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Sommario del 29/04/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco: testimoniare bellezza matrimonio vince crisi famiglia

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Solo la testimonianza della bellezza del matrimonio può sconfiggere l’attuale crisi della famiglia: è quanto ha affermato oggi Papa Francesco all’udienza generale in Piazza San Pietro. Il servizio di Sergio Centofanti

I figli, le prime vittime delle separazioni
“Il capolavoro della società è la famiglia: l’uomo e la donna che si amano!”. Papa Francesco lo afferma con forza ricordando che il primo miracolo di Gesù, quello del vino alle nozze di Cana, salvò la festa di un matrimonio. Ma purtroppo oggi “i giovani non vogliono sposarsi”, in molti Paesi diminuisce il numero dei figli e aumentano le separazioni:

“Pensiamo che le prime vittime, le vittime più importanti, le vittime che soffrono di più in una separazione sono i figli. Se sperimenti fin da piccolo che il matrimonio è un legame ‘a tempo determinato’, inconsciamente per te sarà così”.

Cultura del provvisorio e paura di fallire
E’ la “cultura del provvisorio” – osserva il Papa – in cui nulla è definitivo. Ma perché – si chiede – i giovani “spesso preferiscono una convivenza, e tante volte ‘a responsabilità limitata’?; perché molti – anche fra i battezzati – hanno poca fiducia nel matrimonio e nella famiglia?”. "Le difficoltà – ha sottolineato - non sono solo di carattere economico, sebbene queste siano davvero serie”. Per molti una delle cause sta nell’emancipazione della donna. Ma questa - dice il Papa - è una tesi maschilista, anzi “una ingiuria”. In realtà “quasi tutti gli uomini e le donne vorrebbero una sicurezza affettiva stabile, un matrimonio solido e una famiglia felice. La famiglia è in cima a tutti gli indici di gradimento fra i giovani; ma, per paura di sbagliare, molti non vogliono neppure pensarci”:

“Forse proprio questa paura di fallire è il più grande ostacolo ad accogliere la parola di Cristo, che promette la sua grazia all’unione coniugale e alla famiglia”.

Testimoniare la bellezza del matrimonio cristiano
Allora il migliore antidoto a questa crisi è una testimonianza che attrae:

“La testimonianza più persuasiva della benedizione del matrimonio cristiano è la vita buona degli sposi cristiani e della famiglia. Non c’è modo migliore per dire la bellezza del sacramento! Il matrimonio consacrato da Dio custodisce quel legame tra l’uomo e la donna che Dio ha benedetto fin dalla creazione del mondo; ed è fonte di pace e di bene per l’intera vita coniugale e familiare”.

Uguale dignità uomo-donna, anche sul lavoro
Il cristianesimo – ha ricordato Papa Francesco – ha introdotto nel matrimonio l’uguale dignità tra uomo e donna. Si tratta di una “radicale uguaglianza tra i coniugi” che “deve oggi portare nuovi frutti”:

“Per esempio: sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! lo stesso diritto. La disparità è un puro scandalo! Nello stesso tempo, riconoscere come ricchezza sempre valida la maternità delle donne e la paternità degli uomini, a beneficio soprattutto dei bambini”.

Il grazie del Papa per la testimonianza di tanti sposi
Il Papa invita le famiglie a pregare insieme con il Rosario e infine rivolge un grazie speciale:

“Carissimi, oggi ringraziamo Dio per la testimonianza di tanti sposi, che in tutto il mondo, fidandosi della grazia del Signore e della forza del proprio amore, rimangono nella sacramentale unione matrimoniale. Sosteniamo i fidanzati con la preghiera, con il consiglio e con l’aiuto, affinché abbiano il coraggio di mettersi a rischio e creare un’unione indissolubile e, con la benedizione di Dio, costruire felici famiglie”.

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Francesco: cristiani si inginocchino davanti ai poveri

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La Chiesa di Roma sempre più “madre attenta e premurosa verso i deboli”: è il desiderio che Papa Francesco esprime nel videomessaggio inviato alla Caritas capitolina, in occasione dello spettacolo di ieri sera al Teatro Brancaccio dal titolo “Se non fosse per te”. A recitare, sotto la regia di Carlo Del Giudice, saranno gli ospiti stessi delle strutture Caritas ai cui progetti di solidarietà andrà il ricavato dello spettacolo. Il servizio di Alessandro De Carolis

La povertà va in scena ma non è fiction. Sotto i riflettori, sulle assi del palcoscenico, si muove il senza fissa dimora, l’immigrato fa la sua battuta, con lui la donna che mangia alla mensa dove le offrono un pasto, altrimenti sarebbe digiuno.

Alla scuola dei poveri
Si recita, ma il copione è scritto dai drammi veri di questi attori di un solo giorno, che vogliono raccontare alla gente comune che anche tra i muri della miseria più nera l’amore può sempre aprire la porta del riscatto:

“Chi mai pensa che un senza dimora sia una persona da cui imparare? Chi pensa che possa essere un santo? Invece questa sera (ieri sera - ndr) sarete voi a fare del palcoscenico un luogo da cui trasmetterci preziosi insegnamenti sull’amore, sul bisogno dell’altro, sulla solidarietà, su come nelle difficoltà si trova l’amore del Padre”.

"Voi non siete un peso"
Papa Francesco non c’è ma si capisce che vorrebbe esseri lì, seduto in mezzo al pubblico del Brancaccio, a vivere un’esperienza che ha pochi paragoni – Lui, Pastore universale, alla scuola della “carne di Cristo”, dove la forma scenica dà visibilità e forma estetica a tante storie, tutte declinazioni dell’amore: verso i genitori, verso una donna, verso i propri figli, verso Dio e il bene del prossimo. Sogni e sentimenti che diventano teatro senza perdere un filo di realismo, basta guardare i segni sul viso di chi recita, gente che da sempre occupa i primi posti nella platea del cuore del Papa:

“Voi per noi non siete un peso. Siete la ricchezza senza la quale i nostri tentativi di scoprire il volto del Signore sono vani. Pochi giorni dopo la mia elezione, ho ricevuto da voi una lettera di auguri e di offerta di preghiere. Ricordo di avervi immediatamente risposto dicendovi che vi porto nel cuore e che sono a vostra disposizione. Confermo quelle parole. In quell’occasione vi avevo chiesto di pregare per me. Rinnovo la richiesta. Ne ho veramente bisogno”.

Chiesa di Roma, maestra di "pietas"
A un tratto, il videomessaggio di Francesco è un elenco di romani con l’anima del Buon Samaritano – dal martire Lorenzo a don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana – e quindi un lungo grazie agli operatori e ai volontari Caritas, di Roma e d’Italia, che con il loro farsi prossimi scoprono – dice – “un mondo che chiede attenzione e solidarietà: uomini e donne che cercano affetto, relazione, dignità, e insieme ai quali – sottolinea Francesco – tutti possiamo sperimentare la carità imparando ad accogliere, ascoltare e a donarsi”:

“Quanto vorrei che Roma potesse brillare di ‘pìetas’ per i sofferenti, di accoglienza per chi fugge da guerra e morte, di disponibilità, di sorriso e di magnanimità per chi ha perduto la speranza. Quanto vorrei che la Chiesa di Roma si manifestasse sempre più madre attenta e premurosa verso i deboli. Tutti abbiamo debolezze, tutti ne abbiamo, ciascuno le proprie. Quanto vorrei che le comunità parrocchiali in preghiera, all’ingresso di un povero in chiesa, si inginocchiassero in venerazione allo stesso modo come quando entra il Signore!”.

