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Sommario del 25/02/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



P. Bianchi: la "Lectio divina" ti regala lo sguardo di Dio

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“Lasciarsi sorprendere da Dio”. È questo il tema portante della quarta giornata di Esercizi spirituali che Papa Francesco sta vivendo nella Casa “Divin Maestro” di Ariccia, assieme ai suoi collaboratori della Curia Romana. Il metodo adottato dal predicatore degli Esercizi, padre Bruno Secondin, è quello della “Lectio divina”. Per comprendere meglio cosa significhi questa pratica, Alessandro De Carolis ne ha parlato con un esperto, il priore della comunità di Bose, padre Enzo Bianchi, tra i primi a rilanciare la “Lectio” negli anni Settanta del Novecento: 

R. – La “Lectio divina” è innanzitutto un metodo di pregare la Parola contenuta nelle Sante Scritture. È un metodo che risale ai Padri della Chiesa, ma che ha avuto un’ora certamente straordinaria nel Medioevo con i monaci cistercensi e certosini, la “Sacra Pagina”. É stato allora che Guido il Certosino nella “Scala claustralium” ha proprio definito il metodo. È molto semplice. È un metodo in cui si prevedono quattro momenti. Innanzitutto, la lettura del testo della Scrittura e una comprensione del testo così come questo può essere letto, come dice. Un secondo momento è dato dalla meditazione: si tratta di cercare nel testo, eventualmente di pensare di aiutarci con dei commenti, oppure cercando dei brani paralleli all’interno della Scrittura. Il terzo elemento è l’orazione: lasciarsi ispirare dal brano letto per poter pregare. Se nel brano abbiamo trovato che Gesù perdona l’adultera, è una preghiera di richiesta di misericordia per i peccatori. Se Gesù ci dà il pane del suo corpo, è un preghiera affinché noi possiamo partecipare alla mensa eucaristica. Insomma, è proprio in quel caso lì che la Scrittura che detta le intenzioni della nostra preghiera. E l’ultimo momento, che può sembrare il più difficile – si chiama contemplazione – è nient’altro che cercare, dopo questa lettura, questa meditazione e questa preghiera, di vedere le realtà del mondo con gli occhi di Dio. La contemplazione è lo sguardo di Dio: è il sentimento di Cristo sulle cose ed è certamente il frutto dei primi tre momenti della “Lectio divina”.

D. – Dagli ultimi Papi, in particolare, è sempre venuto un invito, non solo ai sacerdoti ma anche ai laici, a vivere questa esperienza. Che cosa produce un’abitudine a praticare la “Lectio divina”?

R. – Quando ho proposto la “Lectio divina” all’inizio degli anni Settanta, sembrava una proposta stravagante. La “Lectio divina” non era più conosciuta e sono stato io a iniziare a quel metodo. Ma subito dopo Giovanni Paolo II, alla fine degli Anni ’90, poi Benedetto XVI e poi ancora Papa Francesco hanno raccomandato a tutti di adottarla, perché è la maniera con la Parola di Dio diventa nostro cibo. È la maniera con cui il Vangelo ci plasma, ci cambia, ci converte. Credo che se ciascuno, anche la persona più semplice, quella che lavora nel mondo, la fa per dieci minuti, un quarto d’ora al giorno, un tempo minimo, vede che la sua vita cambia giorno dopo giorno perché è plasmata dalla Parola. Solo se c’è questo ascolto assiduo, noi nutriamo la fede, diventiamo cristiani maturi, cristiani con la statura di Cristo, come dice Paolo, avendo in noi soprattutto i suoi stessi sentimenti.

D. – Se pensiamo all’indifferenza che oggi regna in tanti giovani rispetto alle cose dello Spirito, verrebbe quasi da dire che la “Lectio divina” sia una proposta per loro irricevibile. Qual è la sua esperienza in merito?

R. – Io devo dire la mia esperienza, e non un’esperienza recente: i giovani che vengono da noi a Bose, numerosi, sono migliaia durante l’anno. A loro non offriamo nient’altro che la “Lectio divina”. Certo, bisogna che la “Lectio divina” sia soprattutto il Vangelo reso eloquente, che tocchi la vita quotidiana dei giovani. Per cui, un ascolto della “Lectio divina” per i giovani è più facile oggi – dobbiamo dirlo, ahimè, purtroppo – di una Messa, di un Sacramento. Non dovrebbe essere così. Però oggi è così, perché una meditazione è un sentimento che tocca anche i non cristiani. Non dimentichiamo che molti, non trovandola nel cristianesimo, nella Chiesa, perché non gli viene offerta, fanno sovente questa svolta a Oriente, finendo in cose che sono estranee alla nostra cultura e che non danno certamente i frutti della Parola di Dio che è il Vangelo.

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Nomine episcopali in Brasile

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In Brasile, Papa Francesco ha nominato vescovo di Três Lagoas il sacerdote Luiz Gonçalves Knupp, finora parroco della parrocchia “Nossa Senhora de Fátima” a Marialva, nell’arcidiocesi di Maringá. Il nuovo presule è nato a Mandaguari, arcidiocesi di Maringá, il 29 novembre 1967. Dopo gli studi elementari, ha frequentato il Corso di Filosofia presso il Seminario “Nossa Senhora da Glória” a Maringá e quello di Teologia presso il CINTEC – Centro Interdiocesano de Teologia de Cascavel, nell’arcidiocesi di Cascavel. È stato ordinato sacerdote il 24 aprile 1999. Nel corso del ministero sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: Amministratore parrocchiale (2000) e poi Parroco della parrocchia “Nossa Senhora de Guadalupe” a Maringá (2002-2007); Direttore Spirituale dei Seminari di Teologia, Filosofia e Propedeutico dell’arcidiocesi di Maringá; Amministratore parrocchiale della parrocchia “Nossa Senhora de Fátima” (2008); Direttore Spirituale del Seminario “Santíssima Trindade”, dell’arcidiocesi di Maringá, ma con sede a Londrina. Attualmente è Parroco della parrocchia “Nossa Senhora de Fátima” a Marialva, arcidiocesi di Maringá.

Sempre in Brasile, il Papa ha nominato vescovo di Luz il sacerdote José Aristeu Vieira, finora parroco della parrocchia “Imaculada Conceição” a Buritizeiro, nell’arcidiocesi di Diamantina. Mons. Vieira è nato a Rio Vermelho, diocesi di Guanhães, il 14 luglio 1952. Ha frequentato i Corsi di Filosofia e Teologia presso il Seminario Provinciale “Sagrado Coração de Jesus” a Diamantina. Inoltre, ha frequentato il Corso di Psicopedagogia presso la Facoltà “Nossa Senhora Imaculada Conceição” a Viamão (arcidiocesi di Porto Alegre); un Corso di Pastorale Biblica in Colombia e il Corso di Spiritualità dei Sacerdoti del Prado a Lyon – Francia (2006-2007). È stato ordinato sacerdote il 13 ottobre 1979, incardinandosi nell’arcidiocesi di Diamantina. Nel corso del ministero sacerdotale ha ricoperto i seguenti incarichi: Parroco della Parrocchia “Nossa Senhora da Conceição” a Monjolos; Direttore spirituale e Professore nel Seminario Provinciale “Sagrado Coração de Jesus”, a Diamantina; Coordinatore della Pastorale Vocazionale e delle Opere per le Vocazioni Sacerdotali dell’arcidiocesi di Diamantina; Parroco della Parrocchia “Nossa Senhora da Conceição” a Couto Magalhães; Vicario Parrochiale e poi Parroco della Parrocchia “Senhor Bom Jesus” a Diamantina; Parroco della Parrocchia “Santo Antônio” a São João da Chapada; Parroco della Parrocchia “Nossa Senhora da Conceição” a Serro; Amministratore parrocchiale della Parrochia “Santo Antônio” a Alvorada de Minas; Parroco della Parrochia “Imaculada Conceição” a Corinto; Secondo Consigliere del Consiglio Generale dell’Associazione “Sacerdoti del Prado” (2007-2013). Attualmente è Parroco della parrocchia “Imaculada Conceição” a Buritizeiro, nell’arcidiocesi di Diamantina.

