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Sommario del 10/02/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Ucraina: l'appello del Papa è a tutte le parti coinvolte

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Papa Francesco "ha sempre inteso rivolgersi a tutte le parti interessate nella crisi in Ucraina". E’ quanto detto dal direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, in un incontro oggi con i giornalisti. Il servizio di Francesca Sabatinelli

In un momento così delicato come quello che vive l’Ucraina, è doveroso mettere di nuovo in luce le intenzioni del Papa. Il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ribadisce l’attenzione con la quale la Santa Sede segue la crisi che riguarda le regioni orientali dell’Ucraina. “In presenza di un’escalation del conflitto che miete numerose vittime innocenti – sottolinea padre Lombardi – il  Santo Padre Francesco ha rinnovato in più occasioni l’appello a favore della pace”. Il Papa con tali interventi, aggiunge, invitava “i fedeli a pregare per i morti e i feriti a causa delle violenze”, nonché sottolineava “l’urgenza di riprendere i negoziati, quale unico percorso possibile per uscire dalla logica di un crescendo di accuse e reazioni”:

"Di fronte alle diverse interpretazioni che sono state date alle parole del Papa, specialmente quelle di mercoledì 4 febbraio all’udienza generale, ritengo utile precisare che egli ha sempre inteso rivolgersi a tutte le parti interessate, confidando nello sforzo sincero di ciascuna per applicare le intese raggiunte di comune accordo e richiamando il principio della legalità internazionale, al quale la Santa Sede ha fatto riferimento più volte da quando è cominciata la crisi".

Come ripeteva spesso San Giovanni Paolo II, precisa quindi il direttore, “l’umanità deve trovare il coraggio di sostituire il diritto della forza con la forza del diritto”. Dal 16 al 21 febbraio prossimi, vi sarà la visita "ad Limina" dell’episcopato ucraino, che il Papa attende con gioia:

"Sarà una ulteriore occasione per incontrare quei fratelli Vescovi, per essere informato direttamente sulla situazione di quel caro Paese, per confortare quella Chiesa e quanti soffrono e per valutare insieme cammini di riconciliazione e di pace".

L’atteggiamento della Santa Sede, dice quindi padre Lombardi in risposta alle domande dei giornalisti, è “sempre quello di cercare le soluzioni negoziate: questo è un principio assolutamente generale per tutte le situazioni di conflitto”. Quando ci sono tentativi in corso, quindi, si incoraggiano il più possibile, rispettando però il ruolo della Santa Sede:

"Naturalmente, con una posizione che non è di essere un’autorità politica, ma un’autorità di carattere morale e religioso evidentemente, che chiede a tutti di mettere la disposizione migliore, la disponibilità più ampia per i valori fondamentali della pace, del rispetto della vita e così via. Chiaramente, la soluzione negoziata in tutti i casi dei conflitto che sono in corso è sempre quella che viene proposta e sostenuta".

Il 21 febbraio, il Papa incontrerà la cancelliera tedesca, Angela Merkel, in Vaticano, occasione in cui il dossier Ucraina sarà sicuramente nell’agenda del colloquio:

"E’ normale che, quando il Papa incontra personalità politiche autorevoli, si mettano sul tavolo gli argomenti di attualità e di preoccupazione maggiore. Darei abbastanza per naturale che questo sia un argomento presente nella conversazione o come sfondo dell’incontro. Allo stesso tempo, normalmente non è che il Papa entri in particolari di soluzioni di carattere politico che non sono di sua competenza".

Sarà quindi condivisione di preoccupazione, ma non per questo – ribadisce Lombardi – si arriverà a un suggerimento di “soluzioni specifiche o di prese di posizioni particolari”, anche perché “di solito, gli aspetti di carattere anche un po’ più politico vengono trattati nei colloqui con il segretario di Stato”. Anche lì però non è da aspettarsi “un intervento con soluzioni specifiche proposte da parte del Papa o della Santa Sede: non è il suo campo”.

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C9 discute riforma della Curia Romana in vista del Concistoro

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Alla presenza “continua” di Papa Francesco, il Consiglio dei nove cardinali ha proseguito oggi il suo incontro a Casa Santa Marta. A riferire ai media sui lavori del C9 è stato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi. I porporati hanno affrontato la preparazione della relazione da tenere nei prossimi giorni al Concistoro, durante il quale si parlerà della riforma della Curia Romana. In quella circostanza, verrà presentato lo status dei lavori e il cammino del C9 compiuto finora, con una relazione letta dal segretario del Consiglio, mons. Marcello Semeraro.

Inoltre, ha informato padre Lombardi, nel pomeriggio di ieri vi è stato un incontro audizione con il cardinale Gianfranco Ravasi incentrato sul Pontificio Consiglio della Cultura e la sua collocazione nel contesto del processo di riforma della Curia. L’audizione di questa mattina in Consiglio ha visto invece la presentazione di un primo rapporto sui lavori della Commissione per i media vaticani, portata da mons. Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.

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Francesco: Dio si cerca, i cristiani “seduti” non lo vedono

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Per incontrare Dio bisogna rischiare e mettersi in cammino, perché un cristiano “quieto” non potrà “mai conoscere” il volto del Padre. È la riflessione che Papa Francesco ha sviluppato durante l’omelia della Messa del mattino, celebrata nella cappella di Casa S. Marta. Il servizio di Alessandro De Carolis: 

Se un cristiano vuole conoscere la sua identità, non può starsene comodo in poltrona a sfogliare un libro perché al mondo “non c’è un catalogo” con dentro “l’immagine di Dio”. E nemmeno può disegnarsi un Dio di comodo obbedendo a regole che con Dio non hanno niente a che fare.

