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Sommario del 08/04/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Francesco: bambini che soffrono, "grido che sale a Dio"

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“La passione dei bambini, rifiutati, abbandonati, derubati del loro futuro è un grido che sale a Dio e che accusa il sistema che abbiamo costruito”. E’ un forte appello alla responsabilità delle persone e dei Paesi nei confronti dei piccoli sofferenti, il filo conduttore della catechesi del Papa oggi all’udienza generale. Davanti a migliaia di fedeli in una Piazza San Pietro assolata, Francesco ripete “con i bambini non si scherza! Nessun sacrificio sarà troppo grande pur di evitare di farli sentire uno sbaglio”. Il servizio di Gabriella Ceraso

Torna sulla catechesi dedicata alla famiglia il Papa in questo luminoso mercoledì di Pasqua per completare la riflessione sui bambini, visti quest’oggi col volto della sofferenza. “Storie di Passione” le chiama Francesco: piccoli rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro o, nei Paesi ricchi, vittime di crisi familiari, di vuoti educativi e condizioni di vita disumane:

“Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo. Questo è vergognoso! Non scarichiamo sui bambini le nostre colpe, per favore! I bambini non sono mai “un errore”.

Un sistema sbagliato
In queste situazioni hanno bisogno semmai di più amore, prosegue il Papa, ribadendo più di una volta le responsabilità singole e collettive degli adulti nei drammi dei più piccoli:

“Ogni bambino emarginato, abbandonato, che vive per strada mendicando e con ogni genere di espedienti, senza scuola, senza cure mediche, è un grido che sale a Dio e che accusa il sistema che noi adulti abbiamo costruito”.

Dio non dimentica nessuna lacrima
“Il Padre non dimentica nessuna lacrima come neppure la responsabilità sociale delle persone e dei Paesi va perduta”, sottolinea ancora Francesco. E responsabilità sociale significa, spiega il Pontefice, non nascondersi dietro “difese legali d’ufficio” - del tipo 'non possiamo farci nulla', oppure 'non siamo un ente di beneficenza'" - come anche accompagnare le fatiche dei genitori che generosamente accolgono bambini con gravi difficoltà:

“E’ vero che grazie a Dio i bambini con gravi difficoltà trovano molto spesso genitori straordinari, pronti ad ogni sacrificio e ad ogni generosità. Ma questi genitori non dovrebbero essere lasciati soli! Dovremmo accompagnare la loro fatica, ma anche offrire loro momenti di gioia condivisa e di allegria spensierata, perché non siano presi solo dalla routine terapeutica”.

Nessun bambino "è un errore"
Voce della Chiesa di oggi, il Papa offre dunque tenerezza materna e benedizione di Dio per genitori e figli, ma anche condanna e rimprovero fermo, perché, dice, ”con i bambini non si scherza!”. Infine, Francesco consegna alle migliaia di fedeli che lo ascoltano, l’immagine di una società ideale che troverebbe misericordia anche nel giudizio divino, se stabilisse un principio di fondo:

“E’ vero che non siamo perfetti e che facciamo molti errori. Ma quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini”. Che bella sarebbe una società così! Io dico che a questa società, molto sarebbe perdonato, dei suoi innumerevoli errori. Molto, davvero”.

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P. Chiera: ascoltare il Papa in favore dei bimbi che soffrono

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Nella catechesi del mercoledì, il Papa si è dunque soffermato sulla condizione di tanti bambini che soffrono per colpa degli adulti. Parole che hanno particolarmente toccato padre Renato Chiera, da quasi 40 anni al fianco dei meninos de rua brasiliani, presente in Piazza San Pietro e che, alla fine dell’udienza generale, ha potuto incontrare Papa Francesco. Alessandro Gisotti ha intervistato il missionario, fondatore della “Casa do Menor” di Rio de Janeiro: 

R. – Mi è venuta la pelle d’oca e un’emozione fortissima e ho detto: “Grazie, Dio, perché tu attraverso il Papa stai dicendo quello che l’umanità ha bisogno di sentire, quello che l’Europa ha bisogno di sentire, quello che il Brasile ha bisogno di sentire”. Quando ha parlato della “passione”, ecco, io ho detto: “Questa è la nostra vocazione”. Perché da quando sono in Brasile io ho sentito questa chiamata di Dio a entrare nelle piaghe dell’umanità, nelle ferite, ma soprattutto nelle ferite di questi bambini non amati. Il grande dramma di questi bambini è non essere amati, non è essere poveri. La grande tragedia non è essere poveri, è non essere figli: per i bambini diamo tante cose e dimentichiamo di dare l’amore e la presenza.

D. – Il Papa ha detto: “E’ una vergogna che si dica che un bambino è un errore". In realtà i bambini pagano gli errori degli adulti…

R. – Noi criminalizziamo i ragazzi, i bambini, per crimini che noi facciamo. Poi, sono loro che devono morire. E io vorrei fare un appello anche all’Europa, all’Italia. Io vedo che in Italia si ha molta paura, ci si sta chiudendo in un egoismo che è sterile. Ecco, aprirsi, i bambini sono un dono. Dire che un bambino è stato uno sbaglio è un orrore. Qui, in Europa, li uccidono prima che nascano, in Brasile anche e poi li uccidiamo anche dopo, perché i bambini non sono più un dono, sono diventati una minaccia. Questo è l’assurdo dell’umanità.

D. – Papa Francesco alzando lo sguardo dal testo ha anche detto a un certo punto: “Con i bambini non si scherza”…

R. – I bambini non sono un giocattolo, perché noi molte volte facciamo dei bambini dei giocattoli nelle nostre mani. Li vogliamo per noi, non per loro. E noi stiamo scherzando ma stiamo scherzando in una forma tragica con i bambini. Loro ti guardano e vogliono vivere e hanno speranza e ce la danno. Un’umanità senza bambini è un’umanità senza futuro.

D. – Alla fine dell’udienza generale, lei ha potuto parlare con Papa Francesco e accanto a lei c’era anche un bambino, Michael, di 9 anni. Un’esperienza forte, immagino…

R. – E’ proprio Dio che ci ha amati. Quando è passato vicino a noi, lui si è fermato, gli abbiamo dato i libri. Allora, lui si è informato della "Casa do Menor". Al bambino, a Mike, gli ha detto: "Ti faccio una domanda: 'E’ migliore Maradona o è migliore Pelé?'". E lui è stato un po’ lì, perché lui è piccolino, e dice: “E’ migliore Neymar!”. E allora lui ha riso, tutti hanno riso... E lui mi dice: “Fai pregare i bambini per me; pregate e fate pregare i vostri bambini per me”. E ho sentito la conferma della Chiesa. Il nostro lavoro è una missione, una missione che Dio ci ha dato e che ci conferma attraverso la Chiesa.

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Rinuncia episcopale in Messico

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In Messico, Papa Francesco ha accettato la rinuncia all’ufficio di ausiliare dell’arcidiocesi di Morelia, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Octavio Villegas Aguilar.