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Vaticano: documento su lotta Chiesa a tratta esseri umani

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La piaga della tratta al centro del documento “Impegno cristiano”, presentato stamane a Palazzo San Calisto a Roma, presente il cardinale Antonio Mario Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i migranti e gli itineranti, e Michel Roy, segretario generale della Caritas Internationalis, le due istituzioni che insieme alla Rete ecumenica Coatnet lo hanno redatto congiuntamente. Il servizio di Roberta Gisotti: 

“La persona umana non dovrebbe mai essere venduta o acquistata come se lei o lui fosse una merce”. Da queste parole di Papa Francesco contra la tratta, la volontà di un rafforzato impegno cristiano per fronteggiare una “vergognosa piaga, indegna di una società civile”, ha denunciato lo stesso Francesco. Secondo stime Onu, sono 2 milioni e 400 mila le vittime di questo turpe commercio che, in massima parte non identificate, non avranno mai giustizia per gli abusi e i danni subiti. Ma cosa accade a questi poveri “schiavi moderni”: privati di dignità, dei loro diritti civili, anzitutto della libertà, sono costretti con la frode o la coercizione al lavoro forzato, allo sfruttamento sessuale, alla sottomissione per debiti e altre forme di servitù. Tutto ciò frutta all’impresa criminale della tratta profitti elevatissimi: almeno 32 miliardi l’anno. Mentre i rischi sono bassissimi: poche migliaia le condanne di trafficanti in ogni anno nel mondo.

Occorre allora dire no - si legge nel documento contro la tratta - alla “cultura dell’indifferenza”, come la definisce Francesco, sia nei Paesi d’origine che nei Paesi destinatari, dove “non è sufficientemente contrastata dalle autorità, dall’opinione pubblica, dagli educatori e dalla Chiesa”. La “sfida” da raccogliere “richiede quindi un vasto raggio di azioni” sensibilizzando “la gente, attraverso i media, mediante programmi di educazione, con il dibattito pubblico e con la Chiesa”, congregazioni religiose, organizzazioni cattoliche e fedeli che hanno “l’obbligo d’impegnarsi coordinando gli sforzi globali”.

Cosa fare in concreto? Il documento rivolto - ha spiegato il cardinale Vegliò - a Conferenze episcopali, Caritas nazionali, diocesi e parrocchie intende spronare interventi efficaci contro la tratta sfruttando anche le buone pratiche già in atto nel mondo. Da qui alcune indicazioni concrete per prevenire e sensibilizzare gruppi a rischio (ad esempio persone in cerca di lavoro in Paesi esteri o migranti irregolari) insegnanti e professionisti (come medici, sacerdoti, infermieri, assistenti sociali, funzionari di governo) e il pubblico in generale. Indicazioni per assistere le vittime di tratta, sul piano materiale ma anche a livello psichico e spirituale. Indicazioni su aspetti giuridici e politiche migratorie per tutelare i “trafficati” ed assicurare alla giustizia i trafficanti; indicazioni per fare rete a livello locale, nazionale e internazionale, cooperando all’interno della Chiesa cattolica e fuori con partner ecumenici autorità civili e organismi non governativi.

Tra le esperienze positive riportate, quella di suor Gabriella Bottani, responsabile della Rete della Vita consacrata contro la tratta di persone. Ascoltiamola al microfono di Rosario Tronnolone: 

R. – Le cause della tratta sono molteplici. Noi parliamo di un fenomeno molto complesso, multidimensionale. Una delle prime e principali cause è sicuramente la diseguaglianza sociale e l’iniquità, anche di accesso alle risorse, che causano delle grandi sacche di povertà e che motivano, anche non solamente, a delle migrazioni internazionali, ma anche a delle migrazioni interne, alla ricerca di una vita migliore. Questa sicuramente è una delle principali cause. Noi sappiamo che la tratta di persone coinvolge soprattutto donne e bambini e quindi esistono anche delle disuguaglianze legate alla questione di genere: soprattutto le donne e i bambini soprattutto minorenni. D’altra parte abbiamo, invece, la domanda: dobbiamo vedere anche perché le persone sono sfruttate oggi.

D. – Che cosa può fare la Chiesa per contrastare, intanto, proprio le ragioni della tratta, prima ancora che il fenomeno?

R.- Io credo che l’impegno cristiano sia un impegno che può veramente fare una grande differenza, promuovendo proprio la cultura della vita, della libertà, del rispetto, della dignità umana. Quindi nel lavoro della prevenzione, ma credo anche - come Chiesa - impegnati nell’accompagnamento alle vittime, a coloro che hanno vissuto sulla loro pelle quella che è l’esperienza della schiavitù dei nostri giorni. E credo anche che noi, come Chiesa, possiamo dire qualcosa perché ci sia un impegno politico - quindi da parte pure dei governi - più effettivo ed efficace contro la tratta.

D. – La tratta è un fenomeno molto ampio, ha molte facce, distribuito geograficamente in modo impressionante nel pianeta, però tendiamo probabilmente a considerarlo un fenomeno geograficamente lontano da noi …

R. – Forse quello che ci dà questa impressione è che la tratta di persone, differentemente da altre situazioni,  è difficile da identificare. Per esempio noi vediamo una grande quantità di migranti che arrivano da noi; questa è l’attualità dei nostri giorni. Queste persone sono ad altissimo rischio di essere coinvolte poi da queste reti criminali perché continui uno sfruttamento a scopo di lucro. Per esempio noi vediamo la realtà della prostituzione, dello sfruttamento sessuale ma non riconosciamo in queste donne, ragazzi, bambini, bambine il volto di persone poi sfruttate e vittime della tratta. In altri casi per esempio il lavoro: noi magari compriamo una maglietta a bassissimo prezzo e non ci chiediamo: chi l’ha prodotta? Ma come è possibile acquistarla ad un prezzo così basso? Questo accade perché non vediamo che è stata prodotta attraverso il lavoro schiavo. Quindi effettivamente sembra lontano perché non lo vediamo e non lo riconosciamo, ma se ci fermassimo un po’ di più a pensare, credo che potremmo riuscire a vederlo: è veramente molto vicino a noi, fa parte della nostra quotidianità in tutti i Paesi del mondo.

D. – Sono molte le organizzazioni internazionali che combattono la tratta. Ma c’è una giusta coordinazione tra le varie organizzazioni? Si potrebbe far meglio?

R. – Sicuramente sì. Credo che il migliore modo sia qualcosa che ci spinga a crescere. Ci sono degli sforzi, ci sono diverse coalizioni che si stanno creando nel contesto cristiano-cattolico, ma anche laico. Ci sono organismi differenti legati alle Nazioni Unite, legati ad organismi ecclesiali. Diciamo che come Chiesa siamo su un buon cammino per poter unire le nostre forze e soprattutto mettere a disposizione una rete che credo tutti ci possano invidiare, perché la Chiesa cattolica, le congregazioni religiose, le conferenze episcopali, le parrocchie, sono veramente una rete di vita e di bene per crescere in questa cultura della vita.

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Card. Sandri dal primo maggio in Iraq: ridare speranza ai cristiani

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Dal primo al 5 maggio il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, si recherà in Iraq per portare la benedizione del Papa nonché l’incoraggiamento alle autorità di quel Paese per quanto stanno facendo a sostegno dei cristiani e delle altre minoranze religiose, sottoposte a dura persecuzione. La prima tappa del viaggio sarà la capitale Baghdad, dove celebrerà, nella cattedrale caldea la divina liturgia, e dove incontrerà i rifugiati ospiti di alcune istituzioni ecclesiastiche. Si trasferirà poi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e ad Ankawa, dove risiedono gli sfollati cristiani della piana di Ninive, fuggiti agli attacchi dell’Is. Oggi pomeriggio il cardinale Sandri è a Bari per l'inaugurazione del colloquio internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dal titolo “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?”. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

 R. – Credo che il titolo di questa riunione ci dia un po’ il profondo senso della domanda che ci fanno i cristiani: quale futuro per loro in questa area del mondo? Con questo ritmo di persecuzione e di dolore molti si pongono questa domanda: “Ma riusciremo a sopravvivere?”. Saranno i cristiani l’elemento di equilibrio? Pur essendo un piccolo gregge, riusciranno a dare quel sale di cui c’è bisogno in tutti i Paesi del Medio Oriente? Ed ecco la risposta, che per me è certa: potranno rimanere e rimarranno! E saranno un vero tesoro per tutti i nostri fratelli musulmani e di altre religioni, che vivono nel Medio Oriente e in Oriente in generale. Questa riunione di Sant’Egidio a Bari e poi il mio prossimo viaggio in Iraq, li vedo sotto la luce esattamente del futuro, però di un futuro di ricostruzione, di ritorno biblico, perché i cristiani continuino ad essere il sale che può dare un senso di equilibrio, di amicizia, di partecipazione a tutte le comunità del Medio Oriente.

