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Sommario del 22/06/2015
- Papa: chiedo perdono per violenze cristiane contro i Valdesi
- Francesco ai giovani: andate controcorrente, siate casti
- Il Papa al Cottolengo: scartare gli anziani è peccato sociale grave
- Il Papa ai Salesiani: serve un’educazione a misura di crisi
- Il pastore Bernardini: col Papa un incontro di fraternità e sincerità
- Papa nomina mons. Montemayor nunzio nella Repubblica Democratica del Congo
- P. Zollner: Francesco sempre più impegnato nella lotta agli abusi
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Attacco talebano in Afghanistan: tra le vittime, donne e bambini
- A Mosul rapiti 1200 bambini, l'allarme dell'Unicef
- Abbas esclude che Hamas sarà in prossimo governo
- Family Day. Gambino: prova di democrazia, politica risponda
- In un volume Lev gli atti del Convegno su Costantino
- India. Chhattisgarh: aggredita e molestata suora cattolica
- Terra Santa: riaperta chiesa Moltiplicazione. Proteste contro attentato
- Vescovi liguri: aprirsi all'accoglienza dei migranti
- Nigeria: libero senza riscatto sacerdote rapito l’8 giugno
- Filippine. Card. Quevedo: “Disarmo Milf passo verso la pace"
- Venezuela: per scioperi della fame chiesto intervento della Chiesa
Papa: chiedo perdono per violenze cristiane contro i Valdesi
Uno storico incontro, la visita al Tempio valdese, ha aperto la seconda giornata della visita pastorale di Papa Francesco a Torino. Si è trattato di una straordinaria occasione per ricordare i frutti, malgrado le difficoltà, del cammino ecumenico. Per la prima volta nella storia, un Pontefice ha varcato la soglia di un Tempio valdese. Il Papa ha chiesto perdono per i comportamenti non cristiani assunti nella storia dalla Chiesa contro la comunità valdese. Il servizio del nostro inviato, Amedeo Lomonaco:
Papa Francesco ha ricordato il profondo legame che unisce cattolici e valdesi nonostante le differenze. “Uno dei principali frutti che il movimento ecumenico ha già permesso di raccogliere in questi anni – ha detto il Santo Padre – è la riscoperta della fraternità che unisce tutti coloro che credono in Gesù Cristo”:
“Si tratta di una comunione ancora in cammino, che, con la preghiera, con la continua conversione personale e comunitaria e con l’aiuto dei teologi, noi speriamo, fiduciosi nell’azione dello Spirito Santo, possa diventare piena e visibile comunione nella verità e nella carità”.
Perdono per una storia di contese
L’unità, frutto dello Spirito Santo, non significa uniformità. “Purtroppo – ha aggiunto il Papa – è successo e continua ad accadere che i fratelli non accettino la loro diversità e finiscano per farsi la guerra l’uno contro l’altro”:
“Riflettendo sulla storia delle nostre relazioni, non possiamo che rattristarci di fronte alle contese e alle violenze commesse in nome della propria fede, e chiedo al Signore che ci dia la grazia di riconoscerci tutti peccatori e di saperci perdonare gli uni gli altri”.
A queste parole è seguita, da parte del Papa, una accorata richiesta di perdono:
“Da parte della Chiesa Cattolica vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci”
Lavoro comune per la solidarietà
Il Papa ha poi affermato che cattolici e valdesi sono chiamati a “continuare a camminare insieme”, ad “andare insieme incontro agli uomini e alle donne di oggi”, che a volte sembrano così distratti e indifferenti, per trasmettere il Vangelo. E sono diversi i campi, oltre a quello dell’evangelizzazione, in cui si aprono “ampie possibilità di collaborazione”:
“Un altro ambito in cui possiamo lavorare sempre di più uniti è quello del servizio all’umanità che soffre, ai poveri, agli ammalati, ai migranti”.
Le differenze, che continuano ad esistere tra cattolici e valdesi, “non impediscono dunque di trovare forme di collaborazione”:
“Se camminiamo insieme, il Signore ci aiuta a vivere quella comunione che precede ogni contrasto”.
I Valdesi, presenti nel territorio italiano fin dal Medioevo, hanno sofferto nella loro storia persecuzioni e discriminazioni da parte dei poteri civili e religiosi. Dal XVI alla metà del XIX secolo, la loro predicazione era consentita solo in una zona ben delimitata, nota con il nome di “Valli valdesi”. Queste terre del Piemonte, per secoli hanno assunto le caratteristiche di un vero e proprio ghetto. Il Papa è entrato nel più antico Tempio costruito al di fuori delle “Valli valdesi”, in Corso Vittorio Emanuele II a Torino, pochi anni dopo la concessione, nel 1848, dei diritti civili ai Valdesi da parte di re Carlo Alberto.
Francesco ai giovani: andate controcorrente, siate casti
L’amore sempre si comunica, l’amore sempre si fa nel dialogo. Il Papa ha chiuso la prima giornata della sua visita a Torino incontrando 90 mila giovani in piazza Vittorio. Francesco li ha invitati anche a vivere il loro amore castamente, evitando così l’edonismo. Nel pomeriggio il Papa si è fermato nella Chiesa di Santa Teresa dove si sono sposati i suoi nonni. Il servizio di Alessandro Guarasci:
L’atmosfera a piazza Vittorio a Torino è quella delle grandi feste. Sono state mobilitate tutte le parrocchie del Piemonte per far arrivare le migliaia di ragazzi. La grande Croce della Gmg campeggia tra di loro. Il Papa invita quei ragazzi a vivere in pieno la loro vita, con amore, andando “controcorrente”, seguendo le parole del beato Pier Giorgio Frassati: “vivere, non vivacchiare”:
“A me danno tanta tristezza al cuore i giovani che vanno in pensione a 20 anni! Eh, sì! Sono invecchiati presto… Quello che fa che un giovane non vada in pensione è la voglia di amare”.
E questo perché per l’amore si “fa nel dialogo”, non è un sentimento romantico del momento, “è concreto… si sacrifica per gli altri”. E allora bisogna fare scelte radicali, Francesco le indica ai giovani anche a costo di essere impopolare:
“Ma l’amore è molto rispettoso delle persone, non usa le persone, e cioè l’amore è casto. E a voi giovani in questo mondo, in questo mondo edonista, in questo mondo dove soltanto ha pubblicità il piacere, passarla bene, fare bene la vita, io vi dico: siate casti, siate casti”.
Il Papa poi nota che spesso respiriamo un senso di sfiducia. D’altronde, come non potrebbe essere se pensiamo alle guerre, stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi. Un sentimento, la sfiducia, dettato anche dall’ipocrisia:
“A me fa pensare una sola cosa: gente dirigenti, imprenditori che si dicono ‘cristiani’ e fabbricano armi. E quello dà un po’ di sfiducia: ma si dicono ‘cristiani’!”.
Un’ipocrisia che nel secolo scorso è passata anche attraverso l’indifferenza degli Stati: pensiamo alla “grande tragedia dell’Armenia. Tanti milioni sono morti. Dove erano le grandi potenze di allora?" E ancora: la Shoah, perché non intervennero per fermare, bombardando, i treni che portavano ad Auschwitz? Nel pomeriggio, breve fuori programma: nel trasferimento dal Cottolengo a Piazza Vittorio, il Papa si è fermato nella Chiesa di Santa Teresa dove si sono sposati i suoi nonni. Nel corso della breve visita, ha baciato il battistero e ha scritto una piccola dedica con riferimento al valore della famiglia e al prossimo Sinodo.
