Logo 50 Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 12/02/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Concistoro. Francesco: riforma Curia per rafforzare testimonianza cristiana

◊  

La riforma della Curia “non è fine a se stessa”, ma un mezzo per “dare una forte testimonianza cristiana". E’ quanto affermato da Papa Francesco all’apertura del Concistoro, nell’Aula Nuova del Sinodo, sullo stato dei lavori del gruppo C9 per l’elaborazione di una nuova Costituzione Apostolica. Il Papa ha ringraziato la Commissione dei nove cardinali per il lavoro che stanno svolgendo e in particolare il coordinatore, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga e il segretario dell’organismo, mons. Marcello Semeraro. L’indirizzo d’omaggio al Pontefice è stato rivolto dal cardinale decano Angelo Sodano. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

“Come è bello e come è dolce che i fratelli vivano insieme”. Papa Francesco ha aperto il Concistoro riprendendo le parole del Salmo per mettere l’accento sullo spirito di comunione e collegialità ed ha subito rivolto un cordiale saluto ai 20 nuovi porporati che riceveranno la berretta cardinalizia sabato prossimo.

Riforma Curia: assoluta trasparenza e collegialità
Entrando così nel tema del Concistoro, il Papa ha evidenziato che al Collegio cardinalizio viene presentata la “sintesi” di un lavoro svolto per elaborare una nuova “Costituzione apostolica per la riforma della Curia”, testo che ha tenuto conto di “tanti suggerimenti, anche da parte dei capi e dei responsabili dei dicasteri, nonché degli esperti in materia”:

“La meta da raggiungere è sempre quella di favorire maggiore armonia nel lavoro dei vari dicasteri e uffici  al fine di realizzare una più efficace collaborazione in quell’assoluta trasparenza che edifica l’autentica sinodalità e la collegialità. La riforma non è fine a se stessa, ma un mezzo per dare una forte testimonianza cristiana; per favorire una più efficace evangelizzazione; per promuovere un più fecondo spirito ecumenico; per incoraggiare un dialogo più costruttivo con tutti”.

Serve tempo e collaborazione di tutti per una vera riforma
“La riforma, auspicata vivamente dalla maggioranza dei cardinali nell’ambito delle Congregazioni generali prima del Conclave – ha rammentato il Pontefice – dovrà perfezionare ancora di più l’identità della stessa Curia Romana”. Identità che si sostanzia nel “coadiuvare il Successore di Pietro nell’esercizio del suo supremo ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari”:

“Esercizio col quale si rafforzano l’unità di fede, la comunione del popolo di Dio e si promuove la missione propria della Chiesa nel mondo. Certamente raggiungere una tale meta non è facile: richiede tempo, determinazione e soprattutto la collaborazione di tutti. Ma per realizzare questo dobbiamo innanzitutto affidarci allo Spirito Santo, che è la vera guida della Chiesa, implorando nella preghiera il dono dell’autentico discernimento”.

“Con questo spirito di collaborazione – ha concluso Francesco – inizia il nostro incontro, che sarà fecondo grazie al contributo che ciascuno di noi potrà esprimere con  parresía, fedeltà al Magistero e consapevolezza che tutto ciò concorre alla legge suprema”, ossia alla “salvezza delle anime”.

inizio pagina

Padre Lombardi: tempi non brevi per riforma Curia

◊  

Il moderatore di Curia non sarà una figura distinta. Lo ha detto il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi nel briefing sul Consiglio dei Cardinali conclusosi ieri e sul Concistoro di questa mattina. I particolari da Alessandro Guarasci

Non si prevedono tempi brevi sulla riforma della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana. Sentiamo padre Lombardi:

"Non è che siamo – diciamo - con degli orizzonti di finalizzazioni imminenti di questo documento: se deve essere maturato, studiato molto bene, anche dal punto di vista teologico e canonico, e finalizzato bene in tutti i suoi particolari. Quindi i tempi sono dei tempi abbastanza consistenti, abbastanza lunghi".

D’altronde quando la Costituzione fu elaborata il lavoro fu accurato, con diversi passaggi, chiamando in causa canonisti e teologi. Si è parlato della creazione di due futuri dicasteri, uno per i laici, la famiglia e la vita; e un altro per la carità, la giustizia e la pace. Entrambi ingloberanno alcuni Pontifici consigli. Da escludere, comunque, che a capo del primo dicastero ci possa essere un laico. Ancora da definire, poi, nei dettagli la figura del moderatore di Curia, ha precisato padre Lombardi:

"Non si pensa ad una figura aggiuntiva, ma che questo compito di coordinamento e di moderazione rientri nei compiti della Segreteria di Stato".

Circa 165 i cardinali arrivati a Roma e una dozzina gli interventi di questa mattina. Alcuni hanno ribadito la necessità di procedere collegialmente nelle decisioni, altri hanno parlato del ruolo dei laici e della loro formazione lavorativa e spirituale. C’è stato anche chi ha chiesto maggiore mobilità tra il personale dei vari uffici di Curia, mentre qualcun altro ha ribadito che serve rispettare professionalità e competenze.

inizio pagina

Neo-cardinale di Addis Abeba: tenere stretti i valori della famiglia

◊  

Tra i 20 nuovi cardinali che saranno creati da Papa Francesco in San Pietro, durante il Concistoro di sabato mattina, c’è anche mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba. Si tratta del secondo porporato etiopico della storia, dopo il cardinale Paulos Tzadua, scomparso nel 2003. Ascoltiamo il suo commento raccolto da Marina Tomarro

R. – Papa Francesco mi ha nominato cardinale, ma io non lo sapevo. E’ stata una sorpresa anche per gli altri. Per me, già lavorare per la mia arcidiocesi è un grande lavoro, una grande sfida. Ma lavorare a livello mondiale è qualcosa di ancora più grande. Allora io ho pregato. Ho chiesto anche ai fedeli di pregare per questa responsabilità pastorale. Per l’Etiopia, anche se è una Chiesa piccola, è una responsabilità grande. Perché la Chiesa ha una buona relazione con le altre Chiese cristiane e anche con i musulmani. Questo vuol dire che la Chiesa cattolica deve continuare ad essere un ponte tra le diverse religioni, le diverse visioni che la gente ha, e anche con i diversi membri della società.

D. – Come vivono i cristiani in Etiopia?

R. – La gente – che nel Paese è in maggioranza cristiana – prende la sua fede sul serio: la fede – dicono – è un dono di Dio. E vivono così. Affrontano le cose vedendo che se Dio vuole, le cose possono cambiare. Non perdono la speranza. Per questo amano la vita, dal concepimento fino alla morte. E questo è importante.

