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Sommario del 28/04/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Papa, 100 mila dollari in aiuto al Nepal, più di 5.000 i morti

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Papa Francesco ha inviato, attraverso il dicastero “Cor Unum”, un primo contributo di 100 mila dollari per il soccorso alle popolazioni del Nepal colpito dal terribile terremoto. Secondo i dati al momento a disposizione, ma purtroppo non ancora definitivi, le vittime sarebbero oltre 5mila e più di 10mila i feriti. La somma stanziata a nome del Papa verrà inviata alla Chiesa locale, impiegata a sostegno delle opere di assistenza svolte in favore degli sfollati e dei terremotati, e vuole essere una prima e immediata espressione concreta dei sentimenti di spirituale vicinanza e paterno incoraggiamento nei confronti delle persone e dei territori colpiti, che Papa Francesco ha assicurato nel corso del Regina Coeli di domenica 26 aprile. Conferenze episcopali e organismi di carità cattolici sono già ampiamente impegnati nell’opera di soccorso. Per un aggiornamento sulla situazione nel Paese asiatico e le operazioni di soccorso, il servizio di Gabriella Ceraso: 

E’ un balletto di cifre tutte agghiaccianti quello che continua ad arrivare dal Nepal: tra i 6 e gli 8 milioni le persone interessate, più di un milione i senzatetto che hanno paura, fame e freddo nei 34 Distretti colpiti dal sisma. Intanto, si continua a scavare sotto le macerie e migliaia di cadaveri estratti vengono avvolti in teli e disposti lungo strade e corsi d’acqua, dove giorno e notte si procede con il rito delle cremazioni di massa, anche per evitare epidemie. Altro problema è che le comunicazioni sono interrotte: diverse località nelle vallate più remote sono ancora isolate. “Qui c’è solo caos e paura”, racconta al microfono di Helene Destombes, Ingo Radtke, segretario generale di Malteser international, organizzazione di soccorsi d’urgenza dell’Ordine di Malta che ha una squadra in Nepal:

R. – Toute à fait. C'est un autre problème!...
Sì, Questo è un altro problema! E’ già difficile arrivare nel Paese: l’aeroporto è piccolo… Noi sappiamo che ci sono stati degli aerei che avrebbero voluto atterrare, ma che non hanno potuto farlo e che sono stati costretti a rientrare a Delhi. Non c’era posto in aeroporto… Non ho alcuna notizia al momento sullo stato delle strade: ho sentito parlare della caduta di pietre. Tutto è bloccato anche per i rifornimenti e gli aiuti...  L’epicentro del sisma è stato a 80 chilometri a nordovest di Katmandu e non abbiamo alcuna notizia riguardo a quella zona, perché è difficile riuscire ad arrivarci… Ma bisogna farlo! Siamo assolutamente certi che anche lì ci sono delle vittime…  Quelle persone non hanno ricevuto alcun aiuto!

Sono anche le continue scosse ad impedire spesso agli aerei di atterrare, come è accaduto ad un’èquipe di Medici senza frontiere dirottata in India: quelle che sono già arrivate già stanno operando, con quali priorità in situazioni simili? Ce lo spiega Stefano Zannini Direttore supporto alle operazioni, di Medici senza frontiere:

R. – La priorità in questo momento è sicuramente quella di aumentare la capacità chirurgica delle strutture locali. Il motivo è molto semplice, le operazioni chirurgiche sono quelle che permettono oggi di salvare vite umane. E per farlo è essenziale avere materiale, personale, sale operatorie. Su questi aspetti stiamo lavorando oggi.

D. – Rischio epidemie: si dice che siano in atto anche numerose cremazioni proprio per evitarne la diffusione…

R. – Sul rischio epidemie mi sento di dire sostanzialmente due cose. La prima è che l’esperienza di tutti questi anni in contesti di questo tipo ci ha mostrato come il rischio di epidemie legato prettamente ai cadaveri sia estremamente basso se non nullo. Certo, condizioni igienico sanitarie invece molto precarie, acqua contaminata, possono generare epidemie: penso al tifo, penso al colera, etc. E questa è una cosa sulla quale dobbiamo lavorare il prima possibile.

D. – "Manca tutto", ha testimoniato in queste ore un medico che è proprio nella zona di Kathmandu, manca tutto dal punto di vista medico. La vostra azione è anche di rifornimento?

R. – Assolutamente sì. Noi stiamo facendo partire proprio in queste ore da Bordeaux e da Bruxelles 65 tonnellate di materiale e un ospedale gonfiabile. Alcuni camion sono entrati ieri in Nepal dall’India e stanno portando materiale prettamente medico - garze, bisturi, guanti - e materiale non sanitario, come, per esempio, pompe generatori, quello che serve per garantire elettricità e acqua potabile. L’acqua è assolutamente necessaria per effettuare interventi chirurgici. In media ogni operazione consuma circa 100 litri di acqua pulita.

D.  – Quali sono le zone, secondo voi, più difficoltose in base alle notizie che avete?

R. – La fotografia che abbiamo oggi di Kathmandu è quella di una città non completamente distrutta, diversi edifici sono rimasti in piedi, ospedali a pieno regime, mancanza di materiale. Quello che ci preoccupa, oltre a questo, però è la zona rurale, la zona che sta soprattutto a nordovest della capitale Kathmandu. Abbiamo sorvolato ieri una sessantina di villaggi e di questi 60, circa 45 erano o distrutti o parzialmente danneggiati. L’unica possibilità di accesso in tempi rapidi è l’elicottero.

D. – Sappiamo che lei ha lunga esperienza in zone terremotate: in questa situazione particolari ci sono difficoltà ulteriori? E’ diversa questa realtà dalle altre? Quanto ci vorrà per raggiungere tutti?

R.  – La difficoltà è che mi pare importante e che differenzia un po’ questo terremoto da quello di Haiti è l’estrema dispersione di questi villaggi nella zona rurale e le grandi difficoltà di accesso: cioè, se ad Haiti il sisma aveva colpito soprattutto la capitale e un altro paio di città raggiungibili facilmente in macchina, oggi parliamo di difficoltà logistiche estremamente importanti per poter raggiungere la popolazione che ha bisogno. Penso che un intervento come quello che si sta profilando in Nepal prenderà diversi mesi perché i bisogni sono importanti e perché il sistema sanitario farà molta fatica a riprendersi.

"Aiuti lenti e inefficaci", ammette anche il premier nepalese, chiedendo ancora aiuto alla comunità internazionale: alla Chiesa si unisce l' Onu che ha stanziato 15 milioni di dollari e ha inviato i primi camion con rifornimenti alimentari che stanno entrando in Nepal insieme alle squadre di medici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Intanto la terra continua a tremare: addirittura secondo gli studiosi l’intensità dei movimenti tellurici avrebbe fatto sprofondare di tre metri l'area di Kathmandu. Difficoltà estreme si registrano anche sull’Everest dopo le valanghe succedute al sisma: ancora ignoto il numero totale dei dispersi, una quarantina sono italiani, tra cui 4 i morti accertati.

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Vaticano: Francesco e Ban Ki-moon a colloquio sull'ecologia

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La Casina Pio IV in Vaticano, sede della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali, è stata teatro di un seminario dedicato al tema “Proteggere la terra, nobilitare l'umanità. Le dimensioni morali dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile”. Prima dell’inizio dei lavori, Papa Francesco si è intrattenuto a colloquio privato con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che ha poi tenuto la relazione d’apertura. Presente ai lavori anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. Il servizio della nostra inviata, Francesca Sabatinelli: 

"Sono qui perché ho bisogno del supporto morale e spirituale del Papa". Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon lo ha chiesto apertamente a Francesco, incontrato stamattina in privato per circa mezz’ora prima di prendere parte al Seminario in Vaticano. Un colloquio che è stato occasione per Ban Ki-moon di ringraziare il Papa di aver accettato di parlare alle Nazioni Unite il prossimo 25 settembre durante il suo viaggio negli Stati Uniti. Ban ha espresso quindi attesa per il suo discorso e per la prossima Enciclica papale, dedicata appunto all’ambiente, e ha quindi illustrato al Papa gli impegni delle Nazioni Unite per le questioni ambientali, così come dei migranti e delle drammatiche situazioni umanitarie nei Paesi colpiti da conflitti.