Il Papa al Cottolengo: scartare gli anziani è peccato sociale grave
Francesco nella Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, conosciuta come “Cottolengo”, ha incontrato gli anziani, i malati e i disabili. Da lui parole di compassione per quelli che ha definito “membra preziose della Chiesa” e di denuncia contro la cultura dello scarto e quel sistema sbagliato che non pone più l’uomo al centro ma il consumo e gli interessi economici. Il servizio di Cecilia Seppia:
La tenerezza, la compassione, la misericordia, in una parola sola l’amore: lo stesso che quasi due secoli fa guidò San Giuseppe Benedetto Cottolengo nell’opera grande di creare la Piccola Casa della Divina Provvidenza per accogliere i poveri, abbandonati e malati, quelli che nessuno voleva. E il Papa ricalca quell’amore, lo rende concreto nei gesti, mentre dice “non potevo venire a Torino senza fermarmi in questo luogo”. Ma poi tuona ancora contro la “cultura dello scarto”, contro chi di fronte al bisogno più estremo volta la faccia dall’altra parte:
“L’esclusione dei poveri e la difficoltà per gli indigenti a ricevere l’assistenza e le cure necessarie, è una situazione che purtroppo è presente ancora oggi. Sono stati fatti grandi progressi nella medicina e nell’assistenza sociale, ma si è diffusa anche una cultura dello scarto, come conseguenza di una crisi antropologica che non pone più l’uomo al centro, ma il consumo e gli interessi economici”.
Tra le prime vittime di questa cultura dello scarto, Francesco cita ancora gli anziani, “memoria e saggezza dei popoli”, la cui longevità, sostiene “non sempre viene vista come un dono” piuttosto “come un peso difficile da sostenere, soprattutto quando la loro salute è fortemente compromessa”.
“Questa mentalità non fa bene alla società ed è nostro compito sviluppare degli “anticorpi” contro questo modo di considerare gli anziani, o le persone con disabilità, quasi fossero vite non più degne di essere vissute. Questo è peccato, è un peccato sociale grave. Qui possiamo imparare un altro sguardo sulla vita e sulla persona umana!”.
Lo stesso sguardo che ha avuto San Giuseppe Cottolengo che “non è rimasto sordo all’appello di Gesù quando chiede di essere sfamato, dissetato, vestito e visitato”. Da lui afferma il Santo Padre possiamo imparare la concretezza dell’amore evangelico, cosicché molti poveri e malati possano trovare una “casa”, “vivere come in una famiglia, sentirsi appartenenti alla comunità e non esclusi”:
“Voi siete membra preziose della Chiesa, siete la carne di Cristo crocifisso che abbiamo l’onore di toccare e di servire con amore. Con la grazia di Gesù voi potete essere testimoni e apostoli della divina misericordia che salva il mondo”.
La ragion d’essere di questa Piccola Casa – ha concluso il Pontefice – non è l’assistenzialismo o la filantropia ma il Vangelo, perciò al centro prima di ogni azione umana deve esserci la preghiera:
“Il Vangelo dell’amore di Cristo è la forza che l’ha fatta nascere e che la fa andare avanti: l’amore di predilezione di Gesù per i più fragili e i più deboli. E per questo un’opera come questa non va avanti senza la preghiera, che è il primo e più importante lavoro della Piccola Casa”.
Infine, nel Cortile interno del Cottolengo, tra la commozione di decine di persone che non hanno trovato posto in Chiesa, il Papa ha accarezzato idealmente ogni malato e ha rivolto il suo grazie a chi, degli ultimi, continua a prendersi cura portando avanti la missione di questo “grande Santo della carità”:
“Vi saluto tutti, vi saluto di cuore! Vi ringrazio tanto, tanto di quello che fate per gli ammalati, per gli anziani e quello che fate con tenerezza, con tanto amore. Vi ringrazio tanto e vi chiedo di pregare per me, pregare per la Chiesa, pregare per i bambini…Pregare per i genitori, per le famiglie, ma da qui pregate per la Chiesa, pregate perché il Signore invii sacerdoti, invii suore, a fare questo lavoro, tanto lavoro!”.
Il Papa ai Salesiani: serve un’educazione a misura di crisi
La necessità di una "educazione a misura della crisi” è stata la priorità indicata da Papa Francesco nell’incontro con la famiglia Salesiana nella Basilica di Maria Ausiliatrice. L’incontro ha aperto il pomeriggio di ieri della visita pastorale a Torino, in occasione dell’Ostensione della Sindone e del bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco. Il servizio del nostro inviato, Amedeo Lomonaco:
Il Papa, parlando ha braccio, ha ricordato il profondo legame della sua famiglia con i Salesiani, la sua formazione imperniata sul modello educativo di don Bosco. Il Pontefice ha detto che i “Salesiani lo hanno aiutato ad affrontare la vita senza paure, ad andare avanti nella gioia e nella preghiera. Oggi i ragazzi più poveri – ha spiegato – hanno bisogno di un’educazione a misura di crisi. E’ necessaria una educazione di emergenza in grado di fornire, in poco tempo le competenze, necessarie per imparare un mestiere:
“Non pensiamo che questi ragazzi di strada, oggi, come stanno lì – io penso alla mia patria, che è dove li conosco – possano andare subito a fare il liceo classico, lo scientifico. Ma diamo loro qualcosa che sia fonte di lavoro”.
E in un mondo segnato dalla piaga della disoccupazione è particolarmente prezioso per i giovani – ha osservato il Pontefice – il modello di formazione proposto dai Salesiani:
“La creatività salesiana deve fare – so che fa, eh?, so che fa abbastanza! – prendere nelle mani queste sfide, queste sfide di oggi: educare. Ma anche portarli alla gioia, con la gioia salesiana, che è un’altra cosa che io ho imparato: quello della gioia salesiana non lo dimentico mai”.
Il pastore Bernardini: col Papa un incontro di fraternità e sincerità
Sullo storico incontro del Papa con i valdesi a Torino, il nostro inviato Fabio Colagrande ha raccolto i commenti del moderatore della Tavola valdese, il pastore Eugenio Bernardini, e di don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo:
D. – Pastore Bernardini, quali prospettive di dialogo si aprono oggi dopo questo incontro definito giustamente “storico”?
R. – Noi ci auguriamo che utilizzando le sedi che già sono state utilizzate fino ad oggi sia per le nostre riflessioni comuni, sia per le nostre decisioni di impegno comune, possano in questo clima essere ancora più efficaci e coraggiose, in particolare mi riferisco alla Conferenza episcopale italiana. Noi abbiamo una buona collaborazione con l’Ufficio ecumenico della Conferenza episcopale italiana e con le parrocchie, con i vescovi locali e poi con l’associazionismo. Una visita come questa, le parole che ci siamo detti, il clima che speriamo di avere comunicato, di fraternità e sincerità, mi auguro che possano superare ancora magari qualche resistenza, qualche preoccupazione, qualche pregiudizio che in entrambe le Chiese possono essere presenti. Nessuna vuole imporre all’altra qualche cosa, ma abbiamo tanto da condividere e tanto da fare insieme.
D. – Come moderatore della Tavola valdese, quanto è importante la richiesta di perdono fatta da Francesco come Papa, come pastore della Chiesa cattolica, nei confronti delle violenze che sono state fatte, non umane, non cristiane, nei confronti dei valdesi, nella storia? Quanto conta questa richiesta?