Gli inquieti vedranno Dio
La lettura della Genesi che parla della creazione dell’uomo “a immagine di Dio” suggerisce a Papa Francesco una meditazione sulla strada giusta e le molte sbagliate che si aprono davanti a un cristiano che voglia conoscere la sua origine. L’immagine di Dio, afferma Francesco, la trovo “certamente non sul computer, non nelle enciclopedie”. Per trovarla, e quindi capire “la mia identità, si può fare solo in un modo, “soltanto mettendosi in cammino”. Altrimenti, dice, “mai potremo conoscere il volto di Dio”:

“Chi non si mette in cammino, mai conoscerà l’immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio. I cristiani seduti, i cristiani quieti non conosceranno il volto di Dio: non lo conoscono. Dicono: ‘Dio è così, così…’, ma non lo conoscono. I quieti. Per camminare è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo”.

La “caricatura” di Dio
Certo, considera Francesco, “mettersi in cammino è lasciare che Dio o la vita ci metta alla prova, mettersi in cammino è rischiare”. E così hanno fatto, sfidando pericoli e sentendosi abbattere dalla fatica e dalla sfiducia, anche giganti come il profeta Elia, o Geremia, o Giobbe. Ma c’è anche un altro modo di stare fermi e dunque falsare la ricerca di Dio, che Francesco rileva nell’episodio del Vangelo in cui scribi e farisei rimproverano Gesù perché i suoi discepoli mangiano senza aver assolto alle abluzioni rituali:

“Nel Vangelo, Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino e che si "adatta con una caricatura di Dio. E’ una falsa carta d’identità. Questi non-inquieti hanno fatto tacere l’inquietudine del cuore, dipingono Dio con comandamenti e si dimenticano di Dio: ‘Voi, trascurando il comandamento di Dio, osservate la tradizione degli uomini’, e così si allontanano da Dio, non camminano verso Dio e quando hanno un’insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento”.

La grazia di stare in cammino
Chi si comporta in questo modo, conclude Papa Francesco, compie un “cammino fra virgolette”, un “cammino che non cammina, un cammino quieto”:

“Oggi la liturgia ci fa riflettere su questi due testi: due carte d’identità. Quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così, e quella che ci dice: ‘Mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio’. E l’altra: ‘No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio’. Che il Signore ci dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla Terra, dobbiamo cercare”.

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Morto il card. Becker. Il Papa: fu un grande formatore

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Un uomo “esemplare” nell’insegnamento, “nella formazione delle nuove generazioni, specialmente dei sacerdoti” e nella “ricerca teologica”. È il ricordo che in un telegramma Papa Francesco fa del cardinale gesuita, Karl Joseph Becker, morto oggi a Roma all’età di 86 anni. Anche il cardinale segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, si è unito al cordoglio del Papa, in un suo telegramma nel quale sottolinea la stima di “generazioni di studenti” che circondò in vita il porporato scomparso.

Il cardinale era nato a Colonia nel 1928 facendo il suo ingresso nella Compagnia di Gesù all’età di vent’anni. Completati gli studi in Filosofia e Teologia presso le prestigiose scuole dell’Ordine in Germania, era stato ordinato sacerdote a Francoforte sul Meno nel 1958. Ottenuto il dottorato in teologia il cardinale Becker ha insegnato Dogmatica prima a Francoforte e successivamente dal 1969 al 2003 presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.

Il porporato è stato per molti anni consigliere presso la Congregazione per la Dottrina delle fede, partecipando più di recente ai colloqui della Commissione “Ecclesia Dei” con la Fraternità San Pio X. Era stato creato cardinale nel concistoro del 18 febbraio 2012 da Benedetto XVI con il titolo della Diaconia di San Giuliano Martire.

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"Direttorio Omiletico", aiuto per le omelie dei sacerdoti

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Si intitola “Direttorio Omiletico” il documento presentato oggi in Sala Stampa Vaticana, preparato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Si tratta di 156 pagine nate per essere un aiuto ai sacerdoti nelle loro omelie. Un lavoro fortemente voluto da Papa Francesco. Ce ne parla Benedetta Capelli: 

“L’omelia deve essere una predicazione breve e non sembrare una conferenza o una lezione”. Il passo dell’"Evangelii Gaudium" di Papa Francesco, ma anche le omelie del mattino a Casa Santa Marta, hanno fatto da traino ad un lavoro che la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti aveva già avviato su invito del Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia, nel 2005, e in base all’Esortazione "Sacramentum caritatis" di Benedetto XVI. Il Direttorio Omiletico che ne è nato è prima di tutto un aiuto, un supporto efficace per i sacerdoti con indicazioni pratiche per l’Avvento e il tempo di Quaresima e nel caso di celebrazioni dove siano presenti anche non cattolici o persone che non vanno solitamente a Messa come accade, per esempio, per i matrimoni e i funerali. A presentare il documento, in Sala Stampa Vaticana, il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti:

“Occorre una formazione, non soltanto intellettuale, ma una formazione spirituale, perché per comunicare Dio non bastano le parole. L’omelia deve esprimere la vita del sacerdote, che vive a contatto permanente con Dio. L’omelia si prepara pregando. Quando uno parla veramente di ciò che vive, sono sicuro che la gente ascolta”.    

Padre Corrado Maggioni, sottosegretario della Congregazione per il Culto Divino, ha posto poi l’accento sulle predicazioni dei fedeli in particolari contesti:

“Il Codice di Diritto Canonico prevede anche una predicazione – la chiama proprio predicazione – in una chiesa, in un oratorio ma certo non in un contesto di liturgia, è una catechesi, una conferenza. Allora, già questa distinzione è ben posta, e diciamo normata, dal Diritto Canonico, lasciando poi alle Conferenze episcopali di delineare i contorni, che cosa si esige da una predicazione di un laico in una chiesa pubblica. Dunque, sempre in questa istruzione "Ecclesia de mysterio" si dice che in certe occasioni – ad esempio la Giornata del seminario, la Giornata dell’ammalato – è possibile che un laico offra una testimonianza sull’oggetto della Giornata, senza però che prenda la funzione dell’omelia”.  

Altro aspetto nevralgico la lunghezza dell’omelia per la quale, afferma il card. Robert Sarah, non c’è una regola precisa:

“La lunghezza di un’omelia penso dipenda dalla cultura in cui ci si trova. E’ chiaro che in Occidente superare 20 minuti sembra troppo, ma in Africa 20 minuti non bastano, perché la gente viene da lontano per ascoltare la Parola di Dio”.