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Morto il card. Turcotte di Montreal. Papa: un pastore zelante

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“Un pastore zelante e attento alle sfide della Chiesa contemporanea”. Papa Francesco ricorda così, in un telegramma di cordoglio, la figura del cardinale Jean-Claude Turcotte, spentosi oggi a Montreal – città della quale era arcivescovo emerito – all’età di 78 anni. Il Papa ne ricorda gli anni di intensa attività come presidente della Conferenza episcopale canadese e come padre sinodale all’assise del ‘94 dedicata alla vita consacrata e del ‘97 sulla Chiesa in America.

Di Montréal il porporato era originario, vi era nato il 26 giugno 1936. Ha svolto gli studi classici al Collegio André-Grasset (1947-1955). Dopo l’ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1959, svolge alcuni incarichi nella sua diocesi per poi recarsi in Francia, agli inizi degli anni Sessanta, per proseguire gli studi presso l’Università cattolica di Lille, ottenendo il diploma in Pastorale sociale. Dopo anni di servizio pastorale, nel settembre 1981, viene nominato vicario generale della diocesi e coordinatore generale della pastorale. L’anno successivo, in aprile, Giovanni Paolo II lo nomina ausiliare dell'arcivescovo di Montréal e riceve l'ordinazione episcopale il 29 giugno 1982.

È delegato dei vescovi del Québec presso il Governo provinciale in occasione della visita pastorale di Papa Wojtyla in Canada nel settembre 1984 e incaricato del coordinamento della visita nella diocesi di Montréal. Quindi, il 17 marzo 1990 Giovanni Paolo II lo promuove ad arcivescovo di Montréal.

Nel 1994, come ricordato da Papa Francesco, partecipa al Sinodo dei Vescovi su “La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo”, e all’Assemblea speciale per l’America del Sinodo dei Vescovi del 1997, nella quale ricopre le funzioni di presidente della Commissione per il Messaggio.

Dal 1997 al 2000 è a capo della Conferenza Episcopale del Canada. In precedenza nel Concistoro del 26 novembre 1994, Giovanni Paolo II lo crea e pubblica cardinale, del Titolo di Nostra Signora del SS. Sacramento e Santi Martiri Canadesi.

Con la morte del cardinale Turcotte il collegio cardinalizio risulta adesso costituito da 225 cardinali, di cui 122 elettori e 103 non elettori.

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Card. Filoni: pellegrino tra le sofferenze dei cristiani iracheni

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Il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, il cardinale Fernando Filoni è rientrato in Vaticano dall’Iraq, dove ha vissuto il periodo di Pasqua con i rifugiati iracheni del Kurdistan, portando loro, la vicinanza e la solidarietà di Papa Francesco. Ieri sera il porporato ha incontrato il Papa al quale ha illustrato i momenti salienti della sua missione e le difficoltà dei tanti cristiani che hanno dovuto lasciare le proprie case nelle zone occupate dai jihadisti. Roberto Piermarini ha chiesto al card. Filoni cosa ha più colpito il Papa del resoconto della sua missione in Iraq: 

R. – Direi prima di tutto il fatto che io ho qualificato questa visita in Iraq come “un pellegrinaggio”. E naturalmente questo pellegrinaggio si è svolto facendo un po’ le stazioni durante la Settimana Santa, perché la visita a questi fratelli e sorelle iracheni non poteva essere né una semplice visita, nè un tour qualsiasi: la Settimana Santa ci portava a vedere le sofferenze di tutti questi fratelli vicine al Mistero della sofferenza di Cristo. Il Papa era molto attento a questo aspetto e si è poi naturalmente anche interessato a conoscere le varie tappe: quindi cosa ho visto, quale fosse la mia testimonianza e quale fossero le situazioni che io ho incontrato. E’ stato un momento di ascolto con brevissime interruzioni e un prendere conoscenza dell’attuale stato in cui vivono questi migliaia di profughi, cristiani e non cristiani. Quindi anche con gli incontri e con le visite che ho ricevuto. Direi che il Papa era molto impressionato da questi otto mesi di vita eroica di queste persone, che – come dicevo – si trovano a vivere ormai in una situazione di sopportazione notevole. Pensiamo a tutti i disagi e alle ristrettezze in cui vivono; alla mancanza di spazi vitali; ad una convivenza forzata in tanti luoghi; alla condivisione di tutto quello che è poi strettamente necessario per la vita quotidiana; pensiamo ai servizi igienici, pensiamo ai luoghi nei quali i bambini, gli ammalati e le persone più anziane vivono. Diciamo che l’aspetto umanitario, oltre che quello spirituale, è stato oggetto di un’attenta considerazione, riflessione e ascolto del Papa.

D. – Ha detto al Papa che i cristiani iracheni lo stanno aspettando in Iraq?

R. - Indubbiamente i cristiani iracheni lo attendono. Erano molto contenti di questa visita, ma naturalmente aspettano anche, un giorno, quella del Papa. Direi che non sono soltanto i cristiani iracheni ad aspettare il Papa, perché le autorità tutte, più volte, mi hanno detto che la visita del Papa sarebbe non solo utile, ma anche opportuna in questo momento e in questi tempi. Hanno quindi rinnovato l’invito affinché il Papa visiti l’Iraq, venga in queste zone dove vivono i rifugiati. Credo che da parte di tantissimi – e non solo cristiani – ci sia il desiderio e un’attesa della visita del Papa.

D. – Eminenza, che risonanza hanno in Iraq gli appelli del Papa per i cristiani perseguitati?

R. – Io ho trovato che questi appelli sono prima di tutto ascoltati e poi fanno parte proprio di una visione che a livello politico, ma anche a livello ecclesiale e poi anche da parte della gente, sono ascoltati perché significano che noi non abbiamo dimenticato la situazione, la condizione in cui vive il Medio Oriente in generale e ovviamente l’Iraq in particolare. Oggi la risonanza degli appelli del Papa riguardo ai cristiani, al martirio, ai cristiani che confessano la fede, che lasciano tutto è direi impressionante! Le autorità civili da questo punto di vista sono ben consapevoli e le autorità religiose naturalmente – da parte loro – apprezzano molto questa sensibilità, questo richiamo, affinché non ci si addormenti perché il fatto che se ne parli di meno non vuol dire che siano stati risolti.