Sui cambiamenti climatici occorre alzare la guardia, è l’allarme del segretario generale dell'Onu, è un fenomeno che riguarda la salute pubblica, le migrazioni, lo sviluppo, i diritti umani. E la risposta ai cambiamenti climatici deve essere globale, olistica. Occorre un cambiamento dei comportamenti e degli stili di vita per affrontare i mutamenti climatici e scienza e religione sono totalmente alleate. Proteggere l’ambiente e chi soffre, ha quindi continuato, è un imperativo morale urgente, la maggiore responsabilità è dei Paesi sviluppati, ma anche i Paesi in via di sviluppo devono “stabilire una traiettoria di sviluppo sostenibile con il rispetto ambientale”.  Il segretario generale dell’Onu usi augura quindi che gli Stati agiscano in modo unito e determinato, perché occorre raggiungere un accordo globale, e in questo senso il summit di Parigi del prossimo dicembre “sarà un punto di svolta e poi bisognerà applicare quanto verrà deciso”.

Ban Ki-moon ha poi affrontato il drammatico capitolo dei migranti e delle morti nel Mar Mediterraneo, divenuto ormai – ha detto – un mare di lacrime. A morire sono i poveri e i vulnerabili, che fuggono da guerre, povertà e persecuzioni, la priorità è proteggere le loro vite e la dignità umana. “Distruggere i barconi non è la strada giusta”, ha quindi sottolineato spiegando che “occorre fermare gli scafisti che li usano”. Non c’è alternativa al dialogo e alla soluzione politica, quindi, ha concluso Ban Ki-moon, che ha sollecitato l’apertura di corridoi umanitari e indicato come possibile soluzione il pattugliamento dei mari così come fu la missione "Atalanta" dell’Unione Europea attivata nel 2008 per sconfiggere la pirateria lungo le coste della Somalia.

 

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Mons. Sorondo: conclusa l'Enciclica del Papa sull'ambiente

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Il cancelliere dell’Accademia Pontificia, mons. Marcelo Sanchez Sorondo, parla al microfono di Francesca Sabatinelli, l’ultimazione dell’Enciclica di Papa Francesco dedicata ai temi ambientali e la sua prossima uscita – tra fine maggio, inizio giugno – non appena terminato il lavoro di traduzione nelle altre lingue: 

R. – Il Papa ha detto questa mattina che l’Enciclica è pronta, che si stanno facendo le traduzioni e che probabilmente si avrà alla fine di maggio o al principio di giugno.

D. – Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, ha espresso gratitudine per questo…

R. – E’ molto contento naturalmente. Anche questo Meeting, infatti, avviene per appoggiare l’Enciclica, dando argomenti specificamente scientifici che naturalmente l’Enciclica non potrà dare perché ha uno stile pastorale. Quindi, ci sono due aspetti: uno è quello che viene dalla Bibbia, per cui l’uomo è il custode, nel senso che deve sviluppare la creazione in un modo sostenibile, come diciamo oggi. Lo diceva già Paolo VI nella “Populorum Progressio”. Questo significa inclusione sociale, significa naturalmente un’agricoltura che risponda ai bisogni reali della alimentazione della gente e significa tante altre cose. Quindi, da un parte c’è che l’uomo è custode della Creazione in un modo sostenibile e, dall’altra, che la situazione – non dico della Creazione, perché noi non possiamo intervenire – per quanto riguarda la Terra, la situazione della Terra, è descritta principalmente dalle scienze naturali e dalle scienze sociali. Quindi, noi pensiamo che l’Enciclica toccherà questi due temi.

D. – Come ha detto Ban Ki-moon, scienza e religione sono più che alleate…

R. – Sì, naturalmente, come ha detto Ban Ki-moon, ma come è nello stile di tutti i Papi che mettono sempre in quasi tutte le Encicliche fede e ragione, perché se non c’è la ragione non si può ragionare. La fede è organizzata in concetti e quindi, dall’inizio, fede e ragione vanno insieme. In questo caso, forse, c’è più ragione scientifica che non ragione filosofica, ma c’è ragione.

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Francesco: senza lo Spirito non capiamo la verità, aprirsi a sue sorprese

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La Chiesa va avanti grazie alle sorprese dello Spirito Santo. E’ uno dei passaggi dell’omelia di Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Soffermandosi sulla predicazione del Vangelo ai pagani, narrata negli Atti degli Apostoli, il Pontefice ha sottolineato che anche oggi bisogna avere “coraggio apostolico” per non rendere “la vita cristiana un museo di ricordi”. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

I discepoli di Gesù arrivati ad Antiochia iniziano a predicare non solo agli ebrei, ma anche ai greci, ai pagani e un gran numero di loro credette e si convertì al Signore. Papa Francesco ha preso spunto dal passo degli Atti degli Apostoli, nella Prima Lettura, per sottolineare quanto nella vita della Chiesa sia sempre fondamentale aprirsi alle novità dello Spirito Santo. Molti, annota, erano all’epoca inquieti nel sentire che il Vangelo fosse predicato anche ai non ebrei, ma quando Barnaba giunge ad Antiochia è felice perché vede che queste conversioni dei pagani sono opera di Dio.

Non avere paura del Dio delle sorprese
Del resto, ha sottolineato Francesco, già nelle profezie c’era scritto che il Signore sarebbe venuto a salvare tutti i popoli, come nel capitolo 60 di Isaia. E tuttavia, molti non comprendevano queste parole:

“Non capivano. Non capivano che Dio è il Dio delle novità: ‘Io faccio tutto nuovo’, ci dice. Che lo Spirito Santo è venuto proprio per questo, per rinnovarci e continuamente fa questo lavoro di rinnovarci. Questo dà un po’ di paura. Nella Storia della Chiesa possiamo vedere da questo momento fino adesso quante paure verso le sorprese dello Spirito Santo. E’ il Dio delle sorprese”.

“Ma – ha ripreso – ci sono novità e novità!” Alcune novità, ha ammesso, “si vede che sono di Dio”, altre no. Come si può dunque distinguerle? In realtà, ha osservato il Papa, sia di Barnaba che di Pietro si dice che sono uomini pieni di Spirito Santo. “In tutti e due – ha ribadito – c’è lo Spirito Santo che fa vedere la verità. Da noi soli non possiamo. Con la nostra intelligenza non possiamo”. “Possiamo studiare tutta la Storia della Salvezza, possiamo studiare tutta la Teologia – ha avvertito – ma senza lo Spirito non possiamo capire. E’ proprio lo Spirito che ci fa capire la verità o – usando le parole di Gesù – è lo Spirito che ci fa conoscere la voce di Gesù”: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e loro mi seguono”.