R. – Le parole sono importanti, soprattutto tra cristiani che si fondano sulla Parola di Dio. Parole dette o non dette, parole sbagliate o parole giuste, fanno la differenza. Questa parola di perdono da Papa Francesco è stata una parola importante che noi accogliamo con gioia anche se vogliamo sottolineare che da parte nostra non sopravvivono più da tempo rancori, preoccupazioni, rivendicazioni, richieste di perdono, perché purtroppo la storia è quella che è. Ciò che è accaduto non si può cambiare, le sofferenze ci sono state, l’esclusione c’è stata, i martiri purtroppo ci sono stati. Ma quello che importa è esserne consapevoli e il Papa con questa sua espressione ce lo ha dichiarato, e essere impegnati a far sì che le cose non si ripetano. Purtroppo la storia ci insegna che nonostante tanto impegno, a volte, quello che non si vorrebbe si ripete e quindi una dichiarazione che può essere ricordata citata e richiamata come questa impegna le nostre Chiese al dialogo e non più al conflitto.
D. – Lei in conferenza stampa ha detto: il Papa dà il tono, però sono altri a scrivere la musica. Cosa intendeva? Voi attendete passi ufficiali da parte della Chiesa cattolica su questi aspetti?
R. – Noi siamo consapevoli che c’è una collegialità, che ci sono procedure, che ci sono organi che devono assumere decisioni e sui temi più prettamente teologici, quelli su cui c’è divergenza da secoli nelle nostra Chiesa si devono esprimere questi organismi collegiali, maturare posizioni, trovare forme per scriverlo. Quindi abbiamo fiducia che delle forme si possono trovare, ma devono essere le forme giuste. Il Papa dà il tono nel senso che incoraggia questo cambiamento.
D. – Don Cristiano Bettega, quale passo in avanti è stato fatto in questo incontro?
R. – Secondo me è stato fatto un passo in avanti molto bello e molto anche commovente se posso dire così, racchiuso nell’appellativo con il quale i due si sono salutati: “fratelli”. Anche un Papa che chiede perdono per tutto quanto la Chiesa cattolica può aver fatto nel passato, anche specificatamente contro la Chiesa valdese: è un fratello che chiede perdono a un altro fratello.
D. - Entrambi, sia il pastore Bernardini sia il Papa, hanno sottolineato tra gli ambiti di collaborazione, al di là delle differenze teologiche, antropologiche, etiche, quello della tutela dei migranti: un segno dei tempi…
R. – Sì, un segno dei tempi. Allora, detto molto sinceramente: se la fortezza Europa - come è stata definita dalla stampa nei giorni scorsi, anche prima dell’incontro di oggi, ritorna un po’ questa espressione - se la fortezza Europa sembra nel suo complesso, onestamente, sorda a questo problema o comunque sembra voler prendere le distanze e pensare soltanto a una sorta di autodifesa, noi come cristiani non possiamo tacere su questo. E’ impensabile che si taccia e dico, appunto, “noi come cristiani”. Se è vero che l’unione fa la forza è vero anche in questo argomento: se un cristiano solo, una Chiesa, una espressione cristiana, dice come la pensa avrà una voce e un impatto senz’altro minore rispetto al fatto se sono due o tre o quattro espressioni cristiane che dicono congiuntamente la stessa cosa. A me ha colpito tantissimo quando il moderatore nel suo saluto ha fatto accenno all’emergenza dei profughi e alla necessità dell’accoglienza che ci viene dal Vangelo e il Papa ha annuito, e a me sembrava di capire, davvero con grande partecipazione, probabilmente perché da quanto si può semplicemente intuire è una cosa che lui tiene assolutamente nel cuore. Ma non deve essere solo il Papa che la tiene nel cuore: deve essere la cristianità che la tiene nel cuore.
Sull’incontro, Fabio Colagrande ha sentito anche il pastore valdese Luca Baratto:
R. - Sicuramente è un momento storico importante per noi. Innanzi tutto è un momento di grande fraternità, non formale, ma autentica, anche in queste parole di perdono che ha espresso Papa Francesco e che noi accogliamo con riconoscenza; ma anche autentico dal punto di vista di chi ce lo ha portato e per questo noi siamo riconoscenti di queste parole.
D. - Quale passo in avanti è stato compiuto oggi concretamente?
R. - Sono stati detti chiaramente due elementi teologici che ancora ci dividono: quello delle comunità ecclesiali e non Chiese e quello dell’ospitalità eucaristica, in realtà collegati tra loro. È importante che in un momento di fraternità si dicano anche francamente alcune cose che rimangono in sospeso e che dal nostro punto di vista evangelico sono pericolosamente in sospeso. Dall’altro lato è stato importante rinnovare un’idea di collaborazione e di impegno della società, soprattutto nei confronti dei migranti. Il cristiano è qualcuno che incontra delle persone. È importante dire che i migranti sono persone; noi li incontriamo per questo, per i loro bisogni, per le loro necessità, e lo facciamo insieme.
D. – Da valdese, che cosa apprezza del magistero di Francesco?
R. – Da valdese apprezzo l’autenticità, il fatto che sostanzialmente la persona viene prima del principio e che c’è questa strana comunanza di Italia-Argentina. I valdesi sono sia in Italia che in Argentina e Uruguay. Quelli che si trovano in Uruguay sono figli di emigrati dall’Italia. È una storia che non è diversa da quella della famiglia di Francesco.
Papa nomina mons. Montemayor nunzio nella Repubblica Democratica del Congo
Papa Francesco ha nominato nunzio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo mons. Luis Mariano Montemayor, arcivescovo titolare di Illici, finora nunzio apostolico in Senegal, Guinea-Bissau e in Capo Verde e delegato apostolico in Mauritania.
P. Zollner: Francesco sempre più impegnato nella lotta agli abusi
E’ in corso alla Gregoriana una conferenza sul tema “Protezione dei minori, un approccio spirituale e teologico”, promosso dal Centro per la protezione dei minori dell'ateneo pontificio, in cui i rappresentanti della Conferenze episcopali di lingua inglese si confrontano sull’impegno nella prevenzione degli abusi sessuali sui minori. Su questo evento, Alessandro Gisotti ha intervistato il presidente del Centro, il padre gesuita Hans Zollner:
R. – Questa volta abbiamo voluto concentrarci su una cosa che, stranamente, per trent’anni e più, nessuno ha preso molto sul serio: cioè la risposta teologica alla crisi degli abusi. Abbiamo dimenticato che c’è anche una dimensione spirituale e teologica, cioè cosa possiamo dire, come questa crisi degli abusi ha stravolto l’immagine della Chiesa, come ha impattato nella nostra relazione con Gesù, come comprendiamo oggi i Sacramenti del sacerdozio e dell’essere vescovi? E quindi, questa è la prima conferenza in assoluto – per quanto ne sappia – che ha come tema unico la risposta teologica e spirituale agli abusi, anche come un’occasione di ripensare la teologia del sacerdozio, del ministero, la missione della Chiesa, la domanda della continua purificazione necessaria affinché noi possiamo proclamare con verità e credibilità la "buona novella" di Gesù.
D. – Il tema della credibilità è proprio fortemente sottolineato da Papa Francesco, che ultimamente lo ha ribadito anche con l’istituzione di una sezione "ad hoc" nella Congregazione per la Dottrina della Fede per giudicare i vescovi in relazione agli abusi…
R. – Certamente. Questa è un’ulteriore conferma che Papa Francesco veramente prende sul serio questa tragedia, questa piaga nel corpo della Chiesa, come diceva Papa Benedetto, una piaga che abbiamo causato noi, nessun altro; Papa Francesco vuole veramente combattere con tutta la sua forza questo, con tutto il suo impegno personale. Dopo l’istituzione della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, l'invito alle vittime di abuso nel cuore della Chiesa, a pochi metri dalla Basilica di San Pietro in Vaticano, questo fa veramente vedere quanto gli prema, personalmente, di andare avanti nell’accettazione di queste ferite, nell’ascoltare le vittime, di dare preferenza a loro e alla loro sofferenza, e soprattutto alle vittime che hanno subito abuso da ministri della Chiesa, dove c’è in ballo anche la possibilità di credere, di fidarsi … Sono continuamente segni molto confortanti, da parte del Papa, che ci sostiene in questo lavoro che non è facile come possiamo immaginare, ma che ci dà anche la possibilità di continuare il suo impegno tramite i nostri strumenti: l’educazione, la formazione dei sacerdoti e anche di tante persone che lavorano con i bambini nelle scuole, negli orfanotrofi e negli asili.