D. – Quanto è importante l’opera della Chiesa nel suo Paese, in Etiopia, ma anche più in generale in Africa?

R. – Pensiamo ai giovani che stanno andando nei Paesi arabi a lavorare come domestici: alcuni vogliono venire in Europa, passano per Lampedusa … Ma lì la Chiesa cattolica, specialmente in Etiopia, dice: noi dobbiamo cambiare la situazione qui. Se noi prepariamo la gioventù nel nostro Paese, si possono offrire opportunità e si può cambiare la situazione. Allora la Chiesa cattolica gestisce tante scuole, ospedali e centri sociali e di sviluppo. Tutto questo si fa a livello dei Paesi dell’Africa orientale. In molti Paesi si fa di più, perché i cattolici sono di più. Noi stiamo pensando di creare un’università cattolica, perché università vuol dire educazione e con l’educazione si possono cambiare le cose. La gioventù può anche creare lavoro: e quando c’è lavoro, i nostri non devono più andare all’estero lasciando la ricchezza dei loro valori e anche le loro radici cristiane. Con l’educazione possono anche valutare quali valori siano buoni e quali disturbano la società.

D. – Le istituzioni, in questo caso, che ruolo dovrebbero avere, per evitare che tanti giovani vadano via dalla vostra terra?

R. – Possono operare in modo da creare lavoro, perché la disoccupazione è una delle grandi sfide in Africa. E credo anche che con l’educazione possiamo ridurre la violenza, che sia guerra civile o la violenza sulla donna o sui bambini, i bambini soldato … e tutto ciò si può cambiare solo attraverso l’educazione.

D. – A ottobre ci sarà il Sinodo straordinario sulla famiglia: quanto è importante questo Sinodo per l’Africa?

R. – Molto, molto importante, per l’Africa, perché in Africa tutti amano la famiglia. Adesso ci sono tante sfide per la famiglia, anche per quella africana, specialmente in alcuni Paesi: gli uomini vanno a lavorare in un altro Paese, le donne restano con i bambini … come si fa? Queste separazioni noi crediamo che rappresentino un grande problema per la famiglia in Africa. Spero che da questo Sinodo, per il quale tanti pregano, usciranno i valori della famiglia. Noi possiamo essere poveri materialmente, ma non spiritualmente, perché abbiamo dei valori e questi valori li dobbiamo tenere ben saldi con tutte e due le mani!

inizio pagina

Il Papa riceve il vice-presidente iraniano

◊  

Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza, nello Studio dell'Aula Paolo VI, la signora Shahindokht Molaverdi, vice-presidente della Repubblica Islamica dell’Iran.

inizio pagina

Papa nomina mons. Chica Arellano osservatore alla Fao, Ifad, Pam

◊  

Papa Francesco ha nominato Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Organizzazioni e gli Organismi delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (F.A.O., I.F.A.D. e P.A.M.) il 52enne spagnolo, mons. Fernando Chica Arellano, consigliere di Nunziatura.

inizio pagina

Nomine episcopali in Benin e Francia

◊  

In Benin, Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Dassa-Zoumé  il rev.do padre François Gnonhossou, S.M.A., Consigliere Generale della Società delle Missioni Africane.

In Francia, il Papa ha nominato vescovo di Le Puy-en-Velay il rev.do padre Luc Crépy, C.J.M., finora procuratore Generale della Congregazione di Gesù e Maria (Eudisti).

inizio pagina

Oggi su "L'Osservatore Romano"

◊  

Comunione e collegialità: il Papa apre i lavori del Concistoro straordinario sulla riforma della Curia romana.

Ecologista ante litteram: il cardinale arcivescovo di Barcellona, John Singer Sistach, sull’“Evangelii gaudium” e Antoni Gaudi.

Furbizia tecnica ma molto ispirata: Emilio Ranzato recensisce “Birdman” del regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu.

Tre rami per il Corano: una ricerca internazionale alla Freie Universitat di Berlino.

Filosofia dello sguardo: Gabriele Nicolò sul pittore John Singer Sargent in mostra a Londra.

Scuola di perdono e risorsa per la società: Maurizio Gronchi spiega come oggi la Chiesa s’interroga sulla pastorale.

inizio pagina

Oggi in Primo Piano



Ucraina: vertice a Minsk, accordo per fermare il conflitto

◊  

Dopo 16 ore di trattative, a Minsk, i leader di Russia, Ucraina, Germania e Francia – il cosiddetto quartetto formato Normandia – hanno firmato un accordo preliminare per fermare il conflitto nelle regioni separatiste dell’Ucraina orientale. Da domenica il cessate il fuoco e il ritiro delle armi pesanti dal terreno e sul fronte politico l’impegno ad attuare gli accordi Misk del 5 settembre scorso. Il servizio di Marco Guerra: 

I leader del formato Normandia, Putin, Poroshenko, Merkel e Hollande, hanno adottato una dichiarazione per sostenere l'attuazione degli accordi di Minsk dello scorso settembre, ripetutamente violati da ambo le parti. Concordata anche una serie di incontri per assicurare l’implementazione del piano di pace. Sul fronte militare si è raggiunta l'intesa per il cessate il fuoco a partire da domenica, il ritiro delle armi pesanti e di tutte le truppe straniere, la creazione di una zona cuscinetto larga 50 chilometri e la liberazione di tutti prigionieri politici entro il 19 febbraio. Annunciata anche un’intesa sullo status speciale per l'Ucraina sud-orientale, ma Poroshenko ha sottolineato che non è stata prevista alcuna autonomia per le aree sotto il controllo dei ribelli separatisti. Soddisfazione è stata espressa da Francia e Germania. Hollande ha parlato di accordo politico globale sulla crisi ucraina. Merkel afferma che c’è grande speranza ma che non bisogna farsi illusioni. E a tre giorni dall’entrata in vigore della tregua, sul terreno si registra la morte di 9 civili e due militari nelle ultime 24 ore, mentre Kiev denuncia l’ingresso di 50 carri armati russi sul proprio territorio. Per un commento sui risultati del vertice di Minsk, sentiamo Germano Dottori, docente di Studi Strategici all'Università Luiss di Roma:

R. – A me sembra che sia uscito fuori un accordo interinale, che prospetta un percorso o come si suol dire una road map, che dovrà essere attuata prima che si possa parlare di una fine della crisi che oramai dura da un anno e mezzo a questa parte. Ritengo, tuttavia, che non si tratti - in questo caso - di attuare l’accordo che era stato raggiunto nel settembre scorso, quanto piuttosto di cercare di risolvere i problemi che hanno determinato il fallimento di quella intesa. Non sono certo che quello che è stato concordato basterà a farlo.

D. – Quali sono i maggiori ostacoli che restano sul terreno e che pesano ancora fra le parti?

R. – Per quanto sia la Merkel che Hollande abbiano affermato che è stato raggiunto un accordo politico complessivo, a quanto pare finora non sembra che nell’accordo sia contemplato alcunché a proposito dello statuto di neutralità dell’Ucraina, che in realtà è il principale obiettivo della Russia da quando è scoppiata questa crisi: garantirsi cioè in qualche modo che il nuovo governo di Kiev non aderisca all’Alleanza Atlantica. Naturalmente il problema di fondo è che il formato entro il quale è stato raggiunto l’accordo, con la Germania e la Francia a rappresentare l’Europa e in senso più largo l’Occidente, ovviamente non è sufficiente per impegnare in alcun modo l’Alleanza Atlantica.