Ancora in Brasile, il Pontefice ha nominato ausiliare dell’arcidiocesi di Campo Grande padre Janusz Danecki, dei Francescani Minori Conventuali, finora parroco della Parrocchia “Nossa Senhora de Fátima” a Juruá, nella prelatura di Tefé, assegnandogli la sede titolare vescovile di Regie. Il neo presule è nato a Sochaczew, diocesi di Łowicz (Polonia), l’8 settembre 1951. Entrato nell’Ordine Francescano dei Frati Minori Conventuali nel 1965, ha studiato inizialmente presso il Seminario Minore Francescano di Niepokalanów (1965-1970). Dopo il Noviziato, ha frequentato i corsi di Filosofia e Teologia presso il Seminario Maggiore Francescano di Kraków (1971-1977). Ha emesso i primi voti religiosi il 5 settembre 1971 ed i voti solenni l’8 dicembre 1975. È stato ordinato sacerdote il 19 giugno 1977. Prima di andare come missionario in Brasile (1985), ha esercitato il ministero sacerdotale nelle parrocchie francescane di Niepokalanów e Łodz, nel difficile periodo dell’egemonia comunista. Dopo l’arrivo in Brasile, ha ricoperto i seguenti incarichi: Formatore dei postulanti e Superiore della Comunità “Jardim da Imaculada”, nella diocesi di Luziânia (1985-1995); Direttore Nazionale della Milizia dell’Immacolata e Parroco della parrocchia “Sant’Antônio” (1992-1995); Rettore del Seminario Francescano a Brasília, Guardiano del Convento e Segretario della Custodia (1996-1999); Guardiano del Convento “Jardim da Imaculada” a Luziânia (2000-2003); Vicario Provinciale e Formatore a Brasília (2004-2007); Parroco della parrocchia “Jardim da Imaculada” a Luziânia (2008-2009). Attualmente è Parroco della parrocchia “Nossa Senhora de Fátima” a Juruá, nella prelatura di Tefé.

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Il Papa non intendeva ferire i sentimenti del popolo messicano

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Precisazione del direttore della Sala stampa vaticana il Padre Federico Lombardi, sull'espressione “evitare la messicanizzazione” usata dal Papa in una email privata e informale  in risposta ad un amico argentino molto impegnato nella lotta alla droga, che aveva usato questa frase.

"La Segreteria di Stato ha consegnato una Nota all’ambasciatore del Messico presso la Santa Sede in cui chiarisce che con la espressione “evitare la messicanizzazione” il Papa non intendeva assolutamente ferire i sentimenti del popolo messicano, che ama molto, né misconoscere l’impegno del Governo messicano nel combattere il narcotraffico.

Com’è noto, l’espressione “evitar la mexicanización” era stata utilizzata dal Papa in una e-mail di carattere strettamente privato e informale, in risposta a un amico argentino molto impegnato nella lotta alla droga, che aveva usato questa frase.

La Nota mette in luce che evidentemente il Papa non intendeva altro che rilevare la gravità del fenomeno del narcotraffico, che affligge il Messico e altri Paesi dell’America Latina. E proprio per questa gravità la lotta contro il traffico di droghe è una priorità del Governo; per contrastare la violenza e ridare pace e serenità alle famiglie messicane, incidendo sulle cause che sono all’origine di questa piaga.

Si tratta di un fenomeno, come altri in America Latina, per i quali in varie occasioni, anche negli incontri con i Vescovi, il Santo Padre ha richiamato l’attenzione sulla necessità di adottare a tutti i livelli politiche di cooperazione e di concertazione".

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Ritorna sui tuoi passi: esercizi spirituali della Curia romana.

Medicine accessibili a tutti: intervetno della Santa Sede a Ginevra.

Vorrei che il mondo vi invidiasse: Federica Maveri sull'arcivescovo Montini e le religiose.

Per una perfetta equazione: tra obbedienza alle norme e carattere morale.

Unico capitale affidabile: il cardinale Kurt Koch sulla ricerca del significato del matrimonio cristiano.

E Napoleone fuggì dall'Elba: duecento anni fa iniziavano i cento giorni.

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Oggi in Primo Piano



Cristiani rapiti da Is: mons. Audo, vogliono dividere Siria

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Sono decine e decine le famiglie cristiane, assire e non solo, rapite negli ultimi giorni in Siria dai gruppi jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is) nella regione nord orientale di Hassake, lungo il fiume Khabur. Una chiesa è stata distrutta, alcuni villaggi sono al momento occupati. Nella zona, inoltre, da domenica è in corso un'offensiva dei peshmerga curdi, sostenuti dai raid aerei della coalizione internazionale. Secondo la Rete assira dei diritti dell’uomo, con sede in Svezia, circa mille famiglie cristiane avrebbero già abbandonato le loro abitazioni nel nord est del Paese. L’emergenza è confermata anche da mons. Antoine Audo, vescovo di tutti i caldei della Siria e presidente di Caritas Siria, intervistato da Giada Aquilino

R. - E’ una zona accanto a Hassake, nel nord-est della Siria. Si tratta di circa 35 villaggi, in prevalenza assiri, ma ci sono anche tre villaggi abitati da caldei, che quindi dipendono da me. Ho parlato con il mio vicario ad Aleppo, che è in contatto con Hassake e mi ha detto che si parla dell’arrivo di 3 mila persone: famiglie di questi villaggi che stanno scappando verso Hassake. Hanno organizzato un programma d’aiuto per ospitarle presso famiglie cristiane di Hassake. Si parla di 50 cristiani rapiti, altri dicono 90, altri ancora dicono 150. Si dice che hanno preso questi cristiani per fare scambi con i curdi, che hanno preso ostaggi dal gruppo islamico ‘Daesh’.

D.  – Quindi sarebbe per uno scambio di prigionieri?

R. – Sì, così sembra.

D. – Ci sono richieste in questo senso?

R. - Ho sentito dire che quello è lo scopo della presa dei prigionieri assiri e caldei.

D. – Perché i miliziani dello Stato islamico in questo momento stanno colpendo proprio al confine con la Turchia?

R. – Penso che abbiano il sostegno della Turchia. Possiamo dirlo chiaramente, anche se la Turchia non lo riconosce. Vogliono fare la guerra contro i curdi nella regione: è chiaro. E poi seminare terrore e disordine. Penso che lo scopo di questa politica sia distruggere la Siria, dividerla come hanno fatto in Iraq.

D. – Come vivono i cristiani della Siria oggi? Lei più volte ha parlato di un drammatico impoverimento…

R. – Sì, tutti siamo diventati poveri. E’ veramente una cosa terribile. Non si può negare. Prima della guerra tutti i siriani, particolarmente i cristiani, potevano vivere e lavorare. Adesso non c’è sicurezza, non c’è lavoro. I ricchi sono partiti, la classe media è diventata povera e i poveri sono diventati miserabili!