La Chiesa va avanti con le novità dello Spirito Santo
“L’andare avanti della Chiesa – ha detto ancora – è opera dello Spirito Santo”, che ci fa ascoltare la voce del Signore. “E come posso fare – si chiede il Papa – per essere sicuro che quella voce che sento è la voce di Gesù, che quello che sento che devo fare è fatto dallo Spirito Santo? Pregare”:

“Senza preghiera, non c’è posto per lo Spirito. Chiedere a Dio che ci mandi questo dono: ‘Signore, dacci lo Spirito Santo perché possiamo discernere in ogni tempo cosa dobbiamo fare’, che non è sempre lo stesso. Il messaggio è lo stesso ma la Chiesa va avanti, la Chiesa va avanti con queste sorprese, con queste novità dello Spirito Santo. Bisogna discernerle, e per discernerle bisogna pregare, chiedere questa grazia. Barnaba era pieno dello Spirito Santo e ha capito subito; Pietro ha visto e disse: ‘Ma chi sono io per negare qui il Battesimo?’. E’ Lui che non ci fa sbagliare. ‘Ma, Padre, perché mettersi in tanti problemi? Facciamo le cose come le abbiamo fatte sempre, che siamo più sicuri …’”

La vita cristiana non sia un museo di ricordi
Ma fare come si è fatto sempre, ha ammonito, è un’alternativa “di morte”. Ed  ha esortato a “rischiare, con la preghiera, tanto, con l’umiltà, di accettare quello che lo Spirito” ci chiede di “cambiare”: “questa è la strada”.

“Il Signore ci ha detto che se noi mangiamo il suo Corpo e beviamo il suo Sangue, avremo vita. Adesso continuiamo questa celebrazione, con questa parola: ‘Signore, Tu che sei qui con noi nell’Eucaristia, Tu che sarai dentro di noi, dacci la grazia dello Spirito Santo. Dacci la grazia di non avere paura quando lo Spirito, con sicurezza, mi dice di fare un passo avanti’. E in questa Messa, chiedere questo coraggio, questo coraggio apostolico di portare vita e non fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi”.

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In udienza da Francesco il presidente dell’Ecuador

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Papa Francesco ha ricevuto stamani in udienza Rafael Correa Delgado, presidente della Repubblica dell’Ecuador, e seguito.

In Tanzania, Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Singida il rev.do Edward Mapunda, economo della medesima diocesi e incaricato diocesano per la salute.

Il Papa ha nominato presidente della Commissione per gli Avvocati il cardinale Dominique Mamberti, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.

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Tweet del Papa: ogni comunità cristiana dev’essere una casa accogliente

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“Ogni comunità cristiana dev’essere una casa accogliente per chi cerca Dio, come pure per chi cerca un fratello che lo ascolti”. E’ il tweet pubblicato oggi da Papa Francesco sul suo account Twitter @Pontifex, seguito da oltre 20 milioni di follower.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Aperti alle sorprese: Messa a Santa Marta.

Senza dimora, in cattedra: i poveri interpellano la città di Roma.

Un articolo di Catherine Aubin da titolo "Caro Papa, sei il portinaio della cantina di Dio": il 29 aprile 1380 moriva Caterina da Siena.

La regina in biblioteca: intervista di Silvia Guidi al prefetto della Vaticana.

Per aprirsi a prospettive possibili: Cristiana Dobner su cristianesimo ed ebraismo.

Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo "Manuale di pittura": raddoppia la superficie espositiva degli Uffizi.

In ultima pagina, "Lotta alla corruzione per salvare i minori"; l'appello durante il seminario sulla tratta alla presenza della regina di Svezia.

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Oggi in Primo Piano



Usa: 5.000 soldati a Baltimora dopo le violenze in periferia

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La città di Baltimora in Maryland come la piccola cittadina di Ferguson in Missouri:  negli Stati Uniti nel giro di pochi mesi riesplode la rabbia della comunità afroamericana contro metodi violenti della polizia. E’ successo dopo che l'ennesimo ragazzo di colore, Freddie Gay, è morto dopo l'arresto, con la  spina dorsale spezzata.  Nel giorno del funerale, i momenti di preghiera di  migliaia di persone si sono trasformate in protesta, poi in rivolte e violenze e razzie in negozi e Centri commerciali. Per capire contesto e spessore del fenomeno, Fausta Speranza ha intervistato Gray Lawrence, docente di Scienze politiche alla John Cabot University: 

R. – Non è soltanto quello che vediamo in televisione, con i manifestanti, la violenza … pare che siano stati richiamati circa 5 mila soldati per ristabilire l’ordine! Potete immaginare una città come Bologna, che più o meno ha le stesse dimensioni di Baltimora, e le autorità italiane che mandano 5 mila soldati per ristabilire l’ordine … In una città storica, civile come è Bologna e come è anche Baltimora. Ovviamente, questi problemi sono legati alle condizioni socio-economiche dei quartieri, dei manifestanti … Ma tutto questo è molto ben conosciuto: da anni ci sono problemi in questa parte di Baltimora, e non soltanto a Baltimora ma anche in altre città dove ci sono problemi, dove mancano le opportunità per chi non ha un’ottima educazione, per chi è di colore e così via dicendo. E’ ancora una volta un esempio di queste esplosioni che si verificano di solito dopo che è successo un fatto inspiegabile, come quello della morte di questo ragazzo nero proprio dentro la macchina della polizia! E tutti – sia di sinistra, sia di destra – criticano questo fatto. Anzi, l’unica cosa sorprendente è che non accadano più spesso, questi atti di violenza di strada in questi quartieri nei quali ovviamente c’è una rabbia incredibile e che riesce ad esprimersi soltanto in queste situazioni. Sorprende che non esca fuori più spesso, anche per vie più organizzate, politicamente sensate …

D. – Baltimora e Maryland come Fergusson in Missouri?

R. – Fergusson è una piccola cittadina, mentre Baltimora è una città grande e storica, vicina alla capitale Washington! Fergusson, nessuno sapeva neanche dove fosse, prima che vi accadessero i noti tragici fatti. Però lì pure c’è lo stesso problema anche se non è molto manifesto, perché Fergusson non è una grande città. Ci sono gli stessi problemi oggettivi di natura socio-economica, in più la violenza da parte della polizia, nel caso di Fergusson è ancora più accentuato, perché la comunità afroamericana è stata molto poco rappresentata nella forza di polizia. Sembra che gli americani non arrivano ancora a pensare che nella polizia debbano esserci dei rappresentanti delle comunità sulle quali vigilano: non possono essere solo persone estranee a queste comunità, devono avere la fiducia della gente. E c’è molto da fare ancora, in un dipartimento di polizia come quello di Fergusson. Ma anche a Baltimora dove dovrebbe essere più sofisticata la polizia. Quindi, c’è molto da fare, riguardo alla formazione delle persone che rappresentano la legge, la cosiddetta autorità. Questa è una questione antica. C’è poi la questione nuova di quanto si stia lentamente chiudendo la società americana. Non è ancora molto chiusa, ma lentamente si sta chiudendo. Stanno diminuendo le possibilità di uscire fuori da questi quartieri. La società americana, soprattutto vista dagli europei, è sempre il Paese delle grandi opportunità, e questo è anche vero. Però, si sta chiudendo sempre più. Non è che non è più possibile; è che non è più come una volta. E questo semplicemente perché i ricchi stanno diventando veramente ricchi e i poveri stanno diventando veramente poveri.