D. – Poi c’è Poroshenko che nega che verrà riconosciuta l’autonomia alle regioni separatiste…

R. – Si parla di un riassetto anche – diciamo – di carattere istituzionale per quelle regioni, ma non c’è nulla di definito a questo riguardo. Ovviamente il fatto che tra le parti ci sia un disaccordo su questo punto potrebbe costituire un’altra mina vacante dal punto di vista dell’effettiva attuazione di questa intesa.

D. – A livello geopolitico, invece, cosa significa questa intesa, visto il ruolo avuto anche da Germania e Francia? I rapporti tra Europa e Russia vanno sulla strada di una normalizzazione?

R. – Io sono maggiormente colpito da un altro fattore: è la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che una questione di grande importanza ai fini della sicurezza europea venga affrontata e in qualche modo trattata all’interno di un format di cui sono parte soltanto dei Paesi europei. Non c’erano gli Stati Uniti: questa è una differenza enorme rispetto, per esempio, al Processo di Dayton che pose fine alla guerra in Bosnia Erzegovina. La presenza della Germania sicuramente è l’elemento fondamentale e segna un passaggio di status in qualche modo: la Germania da oggi è un Paese ancora più importante dal punto di vista politico di quanto non fosse fino ad una settimana o ad un mese fa. La presenza della Francia, tuttavia, indica che i tedeschi per esercitare un ruolo maggiore sulla scena internazionale hanno ancora bisogno di qualche alleato occidentale, che in qualche modo garantisca al mondo che non sono tornati quelli che abbiamo conosciuto nella prima metà del Novecento.

inizio pagina

Obama chiede a Congresso uso della forza contro jihadisti

◊  

Il presidente statunitense Obama ha chiesto al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza militare per tre anni contro il sedicente Stato Islamico. Escluso per il momento l’invio di truppe in Iraq e Siria e l’impegno in operazioni di terra durature. La risoluzione prevede il dispiegamento di unità speciali in circostanze specifiche. Eugenio Bonanata ha raccolto il commento del giornalista Domenico Quirico, del quotidiano La Stampa, autore di un libro intitolato “Il grande califfato”: 

R. – All’inizio della presidenza di Obama, molti anni fa, ci fu quello che venne celebrato come un discorso storico rivolto al mondo islamico, in cui lui ribaltava le carte rispetto ai ‘mostruosi errori della presidenza Bush’. Dopo molti anni, di quel discorso non parla più nessuno, perché era retorica. E lo stesso Obama è costretto - dai fatti e non da scelte politiche volontarie - a fare le stesse mosse che fece Bush quando iniziò la sua discussa guerra contro il terrorismo. Quindi la conferma di una diplomazia basata su una presunta leadership mondiale con l’incapacità di rendersi conto del fenomeno mostruoso che si stava verificando in Medio Oriente, in Africa e in altre zone del mondo. Insomma, queste timide misure di operazione di forze speciali mi sembrano largamente superate dai fatti: cioè, il califfato ha preso un vantaggio che nessuna dichiarazione del presidente americano può, ahimè, colmare.

D. - Cosa dire della formula utilizzata da Obama?

R.  - E’ la formula di chi dichiara di fare la guerra e poi non la vuole fare. E’ una delle contraddizioni della presidenza Obama. Ma credo ci sia anche un problema strutturale, di incapacità di comprendere la natura di quello che è il fenomeno storico del califfato: siamo ancora nei termini di un contenimento del terrorismo. Ma questo terrorismo - lo dice anche Obama - potrebbe addirittura colpire nuovamente nel territorio americano. In realtà il problema dell’islam politico armato radicale, del “totalitarismo” islamico, come lo chiamo io, è ben più complesso di quello di una reincarnazione sotto nomi diversi di quella che è stata l’epoca di Al Qaeda e di Bin Laden. Siamo in una fase storica assolutamente successiva ma ho l’impressione che a Washington, come spesso accade, si iniziano sempre le guerre facendole nello stesso modo in cui è stata fatta la guerra precedente. Mentre, in realtà, gli altri – cioè la controparte - ti propongono e ti impongono una guerra diversa. Questo è il problema fondamentale di oggi.

D. - Qual è il ruolo dei Sauditi in questa partita?

R. - Questa è una buona domanda. Il lungo cammino del progetto totalitario islamico è iniziato in realtà nel 1973: quello è il momento in cui l’Arabia Saudita, grazie al boom dei prezzi del petrolio, ha avuto a disposizione una quantità enorme di denaro, che ha impiegato nella diffusione nel mondo, attraverso la costruzione di moschee e l’invio di predicatori radicali, del Wahhabismo che è il cuore stesso dell’Arabia Saudita. Infatti l’hanno inventato loro: è l’unico Paese al mondo in cui il nome di un Paese è attaccato a quello di una dinastia regnante, non ce ne sono altri. In quel momento il percorso storico dell’islam politico radicale ha iniziato a scalare a poco a poco questo suo progetto attraverso vari momenti - l’Algeria, l’Afghanistan… - fino ad arrivare alla sua estrinsecazione somma, che è il progetto della costruzione e della realizzazione, di fatto, sul terreno, del califfato. Tutto nasce lì. Poi i rapporti che l’Arabia Saudita ha con questo progetto sono ovviamente altalenanti, a seconda delle condizioni storiche in cui si trova ad operare, ma resta lì il cuore di tenebra del totalitarismo islamico. E fino a che non si risolve il problema dei rapporti con quel luogo del mondo, con quella dinastia, con quei ‘creatori di estremismo’, il problema non sarà mai risolto.

inizio pagina

Peshmerga curdi: è ora di cacciare jihadisti da Piana di Ninive

◊  

“Aiutiamo i cristiani perché sono parte di noi e fanno parte del Kurdistan da migliaia di anni”. Così il presidente del Parlamento del Kurdistan iracheno, Youssef Mohammad Sadiq, intervenendo a Roma, presso la Sioi (Società italiana per l’organizzazione internazionale), nel corso di una conferenza sulle relazioni tra Italia e Kurdistan. Il servizio di Elvira Ragosta

“Fino a poco tempo fa la bilancia pendeva dalla parte dell’Is - dice il presidente del parlamento kurdo-iracheno Mohammad Sadiq - con l’arrivo degli aiuti internazionali, la situazione è cambiata”. E ricorda che i peshmerga sono impegnati nella difesa dei curdi e nella lotta contro il sedicente Stato islamico lungo un confine di oltre 1000 chilometri. Aggiunge che l’obiettivo, adesso, è quello di liberare la Piana di Ninive e consentire a cristiani e yazidi di farvi ritorno. Sadiq spiega poi le motivazioni del loro impegno a favore dei cristiani nel Kurdistan iracheno:

“Non lo facciamo solo per ingraziarci i Paesi cristiani - dice - ma perché sentiamo i cristiani una parte di noi, i cristiani fanno parte del Kurdistan non da oggi ma da migliaia di anni, perché sono un tassello di quel mosaico che compone la regione”.