D. – In questo quadro di emergenza che dura da quattro anni - perché poi non c’è solo l’emergenza del sedicente Stato Islamico, ma c’è anche il conflitto interno - che aiuti arrivano ai cristiani siriani? Lei è presidente di Caritas Siria…

R. – Caritas, come organizzazione cattolica internazionale, fa di tutto per organizzare gli aiuti nelle sei regioni della Siria, perché per Caritas la Siria è divisa in sei regioni: Damasco, Horan, Homs, nel litorale Tartus e Latakia, poi Aleppo, quindi la regione di Hassake, dove c’è adesso questo dramma e per il quale abbiamo deciso di dare un aiuto di emergenza alle famiglie. Generalmente Caritas si occupa di cibo, medicine, scuole, anziani, profughi…

D. – Questi aiuti bastano?

R. – Caritas lavora con tutti, non c’è una distinzione confessionale. E’ un servizio umanitario della Chiesa cattolica per tutti, anche per i musulmani, davvero per tutti i gruppi. I cristiani, tramite le diocesi e i loro vescovi, hanno programmi speciali per sostenere e aiutare. Sono molto attivi.

D. – E ai cristiani arrivano aiuti da altre realtà? Da Hassake l’arcivescovo siro-cattolico Hindo ha lanciato un appello: dalla Mezzaluna Rossa non sarebbero arrivati aiuti per i cristiani…

R. – Un aiuto generale. Noi come cristiani lavoriamo anche con la Mezzaluna Rossa ma non è facile, i cristiani non sono abituati ad andare a chiedere, aspettano il sostegno della Chiesa. L’arcivescovo siro-cattolico di Hassake, unico arcivescovo cattolico della regione, deve prendersi cura di tutti questi cristiani nel nome della Chiesa universale e quindi si capisce il suo appello per sostenere tante famiglie cristiane in questa prova.

D. – La popolazione siriana in questo momento sente la vicinanza della comunità internazionale?

R. – No, sentono un complotto internazionale contro la Siria, per distruggere questo Paese.

D. – Il Papa più volte ha pregato per i cristiani di Siria e non solo: come vengono accolte le preghiere del Pontefice?

R. – Sono un sostegno straordinario. Quando i cristiani perdono tutto guardano alla Chiesa, guardano al Papa per chiedere sostegno e fiducia. Questo è l’atteggiamento profondo.

D. – Lei in questi giorni è stato a Roma, in Vaticano, per fare il punto sull’impegno della Caritas, insieme a Caritas Internationalis…

R. - Sì, ho avuto incontri con Caritas Internationalis e contatti con differenti Congregazioni. Il mio appello è: cerchiamo la pace con la preghiera, con la riflessione, con una buona formazione. Tutti perdiamo nella distruzione della Siria: si deve fare la pace, nel rispetto di tutti.

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Boko Haram. Pime: in Camerun a migliaia cercano asilo

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Sono oltre 200 i miliziani di Boko Haram uccisi dalle truppe del Ciad in Nigeria, a Garambu al confine con il Camerun, nell'ambito delle operazioni multinazionali condotte contro il gruppo terrorista. Anche i jihadisti continuano però a colpire: ieri, oltre 30 persone sono rimaste uccise ieri in due attentati nel nordest del Paese a Kano e nello stato di Yobe. Nel nord del Camerun, ad accogliere le decine di migliaia di persone che varcano la frontiera con la Nigeria in fuga dalla violenza di Boko Haram, c’è fratel Fabio Mussi, missionario del Pime a Yagoua, dove coordina la Caritas diocesana. Fratel Mussi, una volta al mese, raggiunge l’estremo nord del Camerun, vicino al lago Ciad, zona da dove arrivano i profughi. Francesca Sabatinelli lo ha raggiunto telefonicamente: 

R. – La situazione è cambiata da circa un mese, con la presenza dell’esercito del Ciad e con le incursioni della cosiddetta coalizione in territorio nigeriano. Oggi, possiamo dire che da un mese, un mese e mezzo a questa parte, c’è stata una diminuzione del numero di rifugiati, ma un aumento della gravità di questa situazione, perché la gente che arriva è molto più stremata di prima. La maggior parte delle persone sono donne, bambini e anziani, mancano gli uomini, che non si sa bene dove siano, se siano arruolati tra i Boko Haram o se siano scappati o se siano altrove. Queste persone arrivano ancora più stremate perché ora arrivano da zone più all’interno. Quando è arrivato il contingente dal Ciad, entrato in Nigeria per mettere in sicurezza la zona vicino alla frontiera, Boko Haram si è spinto un po’ più all’interno del Paese. Questo ha provocato in alcuni villaggi, che prima non venivano direttamente toccati, la stessa situazione che c’era prima alla frontiera e quindi massacri, ruberie. Tutto questo ha portato la popolazione ancora a scappare.

D. – Secondo lei, questa azione delle forze del Ciad è efficace?

R. – Sembra essere efficace. Credo sia una azione da considerarsi a tappe. La settimana scorsa si sono incontrati i capi di Stato (di Nigeria, Ciad, Niger, Benin e Camerun - ndr)  e hanno deciso di costituire una nuova forza d’urto composta da militari dei diversi Paesi. Quindi, saranno circa 10 mila gli uomini che interverranno ulteriormente. Attualmente, la forza della coalizione è centrata sul contingente ciadiano, che sta svolgendo un lavoro militare molto forte, anche se al momento si accontenta di mettere in sicurezza la fascia sul confine in attesa che si attui quest'altra soluzione che è stata già presa, cioè mettere in campo questa forza d’urto che interverrà più all’interno.

D. – Quanti rifugiati avete ospitato finora?

R. – Dall’inizio penso siano state varie decine di migliaia. Il metodo che viene seguito qui fa sì che i rifugiati quanto entrano vengano accolti dalle autorità e dai nostri operatori. Poi, nel giro di 15-20 giorni, vengono presi in carico dalle Nazioni Unite, che li porta nel campo profughi di  Minawao, vicino a Maroua: è un grande campo, che accoglie più o meno 50 mila persone, che è stato costituito proprio in questi ultimi mesi. Attualmente, noi seguiamo non più di duemila profughi. A questi vanno poi aggiunti gli sfollati camerunesi che sono stati allontanati dai villaggi della frontiera.

D. – Voi come riuscite a sostenere tutte queste persone?

R. – Riusciamo a farlo con gli aiuti che abbiamo ricevuto dai nostri sostenitori europei, che ci permettono di dare però solo un primo aiuto, non possiamo aiutare tutti e in modo continuo. Almeno cerchiamo di fare il necessario per permettere a queste persone di sopravvivere.

D. – Attualmente, qual è l’emergenza?

R. – Noi abbiamo due tipi di emergenze prioritarie: quella alimentare e quella sanitaria. A queste fa poi seguito un discorso a medio termine, che è quello di evitare che ci sia una parte di questa popolazione che resti sulla strada, senza alloggio. E’ necessario quindi trovare delle case, ma anche trovare il modo affinché possano avere acqua pulita, per evitare le epidemie normali in queste situazioni.

D. – Quanti sono i cristiani che arrivano da voi?

R. – Non c’è una stima concreta di quanti siano i cristiani o di quanti siano i musulmani. Bisogna riconoscere che adesso sono tutte persone che si trovano nella stessa situazione, indipendentemente dalla loro fede religiosa. Attualmente, non c’è un “accanimento” contro i cristiani. Faccio l’esempio di Fotokol: quando hanno attaccato, 15 giorni fa, questa cittadina hanno colpito soprattutto dei musulmani che erano ritenuti collaboratori o non così fanatici come loro. Quindi, se dovessimo fare una stima credo che i cristiani non siano più del 5-6% della popolazione che assistiamo, gli altri sono in maggioranza musulmani. Noi possiamo portare questo tipo di assistenza grazie agli aiuti che ci arrivano dall’Italia, dalla Germania. Noi qui ci occupiamo di questo pezzo di Africa e stiamo cercando di fare tutto il possibile per diminuire un po’ le sofferenze di queste popolazioni.