D. – C’è, però, il dovere di mettere materialmente fine alle sofferenze dei cristiani…

R. – Sì, certamente. La Chiesa, innanzitutto, lo ricorda continuamente attraverso la voce di Papa Francesco, attraverso la voce di tutti i nostri fratelli dell’Occidente. Questo è un continuo agire della Chiesa cattolica, un agire non solo con la parola, ma con la solidarietà di fronte a questa catastrofe umanitaria. Vediamo come attraverso Cor Unum, attraverso la Caritas Internationalis, la Chiesa cerchi di agire: parola e azione da parte della Chiesa cattolica, specialmente nell’istanza di Papa Francesco, incessantemente al servizio della denuncia di questi fatti gravissimi. C’è poi la responsabilità delle nazioni, di quelli che possono fare o avere un influsso per fermare questa violenza. Poi c’è il dovere di tutte le altre religioni di educare i fedeli a trovare nella propria fede religiosa uno stimolo al dialogo, alla cooperazione, al servizio per gli altri e non all’odio. E mai, assolutamente mai, che sia questa violenza provocata o giustificata dalla fede religiosa.

D. – Quando sottolinea la necessità dell’impegno dei Paesi, intende la responsabilità politica, la responsabilità diplomatica, dell’Occidente?

R. – Sì, è una responsabilità diplomatica. Ci dovrebbero essere tutti gli sviluppi, in certi casi, previsti dal diritto umanitario, quando ci sono delle azioni di interposizione per proteggere le popolazioni che sono a rischio, per proteggere i feriti, gli sfollati. Ci sono diverse forme che si basano sul diritto umanitario, di intervento per dare una protezione umana a tutte queste persone. Io penso, per esempio, alle forze italiane e spagnole che sono in Libano e che stanno alla frontiera con Israele. Ma ci sono tante altre forme che possono essere sviluppate da quelli che hanno il potere di farlo, per attutire le violenze, le sofferenze, soprattutto, cosa che piangiamo tutti, di questi bambini che vivono in questi campi di rifugiati pieni di sofferenza, come sta succedendo in certe zone della Siria, ad esempio. Rimaniamo zitti, non facciamo nulla. Chi può fare queste cose, le dovrebbe fare e non utilizzare la propria potenza o la propria forza per acuire le divisioni, per acuire gli odi, per portare ancora maggiore sofferenza a tutte queste popolazioni.

D. – Lei sarà in Iraq dal primo al 5 maggio, prima a Baghdad e poi ad Erbil nel Kurdistan iracheno, che impronta avrà questo suo viaggio?

R. – Io forse sono un po’ ingenuo, perché vorrei dare al mio viaggio l’impronta di una luce che sorge, di un futuro che deve esistere anche per l’Iraq. E di fatto saranno con me nel Kurdistan le agenzie che aiutano le Chiese orientali e che aiutano tutti (Roaco, Riunione delle opere di aiuto alle Chiese orientali ndr). Vorrei che la presenza di queste agenzie, la mia presenza, fossero una speranza. Forse ci vorrà ancora del tempo, ma vorrei che ci fosse un futuro per l’Iraq e sono sicuro che verrà. Non possono rimanere, infatti, inesaudite tutte le preghiere, da Papa Francesco in poi, che sempre hanno accompagnato questa triste situazione, questo esodo dei cristiani, queste vittime, questi morti in Iraq.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Alla festa di nozze: durante l'udienza generale il Papa parla della bellezza del matrimonio cristiano.

Di fronte all'obiettivo dell'Is: in prima pagina un editoriale di Zouhir Louassini dal titolo "Per non cadere in trappola".

Collaborazione totale per uno sviluppo sostenibile: intervento dell'osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

Smantellata la convivenza pacifica: il cardinale Leonardo Sandri sul futuro dei cristiani in Medio oriente.

La quiete dopo la tempesta: Giulia Galeotti ricorda Sister Mary Ann Walsh.

Una sfida non rinviabile: Mary Melone sulla partecipazione delle donne alla vita della Chiesa.

Suora manager: intervista impossibile di Laura De Luca a santa Francesca Cabrini.

Malattia ancora da debellare: Edoardo Zaccagnini sulla serie televisiva dedicata alla Tangentopoli del 1992.

Il mondo in una stanza: Placide Devillers sul romanzo d'esordio di Natalia Sanmartin Fenollera "Il risveglio della signorina Prim".

Continuiamo a tradurre le lingue classiche: una proposta di Paola Mastrocola.

I nuovi volti della schiavitù: Silvia Guidi su un documento congiunto di Caritas internationalis e Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti.

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Oggi in Primo Piano



Nepal: lutto nazionale, forse 10 mila morti. Soccorsi troppo lenti

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Tre giorni di lutto nazionale in Nepal che conta ad oggi più di 5.000 vittime per il devastante sisma di sabato scorso. Un milione i senza tetto e migliaia i bambini a rischio ipotermia. E ora alla paura subentrano caos e proteste per la lenta distribuzione degli aiuti e per gli inefficaci interventi di soccorso. Intanto dalle macerie degli edifici distrutti emergono miracolosamente ancora dei sopravvissuti e alcuni stranieri iniziano a rimpatriare, tra loro anche due italiani. Il servizio di Gabriella Ceraso

E’ un disastro che interessa 8 milioni di persone, più di un quarto della popolazione del Nepal, e le autorità non riescono a gestirlo: per questo, a quattro giorni dal sisma, alla paura stanno subentrando proteste e caos. "Abbiamo fame e non abbiamo nulla da mangiare né una tenda per coprirci", dice la gente che dormito ancora una notte al freddo in strada. Così alcuni sfollati a Dolakha hanno appiccato il fuoco agli uffici distrettuali e altri 200, nella capitale, hanno bloccato il traffico scontrandosi con la polizia, come ci racconta da Katmandu Francesca Schraffl, responsabile comunicazione per il network europeo Alliance 2015:

R. – La situazione nella capitale è abbastanza tragica. La gente vive ancora nelle tende, manca acqua potabile, manca da mangiare, mancano medicine, ci sono problemi di comunicazione, Internet va e non va, il telefono va e non va e c’è il grossissimo problema degli aiuti che non arrivano. L’aeroporto è congestionato, non riescono ad arrivare gli aerei, non riescono a partire aerei e purtroppo si stanno ritardando tutte le operazioni di soccorso.

D.  – Ha notizie di proteste della gente?

R. – Sì, siamo venuti a conoscenza di reazioni abbastanza negative da parte della popolazione specialmente perché questo è un momento in cui le varie agenzie non governative dei soccorsi devono fare innanzitutto una valutazione della situazione. Sì, la gente si arrabbia, chiede dov’è, l’acqua, dov’è il cibo e quindi è anche una situazione abbastanza delicata a livello sociale. Oggi, come ogni giorno, qui c’è stato un altro meeting per le varie Ong delle Nazioni Unite in cui questa informazione è stata data e i prossimi interventi devono focalizzarsi sul fornire assistenza. La gente è stufa di parole e vuole vedere i fatti.

D. – Perché gli aiuti non vengono distribuiti? Ci sono problemi solo di movimento o manca proprio l’approvvigionamento?

R. – Esatto. A Kathmandu, in Nepal, mancano i prodotti: l’80% dei negozi sono chiusi e quei pochi aperti che ci sono hanno approvvigionamenti molto scarsi. I Paesi vicini si sono offerti – non solo i Paesi europei occidentali ma anche i Paesi vicini – di mandare cibo, acqua, protezione, ma non riescono ad arrivare gli aerei. Adesso si sono aperte strade con l’India e si sta cercando di mandare camion attraverso l’India direttamente. Noi stiamo aspettando da due giorni il nostro carico di tende e anche oggi ci è stato detto che deve ancora partire da Dubai perché non hanno avuto l’autorizzazione dall’aeroporto di Kathmandu. Questo è un problema che deve essere risolto presto, ma l’aeroporto della capitale non è equipaggiato a un traffico aereo del genere.

D. – Si parla del rischio anche che migliaia e migliaia di profughi dalle periferie si riversino in città perché stanno chiedendo disperatamente aiuto anche agli elicotteri in sorvolo…

R. – Purtroppo è così. La gente non riesce a spostarsi su strada e quindi nel momento in cui arrivano i soccorsi si scatena il pandemonio e tutti cercano di fuggire per arrivare in una capitale che non è assolutamente attrezzata per gestire la gente che c’è, figuriamoci la gente che viene dalle zone rurali.

