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Sommario del 10/06/2015
- Francesco: non lasciamo le famiglie sole nella malattia
- C9: tutela minori e nuovo Dicastero che integrerà media vaticani
- Nomina episcopale in Brasile
- Papa, titolo Enciclica: “Laudato si’, sulla cura della casa comune”
- Fisco, accordo antievasione tra Santa Sede e Usa
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Mons. Galantino: no a gender, uniti nel difendere la famiglia
- Immigrati a Belluno, il Nord che integra con intelligenza
- In Iraq allarme umanitario senza precedenti
- Libia: l'Is conquista Sirte e si affaccia sul Mediterraneo
- Banche: HSBC taglia 50 mila posti di lavoro e va in Asia
- Reato tortura. Amnesty e Antigone: approvare subito legge
- Stop gender nelle scuole. La testimonianza di un padre
- Morricone: la mia "Missa", omaggio ai Gesuiti e a Francesco
- Torino. Al Museo del cinema una mostra sul Neorealismo
- Iraq: patriarca Sako a un anno dalla caduta di Mosul
- Sud Sudan. Appello del Consiglio delle Chiese: mai più la guerra!
- Nepal: dopo il sisma a rischio migliaia di donne incinte e bambini
- Suora in Sud Corea: preoccupazione per il virus Mers
- Bartolomeo I: in silenzio mettiamoci in ascolto della natura
- Svizzera: Plenaria dei vescovi su Sinodo e Giubileo
Francesco: non lasciamo le famiglie sole nella malattia
La malattia, che tocca gli affetti più cari: ne ha parlato stamane il Papa all’udienza generale in piazza S. Pietro, proseguendo nel ciclo di catechesi dedicate alla famiglia. Nella prova della malattia - ha raccomandato Francesco - non lasciamo sola la famiglia. Il servizio di Roberta Gisotti:
“Con un di più di sofferenza e di angoscia”, così viene vissuta la malattia in famiglia. E’ l’amore - ha spiegato il Papa - che ci fa sentire questo “di più”. Quante volte “per un per un padre e una madre, è più difficile sopportare il male di un figlio, di una figlia, che non il proprio”, ha aggiunto Francesco, ricordando come la famiglia sia sempre stata “l’ospedale più vicino”:
“Ancora oggi, in tante parti del mondo, l’ospedale è un privilegio per pochi e spesso è lontano. Sono la mamma, il papà, i fratelli, le sorelle, le nonne che garantiscono le cure e aiutano a guarire”.
Tanti gli episodi nei Vangeli che “raccontano gli incontri di Gesù con i malati e il suo impegno a guarirli”:
"Se penso alle grandi città contemporanee, mi chiedo dove sono le porte davanti a cui portare i malati sperando che vengano guariti! Gesù non si è mai sottratto alla loro cura. Non è mai passato oltre, non ha mai voltato la faccia da un’altra parte".
“La guarigione veniva prima della legge, anche di quella così sacra come il riposo del sabato”:
“I dottori della legge rimproveravano Gesù perché guariva il sabato, faceva il bene il sabato … Ma l’amore di Gesù era dare la salute, fare il bene. E questo è al primo posto, sempre!”
Ecco il compito della Chiesa, ha detto il Papa:
“Aiutare i malati, non perdersi in chiacchiere, aiutare sempre, consolare, sollevare, essere vicino ai malati;”
Il Papa poi, rievocando la pagina evangelica della donna pagana che supplica con insistenza Gesù e ottiene, dopo un primo rifiuto, la guarigione della figlia, ha invitato alla preghiera continua per i propri cari colpiti dal male:
“La preghiera per i malati non deve mai mancare. Anzi dobbiamo pregare di più, sia personalmente sia in comunità”.
Quindi, la raccomandazione a “educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia”:
“Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano 'anestetizzati' verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite”.
Quante volte, ha detto Francesco, vediamo arrivare al lavoro uomini e donne stanchi dopo notti insonni per avere assistito un malato in famiglia:
“Quelle eroicità nascoste che si fanno quando uno è ammalato, quando il papà, la mamma, il figlio, la figlia … E si fanno con tenerezza e con coraggio”.
“La debolezza e la sofferenza dei nostri affetti più cari e più sacri - ha aggiunto il Papa - possono essere, per i nostri figli e i nostri nipoti, una scuola di vita”, se accompagnate da “preghiera” e da “vicinanza affettuosa e premurosa dei familiari.
Infine un appello alla solidarietà:
“La comunità cristiana sa bene che la famiglia, nella prova della malattia, non va lasciata sola”.
E un grazie:
“Questa vicinanza cristiana, da famiglia a famiglia, è un vero tesoro per la parrocchia; un tesoro di sapienza, che aiuta le famiglie nei momenti difficili e fa capire il Regno di Dio meglio di tanti discorsi! Sono carezze di Dio. Grazie”.
C9: tutela minori e nuovo Dicastero che integrerà media vaticani
Tutela dei minori e riforma dei media vaticani. Questi alcuni argomenti trattati alla decima riunione del Consiglio dei nove cardinali iniziata lunedì scorso alla presenza del Papa e conclusa stamattina. In Sala Stampa della Santa Sede, il direttore, padre Federico Lombardi, ha fatto il punto sugli incontri del cosiddetto C9, istituito per aiutare il Pontefice nel governo della Chiesa universale e per studiare una riforma della Curia Romana. Il servizio di Giada Aquilino:
Il Consiglio dei nove cardinali ha ascoltato la relazione del cardinale Sean Patrick O'Malley, presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, sulla proposta “riguardo alle denunce di abuso d'ufficio episcopale”, preparata dallo stesso organismo. La relazione ha compreso anche “una proposta sul tema delle denunce di abusi sessuali su minori e adulti vulnerabili da parte del clero”.
Tutela dei minori
Tali documenti sono stati approvati dal Papa, che – ha riferito padre Lombardi – ha concesso l'autorizzazione affinché “siano fornite risorse adeguate per conseguire questi fini”. Stabilito quindi “che la competenza a ricevere ed esaminare le denunce di abuso d'ufficio episcopale appartenga alle Congregazioni per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli, o per le Chiese Orientali e tutte le denunce debbano essere presentate alla Congregazione appropriata”. Previsto anche un altro punto, ha aggiunto il portavoce vaticano:
“Che il Santo Padre dia un mandato alla Congregazione per la Dottrina della Fede per giudicare i vescovi in relazione ai delitti di abuso di ufficio. Quindi, le denunce alle tre Congregazioni, ma il giudizio viene poi attuato dalla Dottrina della Fede che - come sappiamo - ha anche una sua natura di tribunale”.
Autorizzata pure l'istituzione di una nuova Sezione Giudiziaria all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede, la nomina di personale stabile, di un segretario per assistere il prefetto riguardo al Tribunale. Previsto un periodo di cinque anni, in vista di ulteriori sviluppi delle proposte, ma padre Lombardi ha sottolineato già la novità delle nuove disposizioni:
“Nel Codice di Diritto Canonico probabilmente c’erano degli elementi, ma finora non c’era una procedura, non c’era un’indicazione di competenze specifiche. Quindi, questo è un passo molto importante”.
Riforma dei media vaticani
Per quanto riguarda la riforma dei media della Santa Sede, dopo la relazione tenuta al Consiglio da mons. Dario Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano e presidente della Commissione per i mezzi di comunicazione vaticani, è stato presentato un progetto di riforma in quattro anni, che prevede “la salvaguardia del personale e una graduale integrazione delle istituzioni”:
“Le istituzioni coinvolte sono il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, la Sala Stampa, la Radio Vaticana, il Centro Televisivo Vaticano, l’Osservatore Romano, il Servizio Fotografico, la Libreria Editrice Vaticana, la Tipografia Vaticana e il Servizio Internet. Quindi, tutte le istituzioni di tipo mediatico, comunicativo rientrano in questo progetto. Il Consiglio di cardinali esprime al Santo Padre Francesco un parere positivo e questo anche per quanto riguarda la tempistica proposta, che prevede nei prossimi mesi la costituzione del Dicastero e le nomine necessarie per l’avvio del processo. Dunque, si prevede la costituzione di un Dicastero, di cui non c’è il nome ancora fissato – Segretariato, Consiglio, Segreteria…, non c’è una specificazione al riguardo – e che si occupi dell’insieme dei media e delle comunicazioni della Santa Sede e che quindi poi gestisca questo processo di graduale integrazione delle istituzioni, sino ad arrivare a un nuovo assetto, in un periodo prevedibilmente di 4 anni, evidentemente per passi graduali”.