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Sudan: Bashir riconfermato presidente, è al quarto mandato

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La riconferma per un quarto mandato presidenziale in Sudan di Omar al-Bashir ha aperto un dibattito internazionale attorno al protrarsi della sua permanenza al potere e all’effettiva situazione nel Paese africano. Sottoposto ad un embargo economico da parte degli Stati Uniti dal 1997, per presunte violazioni dei diritti umani e accuse di legami col terrorismo, il Sudan ha negli ultimi anni perso - con l’indipendenza del Sud nel 2011 - il 75% delle proprie risorse petrolifere, registra un’inflazione galoppante e un tasso di disoccupazione che supera il 30%. Come leggere dunque la rielezione di Bashir nelle consultazioni svoltesi tra il 13 ed il 16 aprile? L'opinione di Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali, intervistato da Giada Aquilino

R. - Per individuare il significato della rielezione di Bashir bisogna necessariamente paragonarlo a un’altra elezione, cioè quella del presidente Buhari in Nigeria. Mentre in Nigeria abbiamo assistito a un Paese che per la prima volta ha voluto premiare il partito di opposizione, cosa che non era mai successa in Africa, dall’altra parte invece abbiamo in Sudan un regime, "paternalistico" e "personalistico", in cui la figura del presidente è la figura del padre padrone del Paese, quindi un’indicazione in controtendenza rispetto ai tanti lati positivi, ai tanti spunti positivi che il processo di democratizzazione sta avendo in Africa. E un messaggio anche per le organizzazioni internazionali e il mondo occidentale: cioè che il Sudan ha comunque bisogno di aiuto e di sostegno perché altrimenti è difficile immaginare uno svecchiamento pacifico della classe dirigente.

D. – Anche in Nigeria però Buhari non è una figura nuova, era già stato al potere…

R. – Sì, però Buhari poteva tranquillamente correre con il partito di potere e non l’ha fatto. Il fatto che a vincere sia stato un partito di opposizione vuol dire che la società e l’elettorato nigeriani hanno cominciato ad assorbire determinate dinamiche democratiche. Stiamo parlando di democrazie giovani e in fase di assestamento.

D. – Per quanto riguarda Bashir, il fatto che per il conflitto in Darfur debba rispondere di crimini di guerra e contro l’umanità di fronte alla Corte penale internazionale come viene letto in Sudan?

R. – La classe intellettuale e gli alti quadri dirigenti di opposizione del Paese individuano in questa accusa criminale nei confronti di Bashir un argomento per minare la base del suo potere. Però, in realtà, ciò che sta mettendo in difficoltà l’amministrazione di Bashir è che siamo di fronte a un Paese povero, un Paese dove – per l’indipendenza del Sud Sudan – è venuta a mancare la ricchezza petrolifera, quindi gli introiti della vendita di idrocarburi e, di conseguenza, la base economica per tutte quelle politiche di ridistribuzione e di sussidio necessarie a calmierare il malcontento.

D. – In Sudan, Bashir prese il potere con un golpe nell’89. In Burundi, Nkurunziza correrà per il terzo mandato e sono in corso manifestazioni di protesta, in Zimbabwe Mugabe è al potere dagli anni ’80, solo per citare alcuni casi. Perché c’è questo protrarsi di presidenze e di mandati?

R. – In Africa, dal momento della decolonizzazione, la costruzione di un meccanismo maturo dal punto di vista democratico è stato difficoltoso, perché ogni sistema politico è fortemente figlio del sistema sociale. E nei sistemi sociali di determinati Paesi c’è una struttura verticistica, una struttura nella quale i legami etnici, i legami tribali e la personalizzazione della sfera pubblica sono all’ordine del giorno. In molti Paesi africani, questi leader – appoggiati dalle loro élites e dai loro pretoriani – trasformano lo Stato in una loro proprietà. Certo è che la "primavera araba" nel 2011 ha scosso tutto il continente perché a partire dagli eventi nel nord Africa molte porzioni della società civile africana hanno cominciato a vedere che il cambiamento era possibile e quindi hanno cominciato ad accrescere le proteste e le condanne nei confronti di questi regimi antidemocratici e autocratici.

D. – Pensando al 2011, è anche vero che la caduta di un dittatore, di un uomo forte – come nel caso di Gheddafi in Libia – può significare poi l’apertura di scenari altrettanto cruenti…

R. – Assolutamente sì, perché il problema è anche legato al fortissimo controllo che queste élites esercitano sulla popolazione: un controllo di polizia, politico, un controllo che spesso usa la violenza in maniera indiscriminata. Nel momento in cui la pietra angolare di questo sistema di potere viene via, lo Stato – che si basa sulle persone e non su strutture asettiche – inevitabilmente crolla.

D. – Forse, su tutte queste realtà si innestano poi pure interessi di grandi potenze estere…

R.  – L’Africa purtroppo, lo dico con grande dispiacere, non ha smesso di essere il continente depredato dalle ex potenze coloniali, che oggi continuano a seguire sia tramite i governi, sia tramite le multinazionali un approccio di tipo neocoloniale.

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Expo 2015. Presentata Carta di Milano: cibo, diritto per tutti

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Una piattaforma su cui confrontarsi, ma anche per impegnarsi attivamente nella lotta contro fame e sottosviluppo. E' la Carta di Milano, frutto del lavoro di 42 tavoli tematici dedicata a rappresentare l'eredità di Expo 2015. Questa mattina a Milano la presentazione. C'era per noi Fabio Brenna: 

Un documento di cittadinanza globale - come l’ha definita il sindaco di Milano Giuliano Pisapia - che dai cittadini alle associazioni, le imprese e le istituzioni potranno firmare ed ancora elaborare nei mesi dell’Esposizione Universale, prima che venga consegnata alle Nazioni Unite il prossimo 26 ottobre. Così l’ha definita il suo curatore, Salvatore Veca

“Siamo convinti e convinte che il diritto al cibo sia un diritto umano fondamentale e riteniamo che un mondo senza fame sia un mondo possibile. Ogni violazione di tale diritto fondamentale è una violazione della dignità umana, di chiunque, ovunque. Questo è il teorema fondamentale della Carta”.

Tradotta in 19 lingue, la Carta di Milano vuole tradurre in impegni concreti l'evento che verrà inaugurato il primo maggio, cercando di concretizzare il diritto per tutti dell’accesso al cibo. In questo potrebbe segnare il vero successo di Expo, come ha sottolineato il ministro italiano delle Politiche agricole, Maurizio Martina:

“Qui noi misuriamo l’ambizione politica di Expo e dell’Italia, perché la Carta è un formidabile strumento di diplomazia dell’Expo. C’è, secondo me, una caratteristica straordinaria, su cui abbiamo molto riflettuto in questi mesi: Expo è, di per se stesso, una piattaforma diplomatica formidabile”.

Diversi relatori hanno poi illustrato i contenuti e i destinatari della Carta di Milano, a partire dalla quale si è poi sviluppato l’incontro con studiosi e scienziati appartenenti al network internazionale che ha condotto le ricerche di Laboratorio Expo. Presentato in anteprima nazionale il cortometraggio “Il Pianeta che ci ospita” realizzato per Expo dal regista Ermanno Olmi.

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Centro Astalli: per l'Ue accogliere i rifugiati è un dovere

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Gli sforzi per scoraggiare il contrabbando di esseri umani nel Mediterraneo saranno vani se non si adotteranno misure per affrontare le politiche migratorie "eccessivamente restrittive" in Europa e le cause profonde del fenomeno. Lo affermano tra gli altri, in una dichiarazione congiunta resa nota oggi a Ginevra l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Antonio Guterres e il direttore generale dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), William Swing. La dichiarazione sottolinea come "la situazione odierna richieda misure che vanno oltre la sicurezza delle frontiere" e ne suggeriscono alcune quali l'elaborazione di politiche migratorie che rispondano alle vere esigenze del mercato del lavoro, un aumento dell'offerta di canali sicuri e regolari per l'ingresso e il rendere il sistema europeo comune di asilo più coeso e solidale tra Paesi dell'Ue.