Il presidente del parlamento curdo-iracheno ricorda anche l’importanza dell’aiuto italiano ai peshmerga curdi nel giorno in cui il capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Binelli Mantelli, è a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, dove annuncia l’invio di elicotteri italiani in sostegno ai peshmerga nella lotta ai miliziani dell’Is. E sulla possibilità che la coalizione internazionale a guida statunitense decida di inviare truppe sul terreno per combattere i miliziani jihadisti in Siria e Iraq, Sadiq dice che sarebbe una decisione saggia, purché condivisa dalla coalizione e purché sia predisposta una cintura di sicurezza a difesa del Kurdistan e delle minoranze della regione.

“Riconoscere il contributo e il sacrificio dei peshmerga nella lotta al califfato islamico e sostenerli anche sul terreno”. Questo il messaggio dell’ex ministro degli Esteri e presidente della Sioi, Franco Frattini, secondo cui abbiamo bisogno di riconoscere il ruolo dei curdi e creare accordi con i Paesi limitrofi e per cui abbiamo bisogno dell’Iran a tutto campo per sconfiggere l’Is perché - conclude Frattini - non è possibile restare attaccati al passato”.

inizio pagina

Lampedusa. Forse 400 i morti. Caritas: Europa assente, agisca!

◊  

Non accennano a diminuire dolore e sgomento per la tragedia al largo di Lampedusa costata la vita a centinaia di migranti. Secondo le ultime testimonianze raccolte dagli inquirenti, i morti potrebbero essere addirittura quattrocento. E mentre dalla società civile sale la richiesta di riattivare la missione di salvataggio ‘Mare Nostrum’, Oliviero Forti, di Caritas Italiana, chiede con forza all’Europa di assumersi con decisione le proprie responsabilità e intervenire. Federico Piana lo ha intervistato: 

R. – Un’Europa che è immobile rispetto a quanto è accaduto! Ormai si tratta di migliaia di persone, che in questi anni abbiamo dovuto contare costantemente e che, in qualche modo, sono lo specchio di una assenza totale di politica. Perché - chiamiamo le cose con il loro nome - questo è un problema politico! Non è un problema solo umanitario, non è un problema solo di controllo, non è un problema solo di bande criminali, che mettono in mare 400 persone con condizioni meteo marine ai limiti della sopportabilità… E’ una questione che va affrontata con quel realismo politico, che è totalmente assente. Però non è più, appunto, sostenibile questo atteggiamento.

D. – Quali potrebbero essere le possibili soluzioni?

R. – C’è bisogno di elaborare concretamente delle proposte, che devono essere – ripeto! – europee, con l’Italia all’interno dell’Europa, rispetto a contesti di forte crisi. Se non decidiamo di aggredire seriamente il conflitto in Siria, con azioni concrete, anche e soprattutto a carattere umanitario, noi comunque dovremo fare i conti nei prossimi anni, con numerose persone che provengono non tanto dalla Siria, ma dal Libano, dalla Giordania, dalla Turchia, da quei Paesi che stanno ospitando centinaia di migliaia di profughi, che comunque non possono stazionare per anni all’interno di campi attrezzati alla meno peggio… Chi potrebbe pensare di tirare su una famiglia, con dei bambini, all’interno di un campo profughi, dove una tenda e del fango sono gli unici compagni della giornata? Questo è insostenibile!

D. – “Mare Nostrum” deve ripartire o no?

R. – Certamente “Mare Nostrum” doveva continuare! Sul fatto che debba ripartire, chiaramente so - perché cerco di fare i conti con la realtà delle cose – che è molto complicato, perché “Mare Nostrum” è una operazione straordinaria, un’operazione umanitaria che è stata chiusa per motivi evidentemente politici. Non è una questione di costi, perché non sono quelli il vero problema: anzi se facciamo i conti costava molto meno “Mare Nostrum” che non mettere in moto altre operazioni che salvano poche vite in mare e che servono esclusivamente – ripeto – a controllare delle frontiere che però sono permeabili, perché la gente comunque parte, comunque cerca di arrivare. Per cui – come diceva anche ieri Letta in tweet – evidentemente la chiusura di “Mare Nostrum” così veloce, frutto di una spinta di un’Europa che non voleva che si continuasse con questa azione di salvataggio in mare, che ha portato tante persone in Europa, è stata per certi versi irresponsabile. Da questo punto di vista, quindi, noi saremmo ben lieti che si attrezzasse nuovamente un’operazione e in questo caso mi sento di dire sì questa volta europea, con il concorso di tutti, perché darebbe anche un valore diverso e simbolicamente più importante di un’Europa che si fa carico, congiuntamente, di un problema che non è né italiano né greco né spagnolo né tedesco né svedese… E’ un problema di tutti, se ci vogliamo continuare a chiamare Europa solidale.

D. – In sintesi possiamo dire che non è una parolaccia dire che bisogna aiutarli a casa loro?

R. – No, non è una parolaccia. E’ irrealistico pensare che questa sia l’unica soluzione: è uno degli strumenti che potrà servire per aiutare tante persone – e qui parliamo di milioni di persone – ma soprattutto di aiutare un’intera area, vasta, che è quella che va dall’Africa sub-sahariana sino al Medio Oriente, all’Europa, all’Europa settentrionale, che è fortemente sollecitata da questi flussi e sembra ormai in balia di una situazione incontrollabile. Ecco, se cominciassimo seriamente a ragionare sui singoli strumenti: canali umanitari, visti umanitari, politica estera sicuramente più efficace, politiche di sviluppo più efficaci, gestioni dei flussi di ingresso, che sono tutti pezzi di un puzzle molto complicato, fatto di tante piccole tessere, ma qualcuno deve prendersi la responsabilità di metterli insieme per avere alla fine un quadro più chiaro.

inizio pagina

Istat: causa crisi, nel 2014 minimo storico natalità

◊  

In diminuzione le nascite in Italia sia da madri italiane, sia straniere: lo dice l’Istat che oggi ha diffuso gli indicatori demografici dell’anno 2014. In calo anche il numero dei decessi, mentre cresce l’aspettativa di vita. L’Istituto rileva anche una riduzione complessiva della popolazione di cittadinanza italiana residente nel "Bel Paese". Il servizio di Adriana Masotti

Solo 509 mila i nati nel 2014, il livello minimo dall’Unità d'Italia. E’ questo il dato più rilevante che emerge dalle rilevazioni dell’Istat. Calano le nascite da madri sia italiane sia straniere, "con le prime che nel 2014 hanno 1,31 figli contro 1,97 delle seconde". L'età media del primo parto sale a 31anni e mezzo. La popolazione di cittadinanza italiana residente, rileva l’Istat, è scesa a 55,7 milioni al primo gennaio 2015 con una perdita pari a 125 mila unità rispetto all'anno precedente. 

Al primo gennaio 2015 l'età media della popolazione ha raggiunto i 44,4 anni. La popolazione - dai 65 anni in su - supera di molto quella dai 0 ai 14 anni. La speranza di vita cresce arrivando a 80,2 anni per gli uomini e a 84,9 anni per le donne.