D. – Per quanto riguarda il Centro da lei presieduto alla Gregoriana, ci sono appuntamenti, iniziative già in programma per il futuro, che vuole e può segnalare?
R. – La cosa principale è che continuiamo con il nostro programma on line, cioè una piattaforma di apprendimento tramite Internet, e questo è aperto a istituzioni cattoliche e non cattoliche che vogliano impegnarsi nella formazione dei loro insegnanti, docenti, sacerdoti. Da febbraio 2016 avremo poi un’altra iniziativa, cioè un diploma – un diploma di un semestre – che verrà effettuato qui, alla Gregoriana: un diploma in cui saranno insegnate le materie come riconoscere che un bambino probabilmente ha subito un abuso o è vittima di abuso in questo momento; cosa fare; come rispondere; qual è la situazione della legge canonica e di quella civile nel Paese in cui vivo. Puntiamo a questa possibilità di formare moltiplicatori che poi potranno andare nelle loro diocesi e istituzioni accademiche e istituzioni ecclesiali, per diventare messaggeri di questo impegno che al Papa e a noi sta veramente a cuore.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
In prima pagina, un editoriale del direttore sulla visita del Papa a Torino e, all'interno, i discorsi prounciati dal Pontefice con la cronaca dell'inviato Nicola Gori.
L'Europa cerca il dialogo sull'immigrazione: confronto fra Italia e Francia dopo le tensioni a Ventimiglia.
Bambini vittime dell'Isis: a Mosul i miliziani sequestrano oltre mille minori.
Dialogo fra Tokyo e Seoul: nel cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche.
Accordo di pace nel Mali tra Governo ed ex gruppi armati ribelli.
Attacco talebano in Afghanistan: tra le vittime, donne e bambini
È stato rivendicato dai talebani, su Twitter, l'attacco di questa mattina in Afghanistan, contro il complesso che ospita il parlamento di Kabul: il bilancio è di almeno 2 civili morti e oltre 30 feriti, tra cui donne e bambini; i 7 assalitori sono stati uccisi dalle forze di sicurezza. Ad entrare in azione un kamikaze ed un commando armato, con un’autobomba, cariche esplosive, razzi e armi automatiche. I mujahiddin hanno dichiarato di aver sferrato l’attacco alla Camera bassa “al momento della presentazione del ministro della Difesa”, Mohammad Massoom Stanekzai, scelto dal presidente Ashraf Ghani e noto per aver guidato l'Alto consiglio di pace afghano. Per la sessione parlamentare era in corso anche una diretta tv. L’attentato è stato condannato da Stati Uniti e Pakistan. Giada Aquilino ha intervistato Dario Fabbri, analista della rivista geopolitica ‘Limes’:
R. – Ci può essere una triplice lettura. I talebani sono in questo momento impegnati in un negoziato, sebbene tuttora informale, con le autorità e il governo afghani e questo attacco - nell’ottica talebana - potrebbe rappresentare un rafforzamento del loro potere negoziale nei confronti del governo. Inoltre, sempre secondo i loro calcoli, potrebbe rafforzarne la posizione invece nei confronti del sedicente Stato Islamico. Infatti, benché lo Stato Islamico si stia espandendo lentamente ed abbia acquistato soltanto poche unità di miliziani in Afghanistan e in Pakistan, sembrerebbe in ascesa: nelle ultime settimane ci sono stati violenti scontri tra miliziani afferenti allo Stato Islamico e talebani. Per cui in questa fase - dopo che c’è stata addirittura una lettera inviata al ‘Califfo’ al Baghdadi da parte dei talebani, in cui gli veniva chiesto di allontanare i suoi seguaci dal Paese - l’attacco potrebbe o dovrebbe spaventare anche i gruppi rivali. E infine c’è un’ultima possibile lettura, che è quella riguardante il governo: l’attacco potrebbe servire, oltre a palesare la fragilità delle istituzioni democratiche, anche a impedire la conferma del ministro della Difesa.
D. – I talebani da fine aprile conducono la loro annuale “offensiva di primavera”: questa del 2015 è la prima senza una massiccia presenza delle forze internazionali…
R. - Sì, è la prima. I risultati sono finora altalenanti nel senso che nelle ultime ore sono state conquistate alcune piccole città, alcuni villaggi nella provincia settentrionale di Kunduz ma a differenza di altre occasioni non si è trattato, almeno finora, di un’offensiva in larghissima scala, sebbene abbia avuto dei risultati, nonostante l’assenza delle truppe occidentali nel Paese. E’ difficile in questo momento stabilire il perché di questa ondata relativamente minore ma, come anticipato, ci sono colloqui di pace, sebbene informali, tra il governo afghano e i talebani e una fazione dei talebani - che è quella politica, che risiede in Qatar - probabilmente non vuole spingersi oltre una certa soglia nel momento in cui negozia una possibile soluzione politica alla crisi, che ormai dura da 14 anni.
D. – Tra l’altro, le autorità afghane sperano nell’aiuto del Pakistan per portare i talebani a proseguire le trattative di pace. E’ possibile?
R. – Sembrerebbe di sì. I talebani ormai sono entrati nell’ordine di idee che la soluzione politica, almeno una parziale soluzione politica, unita comunque a una guerriglia, sia l’unica via percorribile. Addirittura si sono detti disponibili a tollerare la presenza sul territorio afghano di truppe americane, almeno fino al 2016, quando dovrebbero lasciare definitivamente il Paese, e anche oltre il 2016 per quanto riguarda il reparto di militari statunitensi preposti a difendere l’ambasciata a Kabul. Queste sono grandi aperture da parte dei talebani che palesano almeno la volontà di negoziare.
D. – Il presidente Ghani proprio nelle ultime ore aveva prorogato i poteri della Camera bassa del Parlamento a causa del mancato svolgimento di nuove elezioni legislative per ragioni finanziarie, politiche, tecniche. Che Paese è oggi l’Afghanistan?
R. – Abbiamo a che fare con istituzioni politiche ancora fragili, con difficoltà di difendere il territorio, ma almeno c’è il vantaggio di avere vicini - dalla Cina alla Russia, al Pakistan e all’India - che hanno l’obiettivo in questo momento di mantenere la stabilità dell’Afghanistan.