La presenza di Ban Ki-moon sulla nave San Giusto è un segno importante: l’Italia non è più sola di fronte all’emergenza immigrazione, aveva dichiarato il premier italiano Matteo Renzi ieri sera. Per Renzi "fermare i trafficanti di esseri umani è una assoluta priorità e in questo è possibile contare sul sostegno delle Nazioni Unite". Da parte sua, il segretario generale dell’Onu ha assicurato la disponibilità a collaborare con l’Unione europea ma ha ribadito il dovere dell’Europa di aiutare chi scappa dalla propria terra. Occorre affrontare il problema alla radice, ha aggiunto, e trovare una soluzione politica per gli immigrati nel Mediterraneo in particolare in Libia. Al microfono di Adriana Masotti sentiamo Donatella Parisi, responsabile per le comunicazioni del Centro Astalli: 

R. – Il Centro Astalli segue - ovviamente - con attenzione e anche con preoccupazione tutto quanto sta accadendo dopo il terribile naufragio che ha visto la morte di 900 persone a Nord della Libia. E’ il momento di prendere provvedimenti, di fare in modo che queste stragi in mare non accadano più! Il Centro Astalli - in più occasioni – ha chiesto che vengano immediatamente attuate misure concrete e queste misure concrete oggettivamente non si vedono ancora all’orizzonte. Quello che noi chiediamo immediatamente è creare canali umanitari sicuri per permettere a chi scappa da guerre e persecuzioni di poter chiedere asilo in Europa, senza dover affidarsi a trafficanti senza scrupoli. E questo non c’è, né nell’agenda europea né si evince da quello che si riporta dell’incontro tra Ban Ki-moon e Renzi. La seconda cosa è che l’Europa si faccia protagonista del Mediterraneo, accolga i rifugiati secondo quote stabilite: al momento ci sono Paesi che accolgono ed altri che, invece, non si fanno carico delle crisi umanitarie che ci sono in questo momento nel mondo. Perché di questo si tratta: della crisi in Siria, dell’Africa sub-sahariana, che ha guerre civili terrificanti al proprio interno… e che l’Europa sembra non vedere! Hanno invocato l’aiuto delle Nazioni Unite. Chiaro, ciascuno deve fare la propria parte e allora chiediamo alle Nazioni Unite soluzioni praticabili affinché, in qualche modo, si spezzi questo monopolio assoluto che hanno i trafficanti riguardo al portare in sicurezza le persone.

D. – La difesa della vita delle persone che si trovano in mare: questo mi sembra quello che il segretario generale dell’Onu ha chiesto con insistenza. Fare di più per salvare queste vite…

R. – Sì. Ed è una richiesta in linea con quello che molte Ong internazionali, tra cui il Centro Astalli, hanno fatto in più sedi. Quello che chiedevano all’Europa non era tanto di rafforzare “Triton”, che è una operazione di controllo delle frontiere: noi chiedevamo un ripristino di “Mare Nostrum”, che “Mare Nostrum” diventasse l’operazione europea, un’operazione di soccorso e di salvataggio di vite umane in mare. Non doveva essere la soluzione definitiva, ma doveva essere una soluzione temporanea finché non si stabilissero dei modi sicuri e legali per consentire alle persone che scappano dalla guerra di arrivare in Europa senza essere costretti a pagare dei trafficanti.

D. – L’altra questione, però, è la lotta - appunto - al traffico, a chi specula su questi viaggi. E Ban Ki-moon ha detto “No al bombardamento dei barconi”…

R. – Il bombardamento dei barconi per noi non è una soluzione praticabile. E quindi siamo assolutamente in linea con Ban Ki-moon! Bombardare le navi non vuol dire risolvere il problema: vuol dire solo mettere i trafficanti in condizioni di trovare altre soluzioni. Tra l’altro il traffico non è solo via mare: noi vediamo anche rifugiati che arrivano in aereo, con documenti falsi, con viaggi organizzati dai trafficanti… Le carrette - diciamo - sono la punta piccolissima di un iceberg molto più grande e complesso.

D. – Qualcuno dice però che rafforzare e aumentare l’accoglienza non fa altro che incentivare gli arrivi…

R. – Il problema dei trafficanti non è collegato all’accoglienza: l’accoglienza dei rifugiati è un dovere dell’Unione Europea, che ha firmato trattati internazionali. Si parla di 200 mila persone su un continente che conta centinaia di milioni di abitanti, quindi un numero assolutamente gestibile se ci fosse la volontà. Sono persone che non scelgono di partire: le statistiche delle Nazioni Unite ci dicono che su quelle carrette non c’è una prevalenza di migranti economici, ma ci sono migranti forzati. Sono costretti ad andare via dalla propria casa, perché va in fiamme, perché sparano, perché ci sono le bombe… E non è certo il deterrente che può mettere in atto l’Unione Europea che li fermerà! Come ha detto un rifugiato in un incontro organizzato dal Centro Astalli: “Tra la certezza di morire nel mio Paese e il rischio di morire in mare, comunque devo scegliere il rischio”.

D. – Insomma bisognerebbe andare alle cause, al perché di queste traversate…

R. – Esatto!

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Divorzio breve. Diotallevi: società si congeda da matrimonio

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"Il divorzio breve è l’ultimo di una serie di provvedimenti legislativi che rendono più semplice porre fine ad un matrimonio". Così il sociologo Luca Diotallevi in un editoriale pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera. "Il largo consenso e le timide critiche - scrive - fanno apparire fuori luogo ogni polemica.In questi ultimi mesi la politica ha dato il proprio contributo al congedo che la nostra società sta prendendo dal matrimonio, sempre più visto come affare privato". Ora che il divorzio breve è legge, quali effetti avrà sulla società? Il parere dello stesso Diotallevi, intervistato da Fabio Colagrande

R. – Sarà una società un po’ più povera: nella società restano solo i soldi dell’economia e la forza di una legge. Scompare il diritto, scompare l’amore: il matrimonio dà luogo a una relazione pubblica e importante e questo significa che la politica, la religione, l’economia devono fare un passo indietro di fronte a questa volontà.I poteri fanno fatica a fare passi indietro rispetto a istituzioni che non controllano. Il matrimonio è una grande libertà dell’amore nella società.

D. – Un’altra coincidenza che lei ha notato è che questa scelta legislativa avviene in un momento in cui il matrimonio non pretende più di essere l’unica istituzione all’interno della quale è lecito praticare l’amore, la sessualità o procreare…

R. – E questo è il sospetto: perché attaccare il matrimonio? Dà l’idea che nel matrimonio c’è qualcosa che disturba…

D. – E forse in molti dimenticano che l’art. 29 della Costituzione stabilisce l’altro che l’amore tra un uomo e una donna è capace di alimentare eguaglianza giuridica e morale tra i due…

R. – E certo. E questa cosa ti colpisce perché il verbo che utilizza la nostra Costituzione – quindi, non un documento confessionale, ma un documento condiviso dalla gran parte del popolo italiano nel ’46 e formalmente tuttora – è il verbo “riconoscere”. Cioè, lo Stato si rende conto che di fronte ad alcuni fenomeni sociali, per esempio all’amore di un uomo e di una donna che assumono certi impegni e certi doveri, non è che lo Stato “fonda” o “consente”, ma “riconosce”, riconosce che è un diritto che precede il costituirsi dello Stato. Questo fa della nostra una Repubblica e non uno Stato totalitario. Venir meno a questa capacità di riconoscere significa che anche la nostra politica è un pochino più pericolosa.

D. – E che possono anche svilupparsi modelli di famiglia diversi in cui non c’è più anche questa “eguaglianza giuridica e morale”…

R. – Non ogni modello familiare è equivalente. Dove non c’è la parità tra uomo e donna, dove non c’è a fondamento l’amore, la famiglia assume schemi che noi, duemila anni fa, abbiamo incominciato a rompere: la famiglia dei primi cristiani non era la famiglia di cui noi vediamo le tracce quando visitiamo Pompei, un impero al centro del quale c’era il maschio e al piano basso del quale c'erano sono le donne, i figli e gli schiavi.

