidio on the road”, un tour della solidarietà che porterà i giovani romani della Comunità di Sant’Egidio in 12 località della Calabria. 10 giorni di percorso per promuovere, con diverse iniziative, valori come amicizia e gratuità. Due gli appuntamenti principali di questa terza edizione: il 25 e il 26 luglio a Briatico, l’evento: “Amici dei poveri e della pace in Calabria a Convegno” per promuovere idee solidali e, il 28 luglio, la preghiera al porto di Reggio Calabria per le vittime dell’immigrazione. Ma perché un tour proprio in questa regione? Adriana Masotti lo ha chiesto ad Alessandro Moscetta, uno dei responsabili giovani di Sant’Egidio per Roma e Calabria:
R. – La Calabria per due motivi: il primo, perché noi qua a Roma abbiamo incontrato e incontriamo sempre tanti studenti fuori sede calabresi. E alcuni di loro, che hanno scelto per vari motivi di tornare dopo gli studi in Calabria, hanno chiesto di portare l’esperienza di Sant’Egidio anche nella loro terra. E secondo, perché abbiamo sentito il bisogno di portare un po’ quella energia di speranza che viviamo noi con Sant’Egidio, speranza poi anche di Papa Francesco direi, in questa terra perché chi vive qua ha bisogno di non essere rassegnato.
D. – Perché questo è un po’ il clima in cui andate a incontrare le persone... che cosa avete potuto constatare?
R. – Io direi questo: c’è sempre una sottile linea del “non si può fare”, nel senso che “è complicato”, “quelli che stanno qua non gli va di fare niente”, “sono rassegnati” ecc… C’è ovviamente la criminalità che se provi a fare una cosa un po’ più grande, interviene; c’è la crisi economica, la gente è depressa, spesso vengono commissariati i comuni e quindi è anche difficile trovare gli interlocutori istituzionali. Tutto questo comporta un senso di rassegnazione. Questo è quello che noi notiamo di più. Al contrario poi nell’incontro noi ci accorgiamo, felicemente, che c’è gente che ha voglia di fare. Sono soprattutto bravi sacerdoti o bravi professori che vogliono continuare a lottare per motivare parrocchiani, soprattutto i giovani a vivere per gli altri, trovando in questo anche un miglioramento per la loro regione.
D. – Saranno 12 le località che voi visiterete in questo tour portando sempre un’iniziativa, qualcosa di nuovo, che cosa ad esempio?
R. - Il nostro scopo è quello di mettere delle basi non di Sant’Egidio, ma delle basi di alcuni valori come la gratuità, la solidarietà, anche l’idea di prendersi l’impegno di fare qualcosa seriamente con incontri, con convegni, con preghiere dedicate alla pace, con attività di volontariato e di amicizia con i poveri e di servizio ai poveri. I due eventi principali saranno la preghiera martedì 28 luglio a Reggio Calabria al molo del porto, luogo dove sbarcano quasi quotidianamente persone che vengono da questi viaggi nel Mediterraneo, quindi quelli che sopravvivono, dove Sant’Egidio sta diventando un coordinatore di varie realtà, insieme alla Caritas locale, dell’accoglienza delle persone che arrivano nel nostro Paese. L’altra iniziativa importante che vivremo il weekend del 25-26 luglio è questo appuntamento: “Amici dei poveri e della pace in Calabria a Convegno” dove varie realtà e vari rappresentanti di Sant’Egidio in Calabria e di altre associazioni si incontreranno per riflettere e avere anche prospettive su come costruire dentro questa regione, un mondo un po’ più umano, un po’ più solidale e soprattutto con un po’ più di speranza.
D. – Come vivono i giovani, i giovani romani, questo tour?
R. – La pima parola è “entusiasmo”, perché c’è l’idea di andare un po’ all’avventura però un’avventura che costruisce. C’è entusiasmo, c’è voglia di testimoniare, c’è voglia di toccare il cuore, di portare amicizia, di portare gioia e anche far capire che nella vita vivere per gli altri non è una negazione di tempo o di arricchimento ma è anzi il contrario: è qualcosa che ti dà di più nella vita.