Non mancano poi i consigli utili dello stesso porporato:

“Molte volte io penso che sia importante – per esempio nella mia cultura – usare delle immagini nel predicare, ricorrere a leggende. Per esempio, per sottolineare l’importanza  della preghiera uso sempre una leggenda musulmana. C’era un uomo che voleva sapere chi sarebbe stato il suo vicino in cielo. Avere, infatti, un vicino cattivo sulla terra, anche se per 50 anni, è già difficile ma averlo per l’eternità è ancora più difficile. Allora gli viene risposto: “Il tuo vicino si chiama Maimuna”. E lui: “Ma chi è Maimuna?” “Maimuna è una ragazza che vive in un villaggio”. Allora, lui va in questo villaggio e chiede chi sia Maimuna. Gli viene risposto che Maimuna è una pazza, che custodisce le pecore vicino al cimitero. Allora, si reca al cimitero e trova Maimuna che prega. Mentre Maimuna pregava le pecore erano mescolate assieme ai lupi, ma i lupi non mangiavano le pecore e le pecore non avevano paura dei lupi. E allora, al termine della preghiera, l’uomo chiede a Maimuma: “Come hai fatto a fare in modo che i lupi stiano assieme alle pecore senza pericolo?” E lei rispose: “Ho migliorato i miei rapporti con Dio e Dio ha migliorato i rapporti fra i lupi e le pecore”. Questo per dire che usare immagini o leggende o racconti può aiutare a catturare la fantasia della gente, rendere la predica più attraente. Ci sono molti metodi, però, per attirare la gente all’ascolto della Parola di Dio, immagini, racconti o leggende possono aiutare”.

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Nomina episcopale di Papa Francesco in Polonia

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In Polonia, Francesco ha nominato arcivescovo coadiutore di Warmia mons. Józef Górzyński, trasferendolo dalla sede titolare di Lentini e dall’ufficio di ausiliare di Warszawa.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, un editoriale sull’11 febbraio, anniversario dei Patti Lataranensi.

Carte d’identità: Messa a Santa Marta.

Tragedia europea: ventinove migranti morti per ipotermia durante la traversata del Canale di Sicilia.

Un articolo di Silvina Pérez dal titolo “Giustizia mancata”: ventuno anni fa l’attentato ancora impunito di Buenos Aires.

La Bibbia per scoprire se stessi: Cristiana Dobner ricorda la teologa evangelica Luise Schottroff.

Conquista le orecchie e non essere triste: Cristian Martini Grimaldi sulla missione di Junipero Serra.

Una vita d'altri tempi: è morto Salvatore Lilla, scriptor greco della Biblioteca Vaticana.

Il metodo democratico: Angelo Paoluzi recensisce un saggio di Giuseppe Sangiorgi su De Gasperi.

Gabriele Nicolò su Poe, odi et amo: tra la stroncatura di Henry James al plauso di Charles Baudelaire.

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Oggi in Primo Piano



Card. Bagnasco su dramma immigrazione chiama in causa l'Europa

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Ci sono minori tra i 76 migranti scampati all'ennesima tragedia nel Mediterraneo. Uno di loro ha 12 anni, viene dalla Costa d'Avorio e non è accompagnato. Di fronte ai 29 loro compagni di viaggio morti per assideramento, il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, chiede all'Europa di non guardare dall'altra parte facendo finta di non accorgersi che l'Italia e' veramente la porta dell'Europa. Da parte sua, la portavoce della Commissione  Ue, Natasha Bertaud,  afferma che "l'operazione Triton in corso non solleva gli Stati membri dal dovere di controllare le proprie frontiere esterne e non sostituisce Mare Nostrum" e poi aggiunge che "dal lancio dell'operazione Triton, e in collaborazione con la Marina militare italiana, sono stati salvati 18.180 migranti, e intercettati 59 'facilitatori' del traffico di esseri umani". Di scelte politiche da fare parla, nell'intervista di Fausta Speranza, il direttore della Rivista italiana Difesa, Pietro Batacchi: 

R. – O si fa una cosa come era Mare Nostrum, la prima Mare Nostrum, ovvero di fatto si vanno a salvare queste persone fuori dalle nostre acque nazionali, sostanzialmente, fuori dai limiti europei, o si accetta che queste persone muoiano in mezzo al mare; oppure si interviene in quei Paesi dove esistono i focolai e le fonti di instabilità. Non ci sono molte alternative rispetto a questo, e credo che da questo punto di vista l’Europa non possa rimandare un’assunzione più ampia e condivisa di responsabilità.

D. – In ogni caso, è un’emergenza tale, che è veramente difficile contenerla…

R. – Mare Nostrum era una cura per l’immediato, ma per guarire questa malattia ci vuole una cura molto più incisiva, che non può che far riferimento alla stabilizzazione della situazione di crisi dalla quale queste persone fuggono, scappano sostanzialmente. Qui abbiamo, di fronte a noi, contesti come la Libia, e tutta la cintura del Nord Africa e dell’Africa subsahariana, completamente in preda all’instabilità, all’instabilità politica, all’instabilità a livello di sicurezza. Quindi, se non si ricreano quelle condizioni di stabilità in queste aree, credo che Mare Nostrum possa essere un rimedio, ma – come dicevo prima – tattico. La strategia è quella di portare in questi posti, nelle aree stanziali, condizioni di stabilità che non vediamo più da dopo quel grande fenomeno che passerà alla storia come “primavera araba” e che purtroppo, però, non ha portato ai risultati sperati, anzi ha provocato l’effetto contrario.