D. – Cardinale Filoni, ci sono speranze per il futuro dei cristiani in Iraq?

R. – La speranza è stata la virtù che io sono andato in giro a predicare. In tutti i miei incontri, i numerosi incontri che ho avuto con le comunità cristiane, ho detto che la nostra fede è fondata proprio su queste tre virtù teologali, che sono appunto la fede, la carità e - anche se a volte può sembrare la più piccola, come diceva Peguy “la virtù più piccola”– la speranza, ma che in fondo è poi quella che tiene e lega insieme sia la fede sia la carità: se manca la speranza la carità perde consistenza e la fede stessa manca di slancio. Quindi la speranza è quella che tutti nutrono e tutti dicono: “Noi vorremmo, vogliamo, speriamo, attendiamo di ritornare nei nostri villaggi”... Tutta la gente che ho incontrato – eccetto una sola persona che mi ha detto che avrebbe preferito migrare – mi ha detto – e sono decine e decine, centinaia e centinai di persone che ho incontrato – che aspettano di tornare e che non vedono l’ora di tornare nei propri villaggi. Certo, anche questo non sarà facile. Ma l’idea stessa di poter ritornare nel proprio ambiente dà loro lo slancio anche di dover affrontare poi tutti i problemi di un ritorno. Immaginiamo che sono case che sono state saccheggiate, a volte distrutte, a volte con tutti quei problemi di un ritorno che non sarà comunque facile. Questa speranza, però, di poter ricominciare l’ho trovata fortissima e – ripeto - è stata la virtù che io ho predicato di più.

D. – Cosa le ha lasciato, eminenza, questa sua missione in Iraq?

R. – Mi ha dato la sensazione che, a otto mesi dalla precedenti, loro attendevano un segnale che non li avessimo dimenticati. E questa è stata la mia sensazione più forte, ritrovando molte persone che avevo già visto, incontrando leader che già avevo visto. Si è trattato di un discorso, di una visita che era non solo sperata, ma anche e soprattutto attesa. E’ stata necessaria! A mio avviso era necessaria: tutti mi hanno ringraziato ed erano contenti, veramente molto contenti. Non c’era più lo shock, il trauma di chi ha dovuto abbandonare la propria casa… C’è stato anche il momento gioioso della preghiera, tutti chiedevano una benedizione. Entrando nelle case e visitando la gente, mi dicevano: “La sua presenza per noi è già benedizione”. Questo è nello stile un po’ della fede di questa gente, semplice, profonda, ma anche con una visione che ha radici in una storia fatta di tante sofferenze, di tanti problemi che ci sono stati. Direi che, da parte mia, la mia sensazione è stata personalmente di un arricchimento spirituale davanti al modo in cui questa gente affronta la difficoltà; da parte loro, direi proprio una visita attesa, gradita, che li ha aiutati e confortati un po’ nelle attuali vicende che stanno vivendo.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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I bambini non sono un errore: all'udienza generale Papa Francesco parla della sofferenza dell'infanzia.

Il cordoglio del Papa per la morte del cardinale Jean-Claude Turcotte.

Il sassolino e la colomba: intervista di Gianluca Biccini al cardinale Fernando Filoni di ritorno dalla missione in Iraq.

Paura dell'infinito: a settant'anni dalla morte del teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer stralci dal volume "La fragilità del male"che raccoglie suoi scritti inediti.

Nel paese delle meraviglie a portata di mano: Pablo d'Ors spiega il segreto del successo dei romanzi di Haruki Murakami.

Tutto cominciò in Galilea: Antonella Lumini su resurrezione e compassione.

Gabriele Nicolò sulla mostra, a Bergamo, dedicata all'artista Palma il Vecchio.

Meditazione pasquale del priore di Taizé.

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Oggi in Primo Piano



Kenya: cristiani e musulmani in marcia contro il terrorismo

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Cristiani e musulmani uniti contro il terrore jihadista. Migliaia di persone hanno marciato ieri sera in Kenya in ricordo delle 148 vittime dell'attacco nel Campus universitario di Garissa,  giovedi' scorso. Nella città colpita dai  fondamentalisti somali al Shabaab, almeno 2.500 studenti, di diverse fedi religiose hanno sfilato per strada, uniti, chiedendo anche  maggiore sicurezza nelle Universita' e in tutto il Paese.  Dell’importanza della manifestazione e delle dinamiche sociali in atto in questo momento in Kenya, Fausta Speranza ha parlato con il prof. Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa all’Università Cattolica: 

R. – Colpisce che in situazioni di questo tipo, di fronte a tragedie come quelle che si sono verificate al Campus universitario di Garissa, la comunità a livello locale si stringa e faccia corpo comune. Infatti, sono scene che noi magari siamo più abituati a vedere nel mondo occidentale e pensiamo che non possano accadere in Paesi a noi lontani e dove le dinamiche di frammentazione politica, etnica e religiosa ci appaiono più marcate. E invece è chiaro che a subire i danni peggiori di questi atti di violenza sono proprio le comunità locali. E’ giusto, è opportuno ed è comprensibile che la popolazione si schieri compatta contro questo tipo di eventi, questi atti di terrorismo che vanno direttamente a colpire la popolazione locale. E ricordiamoci che è stato un attacco a un Campus universitario, che è simbolo un po’ del tentativo di un Paese in via di sviluppo di far crescere la sua gioventù, di farle acquisire gli strumenti, i know how, per poter appunto uscire dal sottosviluppo e elaborare forme, strategie, modalità di crescita economica e sviluppo socio-politico e socio-economico.

D. – Ci sono state polemiche nei confronti di polizia, governo, sulla reazione all’attentato. C’è un senso di insicurezza crescente nel Paese?

R. - Le polemiche non sono le prime. Se torniamo indietro a quello che era successo al mall, al Westgate mall di Nairobi, lì, le polemiche furono molti forti per il ritardo nell’intervento, per le modalità nell’intervento contro i terroristi. Lo stesso è avvenuto anche in occasione del recente massacro a Garissa. Il livello di insicurezza è dato dal fatto che la minaccia è sempre più difficile da controllare. Questi atti sono di difficile gestione, di difficile prevenzione. Quindi è chiaro che già di base c’è un problema di inadeguatezza degli strumenti. Poi, le forze di polizia e di sicurezza kenyote, che sono comunque tra quelle meglio dotate nel continente africano, si trovano anche a dover agire in poco tempo e con strumenti a volte non totalmente adeguati. Quindi, da qui le polemiche che poi a volte riguardano anche l’uso un po’ troppo leggero della forza e indiscriminato, che vanno un po’ a colpire chiunque, non solo gli attentatori.

D. – Gli Shabaab, gruppo somalo: tra le dinamiche sociali più preoccupanti c’è la possibile ostilità nei confronti della comunità somala?

R. – Quella è una questione molto complessa. Garissa si trova in prossimità del più grande Campo profughi al mondo, quello di Dadaab, che ospita profughi, rifugiati somali e che è da tantissimo tempo è oggetto di tensioni… . Ed è simbolo dell’afflusso costante di profughi dalla Somalia: vuoi per motivi di instabilità politico-militare, vuoi per il terrorismo, vuoi anche per le cicliche situazioni di crisi umanitaria legate appunto agli effetti dei mutamenti climatici, quindi alla siccità e alle carestie collegate. E’ ovvio che un evento di questo tipo non fa che esacerbare le tensioni che ci sono già da tempo tra la comunità kenyota e la comunità somala. Quindi, sicuramente un occhio di riguardo da parte delle istituzioni e della popolazione locale va posto per evitare una condizione di discriminazione totale, tout court. Bisogna andare a capire che chi ha operato questo efferato atto è una componente minoritaria della popolazione somala e con strategie politiche e militari molto chiare.