D. – E lo state facendo anche a costo della vostra vita?

R. – Fino adesso ce la siamo cavata. Però, sappiamo che le zone sono pericolose sia per questi attacchi sia per queste strade che sono state minate. Quello che stiamo temendo è che arrivi anche qui la situazione che si sta realizzando in Nigeria, quella dei bambini kamikaze. Non si può escludere in alcun modo che arrivi anche qui. Per il momento, fortunatamente, non abbiamo alcun caso da segnalare. 

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Nuove tensioni etniche in Myanmar: 30 mila civili in fuga

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Riesplodono le tensioni etniche in Myanmar: da giorni si susseguono scontri tra i ribelli di etnia Kokang e l’esercito governativo, nello stato di Shan, in una zona del nord est al confine con la Cina. Un centinaio le vittime tra cui 50 soldati uccisi nel fine settimana e il Presidente Thein Sein ha dichiarato lo stato di emergenza, imponendo la legge marziale per i prossimi tre mesi. Due giorni fa i ribelli hanno attaccato anche un convoglio della Croce Rossa internazionale, fatto che ha destato molta preoccupazione, perché è stato il primo attacco di questo genere nella storia del Paese. In allarme Pechino che teme uno sconfinamento degli oltre 30 mila civili in fuga. Ma cosa sta succedendo in quest’area? Cecilia Seppia lo ha chiesto al prof. Romeo Orlandi, presidente del comitato scientifico di Osservatorio Asia. 

R. - Quello che sta succedendo nella zona di confine tra l'ex Birmania oggi Myanmar e la Cina – nella provincia meridionale cinese dello Yunnan – è la serie di uno scoppio di contraddizioni che non sono state risolte nel tempo, e è l’esempio forse più lampante  della composizione etnica, del mosaico irrisolto è la Birmania: ci sono, lo ricordiamo 135 etnie. Lì  vivono dei cinesi che non stati mai completamente assimilati nel mainstream birmano e che con la guerriglia hanno difeso la propria autonomia  e soprattutto i loro interessi economici. Si tratta di interessi legati al legname pregiato, delle pietre preziose, i rubini, e anche della coltivazione dell’oppio e del papavero. Sono metodi illegali per mantenere un esercito che doveva difendere l’autonomia di questa zona che non è stata mai completamente integrata.

D. - Questi scontri tra ribelli Kokang e l’esercito del Myanmar hanno ovviamente provocato un esodo di massa che ha messo Pechino in allarme. Però la Cina non ha intenzione, a quanto pare, di intervenire: sta spingendo per la mediazione. Che rapporto c’è allora tra la Cina e il Myanmar?

R. - I rapporti con la Cina sono fondamentali per la Birmania, soprattutto negli anni bui della chiusura democratica della dittatura. La Cina e in parte l’India e l’Asia erano gli unici Paesi che tenevano viva la Birmania dal punto di vista economico attraverso gli scambi commerciali nella fornitura di materie prime. Insomma, questo flusso con la Cina da una parte ha fatto un po’ “vendere” il Paese alla Cina, dall’altra parte è stata la linea che il governo ha dovuto subire e mantenere. Con l’apertura verso la democrazia, che ovviamente non è ancora stata raggiunta completamente, il governo birmano ha per forza di cose rallentato i rapporti con la Cina.

D. - Pechino non vuole infilarsi in una guerra in questa zona, ma in Myanmar non ci sono certo solo interessi cinesi…

R. - Credo che a livello geostrategico ci siano forti interessi confliggenti; la Birmania è un Paese di snodo tra l’accesso al Sud-Est asiatico - e quindi ad un mercato di 620 milioni di persone; è la linea  di confine tra l’India e la Cina. Culturalmente è forse più vicina all’India anche per la dominazione britannica, però geograficamente è più vicina alla Cina; e soprattutto è un Paese di grandi tradizioni culturali: 60 milioni di abitanti che vivono su un immenso giacimento di gas, petrolio e materie prime, un terreno fertile; inoltre è una destinazione straordinaria per il turismo culturale. È ovvio che è un Paese che fa gola!

D. - Recentemente tra i nuovi cardinali creati dal Papa c’è anche il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon. Si tratta del primo porporato del Myanmar che in qualche modo si è sempre battuto per il diritto alla libertà religiosa, anche per il rafforzamento del dialogo interreligioso. Allora, le chiedo, quanto è importante secondo lei il ruolo della Chiesa in questa fase di ricostruzione del Myanmar dopo decenni di conflitti, di dittature?

R. - Ho conosciuto il card. Charles Bo alcuni giorni fa al Senato durante un incontro per celebrare la sua nomina dove si è ribadita questa forte inclinazione di Papa Francesco verso il sud-est asiatico. Quindi ho ascoltato le sue parole volte ad un impegno per la ricerca della pace, del dialogo. Questo è possibile. È possibile che questo ruolo forte sia svolto dalla Chiesa, perché ha la capacità di mediazione per essere minoranza in un Paese di minoranze e per annunciare il messaggio di riconciliazione nazionale.

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Onu: in Afghanistan detenuti torturati e maltrattati

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In Afghanistan i detenuti sono ancora vittime di torture e maltrattamenti. E’ la denuncia dell’Unama, la Missione delle Nazioni Unite di assistenza nel Paese. Secondo i dati raccolti il 35% dei detenuti è soggetto a violazioni da parte delle forze di sicurezza.  Massimiliano Menichetti: 

Oltre un terzo dei detenuti afghani, secondo le proiezioni dell’Onu, è torturato o maltrattato. Elettroshock, pestaggio violento e torsione dei genitali le pratiche più utilizzate, ma anche l'asfissia fino allo svenimento o la costrizione a posture stressanti. Oltre mille i detenuti intervistati dall'Onu, 278 quelli che hanno ammesso di essere stati torturati o maltrattati da parte delle forze di sicurezza. Attualmente sono 27.800 le persone in carcere nel Paese. Nel 2013 l'allora presidente Hamid Karzai approvò un decreto contro le torture, quattro anni fa infatti uno studio dell’Unama evidenziò che le violazioni venivano praticate su quasi la metà della popolazione carceraria. Le Nazioni Unite oggi rilevano un calo della brutalità che comunque persiste, infatti ribadisce Georgett Gagnon, direttrice per i diritti umani della Missione Onu: “l'impunità rispetto alle torture fa sì che questa pratica continui senza soluzione di continuità''.

Per un commento abbiamo raccolto il parere di Mauro Palma, presidente del Consiglio Europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale: 

R. – Sono percentuali particolarmente alte - anche se c’è questa flessione che in qualche modo può far ben sperare in una maggiore consapevolezza del problema - che ci fanno riflettere su due questioni. La prima questione è l’investimento che si deve fare sul piano della formazione degli operatori: è necessario che il trattamento violento delle persone che sono loro affidate sia percepito come un qualcosa che diminuisce la loro professionalità e non come qualcosa che è quasi intrinseco alla punizione. La seconda questione è che queste forme di maltrattamento e tortura non diminuiscono finché c’è un atteggiamento complessivo di tolleranza e quindi di impunità rispetto ad esse. La tortura, e la sua persistenza, si nutre di questo atteggiamento di tolleranza, di indagini malcondotte, di indagini spesso condotte dagli stessi organismi di polizia a cui appartengono i supposti perpetratori, di indagini aperte, a volte, per far contenta l’opinione pubblica ma poi condotte senza portare avanti effettivi ed efficaci atti investigativi, indagini che arrivano anche a processo e poi invece vedono pene estremamente lievi.

D. – Quindi serve maggiore trasparenza e certezza della pena nei confronti di chi tortura?

R. – Certezza della pena è un termine su cui dobbiamo essere molto chiari. Non va letto, come a volte avviene, sono nell’accezione in cui la pena deve essere fissa e implacabile. La pena deve essere certa, nel senso che si deve sapere che ciò che la legge prevede come reato avrà una punizione se tale reato sarà commesso. Dopo, nel corso dell’esecuzione penale, possiamo valutare, caso per caso, se si può stabilire un percorso che renda la pena certa ma non necessariamente fissa, avviando percorsi di reinserimento nel contesto sociale dei condannati.