D. – Dov’è la politica di fronte a tutto questo?

R. – La politica credo sia in questo momento impegnata anche su altri fronti. Il problema è che la politica purtroppo dovrà tornare ad interessarsi della questione della stabilità, della questione della pace e della guerra. Questo discorso vale per la Libia, rispetto alla quale io immagino che, in qualche misura, nei prossimi mesi, il nostro Paese, nell’ambito di una coalizione internazionale, dovrà comunque intervenire. Mi riferisco alla Libia, mi riferisco all’Ucraina e a tutti quei contesti dove purtroppo le condizioni di instabilità e di guerra, ci pongono di fronte a delle scelte, a delle scelte strategiche, politiche che, comunque, un Paese maturo, una media potenza come l’Italia non può rimandare in eterno. In generale, noto con piacere che qualcuno inizia a rimpiangere Mare Nostrum, come la conoscevamo noi. Io mi limito a ricordare che tutte le polemiche che ci sono state contro la missione della Marina Militare, delle Forze Armate, a questo punto appaiono quantomeno fuori luogo o meglio propagandistiche. Chi ha criticato Mare Nostrum deve allo stesso tempo avere la responsabilità di dire di fronte all’opinione pubblica italiana e mondiale che oggi facciamo semplicemente morire in mezzo al mare tante persone.  Mentre Mare Nostrum ha contribuito a salvare, anzi ha salvato, migliaia e migliaia di persone.

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Lampedusa. Mons. Montenegro: morte indegna per esseri umani

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Nelle prossime ore, a Lampedusa, saranno identificate le 29 vittime dell’ultima tragedia del mare avvenuta al largo delle coste libiche. Il decesso dei migranti, in maggioranza subsahariani, è avvenuto per assideramento. Nell’occhio del ciclone la missione europea Triton che monitora i flussi migratori, secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati è assolutamente insufficiente. Al microfono di Benedetta Capelli l’arcivescovo di Agrigento, mons. Francesco Montenegro

R. – Credo che il miglior commento sia il silenzio a questo punto, no?… Perché le parole sono sempre le stesse: quando muore un uomo è il mondo che viene sconfitto! Ne muoiono tanti e questa sconfitta interessa tutti! Fare commenti? Se ne fanno tanti a favore e contro…  Ma davanti a tante vite che il mare risucchia, credo che il silenzio e la preghiera diventino ormai l’unico modo, perché il silenzio parla più delle parole. Con le parole si può giocare, col silenzio un po’ meno! Dovremmo metterci tutti in ossequioso silenzio a pensare che questi erano uomini come noi e sono morti in una maniera indegna per un essere umano…

D. – L’operazione “Triton” ha, secondo lei, dato i frutti sperati?

R. – Da quel po’ che sento dire qualcosa sta cambiando: sembra che anche loro si avvicineranno di più alle coste africane. Se si vuole un’operazione che stia ferma e faccia da muro, credo che questa sia una scelta perdente. Qua ci sono esseri umani che continuano a bussare alle porte, perché continuano a chiedere di vivere! Un’operazione europea che si limiti soltanto a salvaguardare i confini, credo che non otterrà un granché di risultati.

D. – Il sindaco di Lampedusa Nicolini dice che “le parole del Papa non sono servite a niente!” E’ davvero così?

R. – Purtroppo non hanno sortito quell’effetto che avremmo sperato. Che siano servite a qualcosa, può anche darsi, perché credo che oggi c’è da parte della comunità cristiana, ma anche da parte della comunità civile, un po’ più di attenzione verso quella parte del mondo. Occorre fare delle scelte politiche coraggiose, che rispettino la gente e che siano in sintonia con le necessità del mondo di oggi.

D. – Lei da arcivescovo di Agrigento ha fatto molto per essere la voce dei migranti, di quelli che non hanno voce. Oggi come si prepara al Concistoro che la creerà cardinale?

R. – E’ un nuovo impegno, che significa continuare un servizio. Dovrò cambiarlo nel modo, nello stile e ancora non so come sarà… Ma senz’altro l’impegno continuerà. L’uomo è al centro del Vangelo e il Signore ci chiede di continuarlo a mettere sempre al centro. Quindi prima qui, ora dove il Papa mi chiama, ma credo che questo lottare affinché l’uomo abbia riconosciuta la propria dignità diventi la continuazione di un servizio. Non c’è niente di più da fare se non essere coerenti al Vangelo!

Per evitare nuove tragedie è necessaria l’apertura di corridoi umanitari. A lanciare l’allarme è il Centro Astalli, Benedetta Capelli ha intervistato il direttore padre Camillo Rigamonti: 

R. – Queste persone che fuggono da persecuzioni e da guerre cercano in ogni modo di arrivare in Europa e quindi si affidano ai trafficanti che, appunto, fanno il loro interesse e non certo quello dei rifugiati e dei richiedenti asilo. L’idea è quella di attivare dei ponti sicuri, cioè delle vie sicure di accesso all’Europa: sulla modalità bisogna discutere, bisogna confrontarsi, però credo sia ormai giunto il momento che l’Europa affronti tale questione, soprattutto perché i conflitti alle porte dell’Europa ormai sono molti e le persone che si mettono in viaggio, affidandosi ai trafficanti, non tendono a diminuire. Quindi queste ecatombi e queste stragi rischiano di ripetersi in continuazione.

D. - L’Europa sembra comunque sorda a quanto accade nel Mediterraneo?

R. – Sì! Quello che ci preoccupa e ci rammarica nello stesso tempo è che gli interessi sembrano essere soltanto interessi economici: si risparmia sulle missioni, sulle operazioni: si è passati da “Mare Nostrum” a “Frontex”  e quello che si è sottolineato è il risparmio in queste operazioni. Però mi chiedo e ci chiediamo se perdere delle vite sia effettivamente un risparmio? Senza tenere invece conto che una vita umana è inestimabile. Bisognerebbe cercare, in qualche modo, come Europa e come Stato che si assuma la proprio responsabilità di affrontare una volta per tutte queste questioni.

D. – Quali sono le storie delle persone che sono riuscite invece ad arrivare in Italia e che voi avete contatto, accolto ed aiutato?