Dal Kenya padre Paolo Latorre racconta, nell'intervista di Fausta Speranza, sentimenti, paure, speranze della popolazione;  

R. – Eh sì, questa è la cosa interessante in questo momento. Nei giorni precedenti c’era stata anche una manifestazione dei musulmani in un quartiere dove la predominanza musulmana e somale è altissima… Lì c’è stata questa manifestazione, che voleva essere di presa di distanza da quanto accaduto. In questa manifestazione, dove erano presenti per lo più giovani, tanti dicevano rivolgendosi ai ragazzi uccisi a Garissa: “Non vi dimenticheremo! Non vi dimentichiamo!”. Chi è stato lì, in città alla manifestazione, mi ha raccontato che è stata una marcia composta, ma si sentiva molta, molta rabbia: si sentiva molta rabbia per tutto questo, perché è inaudito quello che questi al-Shabaab hanno fatto in passato, fanno e minacciano di fare. La rabbia è dovuta anche alla risposta che il governo del Kenya ha dato, con molto ritardo… Chi ha partecipato mi ha anche detto che c’è stato anche qualche piccolo momento di  tensione, non tanta, fuori della caserma centrale della Polizia. In queste situazioni è facile… Siamo in un Paese in cui la miccia del tribalismo, della tendenza a  categorizzare, a generalizzare è forte: se un somalo ha partecipato all’atto terroristico, adesso per qualcuno è facile prendersela con tutti i somali che sono qui in Kenya e che sono tanti. Questo è un Paese in cui questa miccia del tribalismo è molto forte e quindi la paura è proprio questa: che al-Shabaab possa riuscire a dividere questo Paese tra etnie e adesso anche tra religioni. Se questi sono i segni, c’è però la speranza che non si cada in questo tranello. Ma se ci si dovesse cadere, la situazione sarebbe veramente triste!

D. - In questo drammatico attacco sono stati colpiti al cuore i giovani. E’ pensabile, padre, che proprio dai giovani venga una risposta diversa al rischio di tensioni sociali ulteriori?

R. – Questo non lo so dire… I giovani sono composti, malgrado la disoccupazione, malgrado le difficoltà che stanno affrontando: che non stia succedendo nulla è già un grosso miracolo, perché la disoccupazione, la povertà, il divario sono gravi… Pensiamo che il Kenya, che è orientato verso il capitalismo, sta perdendo la classe media. Quindi qui o sei poverissimo – ed io ho lavorato negli anni scorsi e vado ancora ad incontrare la gente e a dare l’Eucaristia a lavoratori poveri – oppure sei ricchissimo. Nonostante questo, c’è molta compostezza. Speriamo che questa rabbia possa essere vissuta e incanalata in maniera più proficua e non generare altra guerra.

D. - Quanto è importante che siano cristiani e musulmani insieme, come nella manifestazione contro il terrorismo, a dare risposte contrarie alla violenza?

R. – E’ molto importante! E’ molto importante perché qui la risposta deve essere univoca e deve prendere le distanze dalle dichiarazioni che la violenza viene fatta in nome di Dio. Questa è la risposta che si vuole dare. Per noi cristiani questo è molto più facile; per i musulmani è un qualcosa che deve prendere piede, che sta prendendo piede. I segni ci sono, ma per loro è molto più difficile. Però la vicinanza in questo momento e il dichiararsi contro la violenza è già un passo in avanti. 

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1500 jihadisti tunisini pronti ad attaccare la Libia

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Libia sempre più nel caos. Importanti leader della coalizione islamista "Alba della Libia" avrebbero lasciato Tripoli per rifugiarsi in Turchia. E mentre si lavora per la costituzione di un governo di unità nazionale, circa 1500 jihadisti tunisini presenti nel Paese sarebbero pronti ad attaccare. Il servizio di Massimiliano Menichetti

1.500 uomini di nazionalità tunisina armati e addestrati nei campi libici da Ansar al Sharia e pronti ad attaccare la stessa Libia. E’ l’ennesima informativa d’intelligence che guarda ad un Paese diviso in tre zone: i filo-islamici a Tripoli – peraltro sede del parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale – le milizie più integraliste a Bengasi e l’assemblea di Tobruk. Su tutto la presenza del ramo locale del sedicente Stato islamico che marcia verso le coste e punta all’Europa. In questo quadro, la comunità internazionale sta tentando la mediazione per la costituzione di un governo di Unità nazionale. Ieri, Importanti leader della coalizione islamista "Alba della Libia" (Fajr) che dallo scorso agosto controllano Tripoli, avrebbero lasciato la città per rifugiarsi in Turchia. Tra questi cui il salafita Abdel Hakim Belhaj e il comandante del Libyan Shield Wissam bin Hamid. Le milizie sarebbero in rotta con i militari dell'esercito nazionale guidato dal generale, Khalifa Haftar, che  sarebbero ormai a pochi chilometri dalla zona sud della capitale dopo l'offensiva lanciata il mese scorso.

Sulla situazione del Paese, abbiamo intervistato il prof. Roberto Tottoli dell’Università Orientale di Napoli e coautore del libro, pubblicato da Editrice La Scuola, “L’Autunno delle primavere arabe”: 

R. – Secondo me, la Libia è in una condizione, come Siria e Iraq, di dissoluzione completa dell’autorità statale che ormai da anni, dalla caduta di Gheddafi, si avvia praticamente a una tribalizzazione e una divisione interna. Quindi, non si può non vedere una crisi progressiva e un peggioramento continuo della situazione.

D. – Si sta comunque lavorando a una nuova Costituzione. L’inviato dell’Onu, Bernardino Léon, sta cercando di formare un governo di unità nazionale, forte anche l’impegno dell’Unione Europea. Sono solo parole o in realtà ci sono delle speranze?

R. – Non è ben chiaro il quadro interno della situazione libica, a dir la verità. Puntiamo la nostra attenzione su quello che è il problema generato dalla "sharia", sui gruppi sempre di provenienza jihadista che si riconoscono in altre entità. Non dimentichiamo che la situazione libica è in qualche modo contrassegnata dalla netta divisione storica tra una regione e l’altra e da un tribalismo particolarmente acceso, che nel mondo arabo ha forse eguali solo nello Yemen. Se a questo aggiungiamo le altre frammentazioni, credo che si possa guardare con speranza, ma con un certo pessimismo oggi alla possibilità di ricondurre ad una sorta di unità libica, che sembra essere esplosa e in continuo peggioramento.

D. – Quindi, secondo lei, allo stato attuale sarà molto difficile ricomporre le frammentazioni che ci sono tra Cirenaica, Tripolitania e Fez?