D.  – Avete parlato con le autorità, c‘è una collaborazione?

R. – Noi siamo in contatto come Welthungerhilfe e come membri dell’Alliance 2015 assieme ad altre ong che ne fanno parte. Stiamo coordinando i nostri interventi da un punto di vista geografico e lavoriamo in zone, in distretti diversi, quindi ci concentriamo su quei distretti in base ai nostri punti di forza. In un meeting che abbiamo avuto oggi con le Nazioni Unite ci è stato raccomandato di coordinarci, di parlare gli uni con gli altri e di non presentarci chi lavora col cibo solo col cibo e gli altri solo le tende, perché la gente vuole i soccorsi completi. La gente non capisce che uno ha un mandato rispetto a un altro e quindi in questo momento la coordinazione tra le varie Ong e con le Nazioni Unite è assolutamente cruciale.

D.  – Che cosa state facendo voi in particolare. Quante persone riuscite ad aiutare?

R.  - Noi come Welthungerhilfe, appena arrivano le nostre tende, riusciremo a raggiungere qualche migliaio di persone. Ci sono parecchie Ong che lavorano in città e oggi a questo meeting delle Nazioni Unite è stato suggerito ai partner di andare nei distretti rurali dove ci sono problemi di  accessibilità. Quindi, si spera nei prossimi giorni di riuscire a raggiungere qualche migliaio di persone che al momento non hanno dove proteggersi, non hanno da mangiare e da bere. Tutto purtroppo dipende dalla possibilità per gli aerei e i soccorsi di arrivare a Kathmandu stessa.

D.  – Come la vede la situazione? Un suo parere da osservatrice di un’emergenza…

R. – Uno cammina per le strade e vede la gente che fa la fila col piatto in mano perché aspetta da mangiare, vede la gente in tenda… Però, in generale, vedo molta motivazione e entusiasmo da parte delle Ong. Stiamo lavorando tutti insieme, unendo le forze per far migliorare la situazione il prima possibile.

Dunque, manca tutto e serve fare presto pensando anche a chi è più fragile, come fa Caritas Internationalis. Lo spiega al microfono di Linda Bordoni la direttrice umanitaria, Suzanna Tkalec

R. – Il clima in Nepal non è tra i più ideali. Infatti, ci troviamo nella stagione delle piogge, stiamo aspettando l’arrivo dei monsoni, fa freddo e quindi l’importante è che la gente che ora si trova all’aperto riceva un posto adeguato dove ripararsi, accesso al cibo e all’acqua potabile e assicurarci che non ci siano malattie. Inoltre, Caritas Nepal ha identificato la necessità di protezione soprattutto per coloro che sono più vulnerabili, quindi le donne, le ragazze e le persone che vivono con disabilità fisiche e mentali.

D. – Invece, per quanto riguarda il responso Caritas avete fatto una richiesta di donazioni di emergenza?

R. – Non c’è neanche stato bisogno di fare richiesta: espressioni di solidarietà e supporto sono arrivati in meno di 48 ore. Noi ci troviamo con tre milioni di euro che sono già stati assicurati da tutte le Caritas. Una risposta veramente strepitosa. 

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Nigeria. Libere 300 donne, migliaia di profughi in Camerun

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In Nigeria, l’esercito ha liberato 200 ragazze e 93 donne nella foresta Sambisa, rapite da Boko Haram. Gli integralisti islamici nei pressi del lago Ciad hanno invece ucciso 46 soldati e 28 civili. Intanto, dal nord del Camerun arriva la denuncia di Mons. Bruno Ateba, vescovo della diocesi di Maroua-Mokolo, che ribadisce: “L'estrema povertà della zona è un immenso serbatoio per nuovi guerriglieri”. Dal Camerun, Silvia Koch

E' una vera guerra quella che si combatte contro Boko Haram nelle zone di confine tra Nigeria, Camerun e Ciad. Colpito lo scorso fine settimana il battaglione nigerino e vari villaggi nello stato settentrionale del Borno, in Nigeria. Migliaia di soldati camerunesi proteggono il confine, da quando Boko Haram lo ha valicato, attaccando il Nord del Paese. Militari anche lungo le strade e nei principali centri abitati, scorte a protezione dei pochissimi bianchi, in sostanza solo missionari, che sono rimasti nella zona.

Camerunesi nel mirino dei jihadisti
Ricorderete forse i sette turisti francesi, i due sacerdoti italiani, la suora canadese e i dieci operai cinesi presi ostaggio dalla guerriglia, poi fortunatamente tutti liberati, tra il 2013 e il 2014. Se in un primo momento nel mirino erano soprattutto gli stranieri, nell'ultimo anno invece sono proprio i camerunesi dei villaggi del nord a subire le rappresaglie dei jihadisti: chiese bruciate, abitazioni distrutte, donne violentate o uccise, bambini arruolati spesso con la forza, altre volte in cambio di denaro alle famiglie.

Terra povera
La disoccupazione e la povertà dell’“Estremo Nord”, come viene chiamata questa regione, che è la più secca e calda del Paese, purtroppo non aiutano. “Dal punto di vista militare la situazione si sta rasserenando – ci dice fratel Fabio Mussi, missionario del Pime e dal 2009 coordinatore della Caritas nella diocesi di Yagoua – Speriamo però non si tratti di una fase di riorganizzazione dei fondamentalisti, sui nuovi assetti politici nigeriani e sulle nuove possibili alleanze internazionali con le altre reti terroristiche.

Un popolo di sfollati
Nelle due diocesi settentrionali del Camerun, quella di Maroua-Mokolo e quella Yagoua, gli sfollati interni si uniscono alle fila dei rifugiati nigeriani, in rapido aumento dall'agosto 2014. Sembrano essere oltre 80 mila lungo il confine, dei quali 45 mila hanno trovato riparo a Minawao, il campo rifugiati gestito dalle Nazioni Unite in Camerun. Delle varie organizzazioni umanitarie, solo le Caritas locali sono rimaste a fornire soccorso alimentare e medico costante a tutti gli altri profughi, troppo numerosi per le risorse disponibili. Basti pensare che la diocesi di Yagoua riesce a fornire, con enorme sforzo, appena un pasto ogni due settimane a una parte di essi.

Paura tra i cristiani
Alle condizioni già estremamente critiche, si aggiungono per la minoranza cristiana discriminazione e paura, paura di una guerra che continua ad accanirsi contro i simboli religiosi, oltre che occidentali.

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Giornata in memoria delle vittime delle guerre chimiche

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Si celebra oggi la Giornata della memoria in onore delle vittime delle guerre chimiche. Il 29 aprile ha un particolare valore perchè è il giorno in cui, nel 1997, entrava in vigore la Convenzione sulle Armi chimiche, il primo Trattato a interdire gli arsenali di un'ampia gamma di armamenti. Claudia Minici ne ha parlato con Sergey Batsanov, direttore dell'Ufficio Pugwash di Ginevra:

 

R. – Oggi è la Giornata internazionale della memoria per tutte le vittime delle armi chimiche. E’ un giorno un po’ speciale quest’anno perché 100 anni fa, durante la Prima Guerra mondiale, è iniziata la grande guerra chimica. Il 29 è l’anniversario dell’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, un altro momento notevole nella storia. Infatti, nel ’92 è stata negoziata questa Convenzione che proibisce tutte queste classi delle armi di distruzione di massa.

D. – A oggi qual è l’impegno dell’Onu?

R.  – L’Onu stessa, un paio di anni dopo, ha prodotto la definizione delle armi di distruzione di massa: armi nucleari, armi chimiche, biologiche e radiologiche. Oggi, abbiamo già due Convenzioni sulla proibizione delle armi chimiche e un’altra Convenzione sulle armi biologiche. Sulle armi nucleari la situazione è molto più complicata. Abbiamo cinque Paesi possessori delle armi nucleari riconosciuti internazionalmente. Abbiamo poi tre Paesi che hanno prodotto le loro armi nucleari molto più tardi, cioè India, Pakistan e Corea del Nord. Abbiamo un altro possessore che neanche vuole riconoscere il fatto del possesso, cioè Israele. Il problema più importante di oggi è cominciare il processo vero e proprio del disarmo nucleare.