In aumento nel mondo la tratta di esseri umani
Il commercio di esseri umani muove tra 7.000 e10.000 milioni di dollari l'anno; fino a 2 milioni di bambini sono soggetti alla prostituzione nel commercio sessuale mondiale; 20,9 milioni di persone sono vittime di lavoro forzato, di cui il 55% donne e bambine. Questi alcuni dati del rapporto del Servizio Gesuita ai Migranti (Servicio Jesuita a Migrantes, Sjm) della Spagna, elaborato dall'Istituto Universitario delle Migrazioni di Comillas su questa problematica, in vista della Giornata Mondiale contro la Tratta che si celebra il 30 luglio.
Onu: la tratta interessa almeno 4 milioni di persone
Il traffico illecito di persone si sta trasformando in un "fiorente commercio che non smette di crescere all’interno della nuova economia globale", nota il rapporto del Sjm, ripreso dall’agenzia Fides. Secondo l’Onu, il "commercio di esseri umani" interessa ogni almeno 4 milioni di persone, per un valore economico che si può calcolare tra 7.000 e 10.000 milioni di dollari. Benché la forma di tratta scoperta con maggior frequenza sia lo sfruttamento sessuale (79 per cento), esistono altre due forme di sfruttamento: lo sfruttamento lavorativo e la tratta per il traffico di organi.
500mila le donne sfruttate sessualmente che entrano in Europa
L'Organizzazione Internazionale della Migrazioni stima in 500.000 il numero di donne che entrano tutti gli anni in Europa Occidentale per essere sfruttate sessualmente, molte volte con false promesse di lavoro in un paese ricco, dal momento che la maggioranza proviene da Paesi in via di sviluppo.
La seconda forma di sfruttamento scoperta con maggior frequenza è la tratta per lo sfruttamento lavorativo.
Quasi 21 milioni le vittime di lavoro forzato
Secondo l'Organizzazione Mondiale del Lavoro (Oil) il dato globale di persone vittime di lavoro forzato raggiunge la cifra di 20,9 milioni. Lo sfruttamento avviene nel settore della costruzione, in agricoltura, nel settore tessile, nel servizio domestico, nelle imprese di trasporto e nella mendicità. Questo tipo di tratta non è una semplice violazione dei diritti del lavoratore, in quanto le sue vittime sono sottoposte a condizioni di lavoro disumane: orari prolungati, salari bassi o inesistenti, luoghi di lavoro in cui non sono rispettate le minime regole di igiene né di sicurezza, situazioni di servitù per debiti. Comunque, conclude il rapporto, i casi denunciati continuano ad essere pochi, mentre lo sfruttamento sessuale delle donne continua ad essere oggetto di denunce più frequente, per questo è il tipo di tratta più documentato. (S.L.)
Iraq: anche a Kirkuk espropriate le case dei cristiani
Anche nella città di Kirkuk e nella provincia di cui è capoluogo, molte case e terreni appartenenti ai cristiani vengono sottratti illegalmente ai legittimi possessori attraverso la produzione di falsi documenti legali, che rendono di fatto impossibile il loro recupero da parte dei proprietari. Il fenomeno, che in passato era stato registrato e denunciato anche a Baghdad, ha potuto prendere piede anche grazie a connivenze e coperture di funzionari corrotti e disonesti, che si mettono a servizio di singoli impostori e gruppi organizzati di truffatori. In un caso recente – riferisce il sito iracheno ankawa.com – un gruppo di abitazioni appartenenti a cittadini cristiani che avevano temporaneamente lasciato la città sono state abbattute e al loro posto è sorto un parcheggio.
Parlamentari e associazioni cristiane chiedono di stroncare le truffe
Il furto “legalizzato” delle proprietà delle famiglie cristiane è strettamente collegato all'esodo di massa dei cristiani iracheni, seguito degli interventi militari a guida Usa per abbattere il regime di Saddam Hussein. I truffatori si appropriano di case e immobili rimasti vuoti, contando sulla facile previsione che nessuno dei proprietari tornerà a reclamarne la proprietà. Parlamentari e associazioni cristiane hanno fatto appello alle istituzioni amministrative locali, chiedendo di stroncare il fenomeno delle false certificazioni su cui si regge questo tipo di truffa. (G.V.)