La bozza di preambolo alla nuova Costituzione, temi economico finanziari ed ambientali
Tra gli altri temi affrontati nella riunione, a cui il Papa è stato sempre presente ad eccezione di stamani per gli impegni dell’udienza generale, una bozza di preambolo alla nuova Costituzione, che verrà ulteriormente elaborata, quindi le riforme nel campo economico-finanziario, con una relazione del cardinale George Pell, prefetto della Segreteria per l’Economia, che ha riferito della nascita di tre gruppi di lavoro per l’analisi delle entrate e degli investimenti, per la gestione delle risorse umane e per lo studio dei sistemi informatici esistenti. Ascoltata anche una comunicazione di padre Michael Czerny, del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, a proposito della prossima pubblicazione della nuova Enciclica del Santo Padre. Padre Czerny – ha aggiunto il direttore della Sala Stampa della Santa Sede – ha spiegato che, per desiderio del Santo Padre, sono stati organizzati alcuni invii tramite mail, introdotti da una lettera del cardinale Peter Turkson, “per informare gli Ordinari di tutto il mondo della prossima pubblicazione dell’Enciclica e dare ad essi suggerimenti e sussidi – in particolare sull’insegnamento e gli interventi precedenti di Papa Francesco sui temi dell’ambiente – in modo che singoli vescovi ed episcopati possano sentirsi preparati alla pubblicazione del nuovo documento”. La prossima riunione del Consiglio di cardinali, è stato infine precisato, è prevista per il 14-16 settembre 2015.
Papa Francesco ha ricevuto nel corso della mattinata l’arcivescovo Piergiorgio Bertoldi, nunzio Apostolico in Burkina Faso e Niger.
In Brasile, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Amargosa presentata da mons. João Nilton dos Santos Souza, in conformità al can. 401 – par. 2 del Codice di Diritto Canonico.
Sempre in Brasile, il Pontefice ha nominato coadiutore della diocesi di Ponta de Pedras mons. Teodoro Mendes Tavares, della Congregazione dello Spirito Santo, finora ausiliare dell’arcidiocesi di Belém do Pará. Il presule è nato il 7 gennaio 1964, a São Miguel Arcanjo – Ilha de Santiago (Cabo Verde). Ha emesso i voti come Membro della Congregazione dello Spirito Santo l’8 settembre 1986 ed è stato ordinato sacerdote l’11 luglio 1993. Ha compiuto gli studi filosofici presso l’Istituto Superiore di Teologia, a Braga – Portogallo (1986-1987) e quelli teologici presso l’Università Cattolica Portoghese, a Lisbona (1988-1993). Ha conseguito poi la Licenza in Ecumenismo, presso il Trinity College, a Dublino, Irlanda (1994). Ha svolto il ministero sacerdotale nella prelatura di Tefé come Vicario Parrocchiale e Parroco a Alvarães, Uarini e Carauari (1995-1998); Parroco della parrocchia “Bom Jesus”, Responsabile del Centro Vocazionale (1999-2011) e Vicario Generale (2000-2011). Inoltre è stato Superiore Maggiore del Distretto Spiritano dell’Amazzonia (2003-2011). Il 16 febbraio 2011 è stato nominato Vescovo titolare di Verbe ed Ausiliare dell’arcidiocesi di Belém do Pará ed ha ricevuto l’ordinazione episcopale l’8 maggio successivo.
Papa, titolo Enciclica: “Laudato si’, sulla cura della casa comune”
“Laudato si’, sulla cura della casa comune”. È questo il titolo dell’Enciclica di Papa Francesco sui temi ambientali che verrà presentata il prossimo 18 giugno, alle ore 11.00, nell’Aula Nuova del Sinodo in Vaticano.
In un comunicato si precisa che a illustrare il documento ai media saranno il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Sua Eminenza il Metropolita di Pergamo John Zizioulas in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico e della Chiesa Ortodossa, e il prof. John Schellnhuber, fondatore e Direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research.
Il testo dell’Enciclica sarà a disposizione in lingua italiana, francese, inglese, tedesca, spagnola, portoghese (in formato cartaceo e/o digitale).
Fisco, accordo antievasione tra Santa Sede e Usa
È una firma su un documento che il comunicato ufficiale definisce “storico”: quella apposta da mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, e dall’ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, Kenneth F. Hackett, sull’accordo tra la Santa Sede (anche in nome e per conto dello Stato Città del Vaticano) e gli Stati Uniti allo scopo di “migliorare gli adempimenti fiscali internazionali e lo scambio di informazioni fiscali in attuazione del Foreign Account Tax Compliance Act statunitense (Fatca)”.
“Questo accordo – che è il primo accordo intergovernativo formale tra la Santa Sede e gli Stati Uniti – sottolinea – si legge nella nota – l’impegno di entrambe le Parti a promuovere e ad assicurare un comportamento etico nel campo finanziario ed economico. In particolare, l’accordo servirà a prevenire l’evasione fiscale e a facilitare l’adempienza dei doveri fiscali da parte dei cittadini statunitensi che svolgono attività finanziarie nello Stato Città del Vaticano”.
“Assicurare il pagamento delle tasse e prevenire l’evasione fiscale – si legge ancora nella nota ufficiale – hanno un’importanza economica fondamentale per ogni comunità, poiché un gettito fiscale e una spesa pubblica adeguati sono indispensabili perché i governi diventino strumenti di sviluppo e solidarietà, incoraggino la crescita dell’occupazione, sostengano le attività commerciali e caritative e forniscano sistemi di assicurazione sociale e assistenza volti a proteggere i membri più deboli della società”.
Il comunicato conclude ribadendo che “in un contesto di globalizzazione economica” è “essenziale rafforzare lo scambio di informazioni al fine di prevenire l’evasione fiscale”, precisando che l’accordo Santa Sede-Usa si basa “sugli standard globali più aggiornati per ridurre l’evasione fiscale offshore attraverso lo scambio automatico di informazioni fiscali”.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
L'ospedale più vicino: all'udienza generale Papa Francesco parla della famiglia di fronte all'esperienza della malattia.
Una nuova sezione giudiziaria per la tutela dei minori: tra le decisioni prese nel corso della decima riunione del consiglio di cardinali.
Tra Santa Sede e Stati Uniti d'America firmato uno storico accordo per combattere l'evasione fiscale.
Che il Libano resti un messaggio: il cardinale Dominique Mamberti dopo la sua recente visita nel Paese.
La voce di qualcun altro: il cardinale segretario di Stato illustra le due missioni di Giuseppe Canovai.
Quando era l'uomo a temere la natura: Ugo Sartorio su san Francesco e la lode del creato, Giovanni Bachelet sul rispetto per l'ambiente e Claudio Descalz sulla sfida al fabbisogno energetico.
Un articolo di Silvia Guidi su Jacques Fontaine e il patrono di internet: un ricordo del latinista francese che ha rinnovato gli studi sulla Spagna visigotica.
Mons. Galantino: no a gender, uniti nel difendere la famiglia
“Il documento non vincolante dell’Europa sul riconoscimento delle famiglie gay risponde allo spirito del tempo, al modo in cui alcuni vogliono che si pensi”. Così mons. Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana, commentando il voto, ieri del Parlamento Europeo, al rapporto: “Strategia per la parità di genere” 2015/2020. Si tratta di un documento nel quale viene definita “famiglia” anche una coppia omosessuale con figli. Luca Collodi ha intervistato lo stesso mons. Nunzio Galantino:
R. – Sì, lei ha detto bene, l’UE fa una raccomandazione che, tra l’altro, non è nuova da quella parti. Intanto vorrei far notare che, a differenza di quello che è capitato in Italia per alcune questioni come il divorzio breve, per esempio, ci sono state percentuali risicate dal Parlamento UE, anzi risicatissime a favore di questa raccomandazione. Questo, già, la dice lunga. Vorrei dire, però, che questa raccomandazione, di fatto, continua ad andare sulla linea di questa cultura, di questo sentire abbastanza diffuso in Europa, e che tende a imporre un certo modo di vedere, di pensare, rispetto a questi temi. La raccomandazione, evidentemente, non vuol dire da parte nostra, da parte di chi ha un modo di sentire e di pensare diverso, non vuol dire assolutamente adeguarsi o doversi adeguare o potersi adeguare. Bisogna che continuiamo con chiarezza, senza tentennamenti, a dire la verità sulle cose, nel rispetto di tutti, nel rispetto dei diritti dei singoli, evitando che queste forme di raccomandazione creino soltanto appiattimento e facciano danno a quella che, invece, è la bellezza della differenza.
D. – Se l’Europa raccomanda, in Italia la proposta di legge Cirinnà sembra raccogliere questo invito…
R. – Per certi versi, vale quello che ho già detto per quanto riguarda l’Europa, e cioè che un certo modo di procedere e di far proposte – perché quella della Cirinnà è una proposta di legge – evidentemente risponde allo spirito del tempo, cioè al modo in cui alcuni vogliono che si pensi, ma poi, di fatto, si capisce che non è il modo di pensare di tutti. A questo proposito penso che noi, come Chiesa, come Chiesa italiana, abbiamo un dovere grandissimo e penso che faccia bene a tutti ricordare una cosa: Faccia bene alla Chiesa italiana, alla nostra società, agli obiettivi che come credenti, come cittadini, vogliamo raggiungere a fronte di questa proposta e di proposte che vanno nella stessa direzione: qual è la mia proposta? Cos’è che penso debba essere chiaro a tutti quanti, cattolici e non cattolici. Dentro e fuori la Chiesa? Intanto, come credenti cattolici e come cittadini italiani è fuor di dubbio la nostra contrarietà alla proposta di legge Cirinnà, come è chiara la contrarietà ad ogni tentativo di omologazione, di equiparazione di forme di convivenza con la famiglia costituzionale. Questo deve essere chiaro, come il fatto - approfitto di questa circostanza per dirlo – che vada ostacolato in ogni modo il tentativo di scippare in maniera subdola alla famiglia il diritto di educare i figli alla bontà della differenza sessuale. Ora, detto questo, di questa contrarietà e di questo rifiuto, che si è sempre – e da parte di tutti – accompagnato con la chiara affermazione che non stiamo solo a dire ‘no’. Anche la Chiesa, i cattolici, i laici, i vescovi, i sacerdoti, continuamente affermano e riaffermano con chiarezza e senza tentennamenti il ruolo centrale ed insostituibile della famiglia costituzionale, fatta di padre, madre e figli, quando il buon Dio ne fa dono. Lo stiamo dicendo in tutti gli aeropaghi contemporanei. Io stesso non ho fatto queste affermazioni standomene seduto al tavolino: sono andato, ho partecipato a trasmissioni, che notoriamente sono orientate in senso diverso da quello della Chiesa, e lì con chiarezza, senza mezzi termini ho riaffermato – ripeto – la contrarietà della Chiesa a qualsiasi equiparazione di convivenze con la famiglia costituzionale.