A Mosul rapiti 1200 bambini, l'allarme dell'Unicef
Non conosce tregua la violenza sui bambini da parte del sedicente Stato islamico. A Mosul, in Iraq, i jihadisti avrebbero rapito 1.200 minori per addestrarli alla guerra e impiegarli in azioni suicide. Un reclutamento che ormai va avanti da tempo, ma è una crudeltà che bisogna fermare per salvare il futuro dei piccoli chiamati dall’Is “cuccioli del Califfo”. Al microfono di Benedetta Capelli, l’opinione di Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia:
R. – Più di un anno fa, denunciammo che proprio in quella zona di Mosul l’Is avanzava nel silenzio generale e proprio i bambini cominciavano a essere vittime di queste situazione. Purtroppo, ancora una volta registriamo come l’Is, dopo aver per mesi reclutato bambini nelle scuole, utilizzandoli come cuochi, come portatori di armi da una parte all’altra, oggi li rapisce e li porta con sé in moltissime zone. Se questa cifra fosse confermata – perché noi come Nazioni Unite non abbiamo questi numeri – noi possiamo davvero affermare che siamo di fronte a un nuovo ennesimo fenomeno che è quello del rapimento dei bambini che vengono poi assoldati e istruiti a quelle che sono le leggi del Califfo. E’ davvero un fenomeno molto preoccupante, soprattutto perché la sorte di questi bimbi, lo sappiamo per certo, è quella purtroppo di finire violentati oppure in molti casi, e di questo ne abbiamo le evidenze, vengono applicate proprio sul corpo dei bambini piccole targhette con il prezzo.
D. – Abbiamo parlato di una devianza, la mente di questi bambini piccoli viene manipolata per far sì che si crei una generazione di fanatici. E’ veramente un progetto che possiamo definire criminale?
R. – E’ un progetto che indubbiamente ha degli aspetti impressionanti. Noi lavoriamo moltissimo in molte zone della Siria per recuperare questi bambini, attraverso l’istruzione, dai traumi che hanno subito a causa di queste situazioni. Non c’è dubbio che crescere un giovane jihadista vuol dire violare tutte le norme che ci sono nel mondo che fanno riferimento proprio alla protezione, al superiore interesse del bambino. Stiamo assistendo soprattutto attraverso i media e la televisione a questi bambini che dicono che da grandi vogliono fare i jihadisti, vogliono morire con il papà accanto. Se da una parte dobbiamo ascrivere queste cose a ottime strategie che l’Is utilizza per terrorizzare il mondo, dall’altra dobbiamo preoccuparci perchè dicono queste cose e quindi non c’è dubbio che questi siano progetti di tipo criminale, con intento di tipo criminoso. I bambini non possono subire questo tipo di pressione e vivere situazioni come queste.
D. – Quali sono le conseguenze su un bambino che ha subito un tale indottrinamento e allo stesso tempo quali le modalità per recuperarlo?
R. – Dobbiamo pensare sempre all’età del bambino. Però, se i bambini sono molto piccoli è chiaro che le conseguenze saranno quelle che, crescendo con questo tipo di educazione, saranno votati a questa causa. Recuperarli vuol dire ridare una normalità, vuol dire dare loro istruzione, portarli a scuola, intervenire su traumi che sono profondi e dai quali spesso non si esce. E’ un po’ come le bambine yazide finite nelle mani dell’Is. Queste bambine hanno subito violenze di tutti i tipi, oggi quelle che noi siamo riuscite a recuperare tornano alla normalità dopo periodi molto lunghi nei quali raccontano anche a noi quello che hanno subito. Non si può incitare un bambino a uccidere altre persone. Non si può indottrinare soprattutto un bambino a uccidersi, perché poi quello che accade è l’utilizzo di questi bambini come kamikaze. Questo non avviene solo con l’Is, ma è avvenuto e avviene con Boko Haram e in Sud Sudan. Bisogna cercare di riuscire a liberarli perché vivono in situazioni di rapimento ma dall’altra parte iniziare anche un lungo percorso di recupero che non è facile.
D. – Secondo il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, il 2014 è stato uno dei peggiori anni per quanto riguarda la presenza dei bambini in guerra…
R. – Questo è l’annus horribilis per i bambini: 67 milioni di bambini vivono in contesti di guerre. Tra questi i peggiori sono in Siria dove c’è una guerra che dura da cinque anni e che ha prodotto oltre due milioni di bambini rifugiati e centinaia di migliaia di bambini uccisi. Ma non dobbiamo dimenticare l’Iraq dopo il fenomeno Is dove ci sono due milioni e mezzo di bambini che sono fuggiti dalla guerra. Ma a questo aggiungiamo un anno fa ad esempio 500 bimbi uccisi a Gaza e le situazioni che si verificano tuttora in Sud Sudan. Giorni fa abbiamo denunciato oltre 200 bambini evirati e lasciati morire per strada, come le bambine di otto anni violentate ad opera dei gruppi armati in Sud Sudan. Per non parlare del Centrafrica dove ci sono oltre un milione di bambini che fuggono dalla guerra civile e quelli che in Nigeria sono terrorizzati dalle scorribande di Boko Haram. Per la prima volta assistiamo, storicamente, a un utilizzo dei bambini come strumento di guerra in tutti i sensi: non solo reclutati come soldati ma anche uccisi per poter dimostrare alla parte avversa quanto è crudele e potente il messaggio che vuole inviare la parte che li utilizza.
Abbas esclude che Hamas sarà in prossimo governo
"Il fatto che Israele non ha rivisto la pratica dei raid aerei, neanche dopo che i loro effetti sui civili erano diventati evidenti, solleva la questione se questa fosse parte di una politica più ampia approvata, almeno tacitamente, dai più alti livelli del governo israeliano". Così si legge nel rapporto della Commissione d'inchiesta Onu sulla guerra a Gaza nel 2014. Intanto, sul fronte palestinese, il presidente della Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas (detto Abu Mazen), ha dichiarato che nel nuovo governo palestinese non c’è posto per Hamas. Lo ha detto al ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, che in questi giorni si trova in Medio Oriente per rilanciare i colloqui di pace tra Israele e Palestina. E’ durato solo un anno il governo di unità nazionale palestinese nato proprio a giugno 2014. Della presa di posizione di Abbas, Fausta Speranza ha parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:
R. – Probabilmente denota la difficoltà che Abu Mazen ha, insieme ai suoi collaboratori, all’interno dell’Autorità nazionale palestinese. La scelta di annunciare pubblicamente di non coinvolgere Hamas nel governo denota sicuramente questa debolezza, soprattutto in un momento in cui ci sono voci, che però non vengono smentite dalle parti, secondo le quali il governo israeliano e Hamas stanno segretamente trattando per una tregua di almeno cinque anni.
D. – In questo momento, qual è punto centrale del braccio di ferro?
R. – Sicuramente, tra Hamas e Fatah è una vecchia questione su chi deve avere la leadership all’interno del movimento palestinese. Chi è più radicale, come Hamas, o chi è più possibilista, come Fatah, sicuramente ha obiettivi diversi, soprattutto ha obiettivi anche di riconoscimento internazionale e da questo punto di vista Fatah e Abu Mazen hanno il riconoscimento internazionale ma lo ha molto meno Hamas: Hamas ha dei riconoscimenti da parte di Stati che sicuramente non si distinguono per democrazia ma anzi per radicalità.
D. – Ancora una volta dobbiamo fotografare una spaccatura all’interno del mondo palestinese?
R. – Assolutamente sì; non c’è mai stata un’unità. Ecco, io sottolineerei il fatto che in questo momento non solo c’è una spaccatura, ma non c’è mai stata nella storia del movimento palestinese una unità, anche con la presenza di leader molto più carismatici come Yasser Arafat: anche in quel momento, anche all’interno dell’Olp ci sono state sicuramente delle correnti che mettevano in difficoltà la stessa leadership di Arafat. In questo momento, in cui non c’è una figura carismatica da vero leader all’interno del movimento palestinese, la questione diventa assolutamente più complicata e più difficile. C’è il problema, quindi, con chi bisogna trattare per un possibile trattato di pace o nuovi armistizi.