D. – Secondo lei il clima di instabilità che è tuttora presente in Afghanistan e quindi anche di violenza si riflette all’interno delle carceri?

R. – Vado per analogia. Per esempio, ho avuto un’esperienza diretta sia nei Balcani nel post-conflitto nel Caucaso, Cecenia, etc. La violenza che c’è nel post-conflitto si riflette fortemente perché molto spesso l’elemento della tortura noi lo associamo agli aspetti di ottenere informazioni, confessioni; invece molto spesso la tortura si nutre di vendetta, di non credere alle punizioni legali e volere infliggere punizioni extra-legali. Uno dei primi aspetti che caratterizzano un Paese che esce da un conflitto nel suo ritorno alla legalità è quello ad abituare ad aver fiducia nella legalità stessa. E questo è molto difficile perché magari le popolazioni hanno subito situazioni di palese illegalità e quindi hanno un risentimento molto forte. Per questo credo che sia molto importante che anche gli Stati che contribuiscono al processo di pacificazione, di ritorno alla normalità, abbiano le carte in regola per poter dire qual è la via da seguire. Stati che in qualche modo hanno loro stessi perpetrato violenze in quel territorio difficilmente possono dare messaggi che siano ben recepiti dalla popolazione.

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Rapporto Amnesty: il 2014 anno drammatico per milioni di persone

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Il 2014 è stato “catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza”. E’ la denuncia del Rapporto annuale di Amnesty International che prende in esame la situazione in 160 Paesi e che definisce “vergognosa e inefficace la risposta globale alle atrocità degli Stati e dei gruppi armati”. Servizio di Francesca Sabatinelli: 

E’ una realtà tetra quella che presenta l’ultimo rapporto di Amnesty, che parla di milioni di persone intrappolate nella violenza dei conflitti che vanno da Gaza, alla Nigeria, dalla Siria alla Repubblica Centrafricana, dall’Ucraina all’Iraq, e di come di fronte a questa immane tragedia la comunità internazionale sia rimasta assente. Quest’anno, ricorrono i 70 anni dalla creazione delle Nazioni Unite e il mondo assiste a una violenza su scala globale che ha provocato un’impressionate ondata di rifugiati. E sarà soprattutto per questo che si ricorderà il 2014, segnato inoltre dall’altissimo numero di atrocità commesse da governi e da gruppi armati, che hanno acquisito un sempre più ampio controllo di territori, così come dal conflitto in Ucraina dell’est, con il quale in Europa si è tornati a vivere un clima da guerra fredda. Particolare preoccupazione viene espressa soprattutto per il crescente potere di gruppi come quello del sedicente Stato islamico, come Boko Haram e come Al Shabaab. Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia:

“La comunità internazionale non può pensare di costruire dei muri, di proteggere le proprie frontiere. C’è un’emergenza umanitaria e i Paesi ricchi saranno pure in crisi economica, ma rimangono pur sempre Paesi molto più ricchi degli altri e devono fare la loro parte. La maggior parte delle persone che sono fuggite dalla Siria si trova in Libano, in Giordania, in Turchia, in alcuni casi in Iraq, non in Europa. Quindi, non c’è questa invasione”.

Le cifre del rapporto parlano di 18 Paesi nei quali sono stati commessi crimini di guerra o altre violazioni delle “Leggi di guerra”, di almeno 35 Paesi nei quali gruppi armati hanno commesso abusi, di oltre 3.400 rifugiati e migranti annegati nel Mediterraneo, di 4 milioni di rifugiati fuggiti dalla Siria - il 95% dei quali ospitati nei Paesi confinanti - di 119 Paesi nei quali i governi hanno arbitrariamente limitato la libertà di espressione. Amnesty International sollecita a non adottare tattiche draconiane e repressive per combattere la violenza, perché la risposta degli Stati alla minaccia non deve mettere a rischio i diritti umani fondamentali. “Le reazioni impulsive non funzionano”, dice ancora Marchesi:

“Non pensiamo che sia saggio rispolverare gli strumenti utilizzati in maniera inefficace, o addirittura controproducente, dopo l’11 settembre, per fronteggiare la minaccia terroristica attuale. Nel momento in cui si colpisce nel mucchio, si creano le condizioni per l’aumento del fenomeno dell’estremismo, della radicalizzazione dello scontro in qualche modo. Nel momento in cui si limita fortemente la libertà d’espressione, al di là di quanto sia necessario, come risposta al terrorismo, in qualche modo si fa ciò che il terrorismo vuole che si faccia: si rinuncia ai propri valori identitari, si pensa di dover combattere sullo stesso piano. Ci sono situazioni più particolarmente gravi: in Nigeria le forze di sicurezza contro le popolazioni civili usano strumenti che a volte sono molto simili a quelli di Boko Haram. In Turchia ci sono delle norme antiterrorismo che sono gravemente lesive della libertà di espressione e che possono facilmente essere usate come pretesto per colpire altro, rispetto al terrorismo. Ci sono decreti in discussione in Spagna, per esempio, che hanno delle definizioni di terrorismo che sono di una genericità che non è accettabile nell’ambito del diritto penale di uno Stato di diritto”.

Si chiede di agire e l’appello è rivolto direttamente ai Paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu:

“Chiediamo ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza di rinunciare preventivamente in via generale, in modo formale, all’utilizzo del loro potere di veto ogni volta che si discute di situazioni nelle quali vengono compiute atrocità di massa o genocidi e quando si discute della punizione di questi fatti. Quindi, quando l’argomento della risoluzione è questo, si chiede che, ovviamente per interessi politici, non venga posto il potere di veto, che si rinunci a questo potere in partenza. Questo potrebbe in qualche modo sbloccare questa paralisi del Consiglio di fronte a crisi che finiscono con il non avere risposte. L’altro punto è la ratifica del Trattato sul commercio delle armi, che è stato ratificato da molti Paesi, è entrato in vigore ma non è stato ratificato dagli Stati Uniti, dalla Russia, dal Canada, da Israele. Quindi, ci sono una serie di Paesi importanti che dovrebbero ratificare questo testo, poiché la circolazione di enormi arsenali su territori dove poi finiscono in mano ora all’uno ora all’altro evidentemente è un fattore preoccupante, che non aiuta a limitare il numero dei morti”.

Un’aspra critica Amnesty la rivolge al governo italiano che “ha sprecato il semestre di presidenza dell’Ue”. In Italia, si denuncia, non esiste ancora il reato di tortura e non è stata creata un’istituzione indipendente con competenze sui diritti umani, ma è soprattutto in materia di politiche migratorie che l’Italia ha fallito. Gianni Rufini, direttore di Amnesty International Italia:

“Si era fatto un passo in avanti, mi sento di dire, con 'Mare Nostrum'. Un primo tentativo di essere proattivi da parte dell’Europa e, in particolare dell’Italia, e cioè salvare vite come mandato principale e al tempo stesso creare un meccanismo che potesse far convergere, far assorbire in modo più ordinato e più controllato, il grande numero di richiedenti asilo e di migranti irregolari che attraversano il Mediterraneo ogni giorno. E ci si era dati uno strumento che funzionava bene, da tutti i punti di vista. Si è deciso di chiuderlo, non credo per il costo eccessivo, perché francamente per l’Unione Europea, per i 28 Paesi della parte più ricca del mondo, credo che nove milioni al mese siano spiccioli, soprattutto di fronte alla salvezza di centinaia di migliaia di vite. Lo si è fatto naturalmente per l’incapacità della politica di resistere al richiamo di quei gruppi xenofobi, razzisti, che ancora hanno un ruolo molto importante nel dibattito politico in tutti i Paesi dell’Unione. Pper il timore di mostrarsi troppo compiacenti nei confronti della migrazione, alienandosi dei settori dell’opinione pubblica e di conseguenza mancando del coraggio di fare un discorso aperto, serio e concreto sulla migrazione, non solo per tutelare i diritti di queste persone, ma anche per cogliere un’importante occasione storica. Un semestre sprecato perché l’Italia non ha saputo porre al centro dell’agenda e del dibattito il tema dei diritti umani, neppure quello dei diritti dei migranti e dei rifugiati. Un semestre che si è chiuso con la decisione di chiudere anche 'Mare Nostrum', che era uno strumento di successo, per farla sostituire dall’operazione europea 'Triton', che si è dimostrata assolutamente inadatta a gestire questo tipo di problematiche, sia perché è un’operazione piccola, con un mandato limitatissimo e concentrato sulla sicurezza, sia perché evidentemente non c’è alcuna intenzione da parte dell’Europa di assumersi finalmente delle responsabilità per affrontare questo problema. E’ un problema grandissimo: è un problema che costa la vita a migliaia di persone, è un problema che si fonda su una distorsione del diritto internazionale, perché quelle persone dovrebbero avere la possibilità di presentare la loro domanda di asilo prima di affrontare una traversata di questo genere. E’ un problema che potrebbe trovare facile soluzione a livello politico, se solo la politica se lo ponesse al centro del dibattito”.    

Non mancano comunque i risultati: il 2014 ha visto una stragrande maggioranza di Paesi, 117, votare a favore della risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu sulla moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte.

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Balduzzi (Csm): sindacare toghe rischio quarto grado giudizio

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L'Associazione nazionale magistrati (Anm) continua a valutare in modo negativo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata ieri sera dalla Camera. Ma il viceministro alla Giustizia, Costa esclude correttivi se la legge sarà applicata correttamente. Il premier Renzi sottolinea che la legge arriva a 28 anni dal referendum. Alessandro Guarasci ha sentito il componente del Consiglio Superiore della Magistratura Renato Balduzzi

R. – La garanzia principale di me cittadino è un giudice obiettivo, sereno e indipendente, che quindi non debba essere assoggettato a preoccupazioni di un’azione volta a sindacare l’esercizio in scienza e coscienza della giurisdizione.

D. – E, secondo lei, in questa legge manca una norma che in qualche modo tuteli i giudici da eccessive richieste?

R. – Sarebbe stato opportuno mantenere la valutazione preliminare di ammissibilità della richiesta, migliorare l’attuale formula che non ha dato obiettivamente risultati soddisfacenti. Il filtro andava mantenuto, modificato però. Perché andava mantenuto? Perché tutto il nostro sistema sta andando verso una direzione di contenimento della domanda giudiziale impropria. E questo, a maggior ragione allora, avrebbe dovuto applicarsi anche al caso della responsabilità civile, dove evidentemente c’è il problema di contenere una domanda impropria, perché per qualunque soccombente, civile o penale, il giudice ha sbagliato.

D. – Questo, però, non è il classico caso in cui forse un’autoriforma sarebbe stata auspicabile, perché se, in 27 anni, su 400 ricorsi ne sono stati vinti solo 7 un problema c’è…

R. – Se l’opinione pubblica, correttamente informata, percepisce un meccanismo non funzionante, è bene ritoccarlo. Il mio dubbio è che il ritocco sia a sua volta efficace e funzionante. Il rischio, cioè, è veramente quello di arrivare a una sorta di quarto grado di giudizio.

D. – Lei chiede che a questo punto il governo monitori la situazione per evitare possibili aggressioni economiche verso i magistrati?

R. – Credo che il monitoraggio, che peraltro il governo farà certamente e il parlamento ugualmente, dovrà essere proprio sulle azioni di responsabilità verso lo Stato, nel senso di vedere come, a seguito della nuova  normativa, funzioni proprio l’eliminazione della valutazione preliminare di ammissibilità, cioè del filtro. L’importante è non farsi prendere dalle semplificazioni, cioè “chi sbaglia, paga”. “Chi sbaglia, paga” non è applicabile alla situazione, perché chi decide cosa sia lo sbaglio? Il punto è quello. Cosa vuol dire sbagliare per un magistrato? Certo, se c’è dolo… Ma questo già prima era così. Quando, però, si dice che c’è una violazione manifesta di legge o un travisamento dei fatti e delle prove, bisogna fare molta attenzione, perché il limite tra questo e un altro giudizio, un altro grado di giudizio, è un limite molto sottile, che non va superato. Il nostro sistema, infatti, non tollererebbe un altro grado di giudizio. Un Paese dove si arrivi a un’opposizione tra cittadini e magistrati ha già perso in partenza. Noi dobbiamo essere convinti, perché così è vero, della serietà del nostro sistema giudiziario, dell’imparzialità del magistrato. E’ qualcosa che appartiene alle radici stesse di una convivenza civile.

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Sicurezza sociale in Europa. Mons. Galantino: garantire salario minimo

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"Rilanciare modelli economici che, oltre a garantire i beni comuni come la salute, la scuola, la previdenza, consentano un reddito minimo". E' quanto ha chiesto mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, intervenendo ieri, a Palazzo Montecitorio, alla presentazione dell'ottavo "Rapporto sulla sicurezza e l'insicurezza sociale in italia e in Europa" della Fondazione Unipolis con Demos&Pi e l’Osservatorio di Pavia in Italia e in Europa. C’era per noi Elvira Ragosta

Se nel 43% delle famiglie italiane nell’ultimo anno c’è un componente che ha cercato un lavoro senza trovarlo vuol dire che la disoccupazione o la non occupazione continuano ad essere un problema che sentono tutti i cittadini nel Paese. Commenta così mons. Nunzio Galantino la pubblicazione dell’8° rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza in Italia e in Europa:

“Guardando all’Italia, la paura è figlia di una politica debole che crea instabilità, è figlia della mancanza di cura della nostra terra, del Creato, è figlia della mancanza del lavoro e della povertà che cresce, è figlia della corruzione e della criminalità”.

Sull’insicurezza europea - cinque i Paesi esaminati oltre all’Italia: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Polonia - i dati del rapporto evidenziano come una persona su due metta in cima alla lista delle priorità un tema economico. Ciò deriva, commenta il Segretario della Cei, dall’aver privilegiato obiettivi puramente finanziari e a breve termine rispetto ad altri condivisi e di giustizia sociale:

“Nel rapporto si parla di paura: a far paura non sono anzitutto i migranti economici o i migranti disperati che arrivano sulle nostre coste, che segnalano a loro volta una situazione di ingiustizia sociale nel mondo a noi vicino, ma in Italia e in Europa a far paura sono i drammi dell’economia, dell’inefficienza e della corruzione politica. La paura sembra essere figlia della crescita, io dico, ipertrofica dell’individualismo. Sarebbe interessante vedere un po’ quanto certi tipi di paure sono figli di un individualismo ipertrofico e dell’aggressione che certe volte vediamo rivolta a noi quando ci siamo aggiustati i fatti nostri,  quanta paura e quanto fastidio ci diano quelli che vengono un po’ a scomodare le nostre cose - Lega insegna”.