R. – Penso di sì. Questo però non vale solo per la Libia, ma per tutte le nazioni arabe che hanno visto crollare le entità statali. Insieme con la Libia, lo Yemen, la Siria, l’Iraq: realtà estremamente composite, tenute insieme da regimi totalitari con una mano durissima. Dopo decenni, quindi, la scena politica si è riaperta, uno spazio è stato lasciato libero e si è assistito alla fine del controllo anche della violenza da parte delle entità statali. Tutto ciò non poteva che generare una situazione estremamente confusa.

D. – In questo contesto, le milizie del sedicente Stato islamico sono arrivate fino a Misurata. Quanto lo Stato islamico può prendere possesso della Libia?

R. – Non credo che, al di là degli slogan, vi siano effettivi rischi attuali. I contingenti armati che controllano questa zona del territorio sono ridotti. Certo, in una realtà estremamente difficile e di insicurezza generale, non ci deve sorprendere se alcune altre entità, sempre di provenienza jihadista, si riconoscono sotto questa bandiera. Un po’ come al-Qaeda è stata una grande etichetta utilizzata da gruppi jihadisti in giro per il mondo, così queste entità non apparterebbero in maniera strutturale allo Stato islamico, però a volte dichiarano una certa fedeltà e utilizzano questa etichetta. E questo in Libia, a lungo andare, con la permanenza dello Stato islamico, è sicuramente un problema.

D. – Come si può ricomporre la frammentarietà libica?

R. – Bisognerebbe in qualche modo deporre le armi e chiamare al tavolo della trattativa tutti, non dimenticando, al di fuori dell’evidenza degli schieramenti religiosi, quali siano le vere forze, anche tribali, presenti all’interno della Libia. La chiave è lì, così come la stessa chiave che riguarda anche alcune zone dell’Iraq, ecc. Quella che appare come una frantumazione di jihadisti nasconde una serie di problemi, rivalità, assopiti dalla dittatura di Gheddafi, e che però adesso riemergono in una situazione dirompente. Quindi, bisognerebbe riuscire a identificare gli attori un po’ più forti, riuscire in qualche modo a ragionare in termini di unità. 

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Save the Children: obbligo umanitario intervenire a Yarmouk

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Prima l’assedio del regime siriano, ora quello del cosiddetto Stato islamico. Sono giorni altamente drammatici per le migliaia di abitanti che popolano il campo profughi di Yarmouk, non lontano da Damasco. Un luogo di disagio estremo – mancano cibo e acqua – e dove si rischia ogni giorno la morte. Federico Piana ne ha parlato con Karl Schembri, regional manager di Save the Children per il Medio Oriente ed Eurasia, testimone diretto della situazione a Yarmouk: 

R. – Ci sono 3.500 bambini intrappolati, senza cibo, senza medicinali; lo staff umanitario, i nostri colleghi sono sotto attacco e ci sono morti, feriti e rapiti. Tutta Yarmouk è ormai irraggiungibile per gli aiuti umanitari.

D. – Come mai sono bloccati? Da che cosa sono impediti?

R. – Ormai sono impediti da tutte le parti in questo conflitto. Sono stati sotto assedio per due anni. Ora c’è stata un’ultima incursione di uno dei gruppi ribelli, ma ormai i nostri colleghi ci dicono di essere sotto il fuoco di tutte le parti e cecchini e aerei si riversano, quindi, su questo piccolo campo profughi. Bisogna dire anche che i palestinesi sono i più vulnerabili in questo conflitto siriano, perché non hanno la possibilità di scappare e di andare in un altro Paese. Tutte le strade sono chiuse per i palestinesi della Siria e quindi la situazione è ancora più tragica e disastrosa.

D. – Come mai finora non si è fatto nulla e la comunità internazionale non ha mosso un dito per questi 3.500 bambini, ma non solo: ricordiamo medici, volontari, operatori umanitari e civili, che sono stati uccisi, rapiti o addirittura sono ancora dispersi …

R. – Questa è stata solo l’ultima tappa tragica in questa guerra, in questo conflitto. Le Nazioni Unite sono arrivate a delle risoluzioni che davano ottimismo, ma che poi nella realtà non hanno migliorato la situazione in Siria, anzi.

D. – Cosa debbono fare gli Stati, la comunità internazionale, per risolvere questo problema a Yarmouk adesso, immediatamente?

R. – La priorità immediata sarebbe un cessate-il-fuoco, che consenta di portare aiuti all’interno del campo; di fare evacuare i bambini e le famiglie che sono ferite; e di dare rispetto totale ai civili. Questa non è un’opzione, questo è un obbligo di tutte le parti che sono in conflitto: una soluzione diplomatica di questo conflitto. Quando i Paesi hanno avuto la volontà politica di dare tregue e cessate-il fuoco locali in Siria, è stato un successo. Quindi se c’è la volontà… E noi chiediamo a questi Paesi che ci sia la volontà, perché è una questione di umanità.

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Rwanda, Parigi apre archivi. Costa: l'orrore non si dimentica

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A 21 anni dal genocidio in Rwanda, dal milione di morti in cento giorni, la Francia ha tolto il segreto di Stato ai documenti conservati negli archivi dell'Eliseo e che riguardano gli anni tra il '90 e il '95. Kigali da sempre accusa Parigi di aver avuto un ruolo nel massacro con l’operazione militare "Turchese", condotta dalle forze francesi sotto mandato Onu per mettere fine alle violenze in atto, ma che risultò essere incapace di mettere un freno ai massacri. Pierantonio Costa, imprenditore di successo, allora era console italiano in Rwanda, è definito lo "Schindler italiano" per aver salvato circa duemila persone, utilizzando le proprie conoscenze e il proprio denaro. Candidato nel 2010 al Premio Nobel per la pace, gli è stato dedicato un alberello nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova. Francesca Sabatinelli gli ha chiesto cosa significhi questa decisione nei rapporti fra i due Paesi: 

R. – È certamente una decisione che potrà apportare un incontro più facile fra loro però, finché tutto non sarà accessibile, rimarrà sempre una ragione per non credere all’onestà di quanto detto dai francesi.

D. – Lei è stato testimone, lei ha salvato molte vite: quali sono le ombre sul comportamento della Francia?

R. – La Francia ha sostenuto il governo Habyarimana, l’ha sostenuto prima e durante quella guerra. Non l’ha mai detto, ha sempre evitato di sollevare la questione, però l’intervento che ha fatto nel mese di giugno, l’”Operazione Turchese”, è stato coperto da uno scopo umanitario, ma aveva in sottofondo, o in fondo, lo scopo di interporsi tra le due fazioni e portarle eventualmente a una discussione.

D. – Secondo lei, aprire in questo momento storico gli archivi, o una parte di archivi, a cosa può portare?

R. – Certamente a ridurre la tensione tra i due Paesi. E' un gesto di buona volontà da parte del presidente Hollande. Non so come questo gesto sarà interpretato dalle autorità rwandesi.