R. – I percorsi di certo non sono percorsi semplici! Le persone arrivano e quando arrivano comincia per loro la trafila, anche burocratica, del riconoscimento dello status di rifugiato. Però quando riescono ad ottenere il permesso di soggiorno, alcuni di loro – non si può certo dire che tutti ce la facciano – riescono a fare un cammino di integrazione nel nostro Paese: un cammino duro, che li trova però molto risoluti in questo, perché loro scappano e sono disposti a tutto per arrivare nel nostro continente e quindi hanno una forza, una vitalità, una speranza, una capacità di affrontare le situazioni veramente molto forte. E questo gioca a loro favore nell’affrontare, in Italia, anche situazioni di accoglienza a volte molto difficili.

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Il Niger autorizza invio truppe contro Boko Haram in Nigeria

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Il parlamento del Niger ha approvato l'invio di truppe in Nigeria per combattere i miliziani di Boko Haram. Il voto nato dopo i recenti attacchi del gruppo terrorista sconfinato sul suo territorio. “Sono parecchi anni che Boko Haram ha fatto la sua comparsa", ha detto il presidente nigerino, Mahamadou Issoufou: "Oggi è diventato un mostro. Occorre organizzarsi per fermare definitivamente questa minaccia”. Il Niger aderisce così alla decisione dell’Unione Africana di costituire una forza multinazionale di contrasto a BoKo Haram con circa 8.000 uomini, grazie a un accordo stretto anche con Nigeria, Ciad, Camerun e Benin. Parole di sostegno alla decisione sono arrivate anche dal Consiglio dell’Unione Europea. Adriana Masotti ne ha parlato con Anna Bono, docente di Storia dell'Africa all’Università di Torino: 

R. – L’aspetto più interessante è che, invece di auspicare e aspettare un intervento delle Nazioni Unite, le nazioni coinvolte hanno deciso – con l’approvazione dell’Unione Africana – di creare una forza regionale. L’idea era maturata già nei mesi precedenti, ma adesso con gli attacchi ripetuti al Camerun e con questi due attacchi più recenti, i primi, al Niger, sembrano per fortuna affrettare una decisione già presa e che i singoli parlamenti devono naturalmente approvare. La forza regionale dovrebbe contare circa 7-8 mila uomini e dovrebbe coordinarsi con base in Ciad, perché nei giorni scorsi la Nigeria ha dato segnali decisi di non voler ospitare truppe in modo permanente sul proprio territorio.

D. – Non è mancata la pronta risposta di Boko Haram. La minaccia: “Vi uccideremo tutti!”:

R. – Boko Haram si è fatto sempre più minaccioso e non solo a parole. Il movimento, negli ultimi mesi, si è consolidato in una maniera che fino allo scorso anno non pareva possibile. E' riuscito non soltanto a moltiplicare gli attacchi, le aggressioni, gli attentati, ma anche a impadronirsi in modo stabile un territorio sempre più ampio, sul quale esercita il proprio controllo realizzando il proprio obiettivo, cioè l’imposizione della legge coranica.

D. – Mi domando quale sia la reazione della popolazione dei villaggi e delle città di questo territorio e se Boko Haram abbia preparato il suo arrivo...

R. – Sicuramente, Boko Haram può contare su una base etnica e questo conta sempre molto in Africa. Quindi sa che su una parte della popolazione può contare. Inoltre, sappiamo che, se non altro, in Nigeria può contare anche su componenti importanti del mondo politico e degli ambienti militari.

D. – Il cardinale Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, recentemente in Italia, ha detto che la Nigeria può farcela da sola a combattere Boko Haram ed è scettico sull’efficacia di un intervento da parte della comunità internazionale. Però, dice che nel suo Paese “finora è mancata la volontà politica”…

R. – Infatti, il Paese ha uno dei più grandi eserciti del continente africano. Di sicuro, è mancata una volontà politica o perlomeno questa volontà è mancata in una parte importante della leadership politica. Quello che si dice, in modo sempre più chiaro, è che anche in questo caso la Nigeria paga il conto di livelli di corruzione e di malgoverno astronomici, che si sono ripercossi anche nella capacità dell’esercito di contrastare Boko Haram. Gli episodi di militari in fuga, perché dotati di armi meno moderne e meno efficaci, non si contano… E quindi è effettivamente vero: la Nigeria sarebbe stata in grado di contrastare Boko Haram, però non lo ha fatto. Questo rende necessario un intervento regionale, non solo per la sua inadeguatezza, ma perché il problema oramai è un problema regionale.

D. – Due giorni fa, il rinvio delle elezioni in Nigeria. Ma c’è la prospettiva che con le elezioni – quando si terranno – ci potrà essere un cambiamento, appunto, di questa volontà di contrastare Boko Haram in Nigeria?

R. – Tutti i protagonisti della vita politica nigeriana, in questo momento di campagna elettorale si proclamano difensori del territorio nazionale. Bisognerà vedere chi vincerà le elezioni e soprattutto quando si terranno, perché adesso sono state rimandate a marzo ma non è neanche escluso che si debbano rimandare ulteriormente. E immagino che Boko Haram farà di tutto perché questo succeda. C’è un altro problema enorme che incombe sulla Nigeria: le difficoltà economiche di questo Paese, che è il primo produttore di petrolio africano, ma che sconta ora il crollo del prezzo del petrolio, che sta prosciugando le casse dello Stato con tutte le conseguenze che possiamo immaginare, sia sociali che economiche, che dal punto di vista anche militare.