Inefficienza e corruzione della politica sono alla base dell’attenzione nazionale  del 23% degli italiani e del 28% degli spagnoli. Mentre , riguardo alla politica europea, se la fiducia verso l’Europa sale ai massimi livelli in Germania, superando il 50%, ben il 37% dei tedeschi ritiene che l’euro comporti solo preoccupazioni e che per questo vada messo da parte. L’Italia, secondo l’ottavo rapporto su sicurezza e insicurezza, è finita nella terra di mezzo, impaurita, tra le insicurezze globali del Mondo con la emme maiuscola e le paure quotidiane della criminalità del mondo con la emme minuscola, quello più vicino a noi. È questa la sintesi proposta dal direttore scientifico dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, Ilvio Diamanti, che però evidenzia:

“Tutte le divisioni dell’insicurezza tendono a declinare negli ultimi anni. Perché? Io do una risposta che è abbastanza drastica: perché ci siamo abituati, non abbiamo più paura perché ci siamo abituati ad avere paura. In mezzo alla penombra, alla fine, abbiamo cominciato, non dico, a non vedere, ma ad accettare il fatto che ci si veda poco. Siamo in una società insicura perché, ad esempio, non c’è più chiaro il confine tra la rappresentazione e la realtà”.

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Nella Chiesa e nel mondo



Venezuela: 6 morti in 6 giorni. Chiesa chiede soluzione alla crisi

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L'Unasur (Unión de Naciones Suramericanas) condanna, per voce del suo Segretariato generale, la morte violenta dello studente venezuelano Klivert Roa, e ribadisce la volontà di trovare soluzioni democratiche e pacifiche per la situazione di tensione che vive il Paese. Il comunicato, ripreso dall'agenzia Fides, si riferisce all'omicidio di uno studente della scuola superiore avvenuto nello stato di Tachira ieri pomeriggio, nel corso di una manifestazione. Per la sua morte è stato arrestato un ufficiale della Policía Nacional Bolivariana (Pnb). L’ufficiale sarà incriminato oggi, hanno annunciato fonti giudiziarie precisando che due procuratori nazionali e una procuratrice dello Stato di de Táchira sono stati designati a capo dell’inchiesta

Preoccupazione per il rispetto dei diriti umani
Il presidente del Movimento Studentesco ha detto alla stampa: “sono 6 giorni di manifestazioni e sono 6 i morti fino adesso”. Anche la Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani (Cidh) ha espresso "profonda preoccupazione" per la situazione politica in Venezuela e per "le conseguenze sul pieno rispetto dei diritti umani", in particolare per ciò che riguarda la detenzione di civili in installazioni militari.

La Chiesa chiede una soluzione della crisi
Lo Stato di Táchira, lo scorso anno era diventato il centro delle proteste contro il governo di Maduro e contro la crisi economica che colpisce il Venezuela. Il bilancio è di 43 morti. La Chiesa si è impegnata con forza per mettere fine alla violenza e chiedere una soluzione. Nel frattempo Fides continua a ricevere un gran numero di segnalazioni che raccontano la tensione che vive la popolazione dinanzi alla carestia e alla mancanza di beni di prima necessità. La stampa internazionale critica il Presidente in quanto si limita ad agire contro l’opposizione senza risolvere i principali problemi del Paese. (C.E.)

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Kenya. Card. Njue: basta divisioni. Promuovere unità nazionale

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Porre fine alle divisioni che minacciano di far deragliare la pace in Kenya e lavorare, piuttosto, all’unità nazionale: questo l’appello rivolto dal card. John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale locale, ai politici del Paese. Il porporato è intervenuto, nei giorni scorsi, alla cerimonia di insediamento del nuovo arcivescovo di Mombasa, mons. Martin Kivuva Musonde e, nel suo discorso, si è appellato ai leader istituzionali, esortandoli a porsi a servizio della popolazione. “Noi keniani dobbiamo imparare a proteggere la nostra identità e non lasciarci influenzare da chi ci mette l’uno contro l’altro”, ha sottolineato il card. Njue.

Aiutare la popolazione a vivere felicemente
Quindi, il porporato ha invitato i fedeli a pregare affinché Dio tocchi il cuore degli esponenti politici, così che lavorino all’unità del Paese, “senza sprecare tempo nelle divisioni, ma promuovendo insieme lo sviluppo nazionale”. “Non ponete i vostri bisogni al primo posto – ha detto il porporato ai rappresentanti istituzionali – ma diffondete la pace e l’armonia in Kenya, concentrandovi sui valori che aiutano la popolazione a vivere felicemente ed a lasciare un’eredita significativa alle future generazioni”. Poi, il presidente dei vescovi del Kenya è tornato su due questioni scottanti, la campagna di vaccinazione anti-tetano e il progetto di legge sulla salute riproduttiva, entrambe fortemente ostacolate dalla Chiesa cattolica.

Rischi campagna di vaccinazione e progetto di legge su salute riproduttiva
Nel primo caso, il card. Njue ha ricordato che c’è il rischio che il vaccino in questione contenga un ormone sterilizzante per le donne, mentre il progetto di legge sulla salute riproduttiva mira ad introdurre l’uso del condom e della pillola anticoncezionale nell’educazione scolastica dei minori, a partire dai nove anni. “C’è qualcosa di sbagliato in tutto questo – ha evidenziato il porporato – Il governo sta tentando di distruggere, forse, le generazioni future? Le persone, invece, devono essere libere di prendere le proprie decisioni in modo indipendente e non devono essere usate come carta straccia”.

Rafforzare dialogo interreligioso
Dal suo canto, l’arcivescovo Kivuva ha ribadito il suo impegno nel rafforzare il dialogo interreligioso e lo sviluppo sociale del Paese. Di qui, l’appello a rilanciare l’industria economica e turistica, risolvendo il problema della sicurezza e contrastando la tossicodipendenza giovanile. (A cura di Isabella Piro)

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Chiesa nordirlandese: libertà di coscienza diritto fondamentale

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Gratitudine per avere avuto “l’opportunità di discutere con i nostri legislatori, nella calma e nel rispetto, su come trovare un accordo ragionevole per i credenti quando sorgono conflitti tra leggi che riguardano la fornitura di servizi e beni e libertà di coscienza” . Con queste parole, mons. Noel Treanor, vescovo di Down Connor ha espresso la sua soddisfazione per l’incontro avuto ieri a Belfast da una delegazione del Consiglio cattolico nord-irlandese per gli affari sociali, con membri del Partito democratico unionista (Dup) e del Partito socialdemocratico (Sdlp).

Una legge per garantire libertà di coscienza
Al centro del colloquio l’emendamento presentato lo scorso dicembre da un deputato all’Assemblea legislativa nord-irlandese all’Equality Act, la legge contro le discriminazioni varata nel Regno Unito nel 2006, per garantire la libertà di coscienza. Un emendamento sostenuto dalla Chiesa in quanto permetterebbe di conciliare due diritti altrettanto fondamentali: quello delle minoranze a non essere discriminate e quello delle organizzazioni confessionali a restare fedeli al proprio credo. “Così com’è - ha dichiarato mons. Treanor - l’attuale legislazione ha conseguenze ingiuste e sproporzionate su coloro che professano un credo religioso”, mentre è necessario trovare il modo per riconoscere “la libertà di coscienza e di religione come un diritto umano fondamentale e base di una società pluralista”.

Una legge che crea nuove discriminazioni
La legge anti-discriminazioni ha infatti creato non pochi problemi in questi anni nel Regno Unito. È il caso delle agenzie per le adozioni cattoliche britanniche costrette a scegliere tra l’adeguarsi alle nuove disposizioni che hanno aperto all'adozione da parte di coppie omosessuali e la chiusura. Un fatto “inaccettabile” per mons. Treanor perché crea nuove discriminazioni. Se non è tollerabile nessun tipo di discriminazione verso qualsiasi categoria di persone, allo stesso modo, ha sottolineato il vescovo , “i rappresentanti pubblici hanno il dovere di garantire che non siano tollerate nenche discriminazioni verso chi ha le sue legittime opinioni religiose”. (A cura di Lisa Zengarini)

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Egitto: area archeologica cristiana a rischio demolizione

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Il progetto di costruzione di una strada che dovrebbe unire la città di Fayoum ad un'area di oasi attraversando i territori intorno al monastero copto di San Macario, minaccia un'area archeologica che si stende intorno a una chiesa risalente al IV secolo. Il progetto mette a rischio anche l'approvvigionamento idrico del monastero e alcune aree coltivate ad esso appartenenti.