D. – Lei continua a vivere a Kigali parte dell’anno. A 21 anni da quello che è accaduto, oggi il Rwanda che Paese è?

R. – C’è stato un milione di morti. Dicevo a quell’epoca che chi era sopravvissuto, era sopravvissuto per miracolo. Non sono ancora naturalmente morti tutti i 6-7 milioni di rwandesi che c’erano in quel momento, e fino a che questo non accadrà lo spettro del genocidio rimarrà, almeno nelle anime di coloro che l’hanno vissuto. Tutto quello che si può fare è cercare di accettare quello che è avvenuto. Però, quando se ne parla e quando se ne discute, quando si ripensa a quelle cose, c’è tutta la mostruosità degli atti che sono avvenuti in quel momento, che riemergono e che fanno male. I fatti erano fatti veri e terribilmente crudeli. Per cui, anche se c’è l’apertura al perdono, non è che questo impedisca di viverne nell’ossessione.

D. – E anche lei oggi ha un incubo, un’ossessione, per ciò che accadde 21 anni fa?

R. – Quello che posso dirle è che ogni volta che parlo di questo in modo abbastanza approfondito, la notte dopo non riesco a dormire.

D. – Nonostante lei abbia salvato centinaia di vite…

R. – Le centinaia di vite che ho salvato sono una piccolissima parte del milione di morti che c’è stato e non sono quelle che rimangono nella mia vita. Quello che rimane nella mia vita sono le atrocità che ho visto passando, andando, vedendo e cercando di fare qualcosa.

D. – Qual è stata la sua forza che l’ha spinta a continuare a stare in Rwanda?

R. – Forse la mia coscienza. La coscienza che potevo fare qualcosa, che con la mia posizione di console onorario, e con la mia posizione sociale importante, con le mie aziende, potevo arrivare ad avere dei contatti con delle autorità che mi permettevano di fare qualcosa.

D. – E oggi, nonostante queste immagini drammatiche che ha vissuto, perché continua a tornare in Rwanda?

R. – Perché, ho dovuto sceglierlo subito dopo la guerra: potevo lasciare e tornare a vivere in Europa, o potevo rimanere e cercare di rimettere in piedi le mie ditte. In ogni caso dovevo vivere, da una parte o dall’altra. E se avessi abbandonato, forse me lo sarei rimproverato molto di più, perché avevo ancora degli amici e dopo ne ho fatti ancora degli altri. È un Paese che per me è quasi altrettanto importante dell’Italia. Credo ci sia una cosa che non si rileva sufficientemente: l’importantissimo passo avanti che il Rwanda ha fatto dopo la guerra. Il Rwanda, quando la guerra è iniziata e poi è terminata, aveva circa 300 dollari di Prodotto interno lordo per persona, attualmente è al di là degli 800. E tutto questo malgrado la distruzione intervenuta anni fa, che hanno saputo superare con una logica nuova. In Rwanda, attualmente, è l’intelligenza che guida il Paese, non l’"intellighenzia" ma l’intelligenza di uomini, di gente formata dalle scuole, dalle università, in modo da poter prendere in carica i propri problemi. 

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Giornata Rom e Sinti. In Italia 40 mila ancora nei campi

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Va superata la logica dei campi, basterebbe ristrutturare i tanti edifici dismessi in Italia per dare un tetto ai nomadi. È la proposta dell'Associazione 21 luglio, che oggi ha presentato il suo Rapporto 2014, nell'odierna Giornata dei Rom e dei Sinti. Questi a oggi rappresentano solo lo 0.25% della popolazione residente in Italia. Il servizio di Alessandro Guarasci

Sempre più discriminati, sempre meno al centro di politiche di inclusione. È' la stessa presidente della Camera, Laura Boldrini, a chiedere che sia superata la logica dei campi, anche perché è probabile che tra qualche mese arrivi una procedura d'infrazione da parte della Ue nei confronti dell'Italia per le condizioni di vita in tanti insediamenti.

Italia, in 40 mila nei campi
Ad oggi Rom e Sinti sono circa 180 mila e il 60% ha meno di 18 anni. Coloro che vivono nei campi sono 40 mila e questa soluzione abitativa è una prassi quasi esclusivamente italiana. Bruxelles riconosce che l'Italia ha fatto pochissimo per integrare i nomadi, per dare loro un lavoro, e più semplicemente per far sì che abbiano un'abitazione degna di questo nome. Tra l'altro, la stragrande maggioranza dei cittadini italiani ha una pessima percezione di Rom e Sinti. Frutto questo anche di istituzioni che spesso non hanno lavorato per l'integrazione. Guardiamo il caso di Roma: ci sono un centinaio di insediamenti, tra autorizzati e non, per i quali negli ultimi anni sono stati spesi circa 100 milioni di euro. Meglio sarebbe stato investire quei soldi in attività per la formazione e la creazione di alloggi.

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Coldiretti: riconoscere per il Salento lo stato di calamità

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Due giornate importanti per la questione degli ulivi salentini colpiti dal batterio xylella: l’incontro stasera a Lecce del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, con i sindaci della Regione e con le organizzazioni di categoria e la sentenza del Tar, domani, in merito all’espianto degli ulivi chiesto dall’Unione Europea. Intanto, è confermato lo stop della Francia all’importazione delle piante provenienti dalla Puglia, una decisione che secondo i coltivatori locali avrà un impatto disastroso sull’economia del territorio. Adriana Masotti ne ha parlato con il presidente della Coldiretti di Lecce, l’ing. Pantaleo Piccinno

R. – Purtroppo, non sono soltanto le piante di ulivo, ma tutte le piante dei vivai possono potenzialmente essere ospiti del batterio: quindi parliamo di 102 tipologie di piante. E’ l’ennesimo, duro colpo per i vivaisti salentini, che avevano già subito l’embargo su alcune di queste varietà. Adesso la Francia fa – in maniera scorretta, devo dire – l’apripista, ma probabilmente la seguiranno altri Stati europei. Anche perché l’Unione Europea ha fatto un po’ come Ponzio Pilato e se ne lava le mani...

D. – Voi ce l’avete con l’Unione Europea perché giustifica questa decisione francese, invece di bloccare le importazioni in Europa di piante proveniente da Paesi extraeuropei, da cui – dite voi – proviene il batterio…

R. – Non lo diciamo noi, ma lo dice la scienza: è provato scientificamente che il batterio riscontrato nel Salento è il gemello di uno presente in Costa Rica. E’ arrivato con l’importazione di piante ornamentali in Europa, via Rotterdam. Successivamente, sono state portate nei vivai del Salento dove hanno trovato un clima idoneo alla vita del batterio e una straordinaria monocultura, come è quella dell’uliveto salentino, nella quale purtroppo il batterio ha trovato la possibilità di insediarsi.