Cina: lo Stato riconosce gli studi nei 6 Seminari del Paese
I sei Seminari maggiori della Cina continentale autorizzati dalle autorità, hanno da poco terminato l’anno accademico conferendo il baccalaureato complessivamente a 79 seminaristi, che hanno così concluso il primo ciclo di studi. Subito dopo la chiusura dell’anno e la consegna dei diplomi, i seminaristi sono stati destinati alle parrocchie e alle diverse comunità ecclesiali di base, per collaborare nell’attività pastorale e nei diversi servizi offerti dalla Chiesa. Secondo le informazioni pervenute all’agenzia Fides, 28 di loro appartengono al Seminario nazionale, 16 al Seminario dell’He Bei, 8 al Seminario della Cina centrale e meridionale, 15 al Seminario di Shen Yang, 9 al Seminario dello Shaan Xi, 3 al Seminario di Pechino. I Seminari di Ji Lin e del Si Chuan quest’anno non hanno avuto studenti da diplomare.
Da quest’anno lo Stato riconosce la validità agli effetti civili del certificato di baccalaureato rilasciato dai Seminari
In questo modo è possibile l’inserimento nel mondo accademico di quanti desiderano proseguire gli studi di materie attinenti al ministero pastorale, nelle università statali. Allo stesso tempo i giovani che hanno seguito gli studi in seminario e poi, in seguito al discernimento, hanno scelto di non proseguire il cammino verso il sacerdozio, possono più agevolmente inserirsi nella società, essendo in possesso di un titolo di studio superiore riconosciuto. Da rilevare che in Cina esistono anche altri luoghi di formazione seminaristica autorizzati dai vescovi che provvedono alla formazione di sacerdoti, religiosi e religiose. (N.Z.)
Cattolici filippini aderiscono a petizione sul clima
20 milioni di firme per chiedere ai leader mondiali che si riuniranno a Parigi a dicembre per il Summit dell’Onu sul clima (Cop21) un taglio drastico alle emissioni dei gas serra e contenere così l’aumento della temperatura del Pianeta sotto la soglia cruciale di 1,5 gradi e aiuti ai Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici. E’ l’ambizioso obiettivo che si prefigge di raggiungere la Petizione Cattolica sul Clima, promossa dal Global Catholic Climate Movement (Gccm), una rete globale di 140 di organizzazioni cattoliche creata lo scorso gennaio per sollevare una voce forte in vista delle importanti decisioni che dovranno essere prese nella capitale francese.
La mobilitazione della Chiesa filippina contro i cambiamenti climatici
L’iniziativa risponde all’invito rivolto da Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato sì” ad agire per fermare la distruzione del Pianeta e salvare la nostra “casa comune”. Un’esortazione - riporta il quotidiano britannico “The Guardian” - accolta con entusiasmo dai movimenti ambientalisti cattolici delle Filippine che hanno aderito all’iniziativa del Gccm con l’obiettivo di raccogliere 10 delle 20 milioni di firme richieste. L’emergenza ambientale è infatti molto sentita dall’opinione pubblica del Paese, uno dei più colpiti in questi ultimi anni dai fenomeni climatici estremi, tra i quali si ricorda, Haiyan, il più devastante tifone di tutta la sua storia. Un terzo dei cittadini filippini considerano l’emergenza ecologica il problema più grave nel mondo oggi. Una preoccupazione condivisa dalla Chiesa, che da anni si batte contro lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali del Paese, denunciando, come Francesco, lo stretto legame tra distruzione dell’ambiente e povertà.