Resistenza non violenta dei monaci copti
Nei giorni scorsi, i monaci hanno dato vita ad un'iniziativa di resistenza non violenta, sdraiandosi sul percorso dei bulldozer impegnati nel progetto e guidati da operai che si avvicinavano alle terre del monastero al grido di “Allah Ackbar”. Ne danno notizia fonti egiziane riprese dall'agenzia Fides.

La Chiesa chiede soluzioni alternative al progetto viario
L'incidente intercorso tra i monaci e gli operai è solo l'ultimo atto di un lungo contenzioso sorto intorno al progetto viario. In passato, i monaci hanno presentato alle autorità diversi progetti alternativi che permetterebbero di salvaguardare i beni storici e naturali minacciati dal percorso della nuova strada. La Chiesa copta ha istituito anche un comitato ad hoc per favorire la ricerca di soluzioni alternative, e in passato anche il Ministero delle antichità ha espresso parere contrario al progetto, raccomandando la tutela integrale dell'area archeologica. Il Monastero di San Macario è situato a Wadi el-Natrun, l’antica Scetes, a 92 km dal Cairo, sul lato occidentale della via del deserto verso Alessandria. (G.V.)

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Bangladesh: mandato d'arresto per la leader d'opposizione

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Un tribunale speciale di Dhaka per la lotta alla corruzione ha emesso oggi un mandato d’arresto nei confronti dell’ex primo ministro e leader dell’opposizione Khaleda Zia. La decisione del tribunale - riferisce l'agenzia Misna - potrebbe aggravare la tensione nel Paese alimentando le proteste anti-governative in cui più di 100 persone sono state uccise dall’inizio di gennaio e centinaia sono state ferite. I leader dell’opposizione, molti dei quali sono stati arrestati dalle forze governative nel tentativo di indebolire la protesta, hanno definito la mossa del tribunale come “pianificata e orchestrata dal governo”.

Khaleda accusata per due casi di corruzione
Khaleda è accusata di essersi appropriata di 650.000 dollari in due casi di corruzione riguardanti fondi di beneficenza, durante il suo ultimo mandato come primo ministro dal 2001 al 2006. Khaleda si era rifiutata di comparire in tribunale per l’udienza citando preoccupazioni per la sicurezza. Il leader dell’opposizione dovrà affrontare anche altri quattro casi che l’accusano di essere responsabile delle morti e delle violenze politiche in corso.

Onu e Ue sollecitano colloqui di pace
Le Nazioni Unite e l’Unione Europea, principale partner commerciale del Paese, hanno esortato il governo guidato da Sheikh Hasina e l’opposizione a tenere colloqui per porre fine alla crisi. Ma la situazione di stallo sembra destinata a continuare. Le due donne si rifiutano di parlare: Hasina ha accusato Khaleda di scatenare le proteste per ritardare i processi contro di lei e il suo figlio maggiore da tempo fuggito a Londra. Per anni, la politica del Bangladesh è stata segnata dalla rivalità tra Hasina e Khaleda e i loro rispettivi partiti. (P.L.)

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Sudan: sono 700 mila i bambini senzatetto

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In occasione del recente Festival dell’Infanzia, Majda Suleiman, portavoce dell’Associazione Sudanese dei Bambini Senzatetto (Sudanese Homeless Child Association), ha dichiarato alla stampa locale che per le strade di Khartoum vivono circa 700 mila bambini. La maggior parte provengono da Darfur, Sud Kordofan e dal Blue Nile. Le loro famiglie sono fuggite dall’insicurezza di queste regioni e hanno cercato riparo nella capitale del Paese.

Molti bambini sfruttati dalle bande criminali
Suleiman ha accusato le autorità sudanesi di trascurare i bambini e ha esortato a istituire Centri di protezione per l’infanzia. Inoltre, ha chiesto alle organizzazioni di fornire loro aiuto psicologico, sociale e materiale. Molti bambini di strada vengono sfruttati dalle bande criminali per accattonaggio e traffico di organi umani. Il ministro sudanese del Social Welfare ha dichiarato che il numero dei bambini senzatetto nel Paese è in rapida crescita, e ha annunciato che il suo ministero sta lavorando ad una iniziativa per migliorare la disastrosa situazione nella quale vivono più di 10 milioni di bambini sudanesi. (R.P.)

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Estremisti israeliani profanano una moschea a Betlemme

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Nella notte un gruppo di estremisti israeliani avrebbe incendiato una moschea palestinese nel villaggio di Jab'awas, nei pressi di Betlemme, in Cisgiordania, lasciando anche scritte ingiuriose e blasfeme nell'area teatro dell'attacco. Dietro il raid - riporta l'agenzia AsiaNews - vi sarebbero i coloni israeliani, che hanno colpito un nuovo luogo di culto musulmano - nel mirino vi sono anche chiese e cimiteri cristiani - secondo la logica del "price tag". Il "prezzo da pagare" è un motto utilizzato dagli estremisti israeliani, che minacciano cristiani e musulmani per aver "sottratto loro la terra". Un tempo il fenomeno era diffuso solo nelle aree al confine con la Cisgiordania e a Gerusalemme, ma oggi si è esteso in gran parte del territorio.

Sulle pareti della moschea graffiti in ebraico
Jibreen al-Bakri, governatore della regione di Betlemme, riferisce che il rogo della moschea è avvenuto all'alba di oggi; le fiamme hanno causato gravi danni alle pareti e ai pavimenti, ricoperti di moquette. La tv israeliana ha mostrato inoltre alcune immagini che ritraevano graffiti in ebraico sui muri del luogo di culto musulmano. Alcuni degli slogan recitavano "Vogliamo la redenzione di Sion" e "Vendetta", assieme alla stella di Davide. La polizia israeliana ha aperto un'indagine sulla vicenda ma, come è avvenuto diverse volte in passato nei casi di attacchi a luoghi di culto cristiani, appare poco probabile che i responsabili vengano consegnati alla giustizia. Gli ignoti assalitori hanno anche danneggiato alcune auto parcheggiate nei pressi della moschea.

La polizia condanna i crimini per motivi nazionalistici
Micky Rosenfeld, portavoce della polizia israeliana, sottolinea che "i crimini commessi per motivi legati al nazionalismo sono di particolare gravità" e destano grande preoccupazione fra le autorità. I giovani estremisti compiono questi attacchi per protestare contro le azioni del governo israeliano, che secondo loro vogliono "contenere l'attività dei coloni" e l'espansione degli insediamenti nei Territori occupati.

Autopsia sul corpo del giovane palestinese ucciso dalla polizia
Intanto emergono nuovi dettagli nello scontro avvenuto nella notte fra il 23 e il 24 febbraio al campo profughi di Dheisheh, poco distante da Betlemme, in cui è morto un giovane palestinese. L'autopsia effettuata sul corpo di ihad al-Jafari, un sostenitore del movimento Fatah, legato al presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, mostra che egli è stato ucciso da un colpo esploso a breve distanza. Sabri al-Aloul, esperto di medicina legale, afferma che "si è trattato di una sorta di esecuzione". Una ricostruzione che smentisce la versione fornita dall'esercito israeliano, secondo cui i soldati sotto attacco avrebbero aperto il fuoco a distanza e il giovane - che si trovava sul tetto della sua abitazione - è rimasto colpito da un proiettile. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 56

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.