D. – Oggi, la visita del ministro Martina: che cosa sperate di sentire da lui?

R. – Noi ci aspettiamo ma – se mi permette, con rispetto – pretendiamo che venga dichiarato lo stato di calamità per questa fitopatia. Praticamente, la normativa italiana non ha ancora recepito la normativa europea che consente la dichiarazione di stato di calamità naturale anche per le fitopatie. Aspettiamo che, con una legge o ancora meglio con un decreto, il ministro renda possibile la dichiarazione di stato di calamità naturale anche per le fitopatie come questa. Questo sarebbe il primo provvedimento necessario per innestare quei puntelli capaci di mantenere il tessuto produttivo salentino. Al di là poi di questi piccoli puntelli, che comunque in questo momento sono necessari, chiediamo che la discussione del futuro del Salento si sposti in Europa. Noi viviamo un problema che è globale in un’area locale: chiedono a noi agricoltori salentini di combattere una battaglia fatta di buone pratiche, di trattamenti, di tanta attività per salvaguardare il nostro patrimonio, ma soprattutto per impedire che questo batterio vada ad ammazzare l’intera ulivicoltura europea e mediterranea. Noi ce la stiamo mettendo tutta, ma penso che l’Unione Europea debba farsi carico realmente di questa situazione.

D. – La sentenza del Tar sull’espianto delle piante: c’è una forte resistenza da parte dei coltivatori. Perché?

R. – Bisogna costruire un meccanismo di interazione maggiore con il territorio, bisogna costruire un percorso virtuoso in cui si disegni un futuro per questo territorio. Per questo nascono le resistenze. C’è stato un ricorso al Tar che ha dato, in via cautelativa, la sospensiva… Si vedrà poi cosa deciderà. Ovviamente, c’è un’altra questione che il ricorso al Tar solleva, che è quella della determinazione dell’indennizzo sull’espianto, perché ad oggi agli ulivicoltori salentini non è arrivata l’ombra di un euro…

D. – Ma al di là questo, quali sono le proposte alternative allo sradicamento delle piante per evitare che, appunto, l’infezione vada avanti?

R. – Vale sì il principio cautelativo: non si possono mettere a rischio 50 milioni di piante di ulivo della Puglia, rimanenti al nord, per non togliere 500 piante… Ma a sud, la diffusione del batterio è ormai presente in tutto il territorio e quindi probabilmente andrà costruito un modello diverso, che prescinda dagli espianti. Quello che noi sosteniamo da tempo è la costruzione di un grande laboratorio a cielo aperto, nel quale sperimentare come si possa combattere questa malattia, che è la “peste verde” del terzo millennio, perché è nota da 130 anni in America: in California ha colpito le viti, in Brasile ha colpito gli agrumi, in Costa Rica ha colpito il caffè e in Salento ha colpito l’ulivo. Quindi, l’Europa intera – e io penso il mondo intero – deve confrontarsi con questa malattia e probabilmente non al chiuso dei laboratori, ma su scala reale dovrà trovare la maniera per convivere o meglio ancora per debellare questa malattia. Questo è il modello che noi ipotizziamo per il Salento. Come Coldiretti abbiamo promosso la formazione di un "cluster" di ricerca al quale partecipano tutte le università pugliesi. La mia paura, da salentino, è che probabilmente noi stiamo lavorando per gli altri, ma non per il nostro territorio, perché nel frattempo le piante si ammalano, tragicamente muoiono.

D. – Vogliamo dire, però, che comunque l’olio che ancora si produce è buono?

R. – Assolutamente sì! Su questo non c’è alcun problema: il batterio non ha niente a che fare con le olive né tantomeno con l’olio. Purtroppo, fa disseccare le piante e quindi le piante non producono olive e di conseguenza non producono olio. Le piante sane continuano, invece, a produrre ottime olive, dalle quali si produce quello straordinario olio salentino che negli ultimi anni aveva conquistato la stima e la considerazione degli intenditori di tutto il mondo.

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70 anni fa la morte in un lager nazista del teologo Bonhoeffer

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“L’essere cristiano non è affare di un momento, ma esige tempo”. “Solo la poca fede può sconfiggerci”. Sono parole e pensieri del teologo evangelico Dietrich Bonhoeffer, ucciso 70 anni fa - il 9 aprile del 1945 - nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg con l’accusa di aver partecipato ad una congiura contro il regime di Adolf Hitler. Sulla figura di Bonhoeffer, Amedeo Lomonaco ha intervistato il teologo e arcivescovo di Oristano, mons. Ignazio Sanna: 

R. – Teologo, cristiano, contemporaneo. Sono le tre tracce che descrivono la personalità di questo grande uomo di Chiesa. Innanzitutto la sua teologia, perché ha dato impulso, veramente, al modo con cui la teologia è legata alla vita; è una teologia che interpreta, veramente, le dimensioni dell’esistenza cristiana.  Bonhoeffer ha detto che occorrerebbe vivere, in modo cristiano, come se Dio in questo momento non ci guardasse. Quando Bonhoeffer parla di un cristiano adulto vuol dire che si dovrebbe essere capace di vivere in comunione con Dio come se Dio non ci fosse. E’ questa la maturità a cui vuole portare il cristiano. Che il cristiano sia veramente capace di ricorrere - la sua famosa espressione – non a un Dio “tappabuchi”, ma ad un Dio che sia invece intimo. E poi un altro tratto distintivo è quello di contemporaneo. Quale è un ideale che ci propone Bonhoeffer?  Far sì che Gesù sia nostro contemporaneo.

D. – Quella di Bonhoeffer è stata una testimonianza di vita cristiana vissuta fino al martirio…

R. - Dice il medico che ha assistito alla sua esecuzione che aspettava in ginocchio con una compostezza eccezionale. Questo medico ha detto che in tantissimi anni della sua professione non aveva mai visto nessun uomo prepararsi alla morte con tanta compostezza interiore. Questo vuol dire che c’era nella sua persona una profonda vita interiore, una profonda fede e anche, in quel momento, una fede nella Risurrezione, nella Vita eterna.

D. – Ogni cristiano è chiamato ad una maturità ma anche la Chiesa - osservava proprio Bonhoeffer - è chiamata a diventare parte del mondo, a condividerne le lotte e le perplessità…

R. – E’ l’idea appunto di una Chiesa che non sia dirimpettaia, ma che sia coinvolta nelle vicende della gente: il dove della gente, il dove del mondo è il dove della Chiesa. Penso che questo sia anche un modo con cui Papa Francesco, attualmente, porta avanti questa realtà. Quando usa l’espressione di “non stare al balcone”, un po’ è questa idea di Bonhoeffer: dobbiamo coinvolgerci e lasciarci coinvolgere con la vita, con la fatica, con le sofferenze della gente. Addirittura il Papa dice: meglio una Chiesa che inciampa di una Chiesa che rimane chiusa e asfittica all’interno  delle sue strutture.