D. – Si parla già di un disegno di legge che introdurrebbe anche in Italia – perché c’è in altri Paesi – l’istituzione dei “contratti prematrimoniali”, cioè ci si mette d’accordo prima per come eventualmente gestire la patrimonialità in caso di una separazione. Questo, cosa le fa pensare?

R. – Quello che si cerca non è il legittimo regolare i rapporti tra due individui, ma è il fatto di ridurre il matrimonio a un contratto. Si lasci libero chi vuole fare un matrimonio, di immaginare un’avventura senza limiti dalla quale – come noi sappiamo – è anche possibile uscire. Ma un ulteriore condizionamento a priori del matrimonio dà l’idea che si perda il senso della specificità di questa relazione. Attenzione: come credenti, se vogliamo, nessuno ci impedirà di viverlo. Naturalmente, sarà più impegnativo perchè in un contesto che meno lo protegge.

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Bologna: Libera e Cnr uniti nella lotta all'illegalità

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Sulla scia della XX Giornata della memoria delle vittime innocenti delle mafie, tenutasi a Bologna il 21 Marzo scorso, il mondo della ricerca incontra oggi Don Luigi Ciotti, Presidente di Libera, presso l'area Ricerca Cnr per discutere di un progetto di lavoro comune nell'ambito dello sviluppo sociale. Questa collaborazione nasce per denunciare l'illegalità e le contaminazioni mafiose su tutto il territorio italiano. Claudia Minici ha intervistato Giorgio Lulli, ricercatore presso il Cnr: 

R. – L’incontro avviene dopo che qui a Bologna c’è stata la Giornata del ventennale di “Libera” in memoria delle vittime della mafia, e quindi in quell’occasione come ricercatori, come mondo della ricerca, ci siamo anche posti il problema di capire se potevamo dare un contributo a questo processo di cui “Libera” è un po’ un esempio nel nostro Paese. Noi, come ricercatori siamo impegnati in attività che sempre più cercano di dare risposte ad alcune sfide che il futuro e anche il presente ci pongono, come la sfida ambientale, per esempio. E crediamo che appunto questi temi in qualche modo convergano con il modello di società che in un certo senso “Libera” si impegna a promuovere. Noi vogliamo intanto incontrarci per conoscerci meglio e poi vedere, sulla base del dibattito e degli spunti che verranno fuori, provare anche a stabilire delle forme di collaborazione in cui soggetti di entrambe le parti possano in qualche modo scambiare le proprie esperienze in modo utile per entrambe le parti. Quello di oggi è il primo passo.

D. – E’ la prima volta che “Libera” incontra il Cnr?

R. – Oggi qui, a Bologna, abbiamo voluto in qualche modo essere un’esperienza di traino, se così si può dire, per la realtà nazionale. Il Cnr è tutto; si aspetta che possa partire un discorso di collaborazione. Per quanto riguarda la ricerca pubblica, in particolare il Cnr – che è il più grosso ente di ricerca pubblico italiano – penso che questa sia la prima volta che ci sarà un incontro del genere.

D. – Si cerca una presa di coscienza maggiore?

R. – Certo, perché le cronache dimostrano che nessun territorio è immune dalle contaminazioni della malavita organizzata e mafiosa. E quindi anche noi che ci muoviamo su un territorio che apparentemente presenta meno problemi di quelli che sono più conosciuti come territori in cui la mafia, in particolare, domina, però abbiamo avuto anche qui problemi di questo tipo; come cittadini, ancora prima che come ricercatori, siamo interessati e simpatizziamo con “Libera” come associazione. In più, ci sono pure degli aspetti specifici – e noi lo mettiamo in rilievo – anche nell’ambito della nostra realtà quotidiana, di ricercatori che appartengono all’ambito della ricerca pubblica: problemi di legalità esistono! Si manifesta con forme di ingiustizia nell’assegnazione delle carriere che non sono sempre meritocratiche, oppure nella gestione dei finanziamenti, che non ha sempre una trasparenza cristallina … Ci poniamo anche il problema di essere più responsabili, consapevoli che il funzionamento, anche dal punto di vista etico, di queste istituzioni, sia sempre più trasparente e sempre più improntato ai principi che ispirano l’azione di “Libera”.

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Donne protagoniste nella Chiesa, convegno all'Antonianum

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Riflettere sul contributo sempre maggiore che le donne possono dare alla Chiesa, analizzando i modelli del passato per guardare alle sfide di oggi. Se n’è discusso presso la Pontificia Università Antoinianum di Roma, nel corso di un convegno organizzato in collaborazione con l’ambasciata cilena presso la Santa Sede. C’era per noi Elvira Ragosta

Negli ultimi anni l’attenzione riservata al ruolo delle donne nella Chiesa è aumentata sempre di più, sollecitando una riflessione, anche alla luce delle parole di Papa Francesco sulla necessità di offrire loro nuovi spazi. La riflessione di suor Mary Melone, rettore dell’Antonianum e prima donna a ricoprire il ruolo di rettore di un’università pontificia:

R. – Le donne sono la Chiesa, le donne operano nella Chiesa, le donne costruiscono la Chiesa da sempre. E’ ovvio che, come dice il Papa, noi dobbiamo ripensare a ruoli che siano più adatti alla società contemporanea, che riescano a consentire alle donne un apporto che sia adeguato alla loro sensibilità, ma soprattutto che sia adeguato alla ricchezza del loro essere, questo sì.

D. – Lei è il primo rettore donna di un’Università pontificia. Quali, secondo lei, possono essere gli spazi di apertura per le donne?

R. – Io penso che questo aspetto sia un po’ complesso, nel senso che si rischierebbe di intendere la riflessione sul ruolo della donna solo in chiave funzionale, solo in chiave di ruoli da occupare, da ricoprire. Sicuramente è necessario che si aprano nuove possibilità per nuovi ruoli, quindi per un inserimento più significativo della donna nella Chiesa. Penso, però, che il tema vada affrontato in maniera più complessa, più generale: che si riconosca alle donne la possibilità di un apporto costruttivo alla Chiesa come spazio di comunione. Certamente, ci sono anche dei ruoli di responsabilità - e su questo il Santo Padre penso sia intervenuto più volte con molta chiarezza - che possono essere affidati alle donne, senza il peso di un passato di pregiudizio e di sospetti.

Sui modelli del passato e sul binomio subordinazione/equivalenza l’intervento della prof.ssa Cettina Militello, della Pontifica facoltà teologica Marianum, che sulle sfide di oggi, nel villaggio globale che non pone più l’Europa al centro del Mondo, vede la necessità per le donne cristiane di promuovere il dialogo interculturale:

R. – Quello che sicuramente è importante è capire che l’umanità va avanti nella interazione, nel dialogo, nella reciprocità di maschile e femminile, secondo le forme che la cultura man mano supporta o secondo le forme che la cultura può mostrare in evoluzione. Io posso partire da un contesto di subordinazione e se mi è culturalmente congeniale orientarlo verso un riequilibrio. Tra l’altro, io credo che le matrici ancestrali, quelle arcaiche nel senso principiale, dicono l’uomo e la donna affianco. Se noi guardiamo lo spaccato, al di là delle nostre codificazioni ideologiche, di fatto abbiamo uomini e donne accomunati dalla cura parentale, accomunati dalla fatica del lavoro, accomunati nel tramandare la cultura e la tradizione. E allora puntiamo su quello che accomuna e che può essere meglio sviluppato, nel rispetto – ripeto – di ciò che è proprio a ciascuno.  