D. – Su questi temi stiamo notando che molti laici si stanno organizzando a difesa della centralità della famiglia naturale, anche con iniziative che nei prossimi giorni si concentreranno a Roma – il 20 giugno – sul tema dello stop al gender nel mondo della scuola. Lei come guarda a questa attività laicale ?
R. – In genere, l’attività dei laici, di tutti i laici, la ritengo veramente una benedizione del Signore, perché i laici – ci ricordava il Papa – non hanno bisogno dei vescovi pilota. Grazie a Dio abbiamo un laicato in Italia che è capace di grandi sensibilità, che è capace di grandi passioni, che è capace anche di grandi e belle iniziative. E’ chiaro che di fronte alla difesa della famiglia naturale che, ripeto, è di tutti, non è di una parte del laicato, non è di una parte dei vescovi, non è dei vescovi e non dei laici o dei laici e non dei vescovi, è chiaro che le modalità concrete con le quali far valere la chiara posizione che è di tutta la Chiesa, la modalità concreta può essere espressa legittimamente in forme diverse. Una diversità che deriva da sensibilità, da letture della situazione anche diverse. E proprio a proposito di quello che lei mi chiedeva, voglio dire che c’è stato un incontro, un momento di confronto tra aggregazioni, movimenti, nuove comunità e associazioni. Si sono incontrate e da lì, da questo incontro, è emersa una diversa valutazione, relativa solo alla modalità con la quale manifestare il proprio chiaro e condiviso dissenso – ripeto – nei confronti sia della Cirinnà, sia di questa dittatura che si vuole imporre del pensiero unico, attraverso la gender theory.
D.- Cosa è stato detto in questo incontro?
R. – Questo incontro dice la vivacità, l’intelligenza, la capacità di lettura diversificata della storia da parte dei cattolici italiani. Accanto a chi ha proposto forme legittime di manifestazioni pubbliche di dissenso per affermare - ripeto – il diritto della famiglia costituzionale ad esistere e ad educare i propri figli nella bontà della differenza sessuale, c’è stato anche chi, assolutamente senza negare ogni forma di impegno a favore della famiglia, ha ritenuto, per questo momento storico, sia più ragionevole e più urgente l’apertura di un processo - che al di là del singolo evento - veda tutti i impegnati a fronteggiare la cultura individualista che è alla base di leggi e proposte estemporanee che tendono a mettere all’angolo la famiglia costituzionale e a privilegiare i diritti dei singoli sul bene comune. Ora, questo processo, non meno impegnativo, anzi più esigente di altri, richiede comunque un sentire e un impegno comune che non è solo frutto di paure, ma si costruisce invece sul dialogo e sulla consapevolezza che, pur nel rispetto dei differenti modi di farsi sentire, c’è bisogno di tenere insieme motivazioni e ragioni per mantenere salda la realtà della famiglia, i suoi diritti e prima di tutto quelli dell’educazione e della formazione dei figli. Ripeto. Penso che sia importante capire come il differente modo di definire la modalità del dissenso, non significa assolutamente che ci siano supposizioni diverse rispetto alla valutazione oggettiva di quello che sta succedendo. Lo ripeto per l’ennesima volta: nessuno nella chiesa cattolica italiana in questo momento, né vescovi né sacerdoti né laici si sognano di dire di “sì”, alzare bandiera bianca - come ha detto qualcuno - rispetto alla Cirinnà, rispetto all’equiparazione di forme di convivenza con la famiglia costituzionale, rispetto all’introduzione subdola della gender theory nella scuola. Nessuno si sogna questo. È evidente che ci sono modi diversi per dire: “Diciamo di no in maniera diversa”.
D. - Quindi difesa della centralità della famiglia naturale. Non importa come. L’importante è dialogare e non dividersi all’interno del laicato cattolico…
R. – Assolutamente. Qualunque sia la modalità con la quale tenere ferma con chiarezza e senza tentennamenti la centralità della famiglia fatta di padre, madre e figlio - penso sia opportuno che la diversità di modalità – ripeto – non diventi occasione per divisioni ingiustificate che fanno il gioco di coloro che vogliono portare avanti altre realtà. La diversità dei modi, non deve diventare occasione di divisioni ingiustificate, indebolimento della stima reciproca tra quanti custodiscono il valore inestimabile della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna né – ripeto - divisioni ingiustificate né indebolimento della stima reciproca. Perché dico questo? Guardate, non si difende la famiglia e i suoi diritti nutrendosi di divisione o peggio ancora non si sostengono valori calpestandone altri, quali il rispetto per l’altro, il dialogo e l’uso della verità al posto di vere e proprie aggressioni verbali; non si risolvono così i problemi. Le aggressioni verbali lasciamole ad altri, a noi non servono! D’altra parte è bellissima quell’espressione di San Pietro: “Date ragione della vostra fede”. Noi tutti siamo chiamati a fare questo: dare ragione della nostra fede nei confronti di coloro i quali di ragioni per dire quello che dicono, affermare quello che affermano attraverso alcune proposte di legge, non ne hanno; hanno soltanto il desiderio di accontentare questa o quella lobby, perché nessuno ha mai negato i diritti dei singoli; però far confusione prima lessicale e poi di fatto sulle realtà non è compito di nessuno, tantomeno lo è di coloro i quali sono chiamati a governarci. Quindi di fronte a questo comune atteggiamento, il bisogno di difendere la famiglia, stiamo attenti: non dobbiamo né dividerci né far venire meno – ripeto – la stima reciproca tra coloro che custodiscono gli stessi valori. A volte – mi permetta di fare questa considerazione un po’ amara – la passione per il raggiungimento di obiettivi legittimi e condivisi gioca brutti scherzi e si trasforma in rabbia. Così si assiste a ingiustificate e dannose scomuniche reciproche che sono fuori posto; si assiste e si leggono dei blog che si nutrono di affermazioni e quindi di giudizi offensivi verso persone che hanno l’unico torto di voler difendere con la stessa passione e intensità gli stessi valori. Questa è una ricchezza: la diversità del modo di sentire anche nella Chiesa. Ma questo succede dall’inizio! Noi abbiamo quattro Vangeli… Perché? Perché rispondevano a quattro modalità diverse di accogliere il Kerigma, di annunciarlo, di viverlo, di testimoniarlo. Certo, fa tristezza vedere trasformate in derive negative passioni nate invece dal desiderio del bene e di fare il fare il bene. Quindi ben venga tutto ciò che può servire in questo momento a far capire qual è la posizione della Chiesa, dei vescovi, evitando di ergerci a giudici degli altri. Le modalità possono essere diverse, ma dobbiamo essere tutti uniti per poter contrastare in maniera ragionevole, cercando il dialogo, derive individualiste che ci stanno – ahimè – travolgendo in Italia ma anche in Europa.
Immigrati a Belluno, il Nord che integra con intelligenza
La situazione dei flussi migratori via mare è estenuante e tragica. Si legge nel messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Festa della Marina, in cui ringrazia tutti coloro che salvano le vite dei migranti. In Europa, intanto slitta la decisione per il piano di ricollocamento intra-Ue di 40 mila migranti, nonostante la sollecitazione della Commissione europea di raggiungere un accordo sulle quote. Si deve agire subito e non tra quattro mesi: si chiede ai ministri degli Interni europei. In Italia, dove i migranti arrivati da inizio anno sono 54 mila, la polemica è incendiata da Lega e Forza Italia, che si scagliano contro i prefetti e chiedono di fermare, anche militarmente, quella che è stata definita “l’invasione”. Il governatore lombardo Maroni preme per sospendere le assegnazioni ai Comuni e assicura premi a chi rifiuterà di accogliere i migranti.