D. – Ufficialmente, i due movimenti hanno le stesse idee su come trattare con Israele: è così?
R. – Sì e no. Dico subito il ‘no’ perché nello statuto di Hamas compare ancora la questione del non totale riconoscimento di Israele: Israele a volte non viene neanche nominato, a volte si usa ancora la vecchia terminologia di “entità sionista” … Un po’ quello che fa l’Iran. Tale questione è stata invece messa da parte da Fatah e da Abu Mazen e quindi da questo punto di vista sono su posizioni diverse. Invece, le posizioni comuni sono quelle di fare più pressioni possibili, soprattutto in campo internazionale, e questo lo può fare soltanto Fatah, nei confronti dello Stato ebraico su varie questioni come per esempio quella dei nuovi insediamenti.
D. - Volevo dire anche il punto di vista, in questo momento, in questa fase, di Israele, rispetto al processo dei colloqui di pace …
R. – Il fatto che abbia vinto ancora una volta Netanyahu denota che la popolazione israeliana è alla ricerca di una sicurezza, vista anche la frammentazione del mondo politico israeliano – mai come in questo momento è frammentato, non ci sono dei punti di riferimento – fanno emergere la figura di Netanyahu e del Likud come partito che potrebbe assicurare una certa sicurezza al popolo israeliano. La presenza di Netanyahu, ufficialmente porta a dichiarare che non ci saranno mai accordi o saranno molto in là nel tempo, con l’Autorità nazionale palestinese; ma naturalmente l’esperienza e la storia ci hanno insegnato che Israele e i Palestinesi non smettono mai – mai! – di parlarsi.
Family Day. Gambino: prova di democrazia, politica risponda
A due giorni dal grande successo della manifestazione “Difendiamo i nostri figli. Stop al gender nelle scuole”, che sabato scorso ha riempito Piazza San Giovanni in Laterano a Roma con centinaia di migliaia di persone, è tempo di bilanci. Tra gli effetti della mobilitazione c’è lo slittamento a domani del parere del governo sul ddl Cirinnà in materia di unioni civili e adozione per coppie omosessuali. Ma qual è stato il valore del Family Day 2015? Paolo Ondarza lo ha chiesto al giurista Alberto Gambino, docente di Diritto privato e di Diritto civile all'Università Europea di Roma:
R. - Il valore è rilevantissimo. Quando scendono in piazza dei cittadini vuol dire che la nostra democrazia è molto viva, tanto più se, come nel caso specifico, scendono in piazza pacificamente, con tanti colori, con tanti bambini, per promuovere dei valori che sono insiti nel nostro dna italiano.
D. – E’ stata una manifestazione spontanea partita dal basso; una manifestazione annunciata, ma il cui esito era piuttosto incerto …
R. - Sì, infatti ho colto con grande interesse che siano stati i laici a promuoverla; i pastori della Chiesa hanno seguito da vicino questa manifestazione, ma non sono stati loro i promotori. Questo è un momento di maturazione anche del laicato cattolico e non solo, probabilmente, perché da quello che ho riscontrato erano presenti anche tanti non cattolici. E che il laicato italiano si renda conto della propria responsabilità civile, questa è anche una speranza per la dimensione politica del futuro e dell’impegno dei cattolici in politica.
D. - Si manifestava contro l’ideologia di gender nelle scuole, in particolare contro il ddl Fedeli, e il ddl Cirinnà in materia di unioni civili, sul quale domani il governo esprimerà un parere in vista poi della discussione dei duemila emendamenti. La piazza può in qualche modo influire sulla politica a questo punto?
R. - Sì, la piazza può influire sulla politica intelligente. Ritengo che questo governo sia pieno di intelligenze, a cominciare dal premier, e non possa essere indifferente verso coloro che sono scesi in piazza, ma anche verso i tanti milioni che erano a casa e che la pensano allo stesso modo. Oggi, quel ddl Cirinnà non è accettabile perché introduce giuridicamente la piena equiparazione tra il matrimonio civile e le unioni tra omosessuali; è l’anticamera per l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali.
D. - Su questi temi il clima è accesissimo. La firmataria del ddl sulle unioni civili, Monica Cirinnà, ha parlato della manifestazione di sabato come di un’Italia medievale. Ma secondo lei ci si può confrontare su questi temi in modo sereno, più pacato?
R. - Il Partito democratico aprirà senz’altro una riflessione su questo tema, perché è pacifico che un partito popolare con tanti milioni di elettori non può rappresentare solo una piccola parte, tra l’altro ispirata soprattutto da élite culturali; quindi anche queste reazioni penso che lascino un po’ il tempo che trovano. Andrà verificato, all’interno di quel partito, se davvero tutte le posizioni sono schiacciate su questa reazione della Cirinnà. Io confido che non sia così.
D. – Il Family Day è stata una manifestazione "inaccettabile" secondo Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme e primo firmatario del ddl sul contrasto all’omofobia…
R. - Sì, quello infatti è il terzo disegno di legge su cui sabato si manifestava - non a favore ovviamente – e che riguarda omofobia e transfobia. Il vulnus maggiore di questo disegno di legge è che abbiamo davanti delle definizioni dai confini molto vaghi, sui quali si introducono dei reati! Non è possibile che quei reati si riferiscano a degli oggetti così vaghi, perché omofobia e transfobia può significare tutto, da una libera manifestazione del pensiero fino a dati di discriminazione molto più significativi.
D. - A questo punto su questi temi, su questi provvedimenti di cui abbiamo parlato, l’Italia per tenere fede alla tradizione di Paese democratico quale è, cosa deve fare?
R. - Deve proseguire il dibattito. Il valore aggiunto della manifestazione di sabato è stato che finalmente si è scoperchiato un tema: il gender, che si stava introducendo nelle scuole in modo – mi si passi l’espressione – surrettizia, perché non c’era un dibattito adeguato. L’Italia è un Paese democratico e quindi ha voluto aprire un dibattito con una piazza positiva, colorata che porterà sicuramente qualcosa di buono.
In un volume Lev gli atti del Convegno su Costantino
La Libreria Editrice Vaticana omaggia uno dei maggiori protagonisti della storia del cristianesimo e dell’Europa, Costantino I. È stato presentato un libro che raccoglie gli atti di un Convegno dedicato all’imperatore nel 2012, a 1700 anni dalla sua conversione. Il servizio di Corinna Spirito:
A 1700 anni dalla sua conversione, Costantino resta un personaggio fondamentale per la nascita dell’Europa. Lo conferma l’attenzione del Pontificio Comitato di Scienze Storiche che a lui ha dedicato un nuovo libro, “Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa”. Edito dalla Libreria Editrice Vaticana, e curato da padre Enrico dal Covolo e dalla profe.ssa Giulia Sfameni Gasparro, il volume è di grande importanza storica in quanto raccoglie gli atti del Convegno del 2012 dedicato all’imperatore romano. Lo ha detto padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche:
“Possiamo dire che, attraverso queste pagine, si può studiare un momento cardine della storia dell’Europa e, si deve dire, anche della storia del mondo”.
A confermare le parole di padre Ardura anche il cardinale Paul Poupard:
“Devo confessare che, su Costantino il Grande, credevo di sapere molto, ma ho imparato non poco. 1700 anni di distanza cronologica così grande da fatti – quella famosa battaglia di Monte Milvio e la conversione di Costantino – che invece tuttora, oggi, sono attivi nella vita della nostra Europa. E, dunque, questo per me è il grande pregio del libro, che riflette su quale era lo stato dell’Impero Romano a quell’epoca, vedendo in modo molto preciso cosa era successo con i precedenti imperatori e come uno che era in carica potesse dare il suo giudizio critico anche sulle persecuzioni che avevano fatto i suoi predecessori sui cristiani, constatando che invece di essere strumento di unità nel regno, erano stati tutto il contrario. Allora, invece di perseguitare i cristiani per l’unità dell’Impero, si riconosceva dunque l’importanza della fede cristiana per l’unità, mettendo in risalto così che motivo delle persecuzioni era un fatto sociopolitico. Per me, dunque, una bellissima pubblicazione, in tutti i sensi della parola ‘bellissima’”.
“Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa” è dunque un volume di alto interesse storico, ma non solo. Il cardinale Poupard crede che questo libro possa far ricordare i valori che uniscono l’Europa:
“L’Europa di oggi fa fatica a riconoscere proprio le sue radici cristiane e fa fatica anche ad ammettere la presenza pubblica della religione. Mi auguro che la lettura, la conoscenza di questi atti, aiuti anche qualche responsabile politico a riflettere un po’ su questo. Lo diceva il Santo Padre Giovanni Paolo II: ‘Senza le radici, muore l’albero’”.
Ricordare Costantino il Grande allora non è soltanto responsabilità storica, ma anche un compito fondamentale per costruire il nostro presente.
India. Chhattisgarh: aggredita e molestata suora cattolica
Una suora cattolica di 47 anni è stata aggredita e molestata da un gruppo di uomini nella notte del 19 giugno scorso al Krist Sahaya Kendra, una casa di cura di Raipur (Chhattisgarh). La religiosa, appartenente alle Missionarie salesiane di Maria Immacolata (Smmi) - riferisce l'agenzia AsiaNews - è stata trovata legata, incosciente e seminuda nelle prime ore del mattino del 20 da altre due ragazze che vivono con lei nel Centro. La suora si trova ora ricoverata in un ospedale dello Stato. La polizia sta indagando e ha assegnato a due poliziotte il compito di interrogare la vittima, per aiutarla a ricostruire l’aggressione.
La religiosa è in stato confusionale
Non è ancora chiaro se abbia subito una violenza sessuale oppure no. La religiosa si trova ancora in stato confusionale a causa del trauma. Secondo la sua prima testimonianza, due uomini a volto coperto sarebbero entrati nella sua stanza in cerca di denaro e oggetti di valore. Non trovando nulla, l’avrebbero aggredita. Tuttavia, la polizia ha rinvenuto 25mila rupie in una credenza della sua stanza, mettendo in dubbio che una rapina possa essere stato il movente dell’attacco.
Il vescovo: è un crimine contro la dignità delle donne dell’India
Mons. Theodore Mascarenhas, vescovo ausiliare di Ranchi (Jharkhand), afferma ad AsiaNews: “Questo non è solo un crimine contro una suora cristiana. È un crimine contro la dignità delle donne dell’India. Esso dimostra una totale mancanza di rispetto per le nostre madri, le nostre sorelle e le nostre figlie. Ma, soprattutto, questi eventi ci allarmano come cittadini di una grande nazione, che per tradizione è conosciuta per la sua tolleranza religiosa”. Il presule, ex funzionario del Pontificio consiglio per la cultura, sottolinea: “Sono così triste che l’immagine dell’India nel mondo sia macchiata a causa di questi crimini incontrollati. Ci si può solo chiedere dove siano finite le promesse del governo, dal momento che sembra sempre più debole o perfino insensibile. Per il suo bene è tempo che il governo si svegli dal letargo e dalla sua indifferenza. Vogliamo protezione per tutti quelli che sono vulnerabili nel nostro Paese. Non vogliamo sentire ancora che si tratta di piccoli criminali. E, se anche fosse così, un governo che non riesce a fermare questi criminali è esso stesso meschino”.
L'aggressione svaluta la dignità e la sicurezza delle donne
Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), dichiara ad AsiaNews: “Il Gcic condanna l’aggressione a questa suora nei termini più forti, è un gesto disumano e orribile. Questo sordido episodio non è isolato e la lentezza della macchina della giustizia aggrava il trauma e contribuisce e perpetrare questo male”. “Nel nostro Paese – sottolinea – se da una parte le donne vengono venerate come divinità, dall’altra nella società sono svalutate e indebolite nella loro dignità e sicurezza”.
I vescovi dell'India chiedono al governo maggiore protezione per i missionari
Attraverso un comunicato ufficiale, la Conferenza episcopale dell’India (Cbci) ha esortato “il governo del Chhattisgarh e il governo centrale ad agire con rapidità per catturare i colpevoli coinvolti in questo crimine odioso e a fornire adeguata sicurezza e protezione ai missionari cristiani, il cui servizio indefesso per i poveri è stato ampiamente acclamato da tutta la società civile indiana”. “Simili episodi di violenza sulle minoranza, e in particolare sulle donne, offusca l’immagine del nostro Paese nella comunità internazionale, oltre a porre serie domande su quanto siano al sicuro oggi in India le minoranze”. (N.C.)
Terra Santa: riaperta chiesa Moltiplicazione. Proteste contro attentato
Migliaia di cristiani di Galilea si sono radunati ieri presso la chiesa del miracolo della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Tabgha, fatta oggetto giovedì scorso di un attentato incendiario attribuibile a coloni estremisti ebrei. Doveva trattarsi di un incontro di preghiera raccolto e silenzioso, da tenersi in margine alla riapertura della chiesa per la Messa domenicale, dopo i giorni dedicati alla stima dei danni da essa subiti. Poi i toni si sono accesi e il raduno ha assunto la fisionomia di una manifestazione di protesta, con centinaia di giovani che hanno bloccato le strade portando con sé croci e bandiere bianche e gialle del Vaticano, mentre si cantavano inni in onore di Gesù e di Maria.
Alla celebrazione anche delegazioni druse e musulmane
La Messa è stata celebrata da Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme dei Latini. Molti alti responsabili delle rappresentanze diplomatiche presso Israele – riferiscono i media legati al Catholic Studies and Media Center – hanno condannato l'attentato incendiario e hanno ribadito che continueranno a seguire gli sviluppi dell'indagine iniziata per identificare gli esecutori dell'atto intimidatorio contro la chiesa. Alla celebrazione ha preso parte anche il vice-ambasciatore Usa in Israele, William Grant, mentre la comunità monastica benedettina residente nel Santuario ha accolto delegazioni druse e musulmane venute per esprimere in maniera pubblica la propria solidarietà davanti all'attacco subito.
Ancora ignoti i responsabili dell'attentato
Le indagini iniziate dalle forze di polizia israeliane non hanno ancora condotto all'identificazione dei responsabili e degli autori del gesto criminale. Dopo l'attentato, sui muri della chiesa sono state trovate delle scritte tracciate in ebraico che riportano il passaggio di una preghiera recitata tre volte al giorno dagli ebrei praticanti, in cui si chiede a Dio di annientare gli idoli e i pagani.
Profanazioni compiute da gruppi di coloni ebrei
Per modalità di esecuzione, l'attacco intimidatorio alla chiesa di Tabgha è assimilabile alle numerose profanazioni compiute da gruppi di coloni ebrei estremisti a danno di monasteri, chiese e cimiteri cristiani a partire dal febbraio 2012. Da allora, siglandosi spesso con la formula “il prezzo da pagare” (price tag), militanti oltranzisti di gruppi vicini al movimento dei coloni hanno portato attacchi anche contro moschee frequentate dagli arabi palestinesi di religione islamica. (G.V.)