La regione italiana col primato della natalità è il Trentino Alto Adige che supera anche la Campania. In generale, secondo l’Istat, il tasso di natalità scende dall'8,5 per mille nel 2013 all'8,4 per mille nel 2014. Le regioni col più basso livello di nascite sono la Liguria, la Sardegna, il Molise, la Basilicata. Alla Liguria appartiene anche il più alto tasso di mortalità e, quindi, anche il tasso d'incremento naturale più sfavorevole. Che lettura dare a questa fotografia dell’Italia? Risponde il sociologo Maurizio Fiasco: 

R. – Vi è l’effetto dell’innalzamento dell’età media del primo parto e poi c’è il comparire nella quotidianità, nelle abitudini degli italiani, degli effetti di una crisi che dura da 7,8 anni. Questa crisi non è soltanto di indicatori economici: sono indicatori di comportamento, di idea della vita, di progettazione dell’esistenza e, quindi, hanno un riflesso nella quotidianità. Va letta su vari piani. Ovviamente, c’è un piano specialistico dei demografi e c’è una lettura che la correla alla nostra quotidianità, a un Paese che è l’unico in Europa, se si eccettua la Grecia, che ancora permane nella recessione, nella stagnazione, che è una stagnazione non solo di indici economici ma è una stagnazione di progetto di vita. Questo, sicuramente, è rivelato anche dall’altissimo numero di espatri di italiani che vanno a cercare delle chances esistenziali, oltre che di lavoro, fuori dei confini della patria.

D.  – Quindi il dato sulle nascite coagula tutto un insieme di dati, che comunque rivelano una Italia che ha poca speranza, poco futuro, che vive un momento difficile… Non è certo un dato positivo…

R.  – Non è un dato positivo perché vi confluiscono più indici, più fattori. Non è soltanto una perdita di attitudine al comporre la famiglia e a dotarla di un numero di figli, come si sarebbe potuto interpretare 10 anni fa. Vi è probabilmente questo, ma vi è anche il mordere di una crisi che si prolunga e che quindi riduce le propensioni a un progetto di vita a lungo termine, schiaccia la persona nella quotidianità dei deficit e quindi ha un riflesso anche di tipo comportamentale. Poi vi sono dati strutturali, uno dei quali, ripeto, è questa fuga di italiani in età fertile a cercare prospettive di vita fuori dall’Italia. Noi non siamo solo un Paese che accoglie migranti: siamo tornati, ovviamente con numeri molto più contenuti, ad essere un Paese di migranti, qualificati, non più generici, come nel Dopoguerra, ma pur sempre un Paese che torna a contribuire in maniera rilevante ai flussi migratori in uscita.

D.  – Potremmo fare un commento anche sul fatto che la regione italiana con il primato delle nascite è il Trentino Alto Adige, che supera anche la Campania, che tradizionalmente era la regione con più popolazione. Questo cosa può voler dire?

R.  – Può voler dire che al tasso di natalità si correla anche un profilo meno drammatico della crisi, ma anche a scelte istituzionali che possono essere state fatte per compensare, con un welfare, con un sistema di sicurezza sociale più adattato alla quotidianità delle famiglie, il disincentivo al progetto di vita e il disincentivo al procreare. Quindi, non è che si può contemplare questo dato: bisogna leggerlo in funzione del “che cosa si fa”. Una scheda sintetica, come quella che l’Istat ci ha dato, suscita numerosi interrogativi che hanno riflessi pratici sulla scala dei singoli, sulla scala dei sistemi e anche sulla scala delle istituzioni.

D.  – Il sentimento religioso… L’Italia, si è sempre detto, è un Paese cattolico, forse questo adesso tiene meno, però potrebbe essere anche questo un fattore che entra in campo…

R. – Il sentimento religioso va letto all’interno di un più vasto senso comune, di un più vasto pensiero dell’esistenza. E’ un aiuto importante a definire un’idea del senso e quindi delle responsabilità e delle possibilità che la vita ti offre. Ma il contenitore è più vasto: cioè, il deficit che c’è in Italia è un deficit di motivazione a uscire dalla crisi, è un atteggiamento di ripiegamento, di attesa, come se la responsabilità stesse da un’altra parte. Il sentimento religioso ha un cardine spirituale, ma ha anche un cardine di supporto psicologico: ti impegni perché riesci a vedere oltre la quotidianità così segnata dal negativo e dalla crisi. In questo senso ti aiuta, però non può essere l’unica variabile che incide in questo caso sui comportamenti di nuzialità e di procreazione.

inizio pagina

Bambini soldato. Vescovo in Uganda: possiamo salvarli

◊  

Ricorre oggi, 12 febbraio, la Giornata mondiale contro l’uso dei bambini soldato. Negli ultimi anni, per fermare questo terribile sfruttamento dei più piccoli, sono stati firmati documenti nelle più importanti sedi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, ma il fenomeno continua a resistere in molte parti del mondo. Ce ne parla Davide Maggiore

Sono la parte più indifesa dell’umanità, ma sempre più spesso vengono trasformati dalla crudeltà altrui nei soldati delle guerre contemporanee: sono oltre 250 mila i bambini e le bambine arruolati a forza o indottrinati, resi schiavi, impiegati come spie o combattenti. Ne è stata denunciata la presenza – tra l’altro - in Iraq, Siria, Somalia, Sud Sudan, Afghanistan e Mali. Costretti loro malgrado a sparare e a uccidere, i bambini-soldato vengono privati dei loro diritti più fondamentali, innanzitutto quelli a vivere un’infanzia serena e a ricevere un’istruzione adeguata. E spesso la fine del conflitto non significa la liberazione. Sia i giovani combattenti che i territori dove hanno agito portano a lungo l’impronta della guerra. Ne è testimone mons. Giuseppe Franzelli, vescovo di Lira, in nord Uganda, che ha visto la sua diocesi attraversata dai giovanissimi miliziani del Lord’s Resistance Army:

R. – Il problema è quello delle ferite profonde che sono dentro, del trauma di una società che ha respirato violenza per anni e anni. Siamo in un periodo di ricostruzione che non è soltanto materiale, di strutture e di ripresa economica, ma si tratta soprattutto di una ricostruzione - direi - psicologica e morale. E’ in questo che l’opera della Chiesa è ancora più urgente che mai, anche dopo la fine della guerra.

E il vescovo sottolinea anche quale può essere il contributo delle comunità religiose alla vita di ragazzi e ragazze reduci dalla guerra e spesso respinti, per paura, dai loro stessi vicini:

R. – Incoraggiare ad accogliere questi ragazzi, a non vederli solo come un problema, ma come una occasione proprio di esercitare la carità cristiana, di aiutarli a reinserirsi, perché loro stessi sono le prime vittime di tutta questa tragedia.