Esempio fuori dal coro quello del Comune di Belluno, dove i 36 mila cittadini hanno aperto le braccia a 70 migranti, che ricambiano l’accoglienza con lavori di volontariato, come dipingere cancellate delle scuole o pulire i parchi e le fontane, provvedere al decoro urbano o occuparsi dell’Archivio di Stato, compito riservato alle donne. La ricetta è facile, spiega il sindaco Jacopo Massaro: piccoli gruppi di profughi accolti in appartamenti gestiti da cooperative che tra l’altro provvedono anche a insegnare loro l’italiano e il rispetto delle regole. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – I Comuni non sono i deputati alla gestione dell’emergenza sbarchi: non ricevono soldi, non gestiscono l’emergenza, semplicemente subiscono, ovviamente sul proprio territorio, la questione dell’emergenza sbarchi. Allora cosa succede? Che è possibile, se qualcuno lo vuole, con grande dispendio di energie, come abbiamo fatto a Belluno, non accettare di subire “passivamente” un certo tipo di processo, che comunque è inevitabile, ma decidere di governarlo. Noi siamo andati in Prefettura e abbiamo parlato chiaro: se si vogliono mettere delle persone, dei migranti, nel comune di Belluno, occorrono una serie di regole, di modalità operative per assicurare determinati standard che garantiscano la capacità di integrazione da parte di queste persone, che sosteranno nella città di Belluno. E questo sistema funziona. Certo, l’applicazione del buon senso in questo caso passa attraverso a un grande dispendio di energie per riuscire a regolare questi rapporti tra noi, i migranti, la prefettura e chi gestisce i migranti.
D. – E la reazione dei cittadini in tutto questo?
R. – L’idea nostra è stata proprio questa: sicuramente si creeranno tensioni sociali all’interno della città, perché è difficile da accettare, da capire soprattutto, il fenomeno dell’emergenza sbarchi da parte dei cittadini. Se invece adottiamo tecniche, modalità operative tali per cui le persone vengono invece attivamente integrate, di sicuro la cittadinanza accetterà meglio questo tipo di fenomeno. E’ ovvio che ci sono comunque tensioni, difficoltà, paure, ogni tanto, ma di sicuro da noi è un fenomeno che si limita a quello che è fisiologico e non c’è alcuna alimentazione di una escalation di tensione. Tutto sommato, abbiamo una forte accettazione complessiva. Noi abbiamo preteso che questi ragazzi, queste persone che arrivano, per esempio, non fossero mai messi in grandi gruppi, vogliamo che vadano in appartamenti sparsi su tutto il territorio, in piccoli gruppi di 3-4-5 persone alla volta, cosa che crea una dimensione più 'familiare. Questo, per esempio, ha favorito il processo di integrazione con i vicini di casa i quali all’inizio sono spaventati, poi dopo finisce quasi sempre che sono i vicini di casa che si prendono cura dei migranti.
D. – La realtà di Belluno si scontra apertamene con quello che in questo momento è il messaggio che invece viene da molti altri Comuni del nord…
R. – Sì, esatto. Si può decidere di non occuparsi del problema ma in questo caso si subisce e basta. Si passa alcune volte, con i cittadini, per i "paladini" della difesa del territorio che si è opposto al fatto che ci fossero flussi incontrollati, quando in verità da un lato non ci si fa carico di un problema nazionale – e un minimo di senso di responsabilità dobbiamo avercelo tutti – mentre dall’altro lato, sostanzialmente, non si risolve niente. Quelli che continuano a dire: “Noi non li vogliamo”, in verità sono inondati tanto quanto prima, solo che disimpegnandosi completamente non hanno e non stanno governando questo processo. E cosa succede? Loro sì che hanno problemi... Proprio per questa tendenza al disimpegno e all’opposizione precostituita oggi si trovano in difficoltà e loro, sì, hanno problemi di ordine pubblico, di carattere igienico-sanitario, hanno problemi sotto tanti aspetti che invece per fortuna invece a Belluno sono mitigati.
In Iraq allarme umanitario senza precedenti
L’Iraq alle prese con una crisi che rischia di essere senza ritorno. Allo scontro tra sciiti e sunniti si è aggiunta l’avanzata del sedicente Stato Islamico. I jihadisti hanno conquistato la città di Mosul, da un anno nelle loro mani, e altre zone nel nord del Paese. Decine di migliaia i civili in fuga dalle violenze; tra questi la minoranza cristiana, spesso privata anche delle sue chiese e dei simboli della fede. Il patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphael Sako, si rivolge con un messaggio ai profughi costretti a fuggire dalla loro città, esprimendo vicinanza nella preghiera, insieme con la speranza di un ritorno nella terra dei padri. In questa situazione molte Ong parlano di tragedia umanitaria senza precedenti. Giancarlo La Vella ha sentito Marta Petrosillo, portavoce di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS):
R. – Sì, è davvero un dramma quello vissuto ad un anno dalla presa di Mosul. Sono oltre due milioni gli sfollati interni. Tra loro, ovviamente, le minoranze religiose sono sempre quelle più vulnerabili: sono oltre 120 mila i cristiani, che sono fuggiti prima da Mosul e poi dalla Piana di Ninive. Ora la maggior parte di loro si trova nel Kurdistan iracheno grazie agli aiuti forniti anche dalla nostra fondazione. I cristiani ora godono tutti di un alloggio più o meno dignitoso, per quanto sia possibile, ma purtroppo dopo un anno i cristiani e anche le altre minoranze, ricordiamo anche la minoranza yazida, versano in condizioni difficili. Non sanno ancora quale futuro li attenda.
D. – In Iraq, come del resto anche in Siria, si è innescata poi una guerra nella guerra con l’entrata in campo dello Stato Islamico, che ha cominciato a colpire anche i cristiani…
R. – Sì, proprio ieri ho parlato con un sacerdote della diocesi siro-cattolica di Mosul e lui mi ha detto: “Per noi è un’ulteriore ferita a un cuore già trafitto”. Lo Stato Islamico ha voluto cambiare, ad esempio, la Chiesa siro-ortodossa di Sant’Efrem, a Mosul, in moschea proprio per festeggiare il tragico anniversario della presa della città. E questo per i cristiani è un ulteriore dolore, un’ulteriore umiliazione. Tantissimi i testi sacri che sono stati distrutti e per la comunità cristiana questa è un’ulteriore ferita.
Libia: l'Is conquista Sirte e si affaccia sul Mediterraneo
Continua l'avanzata territoriale del sedicente Stato Islamico, che in Libia ha conquistato la città di Sirte e una vicina centrale elettrica, dopo essersi scontrato con le forze di Misurata. Pochi, inoltre, i progressi dei negoziati di pace. Il governo di Tobruk, internazionalmente riconosciuto, ha bocciato la proposta di formazione di un governo di unità nazionale, avanzata dal mediatore Onu, Bernardino Leon. Eugenio Murrali ha intervistato Massimo Campanini, docente di Studi islamici presso l'Università di Trento:
R. – L’Is cerca un radicamento territoriale, perché, da un punto di vista strettamente strategico, deve consolidare un certo tipo di struttura e, se vogliamo, anche di governo, che, secondo me, finora non ha. Bisognerebbe in tutti i modi cercare di impedire questo radicamento territoriale. Io ho l’impressione che il cosiddetto Occidente finora non abbia combattuto l’Is inmisura veramente efficace. Mi pare, se posso dirlo in maniera un po’ provocatoria, che l’Is possa far comodo. Voglio dire che l’Is catalizza un po’ tutte quelle tendenze che, da tempo immemorabile, l’Occidente ha avuto, cioè quelle a costruirsi il nemico.
D. - E’ verosimile la nascita di un governo di unità nazionale che sia davvero espressione delle istanze libiche?
R. – La Libia è classicamente un Paese costruito dal colonialismo tracciando righe di confine su una mappa. La Libia non è mai esistita. La Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan sono stati messi insieme prima dal colonialismo italiano e poi dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, quando hanno favorito la nascita del governo unitario di Re Idris. Vista l’inesistenza di una Libia, le questioni tribali, il fatto che il governo di Gheddafi non è certo stato in grado di omogeneizzare questa molteplicità… è chiaro che, una volta caduto Gheddafi, queste forze centrifughe si sono scatenate. E, quindi, ridurre a sintesi tutto questo è molto, molto difficile. Ciò costituisce un terreno favorevole a una strategia come quella dell’Is.
D. - Soprattutto dopo il rifiuto da parte del governo di Tobruk della proposta del mediatore delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, che ruolo potrà ancora avere l’Onu in Libia?
R. – Secondo me è tutta la strategia che l’Occidente ha seguito in questi anni che deve essere ripensata. Il potenziale ruolo dell’Onu nella soluzione del problema libico si inquadra in una rilettura completa, alla base, della strategia mediorientale dell’Occidente, dell’Europa e degli Stati Uniti. Questo poi è legato alla politica ondivaga, incerta, che l’Occidente ha avuto fin dal principio nei confronti dell’Is.
D. – Nell’eventualità di un governo di unità nazionale, che posto andrebbe a occupare il sedicente Stato islamico?
R. – Io credo che, se ma si realizzasse un governo di unità nazionale, in una situazione eufemisticamente di normalità, loStato Islamico non avrebbe un ruolo. Nel senso che il ruolo dell’Is è distruttivo, non costruttivo. E’ chiaro che poi eventualmente l’Is potrebbe costruire, ma la sua stessa ideologia è un’ideologia di distruzione, di frantumazione, di “fitna”, come si dice in linguaggio tecnico, del pensiero politico islamico. Per cui, se le forze e le realtà politiche normali e regolari della Libia si mettessero effettivamente insieme con un governo di unità nazionale, credo che spazio per l’Is non ci sarebbe. Poi bisogna vedere anche chi è questa gente dell’Is, chi c’è veramente dietro. E’ tutta una storia molto complessa e molto oscura. Le responsabilità stesse dell’Occidente, secondo me, non sono da trascurare.