Vescovi liguri: aprirsi all'accoglienza dei migranti
“Anche alla nostra terra è richiesto di accogliere un numero crescente di donne, uomini e minori che sbarcano sulle coste del Paese, visto come ‘porta d’Europa’, da loro sognato come rifugio e speranza”. Lo scrivono i vescovi delle diocesi liguri, che sentono il “dovere” - riferisce l'agenzia Sir - di rivolgersi ai fedeli, e a tutte le persone di buona volontà della Regione, in merito alla situazione che si è creata a seguito dell’onda migratoria dall’Africa e dal Medio Oriente. Anche la Liguria, come il resto d’Italia, è, infatti, fortemente interessata dall’arrivo di molti profughi.
Fratelli e sorelle duramente provati e alla ricerca di una vita migliore e più sicura
“La Liguria è terra di confine, e alcune zone vivono particolari esperienze di passaggio verso altre Nazioni europee, passaggi resi difficoltosi o, addirittura, impediti”, sottolineano i vescovi che fanno “decisamente” loro “gli inviti all’accoglienza che ripetutamente Papa Francesco rivolge. Sono dettati dal più autentico spirito evangelico”. “Chiediamo ai fedeli delle nostre Chiese, ai fratelli cristiani e a tutti - chiariscono i presuli -, di tenere aperto il cuore a questi fratelli e sorelle in umanità, così duramente provati e alla ricerca di una vita migliore e più sicura. Per questo motivo è richiesta la disponibilità e la collaborazione di chi ospita e di chi è ospitato”.
Atteggiamenti di paura costruiscono muri e non ponti
“Siamo consapevoli che l’attuale situazione è complessa e che ci sono responsabilità di portata planetaria. Ma siamo anche convinti che atteggiamenti ispirati dalla paura e dal pensare solo a se stessi non favoriscono la soluzione del problema. Anzi, l’aggravano perché costruiscono ‘muri’ anziché ‘ponti’”, osservano i presuli liguri. Come Regione “di confine” chiedono “con fermezza che l’Europa si coinvolga con fatti concreti, tempestivi e adeguati a questo dramma umanitario e non lasci solo il nostro Paese. Se l’Europa vuole essere ‘casa comune’ deve dimostrarlo, come pure la cosiddetta ‘comunità internazionale’. Finora, ha mostrato un cuore duro e indifferente verso questo esodo forzato e disumano”.
I vescovi auspicano un'accoglienza accompagnata da rispetto, sicurezza e legalità
"Da tempo le nostre diocesi sono impegnate nell’offrire spazi residenziali e nel prestare assistenza - scrivono i presuli - affiancandosi ad altri organi e gruppi di volontariato”. A tutti esprimono “apprezzamento, gratitudine e, in non pochi casi, ammirazione per la dedizione generosa” e rinnovano “la disponibilità a collaborare con le Istituzioni”, “per il bene di tutti”. “Siamo certi che il Signore Gesù, che ha vissuto personalmente l’esperienza del bimbo profugo e si è riconosciuto nello straniero bisognoso di accoglienza, non ci farà mancare il suo aiuto”, concludono i vescovi. (R.P.)
Nigeria: libero senza riscatto sacerdote rapito l’8 giugno
È stato liberato don Emmanuel Akingbade, il parroco di San Benedetto d’Ido-Ekiti (nel sud-ovest della Nigeria), sequestrato l’8 giugno. Lo ha confermato alla stampa locale mons. Felix Ajakaye, vescovo di Ekiti, precisando che il sacerdote è stato liberato il 16 giugno dopo un negoziato con i rapitori. Questi ultimi - riferisce l'agenzia Fides - avevano chiesto una forte somma di denaro per liberare don Emmanuel, ma il vescovo ha detto loro che la Chiesa non è un’istituzione a fini di lucro e che quindi non ha grandi disponibilità economiche.
Celebrata una Messa di ringraziamento
Mons. Ajakaye ha affermato che non è stato pagato alcun riscatto per ottenere la liberazione di don Emmanuel, ma non ha aggiunto altri dettagli. La Chiesa di Ekiti ha celebrato una Messa di ringraziamento nella cattedrale di San Patrizio di Abuja. (L.M.)
Filippine. Card. Quevedo: “Disarmo Milf passo verso la pace"
L’inizio del processo di disarmo dei militanti islamici del “Moro Islamic Liberation Front” (Milf) è “un passo che può sembrare piccolo, ma ha la sua importanza, non deve essere ignorato”: è il pensiero del card Orlando Quevedo, arcivescovo di Cotabato, che ha definito l’avvio del disarmo dei guerriglieri “una prova della sincerità del Milf nel processo di pace”.
Gesto importante per sostenere gli sforzi di pace
Il Fronte ha simbolicamente consegnato nei giorni scorsi 75 armi da fuoco ad un organismo indipendente, con il Presidente delle Filippine Benigno Aquino III e il presidente del Milf, Al Haj Murad, come testimoni dell'evento. Secondo gli osservatori, il numero di armi consegnato non arriva nemmeno al 10% del totale detenuto. Come riferisce l'agenzia Fides, secondo il card. Quevedo, “è comunque un passo importante, che dovrebbe convincere il pubblico a sostenere gli sforzi di pace tra il governo e il Milf”.
Primo tappa di un disarmo definitivo
Secondo il protocollo di intesa firmato tra le parti, la consegna di una seconda tranche del 30% delle armi del Milf avverrà solo dopo che in Parlamento sarà approvato il controverso disegno di legge sulla “Bangsamoro Basic Law” che prevede l’istituzione di una nuova ed estesa regione islamica sull’isola di Mindanao, nelle Filippine del Sud. Un ulteriore 35% delle armi in mano ai ribelli, secondo l’accordo, sarà consegnato dopo che il “governo Bangsamoro” sarà stato ufficialmente formato e istituito. Infine ci sarebbe la consegna del restante 35%, che comporterebbe la rinuncia definitiva del Milf all’azione bellica. Il disarmo dei guerriglieri è stato previsto con la firma della pace avvenuta a Manila il 27 marzo 2015, che ha messo fine a una lunga e sanguinosa guerra civile e avviato un processo di riconoscimento della regione autonoma di Bangsamoro. (P.A.)
Venezuela: per scioperi della fame chiesto intervento della Chiesa
L'arcivescovo di Merida, mons. Baltazar Enrique Porras Cardozo, ha incontrato ieri i giovani in sciopero della fame a Mérida, recandosi nella chiesa di El Llano. Poi ha ricevuto una loro lettera in cui chiedono l'intervento della Chiesa come portavoce dinanzi al governo.
Neppure la Croce Rossa è stata autorizzata ad assistere i prigionieri
La lettera - riferisce l'agenzia Fides - riporta la situazione del Paese, dove sono ormai 12 gli Stati venezuelani, su 23, in cui si stanno svolgendo manifestazioni di giovani e adulti in sciopero della fame per chiedere al governo la liberazione dei prigionieri politici. Nel testo si afferma inoltre che neanche la Croce Rossa è stata autorizzata ad assistere i prigionieri.
Tra gli studenti in sciopero della fame, tentativi di suicidio
Il Venezuela continua quindi la tensione fra gruppi organizzati che chiedono al governo una risposta definitiva sulla situazione dei cosiddetti “prigionieri politici”, che per il governo "non esistono". La richiesta del gruppo di Mérida è indirizzata alla Conferenza episcopale e alla nunziatura, e viene fatta, sempre secondo gli studenti in sciopero della fame, perché il gruppo dei prigionieri è ormai arrivato al limite della sopportazione. Sembra infatti che ci siano stati dei tentativi di suicidio, le cui cause non sono state rese note: si ipotizza per motivi di pressione psicologica, per depressione o per tortura psicologica di chi gestisce il Centro di reclusione. (C.E.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 173