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Foibe. Esule racconta storia di una famiglia sterminata

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Si celebra oggi in Italia la dodicesima edizione del “Giorno del ricordo”, stabilito nel 2004 dal parlamento per commemorare la strage delle foibe ad opera del regime comunista di Tito e l'esodo giuliano-dalmata, avvenuti tra il '43 e il '46 al confine nordorientale. Piero Tarticchio, scrittore e pittore, esule istriano, racconta al microfono di Fabio Colagrande la tragedia di una famiglia che contò ben sette infoibati, tra i quali suo padre: 

R. – Nel 1943, dopo l’armistizio, inizia la prima ondata di infoibamenti, nella quale fra gli altri, diciamo, martiri io annovero il primo, quel sacerdote, don Angelo Tarticchio, che venne trucidato dalle bande slavo-comuniste di Tito e subì un martirio vero e proprio, perché lo evirarono, gli cacciarono i genitali in gola, lo lapidarono, gli cacciarono sulla testa del filo di ferro spinato a mo’ di corona di spine e lo gettarono poi nella foiba… Fu poi riesumato dai Pompieri di Pola. Io mi ricordo il funerale che avvenne e naturalmente la gente che piangeva e mio padre, che mi stringeva la mano, non poteva nemmeno immaginare che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine…

D. – Perché questa barbara violenza?

R. – La violenza fu soprattutto nei confronti di coloro che avevano prestato servizio – mi sto riferendo alla prima ondata, nel ’43 – e soprattutto di coloro che avevano prestato servizio per lo Stato. Ne pagarono soprattutto il fio gli insegnanti, ma anche i bidelli, i presidi, i funzionari delle Poste, i postini, i sacerdoti, tra i quali anche don Francesco Bonifaci, che salì poi agli onori degli altari. Ma furono infoibati anche militi della Guardia di Finanzia, delle Guardie Forestali, dei Carabinieri… Questa fu la prima ondata. La seconda, invece, è quando ormai i cannoni e le mitragliatrici tacevano, perché eravamo ormai in tempo di pace, ci fu una seconda ondata, ben più nutrita se vogliamo, in cui morirono mio padre, il cugino di mio padre, il fratello di mio padre e tre parenti da parte di mia madre... L’accusa fu di essere italiani, fascisti e sfruttatori del popolo.

D. – Sappiamo che sia la tragedia della violenza delle foibe, sia poi l’esodo sono stati un po’ dimenticati dalla storia. Perché?

R. – Per il semplice fatto che venendo via dal “paradiso” comunista di Tito, fummo accusati da quella metà dell’Italia cosiddetta “rossa” di essere tutti fascisti reazionari. Non eravamo fascisti, eravamo semplicemente degli italiani che chiedevano agli altri italiani di comprendere la loro tragedia e praticamente di farla conoscere. Purtroppo, le cose sono andate in modo differente e ci sono voluti ben 57 anni prima che l’Italia riconoscesse il diritto a noi istriani, fiumani e dalmati di entrare nella storia. Questa è stata la tragedia più grande per noi. E questo bavaglio di Stato, questo silenzio è stato per noi la vera tragedia. Io ho cercato, quando ero giovane, di dimenticare il dolore… Ma voi sapete benissimo che le persone scolpite dalle sofferenze non sono propense a parlarne troppo. Si richiudono nel loro. E questa è stata forse la cosa più difficile… Quando sono diventato vecchio – e ormai lo sono – queste cose anziché essere dimenticate riaffiorano, riemergono e diventano sempre più difficili da sopportare.

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Rete sicura: sfida educativa e autoregolamentazione

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Giornata internazionale della sicurezza su Internet, promossa dall’Unione Europea in collaborazione con Insafe, organizzazione che opera nel mondo per responsabilizzare i cittadini ad uso responsabile della Rete. Per l’occasione, in Italia, l’Università Bicocca di Milano ospita oggi un Convegno, organizzato insieme al Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca, dal titolo “Scripta Manent. Il valore della parola sul web”. Tra i relatori, Roberta Gisotti ha intervistato Barbara Forresi, piscologa coordinatrice del centro studi di Telefono azzurro, associazione in prima linea su questo fronte di difesa dell’infanzia: 

D. - Dott.ssa Forresi, allo stato attuale delle cose la sicurezza sulla Rete è una mera illusione?

R. – In realtà, quello che vogliamo promuovere, con questa Giornata del "Safer Internet Day", è l’attenzione al valore che la Rete ha nella vita dei ragazzi oggi. Secondo una ricerca che abbiamo pubblicato proprio con il Ministero dell’istruzione, realizzata da Skuola.net e dall’Università di Firenze, un ragazzo su sei passa oltre 5 ore su Internet, più del tempo trascorso a scuola, ed è sempre più precocemente connesso; addirittura la percentuale di ragazzine al di sotto dei 13 anni cui viene regalato il primo smartphone è triplicata in poco meno di un decennio. E’ evidente, quindi, che i ragazzi sono sempre più on line, passano sempre più tempo in Internet e sempre più precocemente, con una serie di potenzialità creative, ma anche con una serie di rischi, che vanno dal cyber bullismo al sexting, una serie di problematiche che i ragazzi possono incontrare in Rete e per le quali hanno bisogno di poter essere aiutati, di poter avere le conoscenze e la consapevolezza per potersi difendere.

D. – Chi deve dare, e può dare, tutele ai ragazzi quando sono connessi su Internet?

R. – Il motto della Giornata del Safer Internet Day 2015 è: “Creiamo un Internet sicuro tutti insieme”. Questo è il messaggio che lancia la Comunità Europea e che noi raccogliamo qui da Milano, ma che viene diffuso in questo momento dall’Australia alla California. Il Safer Internet Day, infatti, è iniziato stamattina in Australia e finirà questa sera in California. L’obiettivo è riunire le istituzioni, come il Ministero dell’istruzione - oggi qui presente - le associazioni come Save the Children e Telefono Azzurro, la Polizia Postale, quindi tutti coloro che possono essere attivi su questo terreno, coinvolgendo in primo luogo le famiglie e la scuola, che vivono quotidianamente con i ragazzi e che hanno un ruolo importantissimo. Dalla nostra ricerca emerge chiaramente che dove manca il confronto e la guida degli adulti di riferimento aumenta la percentuale dei ragazzi che hanno esperienze indesiderate online. Questo vuol dire che abbiamo sempre più da fare per poter raggiungere i ragazzi proprio attraverso le famiglie, attraverso la scuola.

D. – Puntare, quindi, a far conoscere i rischi e sollecitare l’autodifesa…

R. – Dobbiamo sollecitare i ragazzi, i bambini e gli adolescenti ad avere sempre maggiore consapevolezza di questi rischi, ma anche i genitori ad accompagnare i ragazzi in questa scoperta di Internet, che avviene sempre più precocemente.