Banche: HSBC taglia 50 mila posti di lavoro e va in Asia
Il colosso bancario HSBC con base a Londra - il primo per attività in Europa - annuncia nei prossimi due anni tagli fino a 50 mila posti di lavoro, un quinto del totale, e la delocalizzazione in Asia. Dopo diversi coinvolgimenti in scandali con relative sanzioni - l’ultima indagine è tuttora in corso in Italia, per manipolazione del mercato e frodi fiscale - l’Amministratore Delegato, Stuart Gulliver, sembra intenzionato a tagliare i costi per tornare a crescere. Ma a che prezzo e con quali conseguenze? Gabriella Ceraso ne ha parlato con Giovanni Petrella ordinario di Intermediazione Finanziaria all'Università Cattolica di Milano:
R. – Penso che sia una decisione che possa essere motivata da scelte legate all’organizzazione del lavoro della banca, un’organizzazione del lavoro che, oggi, in prospettiva, è sempre meno legata alla localizzazione fisica delle filiali bancarie e sempre più dipendente dalla tecnologia e dalla telematica. Quindi, l’intermediario ha necessariamente l’obiettivo di guardarsi intorno e cercare il posto del mondo in cui esistono delle professionalità in grado di svolgere quell’attività al minor costo possibile.
D. – E’ una tendenza, quindi, generale quella che ci dice che il Sud Est asiatico - come ha detto anche l’ad della banca - è la regione e l’area dello sviluppo futuro…
R. – E’ un’area che è molto importante per questo tipo di delocalizzazioni. D’altra parte, penso che anche altre aree europee possano giocare un ruolo, se cambiano alcune condizioni di contesto.
D. – E questo caso ci dice qualcosa su quanto costa a livello umano la finanza speculativa?
R. – Non vedo un legame diretto tra la finanza speculativa e queste scelte. Anche perché questo tipo di scelte sono state fatte da imprese industriali. E’ stata proprio una necessità dettata dal non essere sostenibili sul mercato.
D. – Scelte obbligate che rivelano lo stato di salute, a livello di costi e di crescita, e quindi quale il futuro dell’Europa?
R. – Questa è sicuramente una cosa sulla quale riflettere molto. Lo sviluppo futuro, infatti, dell’Europa e degli Stati Uniti, in termini di capacità occupazionali, dipende molto da questa possibilità di arbitraggio tra diversi luoghi del mondo. In prospettiva, l’occupazione in zone in cui il costo è più elevato può essere soltanto un’occupazione che è ad “alto” valore aggiunto. Quindi si fa qualcosa che in altri posti non è possibile fare oppure si fanno cose che sono legate alla distribuzione, all’ultima fase del processo produttivo, cioè alla vendita del prodotto o del servizio. Questi, dunque, sono in effetti i due sbocchi possibili per chi lavora in un contesto sviluppato e che diventa anche il contesto in cui i costi sono più elevati. I giovani devono sapere che o si investe in formazione, quindi in un qualcosa che li metta in condizioni di fare delle attività che altrove non possono essere fatte, oppure il meccanismo economico porterà quelle attività nei luoghi in cui costano meno.
Reato tortura. Amnesty e Antigone: approvare subito legge
Legge sulla tortura, tra passi avanti e passi indietro. Questa mattina al Senato una conferenza stampa per ribadire l’urgenza dell’approvazione del reato e lanciare un appello affinché anche in questa legislatura il tutto non si concluda con un nulla di fatto. Il servizio di Alessandro Filippelli:
Un iter tormentato, quello del disegno di legge che prevede l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Un provvedimento richiesto tanto dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, con la sentenza dello scorso aprile sui fatti della scuola Diaz al G8 2001 di Genova, quanto dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Eppure, sono 27 gli anni trascorsi da quando l’Italia ha ratificato la Convenzione Onu. Anni di discussioni, confronti e norme naufragate. Antonio Marchesi presidente Amnesty International Italia:
“Per molti anni non si è compresa l’urgenza di introdurre un reato specifico di tortura, che è uno strumento di punizione di chi pratica la tortura, ma anche uno strumento di prevenzione di ulteriori atti di tortura. Ora, la questione è bloccata sulla definizione del reato. Noi riteniamo che, però, il parlamento si debba assumere la responsabilità di trovare un accordo su una definizione che potrà essere anche un compromesso tra posizioni diverse – fa parte della democrazia. Per Amnesty, quello che conta è l’impatto positivo, il cambiamento positivo nella vita delle persone. Se un numero significativo di fatti di tortura, che oggi difficilmente vengono puniti, potranno essere puniti con questa definizione, va bene, è un passo avanti, e quel passo deve essere compiuto”.
Il 10 giugno scadono i termini per la presentazione degli emendamenti sul disegno di legge del reato di tortura e si capirà dunque se, come e quanto il testo – che prevede la reclusione da 4 a 10 anni – approvato il 9 aprile scorso alla Camera, potrà essere modificato.
Luigi Manconi, presidente Commissione per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato:
“E’ comunque necessario dotarsi di una norma. Meglio una legge mediocre che nessuna legge, tanto più se teniamo conto dei tre decenni trascorsi da quella Convenzione internazionale che cinque anni dopo – ovvero 25 anni fa – la Repubblica italiana avrebbe sottoscritto. Non è tollerabile che l’Italia ignori le Convenzioni internazionali che sottoscrive. Non è sopportabile che sul piano dei diritti, della tutela e delle garanzie, il nostro Paese sia davvero così arretrato e che ci sia questa indifferenza, che vorrei definire ottusa”, quasi che noi parlassimo di qualcosa di superfluo e non di questioni fondamentali per la qualità della nostra democrazia”.
Stop gender nelle scuole. La testimonianza di un padre
Un evento di famiglie, esempio di cittadinanza attiva. E’ la manifestazione “stop gender nelle scuole” convocata per sabato 20 giugno alle 15:30 in piazza san Giovanni a Roma dal comitato “Difendiamo in nostri figli”. Tante le denunce da parte di genitori da più parti di Italia che lamentano l’introduzione dell’ideologia del gender nelle aule scolastiche. Un padre di Roma, che preferisce rimanere anonimo, racconta al microfono di Paolo Ondarza quanto accaduto a due dei suoi figli rispettivamente in una scuola elementare e in una materna dello stesso Istituto:
R. – La gran parte della popolazione è contraria all’introduzione di queste teorie di gender nelle scuole e negli asili. La gente non sa cosa viene insegnato dalle associazioni "Lgbt" nelle scuole e non sa qual è il fine, pensa che sia qualcosa di buono.
R. – La gente non sa, come tu non sapevi cosa stesse accadendo nella classe di tuo figlio, in una scuola elementare di Roma…
R. – Io ho avuto il vantaggio però che i miei figli con me parlano e mi raccontano tutto.
D. – Tu ci hai chiesto di rimanere anonimo per motivi di sicurezza…
R. – Anche per tutelare i miei figli e mia moglie che vivono nel quartiere ed è il motivo per cui ho cambiato scuola ai miei figli di punto in bianco.
D. – Che cosa è accaduto al tuo figlio più grande?
R. – Gli viene chiesto in classe dall’insegnante – che a me è rimasta sconosciuta però ha scritto il messaggio sul quaderno di mio figlio, con espressa richiesta – di portare un rossetto rosso in classe. La motivazione che è stata data era che serviva per scopi didattici non meglio specificati. Mio figlio mi ha raccontato vergognandosene e sentendosi umiliato che gli veniva imposto dalla maestra di doversi mettere il rossetto. Lo stesso rossetto veniva passato sulle labbra degli altri compagni dalla maestra. Mio figlio rispondeva all’insegnante: “Ma il rossetto lo mette solo mamma”.
D. – Tu a questo punto ti sei opposto?
R. – Ci siamo opposti per iscritto chiedendo la possibilità di avere un immediato incontro con gli insegnanti e con la direttrice della scuola. Nel contempo, ho dato il mio dissenso a questi insegnanti di continuare a mettere il rossetto sulle labbra di mio figlio. Hanno invece continuato. Non mi hanno voluto dare alcuna possibilità di parlare immediatamente con gli insegnanti, né la direttrice mi ha mai voluto ricevere. Abbiamo dovuto aspettare due mesi affinché potessimo parlare con gli insegnanti, quando c’è stato il solito colloquio di metà anno scolastico. C’è stato vagheggiato che l’uso del rossetto era stato deciso per motivi didattici. Io però nel frattempo mi ero informato tramite conoscenti che stanno nell’ambito scolastico e mi avevano parlato di una teoria di gender, basata su criteri che non sono scritti da nessuna parte…
D. – Che non ha alla base studi scientifici, questo stai dicendo…
R. – Esatto.
D. – La tua decisione è stata drastica: hai dovuto ritirare tuo figlio dalla scuola…
R. – Ho ritirato tutti i figli dalla scuola, ne avevo tre in questo Istituto e li ho spostati presso un altro Istituto, dove avevo maggiore fiducia e dove ho conosciuto gli insegnanti.