Malgrado le ferite fisiche e psicologiche c’è però anche chi riesce a lasciarsi alle spalle il mondo della guerra e ad imboccare una strada diversa. Ancora mons. Franzelli:

R. – So di alcuni che, pur portandosi dentro ancora queste ferite, stanno cercando di ricostruirsi una loro vita. Io ricordo con piacere Kathrine, l’ultima delle ragazze che è stata liberata di quelle che erano state rapite e che sono rimaste nel bosco per anni e anni… Era tornata con il suo bambino ed era come persa, smarrita: l’anno scorso ho avuto la gioia di ritrovarla in una scuola superiore di Kampala, dove è stata mandata e dove si preparava a superare gli esami precedenti all’università.

inizio pagina

Al Festival di Berlino, il film italiano "Vergine Giurata"

◊  

Presentato oggi al Festival Internazionale del Cinema di Berlino “Vergine Giurata”, unico film italiano in concorso, opera prima della giovane regista Laura Bispuri, un film che esplora la dura condizione della donna nelle zone montagnose dell’Albania, sottoposta a leggi arcaiche e disumane. Il servizio di Luca Pellegrini

In un territorio brullo, roccioso, duro e inospitale come quello che circonda il Nord dell'Albania, dove il tempo sembra essersi fermato, ancorato a leggi e tradizioni arcaiche, la vita delle donne è al contrario fragile, precaria, drammaticamente sottoposta e condizionata dalla figura maschile. Non c'è posto per loro, costrette unicamente al duro lavoro e ai soprusi familiari. Stride così la civiltà che è alle porte, oltre la striscia del Mediterraneo, verso la quale spesso si migra. Oppure, se si decide di restare, come nei secoli passati, ci si sottopone a un’antica legge delle montagne albanesi, il Kanun, riflesso di una cultura maschilista basata sull’onore, che consente alle donne che giurano la loro verginità per sempre di vivere e agire liberamente come un uomo, nascondendo tutto della propria femminilità e privandosi della possibile maternità. L'accetta Hana Doda, interpretata da una bravissima e algida Alba Rohrwacher, che così diventa per tutti Mark e questa scelta diventa la sua prigione. Fino a quando, fuggita in Italia, recuperando i rapporti con parte della sua famiglia, sarà capace di recuperare anche quello col suo corpo e con il suo essere donna e in futuro madre. Quello girato da Anna Bispuri, la sua opera prima, è un film concentrato su questo personaggio duro, che non concede nulla se non all'umanità che lentamente lo pervade e lo reinserisce in una società. Un film che, come avvenuto ultimamente con altri titoli, esplora la condizione femminile. Come spiega la regista ai nostri microfoni:

R. – Assolutamente, assolutamente! E’ una riflessione proprio sulla condizione femminile in rapporto alla libertà. Una cosa cui tenevo era non far vedere l’Albania solo come qualcosa di negativo e, invece, il Paese occidentale – in questo caso l’Italia – come qualcosa di assolutamente positivo: non volevo creare un bianco e nero. Per cui sicuramente c’è una grande riflessione su quel tipo di cultura, che è poi riferita all’ambiente delle montagne del Nord dell’Albania, ma c’è anche una riflessione più ampia anche sulla nostra società più moderna.

D. - Mark-Hana alla fine, dopo essere entrata in contatto con la società occidentale, con non poche disillusioni, riconquista la sua femminilità, con un atto di riappacificazione con il proprio passato e la propria famiglia…

R. – Diciamo che riesce a far sì che il suo corpo, che era un corpo assolutamente imprigionato, congelato, piano piano riesca ad avere una sua autonomia, una sua accettazione. Quindi Hana-Mark fa tutta una serie di percorsi, perché comunque ha voglia, curiosità, ma anche paura, per arrivare ad avere una sua tranquillità e una sua accettazione come essere femminile.

D. - La sua curiosità, come regista, è prima di tutto antropologica…

R. – Femminile, sì. Molto… Diciamo che è un tema ricorrente, appunto, avere questi personaggi femminili che cercano un modello in cui identificarsi, un modello a cui sentire di appartenere. Quindi fanno viaggi dentro la complessità, che è la femminilità.

D. - La situazione della donna oggi nel mondo?

R. – Ci sono dei Paesi in cui è veramente allucinante, perché la violenza è molto forte. Però anche da noi, dove i Paesi sembrano essere molto più liberi e molto più evoluti – e certamente lo sono… - rimangono delle tracce di difficoltà per le donne: il percorso femminile è molto faticoso, molto!

inizio pagina

Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa: Muro a Cremisan soffocherà presenza dei cristiani

◊  

“Vogliono costruire il Muro di separazione nella valle di Cremisan per poi espropriare le terre che appartengono ai cristiani palestinesi. Se ciò avverrà, tutta l’area sarà soffocata dalla morsa del muro, e i primi ad andare via saranno proprio i cristiani”. E' questo lo scenario futuro prefigurato all'agenzia Fides dal sindaco di Betlemme, la cattolica palestinese Vera Baboun, che ieri ha incontrato Papa Francesco alla fine dell'Udienza generale e poi è stata ricevuta dal card. Segretario di Stato, Pietro Parolin, insieme a Nicola Khamis (sindaco di Beit Jala), Hani al-Hayek (sindaco di Beit Sahour) e al dottor Issa Kassissieh, ambasciatore di Palestina presso la Santa Sede.

Missione dei sindaci per scongiurare la costruzione del Muro
La visita a Roma della delegazione dei sindaci del cosiddetto “triangolo cristiano” della Cisgiordania aveva lo scopo di esporre alla Santa Sede gli effetti deleteri che la costruzione del Muro di separazione nella valle di Cremisan avrebbe sulle comunità cristiane autoctone nella città e nella regione dove è nato Gesù. “Ormai - spiega a Fides Vera Baboun - siamo arrivati a un punto limite. Abbiamo mostrato al card. Parolin le mappe e le foto che avevamo con noi. E lui ci ha ascoltato attento, con molta preoccupazione”.

Muro dividerebbe vigne dei cristiani, conventi e scuola salesiana
Il muro di separazione voluto da Israele, dopo aver tagliato il territorio di Betlemme, minaccia ora la zona fertile del Cremisan, dove si trovano terre con vigne e oliveti appartenenti a 58 famiglie cristiane di Beit Jala, insieme a due conventi e a una scuola dei Salesiani. Il tracciato del muro, ripetono i tre sindaci cristiani palestinesi, “non risponde in quel tratto a nessuna esigenza di sicurezza, ha come unico scopo separare le famiglie cristiane dalle loro terre per poi confiscarle e allargare l’area a disposizione di nuovi insediamenti illegali israeliani”. Se le terre della valle – che rappresenta l'unico polmone verde di tutta l'area – verranno confiscate, “non ci sarà più futuro per permanenza dei cristiani: la densità abitativa si alzerà a livelli insostenibili” riferisce il sindaco di Betlemme, “e tanti finiranno per scegliere la via dell'esodo, che già da tempo sta riducendo la presenza cristiana in Terra Santa”.

La visita nella Valle di Cremisan dei vescovi di Europa e Usa
L’area di Cremisan era stata visitata lo scorso 13 gennaio anche dai sedici vescovi che hanno partecipato quest’anno alla visita in Palestina e Israele organizzata dall'Holy Land Coordination (Hlc), organismo che riunisce vescovi e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Europa e Nord America. Al termine della loro visita, i vescovi avevano ribadito in un comunicato il loro impegno a contrastare la costruzione del muro nella valle e la confisca delle terre palestinesi. (G.V.)

inizio pagina

Card. Nichols: fermare stupri di guerra, crimini immorali

◊  

Mai più stupri di guerra, crimini immorali, vergogna per l’umanità: questo, in sintesi, l’appello lanciato dal card. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e presidente dell'episcopato di Inghilterra e Galles, all’incontro interreligioso sulle violenze sessuali nei conflitti, svoltosi presso la Lancaster House. Organizzato dal governo inglese e dall’associazione “We will speak out”, che riunisce ong cristiane, l’evento mirava a sollecitare le comunità religiose a mobilitarsi per porre fine agli stupri di guerra.