Nel suo intervento il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel ricordare l’importanza dell’analisi storica e critica sul ruolo della donna nella Chiesa, ha esortato a guardare al futuro tralasciando l’approccio funzionale e affrontando il tema come antropologico, coinvolgente cioè sia uomini che donne. E sull’importanza dell’iniziativa abbiamo raccolto il commento dell’ambasciatrice cilena presso la Santa Sede, Monica Jiménez de la Jara:

R. – Es una invitation a que hombres y mujer nos sentemos a dialogar sobre …
E’ un invito affinché gli uomini e le donne si siedano a dialogare riguardo alla nostra reciprocità. Solo insieme, uomini e donne, possiamo costruire la Chiesa, possiamo costruire il mondo: non gli uomini soli, non le donne sole. Uomini e donne, dividendoci le responsabilità nella Chiesa e nella società.

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Film su Cambogia e Corea protagonisti al Festival Far East di Udine

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Al Far East Festival di Udine due film toccanti riflettono sulla storia dei rispettivi paesi: Cambogia e Corea del Sud. Per riconciliarsi con un doloroso passato, che ha segnato drammaticamente la vita di questi popoli e che oggi ancora preme sul presente. Il servizio di Luca Pellegrini

Anche nella solidità di economie ruggenti o nella pax sociale ritrovata, possono far breccia fantasmi del passato e paure del presente. Due Paesi cercano la strada della riconciliazione al Far East Film Festival: la Corea del Sud e la Cambogia, con un debutto estremamente interessante. Sotho Kulikar è nata nel 1973 e cresciuta subendo gli anni spaventosi della dittatura dei khmer rossi. Ha perso in quel periodo il padre e proprio a lui ha dedicato la sua opera prima come regista, "The last reel - L'ultimo rullo". Sophoun e Veasna sono due ragazzi che flirtano in un luccicante parco giochi di Phnom Penh e poco sanno di quanto abbiano sofferto i loro connazionali. Ma alla ragazza accade qualcosa di straordinario: entra in un cinema mentre stanno proiettando, in una sala vuota, una vecchia pellicola, "La lunga strada verso casa", che però si interrompe, mancando appunto l'ultimo rullo. Scopre che ne è protagonista la madre, una star in ascesa che la rivoluzione deportò nei campi di lavoro. Da lì i legami familiari della ragazza svelano segreti e tradimenti, un melodramma familiare e storico che ha una sua originalità, perché è proprio attraverso una riflessione del cinema sul cinema, in una memoria collettiva di immagini e volti, che si fanno strada la verità e la denuncia. Un film dedicato ai registi e agli attori scomparsi, parte di quel milione e ottocentomila cambogiani sterminati dalla follia del regime che non risparmiò nessuna espressione culturale - oggi in Mesopotamia assistiamo ad analoghe scene di devastazione - e il cinema stesso: furono chiuse o bruciate tutte le sale, mentre dei 300 film prodotti prima dell'avvento dei khmer rossi se ne sono salvati appena trenta.

Anche la Corea fa un balzo indietro, negli anni segnati dalla guerra che ha portato alla divisione tra il Nord e il Sud. Duk-soo, il protagonista di "Ode a mio padre" del regista JK Youn, è un uomo che si è speso in tutto per la famiglia, nel ricordo del padre, perso nel drammatico giorno in cui la sua città natale, Hungnam, cadde nelle mani dell'esercito cinese. Nevicava, era il dicembre del 1950. Popolazione in fuga, esodo di massa, panico e morti. Anche la sorellina, prendendo d'assalto una nave americana, cade nei flutti. Il film racconta dell'infanzia affamata di Duk-soo, poi minatore in Germania negli anni '60, soldato in Vietnam, infine commerciante a Busan e nonno tormentato dal rimorso ai giorni nostri. Sempre nel ricordo di quella separazione e dell'attesa. Ma in un orizzonte nel quale il regista non risparmia di denunciare le ferite ancora aperte createsi all'indomani dell'armistizio del '53, con una guerra mai ufficialmente chiusa. E che le famiglie coreane subiscono, senza poter ancora intravederne una cura e la fine.

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Nella Chiesa e nel mondo



Yemen: scontri ad Aden. Migliaia di sfollati in fuga

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Proseguono a Aden nel sud dello Yemen i combattimenti tra ribelli houthi e militari dell’esercito rimasti fedeli al presidente Abd al Rabbo Mansur Hadi. Lo riferiscono fonti concordanti secondo cui negli scontri sarebbero morte almeno 20 persone tra cui dei civili. Sulla capitale Sana’a intanto, nelle mani dei ribelli dallo scorso settembre, continuano i bombardamenti della coalizione internazionale a guida saudita che nelle ultime ore - riferisce l'agenzia Misna - avrebbero colpito una base militare utilizzata talvolta dalla guardia repubblicana dell’ex Presidente Ali Abdallah Saleh.

Raid sulle postazioni dei ribelli
​Aerei da combattimento avrebbero bombardato inoltre postazioni dei ribelli nelle provincie di Mareb, Hodeida e Taez, dove sono segnalati anche scontri a fuoco. Il portavoce delle forze armate ribelli, Sharaf Luqman ha accusato l’Arabia Saudita di “crimini di guerra” e di aver inaugurato “una nuova fase dell’offensiva invece di fermarla”, come annunciato da Riad la scorsa settimana.

Sono già 150mila i civili sfollati a causa delle violenze nel Paese
Intanto, sul piano umanitario, la crisi si aggrava e secondo gli ultimi dati Onu sono già più di 150.000 i civili sfollati a causa delle violenze nel Paese. “È così difficile muoversi con 6 bambini, continuiamo a spostarci da una casa famiglia all’altra, il nostro appartamento è stato completamente distrutto” racconta uno sfollato di Sana’a al quotidiano Yemen Times: “Immaginate la vostra casa - l’unico posto in cui ci si sente al sicuro - che è andata distrutta. Ogni cosa, per cui si è lavorato duramente per comprarla, è andata persa”. (A.d.L.)

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Onu: Israele è responsabile degli attacchi su scuole di Gaza

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L’esercito israeliano è responsabile di sette attacchi contro altrettante scuole dell’Onu durante l’offensiva militare sulla Striscia di Gaza nell’estate 2014: a puntare il dito contro i militari è un’inchiesta delle Nazioni Unite presentata al Consiglio di Sicurezza secondo cui in quegli stessi attacchi hanno perso la vita 44 persone e altre 227 sono rimaste ferite. La commissione, guidata dall’olandese Patrik Cammaert - riferisce l'agenzia Misna - ritiene possibile che combattenti palestinesi abbiano utilizzato le scuole dell’Unrwa per lanciare razzi o missili in direzione di Israele, ma non riporta testimonianze o prove in tal senso.

L'operazione israeliana ha causato tra i palestinesi 2mila morti e 8mila feriti
​L’offensiva ‘Margine di protezione’ sferrata dall’esercito israeliano su Gaza ha causato, tra l’8 luglio e il 26 agosto 2014, oltre 2mila morti e 8mila feriti tra i palestinesi. Nelle violenze hanno perso la vita anche 64 soldati israeliani, cinque civili israeliani e un cittadino thailandese. Oltre 20.000 abitazioni sono state distrutte o rese inagibili e 10.600 abitanti di Gaza sono rimasti senza casa. Le Nazioni Unite hanno stimato che il 71% dei morti a Gaza sono civili, quasi la metà di loro donne e bambini. (A.d.L.)

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Card. Koch: occorre documento cattolico-luterano su Chiesa e ministeri

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“Una commemorazione comune della Riforma nel 2017 sarà una buona opportunità se quell’anno non sarà la conclusione, ma un nuovo inizio negli sforzi per la piena comunione tra le Chiese e le comunità ecclesiali”. Così il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che da domenica si trova in Finlandia, intervenendo all’Assemblea di primavera del Concilio ecumenico delle Chiese finlandesi sul tema “L’anniversario della riforma come opportunità ecumenica”.