I vescovi: non siamo padroni, ma custodi della Terra
Questa posizione è stata ribadita due giorni fa in una dichiarazione dei vescovi pubblicata in vista del Cop21, dove si sottolinea come l’Enciclica “Laudato si’” ci insegni che “il cuore della questione dei cambiamenti climatici è la giustizia sociale” e che “non siamo proprietari della Terra bensì custodi e dobbiamo avere cura delle sue risorse, non solo per noi, ma anche per le prossime generazioni”. (L.Z.)
Vescovi Polonia: delusione per legge su fecondazione in vitro
“I cattolici non possono ricorrere alla fecondazione assistita ‘in vitro’ che sfrutta gli esseri umani per un’ipotetica sopravvivenza degli altri”. Lo affermano i vescovi polacchi in un comunicato. ripreso dall'agenzia Sir, a breve distanza dalla firma, da parte del Presidente Bronislaw Komorowski, della normativa sulle pratiche di medicina riproduttiva, finora assente nella legislazione polacca. I presuli che di recente hanno più volte ricordato i dettami del magistero, esprimono la loro “più profonda delusione” e “il grande dolore” rilevando quanto le nuove tecniche mediche che “testimoniano le possibilità dell’arte medica” devono “essere valutate da un punto di vista morale e in relazione alla dignità della persona umana chiamata a realizzare la sua vocazione nel dono dell’amore e della vita”.
Vescovi alle coppie che vogliono figli: ricorrete a metodi moralmente leciti o all'adozione
Il testo fa appello ai “cattolici” e a “tutte le persone di buona volontà” affinché “preservino ogni vita umana dal momento del concepimento” ed esprime la sollecitudine dei vescovi per “le persone nate con il metodo in vitro”. I presuli, inoltre, incoraggiano le coppie desiderose di avere figli a ricorrere ai metodi “leciti dal punto di vista morale” o all’adozione “degli orfani che per un loro corretto sviluppo umano hanno bisogno della famiglia”. Prima di entrare in vigore, la legge sarà valutata dal Tribunale costituzionale e, inoltre, potrà essere modificata dal nuovo Parlamento insediato a seguito delle politiche del 25 ottobre prossimo. (R.P.)
Seminario interreligioso all’Istituto ecumenico di Bossey
“Cosa possiamo fare per superare le sfide più pressanti del nostro tempo, come la violenza ed i conflitti, e costruire insieme società fondate sul rispetto e la cooperazione?”: sarà questa una delle domande a cui cercheranno di rispondere una trentina di giovani cristiani, musulmani ed ebrei, provenienti da tutto il mondo, che parteciperanno ad un seminario organizzato dall’Istituto ecumenico di Bossey, in Svizzera.
Promuovere lo scambio di punti di vista sulle Sacre Scritture
In programma dal 27 luglio al 14 agosto, l’incontro sarà destinato a ragazzi tra i 18 ed i 35 anni ed avrà come tema principale “Ricchezza e povertà nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’Islam”. “Oltre alle conferenze ed alle lezioni tematiche – informa una nota – i partecipanti vivranno esperienze spirituali e saranno esortati a scambiare i propri punti di vista sulle Sacre Scritture”.
Obiettivo: formare leader maturi e responsabili nella Chiesa e nella società
Situato a circa 20 km da Ginevra, l’Istituto ecumenico di Bossey è un Centro internazionale di incontro, dialogo e formazione che fa parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Wcc). Fondato nel 1946, l’Istituto mette insieme persone di diverse Chiese, culture e formazione a favore dell’apprendimento ecumenico e degli studi accademici. Lo scopo principale della formazione offerta a Bossey è quello di fornire agli studenti la capacità di servire come leader maturi e amministratori responsabili nelle loro Chiese, comunità e società.
Un approccio integrato alla vita
Un aspetto centrale di questa esperienza è il luogo accogliente in cui trovare un approccio integrato alla vita, ovvero comprendente la comunità umana, lo studio, la preghiera e la cura per l’ambiente. D’altronde, come si affermò sin dall’inaugurazione dell’Istituto, tre sono gli argomenti principali di studio: “La Bibbia, il mondo e la Chiesa universale”. Dal 2000, master e dottorati sono svolti in collaborazione con l’Università di Ginevra. (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 204