La guerra non è una scusa
Nel suo discorso, il card. Nichols si è soffermato su tre punti: innanzitutto, ha sottolineato l’importanza di riconoscere che “ogni attività umana è soggetta a principi morali e sottoposta a giudizi”. Il che significa che “nessuna dichiarazione di guerra, legittima o meno”, permette ai combattenti di ignorare quelle norme morali che tutelano la dignità umana. “In altre parole – ha continuato il porporato – la guerra non è una scusa. Un crimine è un crimine, a prescindere dal contesto in cui viene commesso. E la violenza sessuale è sempre un crimine, è sempre un atto immorale”.

Una vergogna per l’umanità
Poi, il card. Nichols ha definito la violenza sessuale in guerra “un orrore”, perché “provoca danni radicali e permanenti nell’essenza delle vittime” e soprattutto perché “non è un atto sporadico di un uomo che perde, per un momento, tutto il senso della decenza, bensì è una tattica deliberata di oppressione e distruzione”. “È una vergogna per l’umanità – ha continuato il porporato – che l’uso sistematico delle violenze sessuali sia ancora considerato, in alcuni luoghi, un dovere dei soldati, un ordine da eseguire”. Ed è inconcepibile che lo stigma di tale crimine “ricada sulle vittime e non su chi lo commette”.

No alla disumanizzazione della persona
Al secondo punto, poi, il porporato si è soffermato sull’importanza di tutelare la sessualità umana come “componente vitale di ciascuno” che “unisce due persone, corpo ed anima, al livello più profondo” ed è “per sua natura, aperta alla procreazione di una nuova vita umana”. In questo senso, il card. Nichols ha evidenziato che la sfera sessuale necessita di “onore e rispetto”, “non c’è posto, in essa, per l’aggressione, la strumentalizzazione o per ogni genere di disumanizzazione della persona”.

L’impegno della Chiesa contro questo crimine
“La Chiesa sostiene con forza – ha continuato il presidente dei vescovi inglesi e gallesi – ogni iniziativa di prevenzione della violenza sessuale, perpetrata contro chiunque, ovunque ed in qualunque circostanza”. Un ringraziamento particolare, in quest’ottica, è stato fatto ai tanti religiosi e religiose che lottano contro questo crimine “senza cercare ricompense” ed “impegnandosi per promuovere la giustizia nel mondo contemporaneo”.

Diritto all’integrità del corpo è dono di Dio
Infine, come terzo punto, l’arcivescovo di Westminster ha messo in risalto la tutela dei diritti umani: “La dignità di ogni persona – ha affermato – ed i diritti umani che ne derivano, sono inerenti alla stessa persona e sono, quindi, inalienabili”. Non solo: “Il diritto alla vita ed alla integrità del corpo sono fondamentali in quanto doni di Dio” e quindi la loro violazione tramite violenza sessuale “rappresenta la massima violazione della dignità umana e la massima offesa dei diritti umani. È un’offesa a Dio”. “Mai più stupri di guerra”, ha concluso il porporato, dicendosi fiducioso del fatto che, nella lotta contro tali crimini, “la fede non è un problema da risolvere, ma una grande risorsa da scoprire”. (A cura di Isabella Piro)

inizio pagina

Iraq. Mons. Mirkis: raccolta sangue per vittime del terrorismo

◊  

Una campagna straordinaria per la raccolta di sangue, con l'intenzione di mostrare concretamente la solidarietà con le vittime del terrorismo jihadista e anche con le forze armate e i soldati curdi Peshmerga che proteggono la città dagli assalti delle milizie del Daesh (acronimo arabo usato per indicare il sedicente Stato Islamico). E' questa l'iniziativa promossa nei giorni scorsi da mons. Yousif Thomas Mirkis, arcivescovo di Kirkuk dei caldei, che martedì scorso ha fatto allestire una postazione per la raccolta di sangue presso la cattedrale, dedicata al Sacro Cuore di Gesù. Il presule è stato tra i primi a donare il sangue.

Segno di unità per chi sacrifica per il Paese
“L'iniziativa - ha spiegato l'arcivescovo Yousif Thomas Mirkis in un una dichiarazione pervenuta all'agenzia Fides - vuole manifestare la nostra vicinanza ai soldati disposti a sacrificare la loro vita per proteggerci e a tutte le vittime del terrorismo. Doniamo il sangue per loro, e il sangue donato da ognuno si mescola con quello dell'altro quando viene usato nelle trasfusioni, così che non si può più distinguere il sangue dell'uno e dell'altro. Anche questo è un segno forte della nostra unità, nutrita dall'amore di Dio”.

Respinto attacco dell'Is contro Kirkuk
Il 30 gennaio le milizie del Daesh avevano tentato un attacco a sorpresa contro Kirkuk, iniziato con un attentato-kamikaze realizzato presso un ex hotel utilizzato come quartier generale della polizia locale. L'offensiva jihadista era stata poi respinta dalle milizie curde dei Peshmerga, che da mesi difendono la città, considerata strategica anche per il controllo delle risorse petrolifere. (G.V.)

inizio pagina

Filippine: vescovi chiedono verità dopo strage di Mindanao

◊  

Accertare i fatti, senza farsi prendere dall’emotività, istituendo una apposita “Commissione per la verità”: è la richiesta della Conferenza episcopale delle Filippine, mentre nel Paese è ancora vivo il dibattito dopo la strage di Mamasapano, sull’isola di Mindanao, dove il 25 gennaio hanno perso la vita 44 militari filippini, in uno scontro con i ribelli del “Moro Islamic Liberation Front (Milf)”.

La Chiesa chiede discernimento nella preghiera
L’indignazione popolare è ancora forte e alcuni sono giunti a chiedere le dimissioni del Presidente Benigno Aquino jr. In una nota ufficiale, il presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di Lingayen-Dagupan, mons. Socrates B. Villegas, ha invitato a evitare giudizi affrettati e a compiere “un discernimento nella preghiera e in tutta umiltà e sapienza”. “Non è ancora chiaro cosa sia realmente accaduto” ha rimarcato l’arcivescovo. 

In discussione regione autonoma per i musulmani
Il dibattito si incrocia con un momento politico decisivo per la pace nel Sud del Filippine: è infatti in discussione al Congresso la “Legge fondamentale Bangsamoro” (Bangsamoro Basic Law), che ratifica l’accordo siglato lo scorso anno tra governo e Milf e che, se approvata, istituirà ufficialmente la nuova regione autonoma per i musulmani filippini.