Cattolici e luterani chiamati a concentrarsi su questione di Dio e centralità di Cristo
“Pentimento, gratitudine e speranza” devono essere gli atteggiamenti del percorso ecumenico comune in occasione dei 500 anni della Riforma, ha sottolineato il cardinale, sollecitando “cattolici e luterani a concentrarsi oggi in modo collaborativo sulla questione di Dio e sulla centralità di Cristo”: così la commemorazione della Riforma potrà animare la consapevolezza che il cammino delle Chiese è “verso la comunione visibile”.

Opportuno un documento cattolico-luterano su Chiesa, eucarestia e ministeri
Strumento importante potrà essere “un nuovo documento cattolico-luterano sulla Chiesa, l’eucarestia e ministeri”, a cui lavorare nello spirito del documento congiunto del 1999 sul tema della giustificazione. Oggi il card. Koch incontra gli studenti della facoltà di teologia dell’università di Helsinki. La visita in Finlandia del porporato prevede una celebrazione nella cattedrale di Helsinki e l’incontro con il Presidente della Repubblica Sauli Niinistö. (R.P.)

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Egitto: copti del Sinai minacciati da gruppi jihadisti

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I cristiani copti devono lasciare le proprie case e abbandonare la penisola del Sinai se non vogliono morire per i prossimi attacchi mirati che i gruppi jihadisti operanti nella Penisola si apprestano a compiere contro di loro. La minaccia, diretta e selettiva, è stata diffusa attraverso i social network da militanti delle sigle jihadiste più radicate in quella parte dell'Egitto, come il gruppo Ansar Beit al-Maqdis. Nei loro messaggi minatori – così riferiscono fonti locali consultate dall'agenzia Fides - i jihadisti dichiarano esplicitamente che i copti rappresentano un obiettivo mirato delle loro violenze anche in ragione del loro sostegno al Presidente Abdel Fattah al-Sisi, e quindi per il loro non marginale contributo al consenso di cui gode l'attuale uomo forte dell'Egitto.

Chiesta protezione di chiese e comunità cristiane al Presidente al-Sisi 
Organizzazioni sociali copte come quella che fa capo ad Abanoub Gerges hanno denunciato la gravità delle nuove minacce terroristiche, chiedendo al Presidente al-Sisi di prenderle sul serio e di aumentare le misure di protezione per le chiese e le comunità cristiane presenti nel Sinai. Intanto gli uomini di al Tarabin, la tribù beduina più importante nel Sinai, alcuni giorni fa hanno reso pubblica la loro intenzione di combattere anche con le armi i gruppi jihadisti operanti nella Penisola per fermare le loro violenze sui civili, la loro propaganda tesa a diffondere un “falso messaggio sull'islam” e il loro disegno di trasformare quel territorio in un campo di battaglia. 

Minacce per creare caos ed odio settario nel Paese
​Secondo analisti locali, gli attacchi annunciati ai copti rispondono al disegno di fomentare l'odio settario per mettere in crisi l'unità della compagine nazionale e far precipitare il Paese nel caos, dopo che a questo scopo non sono serviti i ripetuti attacchi alle forze di polizia e ai militari dislocati nell'area. (G.V.)

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Cile: sciopero della fame ex prigionieri politici, in cattedrale

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Da venerdì 24 aprile nove ex prigionieri politici della regione cilena di Biobío si trovano all'interno della cattedrale di Concepción in sciopero della fame. I manifestanti rappresentano migliaia di ex prigionieri politici che attraverso una campagna nazionale chiedono al governo di migliorare le loro pensioni e di promulgare la legge di compensazione. I gruppi hanno espresso le loro richieste fin dal 13 aprile, e oggi sono in programma diverse manifestazioni in tutto il Paese.

La Chiesa non chiederà lo sgombero ed è pronta a mediare
Secondo quanto riferisce l'agenzia Fides, domenica scorsa l'arcivescovo di Concepción, mons. Fernando Chomalí, ha detto chiaramente che non chiederà lo sgombero dei manifestanti e si impegnerà a mediare per una soluzione rapida della vicenda. Il portavoce degli ex detenuti mobilitati, Luis Moreno, ha informato che sabato scorso si erano incontrati con l’arcivescovo, esprimendogli le loro esigenze e non escludendo di "radicalizzare" le loro azioni di protesta.

Il governo sembra indifferente al problema
La situazione nel Paese è diventata molto tesa per l'indifferenza del governo alle esigenze manifestate da queste persone. Ieri uno dei senatori, Alejandro Navarro, ha accusato la Presidente Bachelet sui media, affermando: "Non è possibile che questo accada con il governo della Presidente Bachelet, ex prigioniera politica. Il governo deve rispondere a questa gente e alle promesse fatte prima, durante la campagna elettorale". (C.E.)

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Argentina: messaggio vescovi su martirio e persecuzione oggi

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A conclusione dell’Assemblea plenaria tenutasi a Pilar, i vescovi argentini hanno presentato il messaggio “Martirio e persecuzione nei giorni attuali”, nel quale rivelano la loro preoccupazione per la violazione del diritto alla libertà religiosa. Nel documento - riferisce l'agenzia Sir - i presuli invitano a chiedere perdono e a pregare per un cambiamento del cuore di quelli che offendono il Signore causando un dolore così grande, esortando a ricordare quest’intenzione il prossimo 8 maggio, nella solennità della Vergine di Luján. Nelle ultime ore dell’Assemblea è stata approvata inoltre la convocazione per l’11° Congresso eucaristico nazionale che si terrà nella città di San Miguel di Tucumán dal 16 al 19 giugno 2016, sotto il motto di “Gesù Cristo, Signore della storia, abbiamo bisogno di Te” e “Gesù Cristo, pane di vita e comunione per il nostro popolo”. 

Gioia dei vescovi per la beatificazione di mons. Romero
​È stata firmata anche una lettera indirizzata alla Conferenza episcopale di El Salvador nella quale i vescovi argentini esprimono la loro gioia per la beatificazione dell’arcivescovo di San Salvador, Óscar Arnulfo Romero, assassinato nel 1980. Annunciata, infine, anche una Messa in memoria di mons. Romero, che sarà celebrata il 23 maggio nella cattedrale di Buenos Aires e presieduta dal cardinale Mario Poli. (R.P.)

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Congo: conclusa Plenaria dei vescovi sul tema della famiglia

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Hanno discusso soprattutto della famiglia, delle sue problematiche e del prossimo Sinodo di ottobre i vescovi della Repubblica del Congo alla 43.ma Assemblea plenaria che si è conclusa a Brazzaville con una Messa nella basilica di Sant’Anna.

Occorre riflettere sui mali che minacciano la famiglia congolese
L’assemblea è stata aperta il 20 aprile al Centro interdiocesano delle Opere sul tema “La famiglia congolese oggi: identità, impegno nella Chiesa e nella società” e vi ha preso parte anche il nunzio apostolico mons. Jan Romeo Pawlowski che ha ricordato i Sinodi che hanno toccato l’argomento famiglia, ha sottolineato la necessità di riflettere sui mali che minacciano la famiglia congolese ed ha parlato dell’ormai prossima visita ad limina.

Una pastorale familiare dinamica per sostenere le famiglie nel loro ruolo
Nel corso dei lavori, riferisce il portale La semaine africaine, mons. Louis Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, e presidente della Conferenza episcopale congolese, ha evidenziato la necessità di una pastorale familiare dinamica e conseguente, perché le famiglie possano svolgere pienamente il loro ruolo, mentre il Consiglio nazionale dell’apostolato dei laici ha chiesto ai presuli uno sguardo retrospettivo sulla famiglia, cellula fondamentale per l’intero sviluppo della società. All’ordine del giorno dell’assise anche la pace, la povertà e i mali che ostacolano lo sviluppo del Paese. (T.C.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 118

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.