D. – Quali sono le nuove sfide?

R. – Si deve in primo luogo concludere il processo di distruzione in Russia e negli Stati Uniti: questi Paesi non sono riusciti a completare la distruzione come prevedeva la Convenzione. Rimangono ancora i Paesi contrari alla partecipazione a questa Convenzione. L’universalizzazione della Convenzione non è ancora ottenuta e poi c’è il problema di come prevenire l’uso delle armi di diverse sostanze tossiche da parte dei terroristi e di come diminuire il rischio dell’uso delle sostanze tossiche industriali, quelle che noi non consideravamo durante il negoziato sulla Convenzione ma che adesso, con la sparizione delle armi molto tossiche, molto potenti, possono attrarre qualche interesse da parte di chi vorrebbe mantenere l’opzione della guerra chimica.

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Renzi: siamo pronti per l'Expo. In campo 20 mila volontari

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"Siamo pronti per Expo”. Così il premier, Matteo Renzi, fuga i dubbi sulla effettiva preparazione dei padiglioni dell'esposizione di Milano, che si apre tra due giorni e che durerà sei mesi. Renzi ha affermato che visiterà come primo padiglione quello del Nepal, per vicinanza e solidarietà. All’esposizione universale un compito importante sarà svolto dai ventimila volontari. Il servizio di Alessandro Guarasci

I quattro milioni e mezzo di italiani che fanno volontariato vogliano essere prima fila all’Expo che si sta per aprire a Milano. La Società Civile e il Terzo Settore saranno ospitati nel grande padiglione Cascina Triulza. E poi gli ambienti dell’Esposizione Universale vedranno anche ventimila volontari che avranno il compito di accompagnare i visitatori nei vari ambienti. Fosca Nomis della società Expo:

“I volontari faranno un’attività aggiuntiva rispetto a quella di un lavoro vero e proprio. Quindi, non andranno a sostituire i lavori. Diciamo che l’Expo funzionerebbe anche senza i volontari: cioè al netto dei volontari, l’Expo va avanti e funziona”.

I sindacati d’altronde hanno accusato l’azienda, che gestisce le assunzioni per l’evento, di fare contratti per sei mesi con un salario inferiore ai minimi. I volontari invece presteranno la loro opera per un massimo due settimane. Ragazzi che vengono da tutto il mondo, 31 le lingue che saranno parlate. Roberto Museo, direttore del Centro Servizio del Volontariato:

“Sono giovani che hanno scelto volontariamente e spontaneamente di venire a dare una mano a questa Esposizione Universale perché vogliono incontrare il mondo, che si troverà, appunto, all'Expo. Ragazzi che per lo più, il 60%, sono studenti, studenti universitari, che vogliono cogliere l’occasione di accrescere le proprie competenze e anche i propri skill, come oggi dice l’Unione Europea, su attività di volontariato anche nei grandi eventi”.

Insomma, i volontari vogliono essere ambasciatori dell’accoglienza, in una Milano che guarda al mondo.

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Mons. Cavina: Carpi in Serie A è successo di una città sana

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“Favola”, “miracolo”. Sono i termini comuni con i quali soprattutto i media sportivi italiani sono soliti celebrare la promozione in serie A della squadra di calcio di una piccola città. E in questo modo da ieri stampa, tv e web stanno raccontando l’impresa del Carpi, che ieri ha tagliato il traguardo della promozione nella massima serie partendo nel 2009 dalla serie D. Il vescovo della città emiliana, mons. Francesco Cavina, sottolinea, nell’intervista di Alessandro De Carolis, come i meriti sportivi della squadra siano riflesso della “coesione sociale” di una città che ancora sopporta le ferite dal sisma del 2012: 

R. – Dietro a questo successo della polisportiva Carpi, c’è tutto un lavoro che rivela e che manifesta la ricchezza e la grandezza di questa città, che trova la sua espressione più alta proprio nel senso umano e nella coesione sociale che è presente. Quindi, non è solo il frutto di una favola, ma è il frutto di un tessuto che sa dare tante positività nel contesto della società civile.

D. – Questo tessuto sano, come lei dice, si riflette anche in quella sana gestione societaria del Carpi, che in questo momento viene portata ad esempio rispetto alle grandi corazzate del calcio. Che cosa raccontano i ragazzi del Carpi alla società italiana?

R. – A me sembra che raccontino il valore grande di un ideale. Hanno sofferto, si sono impegnati, si sono sottoposti anche a tanti sacrifici proprio per una idealità. E questa mi sembra che sia la cosa più significativa e più bella. Non era tanto il successo o il denaro che hanno desiderato raggiungere, ma dare il segno che nell’impegno è possibile raggiungere degli obiettivi e un traguardo.

D. – Tre anni fa, Carpi ha vissuto un dramma praticamente dimenticato oggi, quello del terremoto. Si sono rimarginate le ferite? Qual è la situazione oggi?

R. – La situazione oggi è ancora molto problematica. La ricostruzione fatica molto a tenere il passo di quelli che erano gli impegni che erano stati assunti subito dopo il terremoto. Per tutta una serie di circostanze e di eventi, oggi la ricostruzione va molto, molto a rilento e questo va a scapito proprio del benessere spirituale delle persone, perché i segni del terremoto sono molto visibili ancora, soprattutto negli edifici storici e negli edifici ecclesiastici – nelle chiese, nei monumenti. E il fatto che siano ancora aperte queste ferite fa rinascere paure, ansie, tensioni, che quindi non possono mai essere sanate fintanto che queste realtà non troveranno proprio la loro risistemazione e il loro utilizzo per il quale erano state costruite.

D. – In che modo il terremoto ha cambiato in questi tre anni la vostra vita come parrocchie, come diocesi?

R. – Devo dire che è stato un cambiamento a 360 gradi, perché si è dovuto passare da una Chiesa che faceva molto affidamento sulle proprio strutture a una Chiesa che si esprime ora attraverso i suoi fedeli. Dobbiamo fondarci unicamente sul nostro senso di appartenenza alla Chiesa in quanto popolo di Dio, in quanto corpo di Cristo. Per cui, è cambiata radicalmente proprio la prospettiva.

D. – Come vescovo le chiedo di fare gli auguri alla squadra della sua città ma anche ai suoi cittadini, che ancora sperano di vedere, come lei diceva, risanato ciò che oggi è distrutto…

R. – Alla squadra del Carpi auguro di conservare e di mantenere la freschezza delle origini. Questo mi sembra sia l’augurio più bello che posso fare. Ai cittadini di Carpi rinnovo quello che dico in continuazione: il Signore ci ha tolto tanto, ci ha tolto quasi tutto quello su cui facevamo affidamento, però abbiamo scoperto che c’è una presenza che continua ad essere in mezzo a noi, che è la presenza del Signore, e che non ci fa mancare le consolazioni di cui abbiamo bisogno, proprio per continuare il cammino della vita. Vorrei dire, quindi, proprio ai miei fedeli, ai miei cittadini: in Cristo tutto è possibile.

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Impagliazzo: Aleppo, simbolo dei cristiani, chiede pace

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Sarà un vero e proprio summit inter-cristiano, il primo, quello che si apre oggi pomeriggio a Bari. Organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, il colloquio internazionale dal titolo “Cristiani in Medio Oriente: quale futuro?” fino a domani vedrà la partecipazione soprattutto di  numerosi atriarchi e dei responsabili di tutte le Chiese cristiane d‘Oriente, insieme a quella di ministri e alti rappresentanti dei governi europei. Francesca Sabatinelli ha intervistato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio: 

R. – Certamente, è il primo summit inter-cristiano che si tiene in Occidente. E noi abbiamo scelto di farlo nella città di Bari dove parla la memoria di San Nicola, un Santo fortemente venerato in Oriente, che parla a tutte queste Chiese per dare voce in Occidente a chi soffre dei cristiani in Oriente. Perché spesso il problema è proprio qui, nella nostra quotidianità e normalità della vita abbiamo dimenticato i nostri fratelli d’Oriente che soffrono, non soltanto cattolici, anche ortodossi, delle antiche Chiese cristiane e protestanti. La forza di questo summit è che riunisce tutte quante le Chiese in quell’ecumenismo del sangue, o dei martiri, che oggi è una grande testimonianza per il nostro mondo.