D. – Ma mancano anche delle norme, la politica da anni è in ritardo in questo ambito…

R. – Le norme sono importanti e, come sempre diciamo noi di Telefono Azzurro, ci sono delle iniziative in tal senso che andrebbero portate avanti, e in questo momento ci sono diverse proposte di nuove leggi. Credo che, però, sia anche molto importante ricordare che la sfida è soprattutto educativa e soprattutto di autoregolamentazione, anche da parte di grosse aziende internazionali, ché si siedano ad un tavolo con istituzioni e associazioni e riflettano sul tema dell’interesse dei bambini, oltre che ovviamente sull’interesse dell’azienda.

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Nella Chiesa e nel mondo



Vescovi indiani latini: sì all'inculturazione, no al fondamentalismo

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La promozione di una fede più inculturata attraverso una liturgia che tenga conto delle culture locali, ma anche fedele alle norme liturgiche; la sottolineatura dello stretto legame tra Eucaristia e famiglia, quale cellula fondamentale della Chiesa e della società; l’attenzione della Chiesa ai poveri e la denuncia del fondamentalismo anti-cristiano. Queste le principali indicazioni emerse dalla 27.ma Plenaria della Conferenza dei vescovi di rito latino dell’India (Ccbi) conclusasi ieri a Bangalore dopo una settimana di lavori. “Liturgia e vita” è stato il tema dell’incontro al quale hanno partecipato 140 presuli da tutto il Paese.

L’urgenza di una fede inculturata
“Considerato il carattere multiculturale della nostra società e che le culture sono in continua evoluzione e trasformazione, la promozione dell’inculturazione non può prescindere dalla sensibilità delle diverse comunità”, sottolinea il comunicato finale che richiama però anche il dovere di rispettare le norme liturgiche prescritte “per mantenere la dignità e il decoro delle celebrazioni”. I presuli indiani sottolineano anche la necessità di rafforzare le Piccole Comunità Ecclesiali (Scc), intese come comunioni di famiglie solidali legate dalla liturgia che - affermano – sono l’autentica espressione di “una Chiesa viva”. Solo attraverso la comunione delle famiglie infatti la Chiesa cattolica “diventa Eucaristica come nelle prime comunità cristiane”.

L’impegno della Chiesa per i poveri
Alla luce di questo stretto legame tra liturgia e vita, la Chiesa indiana non può ignorare le sfide del presente: “Se il Paese è progredito economicamente, i benefici non hanno raggiunto i poveri e gli emarginati, la cui condizione è a volte anche peggiorata”, denunciano i presuli preoccupati, in particolare, dalla crescente “emarginazione dei poveri, dei Dalit (gli ex fuori casta del sistema castale indiano formalmente abolito), e delle popolazioni tribali”.

La preoccupazione per il fondamentalismo contro i cristiani
Un altro motivo di grande preoccupazione, afferma in conclusione il comunicato, è “il fondamentalismo e il settarismo che stanno minacciando il tessuto sociale e il carattere secolare del Paese”. Nelle mire dei fondamentalisti - si denuncia - sono spesso i cristiani. Per questo i vescovi hanno partecipato sabato scorso a una Marcia per la pace e l’armonia a Bangalore. La manifestazione guidata dal card. Oswald Gracias, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici di rito latino, voleva esprimere la solidarietà dell’episcopato ai cristiani vittime delle violenze, compresi i recenti attacchi contro diverse chiese a New Delhi. (A cura di Lisa Zengarini)

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Iraq. Sinodo caldeo: liberare le terre occupate dall'Is

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Il governo nazionale iracheno e quello regionale del Kurdistan devono “stanziare i fondi necessari per sostenere le famiglie che il Daesh (acronimo arabo con cui si indicano i jihadisti del sedicente Stato Islamico, ndr) ha cacciato dalle proprie case e privato dei loro beni”. Inoltre, tutte le “forze nazionali e internazionali” devono “unire i loro intenti per liberare al più presto i territori occupati e mettere in atto le disposizioni necessarie per proteggere i cristiani e gli altri iracheni, affinché tutti ritornino alle proprie case e vivano nella sicurezza e con dignità”. Sono questi gli appelli che il Sinodo straordinario dei vescovi caldei, convocato dal patriarca Louis Raphael Sako presso la sede patriarcale di Baghdad sabato scorso, ha rivolto ai poteri nazionali e alla comunità internazionale in merito alle emergenze umanitarie che affliggono le popolazioni dei territori conquistati dai jihadisti.

Creazione di una "Lega caldea"
Durante i lavori, il Sinodo caldeo ha anche confermato il suo sostegno al progetto per la creazione di una “Lega caldea", da tempo caldeggiato dal patriarca e rimasto finora in sospeso per le difficoltà e le emergenze che segnano la vita della Chiesa caldea. A giudizio dei vescovi caldei, la Lega caldea dovrà avere il profilo di una organizzazione civile che si configuri come ente morale autonomo, da valorizzare come strumento per affrontare questioni politiche e sociali che coinvolgono il futuro delle comunità caldee. I due vescovi ausiliari di Baghdad, mons. Shlemoun Wardouni e mons.Basilius Yaldo (che ha ricevuto l'ordinazione episcopale venerdì scorso), sono stati incaricati dal Sinodo di preparare la conferenza di fondazione della Lega.

Il caso dei religiosi che hanno abbandonato le diocesi caldee
Il Sinodo caldeo ha preso in considerazione anche alcuni problemi di ordine ecclesiale, a partire dal contrasto registratosi negli ultimi mesi tra il patriarca e il vescovo che guida la diocesi caldea di San Pietro, con sede a San Diego in California. A provocare discussioni è stato il caso di alcuni sacerdoti e religiosi che negli anni passati, senza il consenso dei loro superiori, avevano abbandonato le diocesi irachene d'appartenenza per trasferirsi presso le diocesi d'oltremare, e adesso si sottraggono alle disposizioni del patriarca che chiede loro di tornare a svolgere in Iraq il proprio ministero pastorale. I vescovi del Sinodo – riferisce il comunicato finale pervenuto all'agenzia Fides - hanno richiamato tutti i fedeli delle diocesi interessate a “attenersi ai principi fondamentali della propria fede, a rimanere fedeli alla propria Chiesa caldea e a dare priorità alla saggezza e all'amore”.