D. – E soprattutto dove c’era quell’alleanza scuola-famiglia che dovrebbe essere alla base di una corretta educazione…
R. – E’ fondamentale il rapporto tra genitori, figli e insegnanti.
D. – Nella tua famiglia c’è stato un altro caso che ha riguardato il più piccolo…
R. – Sì, nello stesso periodo, la domenica mattina mio figlio viene nel mio letto piangendo e mi dice che lui quando avrebbe compiuto i 4 anni avrebbe voluto diventare una “femminuccia” perché questo gliel’aveva detto la maestra. Le assicuro che fino a quel momento non esisteva un pensiero del genere in nessuno dei miei figli, tantomeno in lui. Dunque, ho preso anche lui e l’ho spostato.
D. – I bambini sono influenzabili e soprattutto se ripongono, come dovrebbe essere, fiducia nei confronti degli insegnanti. Lei questo lo ha potuto riscontrare?
R. – Se gli insegnanti inculcano loro queste cose, crescono nel dubbio e rovinano loro l'infanzia. E io ho avuto la fortuna di poterli spostare prima che iniziassero altri corsi in queste scuole organizzati da associazioni Lgbt.
D. – Avete avuto problemi in seguito a questa vicenda?
R. – Siamo stati attaccati da molti genitori che ci dicevano che eravamo retrogradi, che io ero da denunciare in quanto omofobo, che mio figlio ero maschilista…
D. – Tu evidenziavi il dato: non tutti i bambini hanno la possibilità di parlare con i loro genitori, perché impegnati con orari lavorativi difficili o perché hanno altri problemi o magari perché non tutti i bambini sono estroversi…
R. – Non si è mai tutti uguali, ognuno ha la propria situazione. Io ho avuto la fortuna che i miei figli mi parlano.
Morricone: la mia "Missa", omaggio ai Gesuiti e a Francesco
Debutta oggi alle 18.00 nella Chiesa del Gesù a Roma, la Missa “Papae Francisci”, scritta da Ennio Morricone su commissione dell’Ordine di Sant'Ignazio in occasione del bicentenario della ricostituzione della Compagnia di Gesù. Rimandata già l’anno scorso per motivi di salute del Maestro, questa prima mondiale è affidata all’Orchestra "Roma sinfonietta" e al doppio coro dell’Accademia di S. Cecilia e del Teatro dell’Opera, guidati da Stefano Cucci. E’ una “nuova prova, ma sono soddisfatto”, racconta il maestro al microfono di Gabriella Ceraso:
R. – Non è proprio una sfida. Ogni cosa che faccio è sempre un esame con me stesso, oltre che con chi mi ascolta e anche con quelli che mi hanno commissionato questo lavoro, che da qualche giorno è in prova e che mi lascia abbastanza contento.
D. – Nonostante i tanti generi in cui lei si è cimentato, questa è comunque la prima Messa. Non ci aveva mai pensato? Come è accaduto?
R. – Una Messa me la chiedeva da anni mia moglie, ma io non mi decidevo mai. Finalmente, incontrai il rettore di Piazza del Gesù, padre Libanori, e mi chiese di scrivere una Messa per il 200.mo della ricostituzione dei Gesuiti. Ma la cosa che mi impressiona di più di questo incarico è il fatto che io abbia scritto la musica del film “Mission”, che è la storia dei Gesuiti in Sudamerica, i quali dopo qualche anno, dal 1750, furono sciolti. Vede quante coincidenze? In qualche maniera, io ho partecipato al loro scioglimento e ora partecipo alla ricorrenza del 200.mo della loro ricostituzione. E poi il Papa, l’unico gesuita finora… Quindi, gli ho dedicato la musica. E’ incredibile! Trovo in tutto questo delle coincidenze che definirei quasi miracolose
D. – Scrivendo una Messa per un Pontefice per un occasione particolare, lei si inserisce in una grande tradizione musicale da Palestrina in poi. Ha voluto un organico di due cori e un’orchestra con scelte timbriche particolari. Ecco, quanto si riaggancia alla tradizione e quanto invece c’è di originalità nel suo lavoro?
R. – Ho scelto due cori perché erano una tradizione dei fratelli Gabrieli e di Willaert a Venezia, dove è iniziato il doppio coro. Nell’organico ho tolto i violini e le viole, perchè mi portavano a essere forse troppo sdolcinato. La cosa, invece, deve essere abbastanza severa. Quindi, ho messo le percussioni, 5 trombe, 5 corni e 5 tromboni e due organi. Sono rimasto fedele alla modalità che abbiamo nella musica gregoriana. Poi, ho usato la polimodalità, mettendo anche delle dissonanze, che si sentono meno e che definirei meglio false relazioni. Mi sono preso quindi delle libertà, ma il pezzo appare chiaramente come un pezzo liturgico, anche se qualche esperimento sottotraccia c’è.
D. – Il clima generale però di quest’opera – lei lo ha già detto – è un clima di serenità, specchio di questa idea della ricostituzione di un Ordine, quindi della ritrovata unità nella Compagnia di Gesù...
R. – Credo di sì. Questo pezzo è un pezzo sereno. La drammaticità, forse, la si trova nel dinamismo che c’è in alcuni momenti.
D. – Lei ha mostrato anche al Papa l’introduzione della Messa: con le note che visivamente costituiscono una vera e propria croce. C’è dunque un simbolismo religioso in questo punto della Messa?
R. – Tre croci, non una croce. I corni e la tromba suonano nove suoni, cioè la Trinità moltiplicata per se stessa. La parte orizzontale, l’orchestra, la verticalità della croce, fa gli altri tre suoni, cioè ancora una Trinità. Ecco, mi piace tutta questa simbologia. E’ un pezzo dove il coro, che potrebbe essere fatto anche dal pubblico, fa una preghiera sommessa mentre l’orchestra suona. E’ come se fosse una folla a dire queste parole. Dura un minuto e mezzo, dopo di che comincia la Messa con il "Kyrie".
D. – Ma per scrivere una Messa bisogna avere fede?
R. – A me risulta, nella storia, che i musicisti abbiano fede nella loro invocazione a Dio. Che la confessino o no, non lo so.
D. – Musica sacra si può fare anche dunque con il linguaggio di oggi?
R. – La grandezza del linguaggio di oggi unita alla grandezza della tradizione. Per esempio, i due cori e l’uso della modalità sono nel rispetto della tradizione, che c’è ancora. Ci sono tradizione e innovazione.
D. – Non in conflitto, quindi? Si possono conciliare?
R. – Sì, sì.
Torino. Al Museo del cinema una mostra sul Neorealismo
Si è aperta al Museo nazionale del Cinema di Torino la mostra “Cinema neorealista – Lo splendore del vero nell’Italia del dopoguerra” che fino al 29 novembre propone un percorso espositivo ricchissimo e articolato per conoscere e approfondire una indimenticabile e importantissima stagione del cinema italiano. Il servizio di Luca Pellegrini:
Le immagini e le sequenze di film che hanno fatto la storia del cinema italiano e mondiale accolgono il visitatore all’interno degli spazi suggestivi della Mole Antonelliana torinese. Ci si emoziona dinanzi a tappe significative che fanno parte del nostro patrimonio artistico e culturale, ai capolavori di Rossellini, De Sica, Visconti, Lattuada, Lizzani: le loro sceneggiature, note di produzione, lettere, diari e memorie. Poi, ecco veri e propri documenti inediti su quella incredibile stagione di cinema. E ancora, manifesti e materiali pubblicitari. Momenti indimenticabili: “Roma città aperta”, “La terra trema”, il raro e prezioso documentario di Antonioni del ’39, “Gente del Po”, “Germania anno zero”, “Bellissima”, “Ladri di biciclette”, “Miracolo a Milano”. Un’esperienza storica e vitale che ancora ci sorprende, come afferma ai nostri microfoni il Direttore del Museo e curatore della Mostra, Alberto Barbera:
R. – C’è un’immagine consolidata, e anche storicamente del tutto attendibile, che riguarda il neorealismo italiano e cioè il fatto che sia stata una rivoluzione estetica che ha rotto con tutte le convenzioni che avevano segnato il cinema italiano e non solo quello dell’anteguerra, che era cinema di studio, cinema di attore, cinema di sceneggiatura, cinema fortemente codificato e stereotipato… Quindi, una rivoluzione estetica che ha introdotto nuovi parametri, un'attenzione nei confronti della realtà, precedentemente quasi inesistente in quelle forme e in quelle modalità. Tutto questo, però, mette in ombra o non evidenzia un altro aspetto che invece è una componente essenziale di quelle esperienza storica così importante, così ancora oggi vitale e significativa, e cioè il fatto che alla base di tutto ci fosse un atteggiamento etico nuovo da parte dei registi. Una sorta di impegno a voler raccontare quella realtà che fino alla scomparsa del fascismo era stata occultata, mistificata, falsificata. Un atteggiamento, quindi, di scoperta, di apertura, un atteggiamento morale che imponeva ai registi – come dire – di rivendicare i valori nuovi, fondati su un atteggiamento di franchezza, di libertà – insieme creativa, ma anche politica e sociale – e di responsabilità nei confronti di questa realtà raccontata.