D. – Per il titolo dell’evento, Sant’Egidio ha scelto di porre un interrogativo: “Quale futuro per i cristiani in Medio Oriente?” Cosa serve per togliere questo punto interrogativo e per affermare che esiste un futuro per i cristiani in Medio Oriente?

R. – In primo luogo, serve maggiore solidarietà da parte di noi cristiani occidentali che non soffriamo degli stessi problemi di cui loro soffrono. In secondo luogo, serve che l’islam in genere si ricordi dell’esistenza di queste persone che sono lì da prima dell’islam, perché il cristianesimo è in quelle terre da prima dell’islam e rappresenta ormai da secoli una minoranza che può aprire il mondo islamico a tanti discorsi e soprattutto a un nuovo dialogo con l’Occidente. In terzo luogo, serve che la comunità internazionale realmente si impegni con tutte le forze per trovare le vie di pace in Siria e in Iraq.

D. – Di voci, di testimonianze, ce ne saranno molte. Quale sarà non la più importante, ma la più toccante?

R. – Io penso che saranno le voci dei vescovi che vengono dalla Siria, in particolare da Aleppo e da Damasco, di tutte le denominazioni, gli armeni, i siriaci, perché oggi realmente in Siria si soffre tanto e si soffre troppo. E per questo la Comunità di Sant’Egidio ha lanciato ormai da un anno l’appello “Save Aleppo” (Salviamo Aleppo), che è stata ed è veramente la città, il luogo del dialogo, dell’incontro tra le religioni, oltre che un luogo di grande cultura del Medio Oriente. Si può trovare una via di pace per la Siria iniziando da un punto: per noi il punto fondamentale è la città di Aleppo, che è un simbolo per tutti i cristiani del Medio Oriente.

D. – Questo appuntamento di Bari sarà anche l’occasione per ribadire, soprattutto di fronte anche a una gravissima situazione di violenza  e di persecuzione in alcune zone del pianeta contro i cristiani, come sia necessario sottolineare l’importanza dell’unità dei cristiani…

R.  – L’unità dei cristiani è la premessa per la pace del mondo. Quando le Chiese sono sorelle, anche i popoli sono fratelli. In questo momento, in Medio Oriente l’unità tra tutti i cristiani può essere una forza ulteriore soprattutto per trovare quelle vie di pace che ancora non si sono trovate. Ma poi l’unità è anche una forza nella preghiera, perché oggi i cristiani nella sofferenza sono ancora più uniti di ieri nella preghiera e noi confidiamo molto che la preghiera frutto dell’unità possa dare frutti di pace.

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Nella Chiesa e nel mondo



Parigi. Hollande a patriarca Rai: impegno per cristiani d'Oriente

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Il patriarca maronita Beshara Rai ha concluso ieri la sua visita in Francia incontrando all’Eliseo il presidente François Hollande. In 50 minuti, di cui 40 in privato, il capo della Chiesa maronita ha chiesto un impegno per i cristiani d’Oriente, le altre minoranze della regione e i musulmani moderati, in qualità di presidente dell’Assemblea dei patriarchi e dei vescovi dell’Oriente. Secondo una fonte ecclesiastica presente ripresa dall'agenzia AsiaNews, che ha definito “storico” questo incontro, il card. Rai ha dichiarato al Capo di Stato francese che “i cristiani d’Oriente non accetteranno mai una patria di ricambio”.

Tra i temi il seggio vuoto presidenziale in Libano e nuova eparchia a Meudon
Nel dialogo sono stati presi in considerazione altre questioni relative alla situazione politica del Libano, quali  il seggio ancora vuoto della presidenza [da circa un anno], le sue cause e i suoi effetti. Su questo punto, il patriarca ha spiegato le cause che bloccano l’elezione del Presidente e ha scambiato con il padrone di casa alcuni mezzi per superare l’ostacolo e la crisi nel Paese dei cedri. Beshara Rai ha anche informato in modo ufficiale dell’apertura a Meudon di una sede dell’eparchia maronita in Francia, guidata da mons. Maroun Nasser Gemayel. Quest’ultimo è stato presente alla prima parte del colloquio.

Impegno di Hollande per la protezione dei cristiani
Alla fine della visita, l’Eliseo ha diffuso un comunicato in cui si sottolinea che il Presidente francese e il patriarca maronita “hanno affrontato la situazione drammatica delle minoranze nella regione, in particolare quella dei cristiani d’Oriente, verso i quali il Presidente ha riaffermato il suo fermo impegno a proteggerli.  Egli ha anche condiviso la determinazione della Francia a proseguire il suo aiuto al Libano di fronte alla crisi dei rifugiati e alle ripercussioni del conflitto in Siria”.

Sforzi della Francia in aiuto del Libano
Nei circoli vicini all’Eliseo, si commenta dicendo che dopo aver ascoltato il suo ospite, Hollande abbia detto che la Francia raddoppierà i suoi sforzi per aiutare il Libano sul piano politico, economico e umanitario, avendo constatato che questo Paese amico della Francia non può sostenere da solo gli effetti della guerra in Siria, in particolare il flusso dei rifugiati il cui numero ha già raggiunto la metà della popolazione libanese. Nel colloquio il patriarca aveva sottolineato l’importanza di un aiuto francese per chiudere le fonti di finanziamento dei gruppi jihadisti. (F.N.)

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Burundi: ancora proteste. L'arcivescovo condanna le violenze

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“Si sa come si comincia, mai dove si finisce. Se non si trovano delle soluzioni ai problemi attuali, non sappiamo cosa potrà succedere”. A lanciare l’allarme parlando all'agenzia Misna è l’arcivescovo di Bujumbura, mons. Evariste Ngoyagoye: nella capitale del Burundi proseguono infatti le proteste contro la ricandidatura del Presidente Pierre Nkurunziza alle elezioni di giugno. Mentre militari e polizia continuano a fronteggiare i dimostranti, restano sei le vittime accertate. “La violenza non deve far parte di nessun processo elettorale democratico e accettabile: condanniamo le uccisioni e le violenze, che potrebbero condurre ad altri eccessi”, prosegue il vescovo.

Nè Presidente nè dimostranti disposti a recedere
La tensione in città resta però alta: né i partecipanti alle proteste né il Presidente sembrano infatti disposti a passi indietro. In particolare il portavoce del Capo dello stato ha detto che Nkurunzuiza “non arretrerà”. “Questo è fuori questione, bisogna andare alle elezioni” ha spiegato il funzionario, Willy Nyamitwe, all’agenzia francese Afp.

Per il terzo mandato non si è mai riunita la Corte costituzionale
Nkurunziza, che si avvicina alla scadenza del suo secondo mandato, sostiene di poter partecipare alle consultazioni – nonostante il limite di una presidenza sia fissato a due quinquenni – in quanto la prima volta fu designato ad occupare la carica non dal voto popolare ma da quello del parlamento. Sulla questione avrebbe dovuto pronunciarsi la Corte costituzionale, ma, ricorda mons. Ngoyagoye, questa “non si è riunita, né si sa se è stata convocata: stiamo ancora aspettando”.

Non ci sono segnali di dialogo
“La vera soluzione – conclude l’arcivescovo – è che i politici coinvolti nel processo elettorale si parlino e trovino una soluzione comune”. Allo stato attuale, tuttavia, non si vedono segnali del possibile inizio di un dialogo, auspicato anche dall’Unione Europea. Nonostante la scarcerazione del noto attivista d’opposizione Pierre Claver Mbonimpa, fermato lunedì scorso, un mandato d’arresto è stato emesso contro un’altra importante figura della società civile, Vital Nshimirimana, che è in fuga. (D.M.)

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Usa: 30 leader religioni su sentenza Corte Suprema su nozze gay

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C’è grande attesa negli Stati Uniti per la sentenza della Corte Suprema sulla ridefinizione legale del matrimonio. Ieri, infatti, i giudici supremi hanno cominciato ad ascoltare gli argomenti riguardo alla costituzionalità delle leggi con cui alcuni Stati dell’Unione vietano le unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso. In particolare, essi dovranno decidere se il 14° emendamento della Costituzione - quello che protegge l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge - preveda anche che ogni Stato debba fornire una licenza matrimoniale alle coppie omosessuali che la richiedano e se lo stesso imponga ad uno Stato di riconoscere un’unione gay celebrata in un altro Stato. Dalla decisione dipende la possibile legalizzazione dei matrimoni omosessuali in tutti i 50 Stati americani. In questo senso si muove la sentenza del 2013 che ha abolito il divieto federale  a tale riconoscimento.