La Chiesa per il bene comune di cristiani e musulmani
“Alcuni vorrebbero che l’episodio di Mindanao facesse deragliare il processo di attuazione della legge” nota Mons.Villegas, appellandosi “alla trasparenza e alla franchezza” di tutti i leader politici e invitando tutti i cittadini a “rivolgersi a Dio nella preghiera, nella penitenza e nella supplica”. La Chiesa, conclude la nota dei vescovi, guarda solo al bene comune del Paese e dei cittadini filippini, cristiani e musulmani. (P.A.)

inizio pagina

Sudan: fame e malattie per gli sfollati del Darfur

◊  

La popolazione fuggita dalle aree di conflitto situate nell’area vulcanica di Jebel Marra, in Darfur, nella parte occidentale del Sudan, e che ora vive a nord e nella parte orientale di Deribat, lamenta il proliferare di numerose malattie e la penuria di generi alimentari, farmaci e generi di prima necessità. Secondo le organizzazioni umanitarie, dal 1° febbraio sono oltre 36 mila i nuovi sfollati in Nord Darfur a causa del conflitto armato tra le forze governative e movimenti ribelli.

In aumento malattie della pelle, febbre, diarrea, emicranie
Una fonte dell’emittente radiofonica locale Radio Dabanga ripresa dall'agenzia Fides, riferisce che gli sfollati delle aree da Fanga e Dobo El Omda, nell’East Jebel Marra, hanno malattie della pelle, febbre, diarrea, emicranie. Le malattie della pelle hanno cominciato a diffondersi tra adulti e bambini una settimana fa, con eruzioni cutanee che causano un prurito talmente forte da non far dormire. La maggioranza degli sfollati ha cercato rifugio a Tawila, El Fasher, e nelle località di Um Baru, facendo registrare un aumento di quasi 16 mila unità rispetto alla settimana precedente.

In aumento il numero degli sfollati
Occorre un rapido intervento delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie, le quali sostengono che il numero reale potrebbe essere più alto, dato che non sono riusciti ad accedere e verificare la situazione a causa dell’insicurezza a Jebel Marra, dove sono concentrati i combattimenti. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (Ocha) riferisce che le agenzie di aiuto e l’Unamid hanno registrato 4.500 nuovi sfollati che si sono rifugiati nella zona protetta vicino alla base della missione di pace a Um Baru. Stimano che 15.500 persone hanno cercato rifugio nelle vicinanze. Il gruppo rimane in zona durante il giorno e torna a casa di notte. (P.A.)

inizio pagina

Argentina: ancora morti per malnutrizione infantile

◊  

Il responsabile della Commissione per la Pastorale sociale della Conferenza episcopale argentina, mons. Jorge Lozano, ha denunciato che "ci sono situazioni di malnutrizione infantile in varie parti del Paese" e ha accusato il governo di "manipolare le statistiche per non affrontare la realtà".

20% dei bambini esclusi dal controllo medico
La malnutrizione non è un fenomeno nuovo in Argentina, tuttavia nel 2013 (secondo informazioni raccolte dall'agenzia Fides) la diagnosi di "malnutrizione" è stata cambiata con quella di "sotto peso". Inoltre è aumentato il numero di bambini esclusi dal controllo medico e quindi dai dati ufficiali. In questi ultimi giorni nella provincia di Salta ci sono stati 2 casi di bambini morti per malnutrizione, denunciati dalla stampa locale. Il ministro della sanità ha detto che "si tratta di una vera tragedia" e ha confermato che il 20% dei bambini della zona sono fuori dal controllo sanitario statale.

Mortalità infantile legata a povertà e fame
La stampa nazionale accusa il governo di tacere perché anche lo scorso anno ci sono stati casi denunciati di morte per malnutrizione ma non riconosciuti come tali. Secondo dati ufficiali, a Salta ci sono circa 106 mila bambini sotto controllo nutrizionale, e di questi circa 1.900 sono sotto il livello normale. La nota pervenuta a Fides contiene un'intervista rilasciata da mons. Lozano al giornale “El Tribuno” di Salta, dove il vescovo della diocesi di Gualeguaychú ha così commentato gli ultimi decessi nella provincia: "Questa situazione a volte diventa pubblica, ma altre volte resta nascosta, o sembrano morti avvenute per malattia, ma sono sempre morti legate alla povertà o alla mancanza di alimentazione".

Fenomeno legato alle diseguaglianze sociali
Fra le diverse cause, ha segnalato “la crescita economica concentrata nelle mani di pochi finisce per riempire solo le tasche di pochi”. Quindi ha aggiunto: “Al di là dei numeri, la malnutrizione infantile è un problema molto serio, perché in alcuni casi porta alla morte e in altri comporta uno svantaggio tremendo per tutta la vita, perché quando il corpo del bambino non riesce a svilupparsi nei primi anni, non potrà farlo più tardi”. (C.E.)

inizio pagina

Lourdes: lavori nel percorso verso la Grotta delle Apparizioni

◊  

Lavori in corso a Lourdes, in Francia, per migliorare il percorso che conduce alla Grotta delle Apparizioni e per consentire ai pellegrini un maggiore raccoglimento. Fino al 2016 cantieri aperti per valorizzare, come sottolinea il vescovo di Tarbes e Lourdes mons. Nicolas Brouwet, i segni di Lourdes: la roccia, l’acqua, la luce. Ma anche per rendere più sicure le sponde del Gave in questi ultimi anni esondato più volte.

Il “Progetto Grotta, Cuore di Lourdes”
“Progetto Grotta, Cuore di Lourdes”, così è stato denominato il complesso degli interventi che faciliteranno la preparazione interiore dei fedeli in cammino verso la Grotta delle Apparizioni. Lasciando l’esplanade della basilica del Rosario, riferisce il portale della Conferenza episcopale francese www.eglise.catholique.fr, si aprirà uno spazio alberato e davanti la Grotta ci si potrà inginocchiare come fece Bernadette. ”La Grotta deve essere un’oasi di silenzio” spiega mons. Brouwet. Per questo è stato anche ripensato il sistema di illuminazione. I gesti legati all’acqua – bere e lavarsi – potranno essere compiuti prima del momento di preghiera alla Grotta, nel luogo dove oggi si trovano i ceri. Qui saranno istallate nuove fontane ricavate in blocchi di granito. Le piscine e le vasche resteranno intatte, saranno rifatti soltanto i pavimenti e la facciata dell’ambiente che le custodisce. Quanto ai sacerdoti che prestano servizio nel Santuario, proporranno catechesi ai pellegrini che si preparano ad entrare nelle piscine. Un nuovo ponte condurrà i pellegrini all’altra riva del Gave, al di là della Grotta; qui si potranno accendere i ceri che creeranno una strada luminosa visibile dalla Grotta stessa. 

La Grotta delle Apparizioni ritroverà il suo aspetto naturale
“La nostra missione è vegliare perché quanti vengono al santuario si lascino toccare davanti la Grotta dall’amore incondizionato di Gesù” scrive mons. Brouwet nel documento sugli orientamenti per il santuario di Lourdes. Ma l’idea è anche quella di ancorare il santuario nel suo territorio e dunque con quanti vi abitano. Con il “Progetto Grotta, cuore di Lourdes”, insomma, la Grotta, luogo da dove è partito il messaggio di Maria - l’invito ad essere immacolati e testimoni di Dio - riacquisterà maggiormente il suo aspetto naturale. (T.C.)

inizio pagina

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 43

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.