D. – La Mostra come si presenta e in che modo aiuta a conoscere il Neorealismo?
R. – Intanto, dire qualcosa di veramente nuovo oggi sul Neorealismo è quasi impossibile, perché è stato sicuramente uno dei momenti storici più studiati, più analizzati, anche in profondità e anche con letture articolate. Quello che tenta di fare la mostra è duplice. Da un lato ha questa vocazione, se vogliamo anche un po’ pedagogica, di far scoprire ai giovani di oggi un’esperienza che è imprescindibile e che bisogna assolutamente conoscere per capire che cos’è, che cosa è diventato e perché il cinema moderno è diventato quello che è. Dall’altro, in qualche modo, però, approfondisce anche alcuni aspetti: per esempio, mette in evidenza come non si possa pensare al Neorealismo come a una forma di semplificazione e di approccio immediato e istantaneo alla realtà. C’era tutto un lavoro di costruzione, anche nei film realisti, anche nei film che sembravano improvvisati, che invece è fondamentale, perché qualsiasi immagine ripresa da una macchina da presa e messa in scena da un regista è un’immagine, appunto, costruita.
Iraq: patriarca Sako a un anno dalla caduta di Mosul
Nel primo anniversario di quella che viene definita “la tragedia di Mosul” quando i jihadisti dello Stato Islamico (Is) conquistarono la seconda metropoli dell'Iraq, il patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphael Sako, si rivolge con un messaggio ai profughi costretti a fuggire dalla loro città per esprimere la propria vicinanza nella preghiera, insieme alla speranza “che possiate tornare presto a casa, nella terra dei vostri padri”.
I politici iracheni lavorino per la riforma e la riconciliazione
Esattamente un anno fa, nella notte tra il 9 e il 10 giugno 2014, davanti all'assalto delle milizie dell'Is, munite di lanciagranate e mitragliatrici montate su veicoli fuoristrada, le truppe dell'esercito regolare di stanza a Mosul fuggirono lasciando nelle mani dei jihadisti anche le basi militari piene di armi pesanti.
Nel suo messaggio, pervenuto all'agenzia Fides, il patriarca richiama i politici iracheni a lavorare sinceramente per la riforma e la riconciliazione. Solo la prospettiva della riconciliazione nazionale – ricorda il primate della Chiesa caldea – potrà porre fine alla tragedia di un popolo intero, facendo in modo che gli iracheni non continuino a combattere e a uccidersi giustificando i conflitti con motivi religiosi, e i bambini non continuino a morire “per la fame, per la sete o perchè mancano i medicinali”.
La Chiesa continuerà a sostenere i rifugiati
Il patriarca conferma che la Chiesa farà ogni sforzo per continuare a sostenere materialmente e spiritualmente le moltitudini dei rifugiati sparsi sia sul territorio nazionale che nei Paesi vicini, continuando a pregare affinché il Signore conceda presto il dono della pace. (G.V.)
Sud Sudan. Appello del Consiglio delle Chiese: mai più la guerra!
Mai più la guerra in Sud Sudan, mai più: è questo l’accorato appello lanciato dal Consiglio delle Chiese del Sud Sudan (Sscc), al termine dell’incontro svoltosi a Kigali, in Rwanda. Composto da 25 membri, il Consiglio vede la Chiesa cattolica rappresentata da mons. Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba. Nel comunicato conclusivo della riunione, l’organismo tratteggia in modo chiaro la drammatica situazione del Sud Sudan, Paese africano indipendente solo dal 2011 e dal dicembre 2013 teatro di un conflitto civile innescato dai combattimenti tra le truppe governative del presidente Salva Kiir e i ribelli dell’ex vice presidente Riek Machar.
Inascoltata la voce della Chiesa
In primo luogo, guardando al Rwanda, l’Sscc esorta a prendere esempio dalla storia di perdono e riconciliazione avvenuta in questo Paese dopo il genocidio del 1994, e scrive: “Dobbiamo imparare dal Rwanda perché simili atrocità non avvengano mai più nel nostro Paese. Mai più!”. Quindi, il Consiglio ricorda l’importanza della “voce profetica della Chiesa”, rimasta, purtroppo, inascoltata: “Tutti i nostri suggerimenti per arrivare alla pace sono stati ignorati – si legge nel comunicato – Ma per portare a compimento il nostro mandato, datoci dal Signore, dobbiamo smetterla di fare soltanto i ‘cani guida’ e diventare, piuttosto, ‘cani da guardia’”. D’ora in poi, infatti, spiega l’Sscc, la Chiesa non si limiterà a mettere in guardia i leader politici e la popolazione dal ricorso alla malvagità, ma “intraprenderà anche azioni concrete per portare la riconciliazione nel Paese”.
Conflitto insensato, porvi fine immediatamente
Quindi, il Consiglio delle Chiese bolla come “insensato” il conflitto in corso, ribadendo che esso deve “cessare immediatamente”: “Non c’è alcuna giustificazione morale – prosegue la nota – nel continuare ad ucciderci fra noi”. E la fine delle ostilità, aggiungono i 25 firmatari del documento, “deve essere raggiunta prima di qualsiasi negoziato perché è inaccettabile fare trattative mentre la popolazione muore”. Al primo posto, dunque, devono esserci “i bisogni del popolo, non quelli dei politici o dei militari”, perché altrimenti “il potere, e non la pace, avrà la priorità su tutto”. Quindi, l’Sscc enumera le gravi conseguenze del conflitto: deterioramento economico ed umanitario; violazioni dei diritti umani; uccisioni e torture; rapimenti; bambini reclutati nei gruppi armati; arresti immotivati; forze di polizia che agiscono come se fossero al di sopra della legge; militarizzazione della società.
Denuncia di una volontà politica alla pace
Di fronte, poi, alla “mancanza di volontà politica alla pace”, il comunicato ricorda che invece “la Chiesa, storicamente, ha giocato un ruolo significativo nel processo di riconciliazione” e per questo l’Sscc rende noto, pubblicamente, che d’ora in poi “compirà passi concreti per una soluzione del conflitto”. “Andremo in tutte gli organismi regionali delle Chiese – prosegue la nota – nei Consigli nazionali e nei singoli luoghi di culto” per promuovere un piano per la pace. In quest’ottica, viene auspicato anche l’interessamento della comunità internazionale.
Non farsi condizionare dal passato
“La riconciliazione è essenziale a tutti i livelli – scrive l’Sscc – E solo la Chiesa può portare ad essa”. Per fare questo, però, “è necessario trasformare i cuori delle persone e della nazione”, perché il Sud Sudan riuscirà a vivere come una nazione unita “solo con l’aiuto di Dio” che porta “al perdono ed alla pace”. Il documento si chiude con un messaggio di speranza e con l’esortazione a non farsi più condizionare dal passato, bensì ad “accettarsi l’uno l’altro come un popolo unito”. (I.P.)
Nepal: dopo il sisma a rischio migliaia di donne incinte e bambini
“Almeno 50mila donne incinte potrebbero riportare deficit permanenti a causa del terremoto. I bambini potrebbero nascere deformati, con paralisi cerebrale o con disturbi di altro tipo”. È quanto suor Stella Davis dichiara all'agenzia AsiaNews parlando delle condizioni di vita delle donne all’indomani del terremoto che ha colpito il Nepal il 25 aprile scorso e che ha causato 8.700 vittime accertate e 17mila feriti. Suor Stella appartiene alla congregazione delle Sorelle della croce di Chavanod e insegna al liceo gesuita St. Xavier di Kathmandu. La religiosa gestisce anche un Centro per donne e bambini, tra i più svantaggiati in questa tragedia.
Le studentesse sono inconsolabili
Suor Stella racconta delle ragazze del suo liceo, che vivono sotto le tende o in casa di qualche parente: “Alcune sono inconsolabili perché hanno perso la loro casa. Si sentono a disagio, insicure e vulnerabili. La maggior parte di loro ha perso i libri e gli effetti personali durante il sisma”. La religiosa aggiunge che l’attività del liceo sta tornando alla normalità ma tutti sono ancora impauriti ed insicuri. “Adesso il problema principale per le donne è l’accesso ad acqua e cibo non contaminati e ripari sicuri, soprattutto nelle aree rurali del Nepal. Nel Centro che gestisco ci stiamo concentrando in particolare su gruppi di donne migranti che vivono nelle baracche o sono senza casa”, continua.
Nella cappella danneggiata dal sisma, intatti tabernacolo e statua della Madonna
La comunità della religiosa si trova nell’area di Pashupathi nella capitale, fortemente danneggiata dal sisma. Negli attimi successivi al terremoto le suore si sono precipitate nella cappella per accertarsi delle condizioni: “Siamo entrate nella cappella in preda al panico. Ma quando abbiamo visto che il tabernacolo e la statua di Maria non si erano spostate nemmeno di un centimetro abbiamo gioito. Questo ha accresciuto la nostra fede in Dio e la consapevolezza che Lui si prenderà cura di noi e dei nostri edifici. Lui vive nella nostra casa”.