Rischi per la libertà religiosa
In vista del pronunciamento, atteso per la fine di giugno, una trentina di leader di diverse confessioni religiose, tra  i quali diversi vescovi della Conferenza episcopale, hanno sottoscritto una lettera aperta per riaffermare il loro comune impegno in difesa del matrimonio quale unione tra un uomo e una donna e della libertà religiosa. Oltre a ribadire le loro ragioni contro la ridefinizione legale del matrimonio, segnatamente la tutela dell’interesse del bambino e della società, la missiva  esprime preoccupazione per le implicazioni che essa rischia di avere per la libertà religiosa.  “Il Governo – si sottolinea - dovrebbe proteggere i diritti  di chi ha punti di vista diversi di esprimere le sue opinioni senza subire intimidazioni, essere emarginato o accusato di ostilità, animosità e odio verso altri”. Per molte persone, infatti, “accettare questa ridefinizione significherebbe andare contro la propria coscienza e le proprie credenze e convinzioni religiose”.

Quattro gli Stati che vietano espressamente i matrimoni omosessuali
Attualmente sono quattro gli Stati che vietano espressamente i matrimoni omosessuali. Sono: l’Ohio, il Michigan, il Kentucky e il Tennessee. (A cura di Lisa Zengarini)

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Appello vescovi del Congo: tutelare la famiglia

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È un’analisi dettagliata della realtà della famiglia oggi quella riportata dai vescovi della Repubblica del Congo (Cec), nel documento finale della 43.ma Assemblea plenaria, svoltasi a Brazzaville dal 20 al 26 aprile. Lungo ed articolato, il testo si suddivide in tre parti: nella prima, i presuli descrivono la famiglia congolese; nella seconda ne evidenziano le sfide, mentre nell’ultima parte vengono lanciati numerosi appelli a tutti i componenti della società, affinché si adoperino nella difesa dei nuclei familiari.

Grandezza della società si misura sulla qualità della famiglia
Nella prima parte, dunque, la Cec ricorda l’importanza della famiglia come “santuario della via, scuola di fede e umanità, cellula fondamentale della società, luogo privilegiato per l’apprendimento dei valori morali, umani e spirituali, organismo promotore dello sviluppo umano”. “La grandezza di una società – scrive la Cec - si misura in base alla qualità della famiglia, la cui origine è Dio stesso”. Di qui, l’appello a rafforzare i nuclei familiari..

Famiglia deriva da Dio, suoi diritti sono inalienabili
Di fronte a tale contesto, la Cec ribadisce che “il matrimonio cristiano monogamico ed indissolubile costituisce un nobile ideale”, poiché “la famiglia deriva da Dio la sua esistenza e la sua dignità” e quindi “i suoi diritti ed i suoi privilegi sono inalienabili ed intangibili”. Allo stesso tempo, i vescovi congolesi richiamano la necessità di un maggior approfondimento della fede cristiana nelle famiglie.

Smascherare le cause profonde della povertà
Nella seconda parte, poi, i presuli di Brazzaville evidenziano le tante sfide che devono affrontare le famiglie congolesi oggi, tra cui: stregoneria, educazione dei figli, lotta alla povertà. Su quest’ultimo punto, in particolare, i vescovi insistono affinché “si smascherino le cause profonde della miseria, per combatterle apertamente e permettere la promozione e lo sviluppo della famiglia”. Ugualmente importante, continua la Cec, è la diffusione di una maggiore “sicurezza alimentare e sanitaria in famiglia”.

Promuovere giustizia, pace e nuova evangelizzazione
Ulteriori sfide delle famiglie congolesi contemporanee riguardano la promozione della giustizia e della pace – “La famiglia è la prima ed insostituibile educatrice alla pace”, scrive la Cec – e la nuova evangelizzazione, poiché “le famiglie cristiane devono diventare testimoni attraenti grazie alla loro identità, fondata su una comunità di amore e di vita”. Non solo: “Attraverso un dialogo franco con le autorità religiose, politiche e legislative, devono ricordare le loro responsabilità nella difesa della dignità dell’amore e del diritto alla vita”. 

No all’ideologia del gender, non è a favore dello sviluppo della famiglia
Nella terza parte del documento, la Chiesa della Repubblica del Congo lancia diversi appelli: tra questi una chiara sottolineatura viene fatta riguardo all’ideologia del gender: in quest’ambito, i vescovi congolesi esortano lo Stato alla prudenza, evidenziando come tale ideologia non sia a favore dello sviluppo della famiglia. I presuli chiedono anche un maggior rispetto del Codice della famiglia, affinché, ad esempio, si eviti l’aumento smodato della dote.

Organismi internazionali non impongano condizioni contrarie a cristianesimo
Anche i giovani vengono chiamati in causa: a loro, i presuli congolesi chiedono una maggiore formazione all’unità nazionale, così da superare le divisioni tribali e combattere “odio, violenze e dannose manipolazioni”. La Chiesa di Brazzaville si rivolge quindi agli organismi internazionali: “Apprezziamo l’importante ruolo che avete nello sviluppo socio-economico e politico del nostro Paese – si legge nel documento – Tuttavia, alcune vostre iniziative sembrano controverse per le condizioni imposte, che spesso sono agli antipodi rispetto alle aspirazioni del nostro popolo e talvolta contrarie ai valori cristiani, africani ed umani”.

Non dare ascolto ad ideologie che destabilizzano la famiglia
Di qui, il richiamo ad operare per “la promozione e la protezione reale della famiglia e della vita, sin dal concepimento”, poiché “la famiglia e la vita sono sacre”, e la denuncia chiara “di aiuti condizionati all’accettazione, nel nostro Paese, di realtà che cercano di espellere Dio dalla vita dell’uomo”. Di qui, l’appello conclusivo dei vescovi congolesi: “Non diamo ascolto alle ideologie che vogliono destabilizzare la nostra società e le nostre famiglie e trasmettiamo, piuttosto, i valori della vita, della pace e della giustizia alle nuove generazioni”. Il lungo documento si conclude con la preghiera di Papa Francesco per la famiglia, diffusa il 29 dicembre 2013, in occasione della festa della Santa Famiglia. (A cura di Isabella Piro)

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Chiesa brasiliana denuncia: ancora un leader indigeno ucciso

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L'agente di sicurezza Eusebio, della comunità indigena dei Ka'apor, 42 anni, del villaggio Xiborendá, nella terra indigena brasiliana Alto Turiaçu nel Maranhão, è stato ucciso domenica scorsa con un colpo di fucile alla schiena. Stava tornando dal villaggio Jumu'e Ha Renda Keruhu, viaggiando sul retro di una motocicletta guidata da un altro indigeno, quando, verso le 18.30, due uomini incappucciati hanno chiesto loro di fermarsi e quindi hanno colpito Eusébio uccidendolo.

Il leader ucciso era impegnato nella lotta contro il disboscamento
Secondo la nota inviata all'agenzia Fides dal Cimi (Consiglio Indigenista Missionario), per alcuni testimoni indigeni, i responsabili del delitto sono i taglialegna del Comune di Centro do Guilherme, in seguito ai controlli e alla sorveglianza del territorio avviati nel 2013 dalla comunità indigena Ka'apor, che si concludono quest'anno. Eusebio era una persona molto impegnata ed importante nella lotta contro il disboscamento illegale nella zona e membro del Consiglio dei Ka'apor. Il figlio di Eusebio, dopo aver lasciato il corpo del padre nella città di Zé Doca, è tornato al suo villaggio, dove è stato avvicinato da un taglialegna il quale lo ha avvertito che altri indigeni e sostenitori dei Ka'apor potrebbero essere uccisi.