La Chiesa al fianco dei cristiani perseguitati in Iraq
Riguardo alle decine di migliaia di cristiani costretti a fuggire dalla Piana di Ninive davanti all'offensiva dei jihadisti e ora rifugiati nel Kurdistan iracheno, il Sinodo ha riaffermato che la Chiesa caldea “rimarrà al fianco del nostro popolo sofferente”, impiegando tutte le risorse a disposizione per “servirlo, sollevare il suo spirito e seminare la speranza nei cuori”.

La commemorazione dei "martiri caldei"
Inoltre, a 100 anni dal cosiddetto “Olocausto assiro” - espressione con cui si indicano le deportazioni e i massacri perpetrati nel 1915 dai Giovani Turchi sulle popolazioni cristiane assire, sire e caldee – il Sinodo caldeo ha stabilito che i martiri caldei saranno commemorati ogni anno nel Venerdì dopo Pasqua, in quello che d'ora in poi sarà conociuto come il “Venerdì dei martiri e dei confessori della fede”. (G.V.)

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Egitto: liberati due copti sequestrati a Minya

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Si chiamano Milad Emad e Malak Khalaf i due cristiani copti liberati domenica dopo essere stati per più di 9 giorni nelle mani di una banda di sequestratori che li avevano rapiti nell'area di Minya. Secondo quanto riportato da fonti locali consultate dall’agenzia Fides, i due giovani (il primo di 25 anni, il secondo di 20) sono stati rilasciati dopo che per la loro liberazione è stato pagato un riscatto di 110mila lire egiziane, pari a circa 13mila euro.

Silenzio sui 21 copti rapiti in Libia
La notizia del rilascio è stata accolta con gioia dalle famiglie dei due rapiti, mentre nella stessa area di Minya cresce l'apprensione per la sorte dei 21 copti originari di quella regione che dall'inizio dell'anno sono stati sequestrati in Libia, nell'area della città di Sirte. In più occasioni, le indiscrezioni circolate sulla loro liberazione si sono rivelate infondate, e finora anche la mobilitazione di clan tribali egiziani, attivatisi per ottenere il loro rilascio, non hanno ottenuto risultato.

Sequestro dei copti un vero business criminale
Nell'Alto Egitto, il rapimento sistematico di persone appartenenti alla comunità cristiana copta ha assunto da tempo le dimensioni di un vero e proprio business criminale. Secondo dati forniti di recente dal copto Mina Thabet, militante dell'Unione giovanile Maspero e fondatore del Partito d'iniziativa popolare, nel solo Governatorato di Minya la somma complessiva di denaro versata per pagare il riscatto di cristiani rapiti a partire dal gennaio 2011 – quando in Egitto iniziò la cosiddetta “primavera araba” che avrebbe portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak – ha superato da tempo la cifra di 120 milioni di lire egiziane. Pari a più di 16 milioni di euro. (G.V.)

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Libano. Mons. Matar: il Paese si tenga fuori dai conflitti

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Se vuole sopravvivere, il Libano deve tenersi fuori per scelta strategica dai conflitti che scuotono il Medio Oriente. E' questo l'appello che l'arcivescovo maronita Boulos Youssef Matar ha voluto inserire nell'omelia della Messa solenne da lui celebrata a Beirut ieri, in occasione della solennità di San Marone, mentre il Paese dei cedri è ancora alle prese con la crisi politico-istituzionale che dallo scorso maggio impedisce l'elezione di un nuovo Presidente della Repubblica.

Il Paese non deve dipendere dai riassetti nella regione
Nell'omelia, l'arcivescovo maronita di Beirut ha bollato come grave errore l'idea di far dipendere l'elezione del Presidente libanese dall'esito dei conflitti e dei giochi di forza che dominano questa stagione della storia del Medio Oriente. "Non giova alla nostra regione né al mondo, la scelta di collegare il destino del Libano con quello che succede negli altri Paesi” ha ribadito Mons. Matar, usando espressioni critiche verso la classe politica nazionale che si sottrae alle proprie responsabilità e sembra voler “congelare” lo scenario politico libanese in attesa di conoscere quali forze regionali e globali avranno la meglio nel riassetto degli equilibri in atto nel quadrante mediorientale. (R.P.)

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Cattolici giordani denunciano i “narghilè blasfemi”

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Il Catholic Center for Studies and Media (Ccsm), istituzione culturale e multimediale con sede ad Amman e diretta dal sacerdote giordano Rifat Bader, promuove una campagna di sensibilizzazione e denuncia contro la commercializzazione e la diffusione nei locali pubblici di un modello di narghilè, il tipico strumento per il fumo, su cui sono riprodotte immagini indecenti e blasfeme di Gesù Cristo che risultano gravemente offensive per i sentimenti di devozione di tutti i battezzati.

Un'offesa alle tradizioni religiose dei cristiani
“Tanti cristiani - riferisce all'agenzia Fides padre Bader - ci hanno contattato per esprimere il senso di umiliazione che hanno provato quando hanno visto quelle immagini sui narghilè usati per strada o nei caffè. In un momento in cui le cronache dei nostri tempi ci spingono a intensificare gli sforzi contro ogni offesa e strumentalizzazione delle tradizioni religiose dei popoli, un fatto come questo risulta ancor più grave e sconcertante”.

Chiesto il ritiro dei narghilè
In un comunicato diffuso oggi e pervenuto alla Fides, il Ccsm chiede il ritiro dei “narghilè blasfemi” o la rimozione da essi dei disegni sacrileghi, e si riserva il diritto di avviare procedimenti legali contro l'importazione e commercializzazione di tali prodotti. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 41

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.