La generosità dei vicini
Durante il terremoto la casa della Congregazione ha subito lievi danni e le consorelle hanno vissuto per quattro giorni e quattro notti all’aperto, sotto piogge fitte e densi nuvoloni. La suora riporta anche la generosità dei vicini, “che hanno condiviso con noi il loro cibo, dal momento che la cucina della nostra comunità era inagibile”. Durante i giorni vissuti all’addiaccio, le religiose hanno trascorso molto tempo insieme agli altri sfollati, cercando di alleviarne le sofferenze attraverso la preghiera: “Di continuo chiedevamo al Signore di darci il coraggio per affrontare la situazione. Abbiamo condiviso la loro agonia, paura e incertezza”.
Gli edifici cattolici hanno subito meno danni
In seguito gli ingegneri hanno escluso la presenza di danni strutturali e hanno dichiarato agibile lo stabile, cosa che ha permesso il ritorno delle suore nell’istituto. Gli edifici cattolici sono quelli che hanno subito meno danni durante il terremoto perché costruiti in modo corretto, a differenza dei templi indù, degli edifici e delle carceri del Paese per i quali sono stati utilizzati materiali scadenti. (N.C.)
Suora in Sud Corea: preoccupazione per il virus Mers
“La Mers continua a preoccupare i nostri connazionali e per le strade ci si imbatte in un numero sempre più alto di persone che indossano le mascherine protettive”. La testimonianza è di suor Domina Kwon, della Congregazione delle Suore di San Paolo di Chartres, che racconta come la paura del contagio si stia diffondendo a macchia d’olio. Il paziente zero affetto da sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus (Mers-Cov) è stato segnalato il 20 maggio scorso. Si tratta di un uomo di 68 anni proveniente dal Bahrein.
Le autorità accusate di essersi mosse in ritardo
Inizialmente sottovalutato dalle autorità, il virus si è diffuso rapidamente tanto che ad oggi il bilancio è di 9 morti e 108 contagiati. Attualmente sono quasi tremila le persone tenute in quarantena e molte scuole sono state chiuse per precauzione. “Purtroppo le autorità si sono mosse in ritardo e gli interventi sono stati inefficaci. Ciò è dovuto anche al fatto che il Ministro della Salute, Moon Hyung-Pyo, è un economista, quindi non esperto in materia ed ha invitato i cittadini a non indossare alcuna protezione. Salvo poi apparire in tv con una mascherina” ha spiegato la religiosa. Critico anche il primo cittadino di Seul, Park Won-Soon, che ha accusato il governo di non aver fornito sufficienti informazioni sul virus e sull’accoglienza degli ospedali.
Il Paese rivive l'incubo del traghetto Sewol
Il Samsung Medical Center, per esempio, uno dei più noti nosocomi in Corea del Sud, è il più “interessato” dal contagio e al momento ospita 37 pazienti. Tra questi: medici, infermieri e persino una donna incinta. Il sindaco di Seul ha ritenuto opportuno istituire un pool di esperti per garantire un adeguato aggiornamento della situazione. Nel frattempo il governo ha pubblicato la lista dei 24 presidi sanitari “sicuri”. Si trovano per lo più nella capitale e nella provincia di Gyeonggi. “Purtroppo ciò è avvenuto a 17 giorni dall’identificazione del primo focolaio. Sembra di rivivere l’incubo di Sewol (la strage del traghetto ndr)” ha sottolineato suor Domina Kwon. (A cura di Davide Dionisi)
Bartolomeo I: in silenzio mettiamoci in ascolto della natura
Un invito a fare silenzio e a mettersi in ascolto della natura è stato lanciato dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I aprendo ad Halki il secondo summit sull’ambiente che si conclude oggi. “Per raggiungere un adeguato grado di maturità e dignità verso la creazione - ha detto il patriarca ai partecipanti - dobbiamo prendere tempo per sentire la sua voce. E per fare questo, dobbiamo innanzitutto fare silenzio”. Promosso a giugno, in un mese importante per la questione ecologica in vista della imminente pubblicazione dell’enciclica di Papa Francesco - riferisce l'agenzia Sir - il summit di Halki si inserisce in una serie di interventi e iniziative ecologiche promosse dal patriarcato, tra cui otto simposi internazionali sull’isola di Patmos (1995-2009) e cinque seminari estivi (1994-1998).
Responsabilità morale e vocazione spirituale per proteggere l'ambiente
“Abbiamo iniziato le nostre iniziative - ha ricordato lo stesso patriarca - più di 30 anni fa, quando il cambiamento climatico non era né una sfida politica e neppure una convenzione ideologica. Eravamo semplicemente convinti della nostra responsabilità morale e vocazione spirituale di proteggere e preservare questo dono unico e sacro del nostro pianeta e dell’universo”. Un compito che il patriarcato ecumenico ha svolto collaborando con le autorità politiche, le istituzioni religiose e con i Papi “Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora il nostro fratello Francesco”.
Troppo poco è stato fatto per la salvaguardia del pianeta
Lo sforzo che a più livelli si sta compiendo è ora quello di “penetrare negli strati” della società. “Perché, se siamo onesti con noi stessi - ha detto il patriarca -, dobbiamo ammettere che troppo poco è stato fatto per esortare le persone a rivedere e riformare le loro vie, pentendosi per il loro impatto distruttivo sul pianeta”. Questo il motivo per cui il patriarcato ecumenico ha invitato quest’anno al summit di Halki personalità del mondo dell’arte e della letteratura, della musica e della fotografia. A loro Bartolomeo si è rivolto così: “Come artisti e intellettuali, siete quelli che possono rimodellare il modo in cui la gente pensa e percepisce il mondo. Come pensatori ed educatori, siete quelli che possono fornire i principi fondamentali e le linee guida per una visione del mondo alternativa e una cultura diversa. Come autori e poeti, voi siete quelli che possono presentare un modo non convenzionale e addirittura rivoluzionario di vivere e di comportarsi”.
L’alfabeto della lingua divina misteriosamente nascosto nella natura
L’invito del patriarca è di fare silenzio e di mettersi in ascolto della natura perché - ha detto - “in natura, ogni pianta, ogni animale, e anzi ogni microorganismo racconta una storia unica, dispiega un sacro mistero, e rimanda a un’eccezionale armonia ed equilibrio”. Un dialogo misterioso che può essere intravisto anche “nelle galassie”. La sfida quindi prima ancora degli accordi internazionali è “cominciare a imparare e insegnare l’alfabeto di questa lingua divina, che è misteriosamente nascosto nella natura”. (R.P.)
Svizzera: Plenaria dei vescovi su Sinodo e Giubileo
Il Sinodo generale ordinario sulla famiglia, in programma il prossimo ottobre in Vaticano, ed il Giubileo straordinario della misericordia, che si aprirà l’8 dicembre: sono stati questi i due punti focali della 308.ma Assemblea della Conferenza episcopale svizzera (Ces), svoltasi ad Einsiedeln. “I vescovi svizzeri – si legge nel comunicato finale dei lavori – si sono concentrati sui preparativi al Sinodo, in particolare sui risultati delle riflessioni sui temi principali dell’Assise, svoltesi in Svizzera la scorsa primavera, su impulso della stessa Ces”.
31 agosto, Giornata di studio su matrimonio e famiglia
I presuli elvetici, prosegue la nota, sono stati anche informati sull’esito della Giornata di studio sulla famiglia, tenutasi a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, alla fine di maggio. L’iniziativa si è svolta su invito dei presidenti delle Conferenze episcopali di Francia, Germania e Svizzera ed ha visto un gruppo di vescovi di questi tre Paesi – tra i quali molti Padri sinodali - affrontare i temi del prossimo Sinodo con l’obiettivo di arricchire la riflessione sui loro fondamenti biblici e teologici. Le questioni esaminate a Roma verranno poi approfondite ulteriormente nel corso di un incontro che la Ces ha organizzato per il 31 agosto a Berna. “Al centro di questa giornata – prosegue la nota – ci sarà la riflessione su come colmare la distanza presa da numerosi cattolici rispetto alla Chiesa sui temi del matrimonio e la famiglia”.
Giubileo favorisca il dialogo interreligioso
La 308.ma Assemblea della Ces si è soffermata sul Giubileo straordinario della misericordia, indetto da Papa Francesco, e che si terrà dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016. “I vescovi svizzeri – prosegue la nota - invitano i fedeli a riscoprire le opere di misericordia corporale e spirituale” ed a vedere nell’Anno Santo un’occasione per “favorire il dialogo interreligioso con l’ebraismo e l’Islam”. Centrale anche l’invito ad intraprendere un pellegrinaggio, come indicato da Papa Francesco nella “Misericordiae Vultus”, la bolla di indizione giubilare.
L’importanza dell’opera caritativa della Chiesa
Altro tema esaminato dalla Ces è stato quello relativo agli abusi sessuali nel contesto ecclesiale: “Nel 2014 – si legge nel comunicato – 12 vittime e 10 autori sono stati resi noti alle diocesi. Tutti i casi risalivano al periodo 1950-2000, ad eccezione di un solo episodio verificatosi nel 2013”. Conclusa l’Assemblea, la Ces ha incontrato “Action de Careme”, (Adc) opera di aiuti dei cattolici nel Paese, per “uno scambio di idee sullo sviluppo e le prospettive dell’azione caritativa cattolica in Svizzera”: in particolare, i vescovi hanno espresso “il loro ringraziamento e la loro riconoscenza per l’operato compiuto dall’Adc”. (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 161