Gli indigeni non hanno protezione dallo Stato: si uccide per intimidire 
La violenza contro gli indigeni si è intensificata negli ultimi mesi, dopo la chiusura dell'ultimo periodo in cui era consentito tagliare gli alberi, in zone e quantità stabilite. "Abbiamo chiuso parte della zona e controlliamo gli ingressi di otto villaggi, per prevenire il ritorno dei taglialegna. Ma da quel momento ci sono stati furti di moto e aggressioni, commessi sempre da due o tre persone incappucciate e con fucili da caccia" dice un leader dei Ka'apor. "Le minacce di morte sono costanti da molto tempo. Ora uccidono per intimidire ... Noi non sappiamo cosa fare, perché non abbiamo nessuna protezione. Lo Stato non fa nulla".

Potere pubblico ignora i crimini ambientali
Madalena Borges, del Consiglio Indigenista Missionario della regione di Maranhão, segnala l'assenza e le omissioni del potere pubblico, che ignora le ripetute lamentele per i crimini ambientali commessi dagli invasori del territorio indigeno. (C.E.)

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1° maggio. Vescovi Uruguay: tutelare diritti dei lavoratori

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Tutelare i diritti di tutti i lavoratori, uomini e donne che siano: questo l’appello lanciato dalla Conferenza episcopale dell’Uruguay, in una nota diffusa in vista del 1.mo maggio, memoria di San Giuseppe artigiano e festa del lavoro. “Ringraziamo Dio – scrivono i presuli – per tutti gli uomini e le donne che, in città ed in campagna, con il sudore della fronte, si guadagnano il pane quotidiano, danno dignità alla loro vita, contribuiscono al bene comune, costruiscono la patria, continuando così l’opera del Creatore”.

Distribuire meglio la ricchezza, privilegiando i più bisognosi
“Apprezziamo – continuano i presuli – gli sforzi che si fanno, nella nostra comunità nazionale, affinché la ricchezza prodotta venga distribuita sempre meglio ed i più bisognosi siano privilegiati”. I vescovi dell’Uruguay esprimono poi vicinanza alle “tante realtà di dolore o di ingiustizia, come le situazioni di disoccupazione o di sotto-occupazione” o il dramma di “chi ha subito un incidente sul lavoro o ha perso una persona cara a causa dell’attività lavorativa”.

Domenica, giorno di riposo da dedicare a Dio ed alla famiglia
“In questo tempo accelerato e convulso – prosegue la nota – che tante volte toglie spazio all’incontro e deteriora la qualità delle nostre relazioni con gli altri, con se stessi, con il Creato e con Dio, sottolineiamo l’importanza del riposo domenicale come tempo di lode al Creatore, tempo della famiglia, dell’incontro e del relax”. Infine, i presuli rivolgono una preghiera a San Giuseppe, Patrono dei lavoratori. (I.P.)

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Vescovi Spagna: istruzione “Chiesa, servitrice dei poveri”

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La “preoccupazione” per la sofferenza generata dalla grave crisi economica, sociale e morale che colpisce la società spagnola. E la “speranza” fondata sulla testimonianza offerta da tanti membri della Chiesa nell’assistere proprio quanti hanno subito maggiormente le conseguenze della crisi. Sono questi i due principali motivi ispiratori di “Iglesia, servidora de los pobres” (“Chiesa, servitrice dei poveri”), l’istruzione pastorale approvata dai vescovi spagnoli nel corso della loro recente Assemblea plenaria. Strutturata in quattro parti - riporta l'agenzia Sir - l’istruzione pastorale comincia analizzando la situazione sociale attuale. 

Nuovi poveri e nuove povertà
Nella prima parte, i vescovi si concentrano sui nuovi poveri e sulle nuove povertà, in modo particolare quelle subite in primo luogo dalle famiglie colpite dalla crisi. In esse, viene rilevato, non è difficile trovare molti giovani senza lavoro e a serio rischio di cadere in situazioni disperate. I vescovi segnalano anche la povertà originata dall’emigrazione. Gli immigrati, infatti, subiscono più di chiunque altro una crisi che non sono stati loro a provocare. I vescovi chiedono in questo ambito alle autorità nazionali e dell’Unione europea atteggiamenti di generosa accoglienza e cooperazione con i Paesi di origine. 

Nuove povertà e corruzione sono favorite dall’impoverimento spirituale
Oltre alle nuove povertà, l’istruzione pastorale evidenzia come tratto caratterizzante la società attuale la corruzione, definita come un “male morale” alla cui origine ci sono “la cupidigia finanziaria” e “l’avarizia personale”. Non solo, queste situazioni di corruzione provocano allarme sociale, alterano il funzionamento dell’economia, impediscono la concorrenza leale e rincarano i servizi. Per i vescovi, la necessaria rigenerazione personale e sociale sarà possibile attraverso una maggiore considerazione per il bene comune. Sia le nuove povertà sia la corruzione sono favorite anche dall’impoverimento spirituale.  L’atteggiamento personale e il comportamento morale delle persone sono danneggiati dall’indifferenza religiosa, dalla dimenticanza di Dio e dalla noncuranza verso la questione del destino trascendente dell’essere umano. 

Il retto ordinamento al bene comune compete soprattutto alla comunità politica
Nel documento s’indicano perciò quattro fattori alla base dell’odierna situazione sociale. Il primo è la negazione del primato dell’essere umano che si fonda sulla dignità concessagli da Dio. Il secondo è il dominio dell’immediato e dell’ambito tecnico nella cultura attuale. Il modello sociale incentrato sull’economia è il terzo fattore che spiega questa situazione di crisi. In quarto luogo, una certa idolatria dei mercati. Il retto ordinamento al bene comune, rilevano i vescovi, compete soprattutto alla comunità politica. (R.P.)

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Si è spenta suor Mary Ann Walsh, già portavoce dei vescovi Usa

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“Sorella Mary Ann”: così la chiamavano, affettuosamente, i giornalisti statunitensi con i quali ha lavorato per vent’anni, dal 1994 al 2014. Sr. Mary Ann Walsh, portavoce della Conferenza episcopale degli Stati Uniti (Usccb), prima donna ad occupare questo ruolo, è deceduta ieri, 28 aprile, dopo una lunga battaglia contro il cancro. Aveva 67 anni ed apparteneva alla Congregazione delle Sorelle della Misericordia, nella quale era entrata a 17 anni, nel 1964.

L’esperienza della Gmg di Denver e la passione per il giornalismo
Arrivata alla conferenza episcopale americana dopo aver coordinato, in modo fruttuoso, i mass media in occasione della Giornata mondiale della gioventù di Denver, nel 1993, la religiosa era molto apprezzata per il suo modo chiaro e lineare di dialogare con la stampa. Appassionata di scrittura, Sr. Mary Ann era anche giornalista ed aveva lavorato per il quotidiano “L’Evangelista”, edito dalla diocesi Albany, la sua città di origine. “Sono entrata nel mondo dei mass media perché voglio aiutare le persone – raccontava Sr. Walsh – Ho pensato che posso fare da ponte tra i bisognosi e coloro che possono aiutarli”.

I Conclavi del 2005 e del 2013
E infatti, Sr. Mary Ann era stata anche corrispondente da Roma e Washington per il Catholic News Service ed aveva coordinato la stampa americana durante i Conclavi del 2005 e del 2013. Dopo aver curato l’edizione statunitense di alcuni libri di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nel luglio 2014 Sr. Walsh aveva lasciato il suo incarico di portavoce ed aveva iniziato a scrivere, come editorialista, per “America”, la rivista dei gesuiti nel Paese.

Il Premio dell’Associazione Stampa Cattolica
Particolarmente vicina ad alcuni temi del magistero di Papa Francesco, come quello della  giustizia sociale, Sr. Mary Ann aveva ricevuto, lo scorso marzo, il premio “San Francesco di Sales” dall’Associazione della Stampa Cattolica (Cpa), grazie – questa la motivazione – “al suo straordinario impegno nel perseguire l’integrità della parola”. “La sua vita al servizio della stampa cattolica, della Conferenza episcopale statunitense e della Chiesa, è eccezionale e un modello per tutti”, aveva spiegato Rob De Francesco, presidente della Cpa. A consegnarle il riconoscimento, era stato il vescovo di Salt Lake City, mons. John Charles Wester, direttore della commissione episcopale statunitense per le comunicazioni. (I.P.) 

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 119

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.