D. – Quale peso ha oggi il pensiero di Bonhoeffer nel dialogo ecumenico?

R. – Vorrei che ce l’avesse un bel peso perché molte volte dove si trova una difficoltà a fare un cammino comune è nella visione cristiana dell’uomo, ovvero in una antropologia che sia ispirata veramente alla cristologia. Se noi ci lasciamo ispirare nel modo con cui noi concepiamo l’uomo, dalla stessa figura di Cristo, io direi che allora, da quel punto di vista, sia possibile trovare un denominatore comune per la difesa della dignità della persona umana. Se teniamo fisso lo sguardo su Cristo e meno sulle strutture e anche su norme di diritto canonico, probabilmente, siamo in grado di fare qualche passo in più per trovare motivazioni e ispirazioni su come camminare insieme.

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Roma. Apre mostra fotografica dedicata a Ingrid Bergman

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Si inaugura oggi alla Casa del Cinema di Roma, rimanendo aperta fino al prossimo 23 maggio, la Mostra fotografica dedicata all’attrice Ingrid Bergman in occasione del centenario della nascita, avvenuta a Stoccolma il 29 agosto 1915. Il nostro collega, Rosario Tronnolone, ha curato la sezione della Mostra dedicata ai “62 volti di un’attrice”. Il servizio di Luca Pellegrini

Ruoli di grande spessore spirituale – tra tutti si ricorda la sua “Giovanna d’Arco” – o di profonda abiezione, come la terribile spia di “Notorius”: Ingrid Bergman, attrice unica e inimitabile, la si ricorda oggi per la sua dignità artistica e la carriera che l’ha portata in contatto con i più diversi mondi del cinema, lasciando un’indelebile testimonianza: i suoi primi cinque anni di carriera in Svezia, nel ’39, e i dieci a Hollywood, che hanno visto la creazione di capolavori come “Casablanca” e “Per chi suona la campana”. Poi il trasferimento in Italia, il rapporto con Roberto Rossellini e il suo volto prestato al neorealismo italiano. Abbiamo chiesto a Rosario Tronnolone chi è Ingrid Bergman nella storia del cinema:

R. – Ingrid Bergman è un’attrice la cui carriera è rimasta, io credo, esemplare per chiunque si avvicini al cinema, perché la sua carriera è stata permeata, in qualche modo, da un estremo coraggio e da un grande desiderio di confrontarsi anche con le poetiche più diverse, perfino dissonanti, del cinema della sua epoca. Dopo il periodo con Rossellini, non ha mai smesso di cercare di collaborare con i registi più importanti e interessanti della sua epoca, da Jean Renoir a Vincente Minnelli, da Sidney Lumet a Anatole Litvak, a naturalmente al suo conterraneo e omonimo, Ingmar Bergman.

D. – La sezione della Mostra da lei curata si intitola “I 62 volti di un’attrice”. Quali sono quelli che scopriamo attraverso queste rare immagini?

R. – Sono 62, perché 62 sono i personaggi che lei ha interpretato, non solo al cinema ma anche a teatro e in televisione. Quindi, questa Mostra vuole essere un po’ una galleria dei ritratti dei personaggi. La maschera per un attore, in particolare per un attore della sensibilità della Bergman, non è qualcosa che copre e che nasconde, ma qualcosa che rivela. In realtà, quindi, questi 62 personaggi così diversi e che sottolineano anche la versatilità dell’attrice, mostrano altrettanti aspetti di una personalità alle volte contraddittoria, cangiante, indubbiamente affascinante.

D. – Che cosa insegna Ingrid Bergman alle attrici di oggi?

R. – Aveva una straordinaria naturalezza, che rende le sue interpretazioni, anche quelle degli anni Trenta, ancora oggi estremamente godibili. Il suo approccio alla recitazione era di grande comprensione – lei diceva – prima di far arrivare l’emozione. C’è un elemento che ho sempre trovato molto interessante nel momento in cui ho sentito parlare Roberto Rossellini e Ingrid Bergman del loro lavoro: tutti e due hanno lo stesso senso del bello, perché per entrambi ciò che deve essere bello, deve essere semplice, deve essere vero e deve essere utile. Nella recitazione della Bergman  queste tre parole – semplicità, verità e utilità, nel senso di dare dignità umana al personaggio che sta interpretando – sono veramente quotidiane.

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Nella Chiesa e nel mondo



Yemen: ad Aden si continua a morire

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Mentre nello Yemen e soprattutto nella città portuale di Aden aumenta il numero dei morti a causa di combattimenti e bombardamenti, le diplomazie che appoggiano o osteggiano i contendenti intensificano la loro azione. Oggi - riferisce l'agenzia AsiaNews - è atteso a Islamabad il ministro iraniano degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, che ha l’obiettivo di evitare il coinvolgimento del Pakistan a fianco dell’alleanza a guida saudita che combatte gli Huthi, mentre i Paesi del Golfo si preparano a presentare al Consiglio di sicurezza una proposta di risoluzione nella quale si chiede che gli Houthi sciiti si ritirano da Sanaa e da tutte le altre zone occupate dal 2013 e l’embargo sulle armi ai ribelli.

Tra i morti nel conflitto anche 74 bambini
Sul campo, la situazione ad Aden è stata definita “catastrofica, per non dire altro” da Marie Claire Feghali, portavoce della Croce rossa internazionale. “Ad Aden – ha aggiunto - la guerra è in ogni strada, in ogni angolo”. Fonti sanitarie riferiscono che nelle ultime 24 ore ci sono stati 53 morti, il che porta a 540 il numero delle vittime dal 19 marzo. Di questi, riferisce l’Unicef, 74 erano bambini, caduti dal 26 marzo, da quando sono cominciati i bombardamenti della coalizione dei nove Paesi a guida saudita.

Armi Usa alla coalizione
Ancora sul piano militare, da registrare la dichiarazione del vice-segretario di Stato Usa, Antony Blinken, per il quale gli Stati Uniti stanno accelerando la fornitura di armi alla coalizione. Da parte sua, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si è detto "costernato, per usare un eufemismo" dalla campagna militare sferrata dalla coalizione di nove Paesi

Turchia e Iran per una rapida fine del conflitto
L’Iran – che spalleggia gli Huthi, sciiti, ed è accusato di voler sfruttare la guerra civile per allargare la sua sfera di influenza – sta cercando di allentare la pressione sui suoi alleati. Ieri, in occasione della visita a Teheran del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il Presidente iraniano Hassan Rohani, in una dichiarazione congiunta ha sostenuto che i due Paesi sono d’accordo per “arrivare il più rapidamente possibile alla fine del conflitto” e per  “un totale cessate-il-fuoco e la fine agli attacchi”. Da parte sua il Capo di Stato della Turchia – che non partecipa militarmente alla coalizione, ma la spalleggia – non ha parlato di Yemen, ma di questioni economiche.

Il Pakistan vuole il convolgimento dell'Iran
​L’appoggio del Pakistan, dove oggi arriva Zarif, alla coalizione anti-Huthi è oggetto di discussione in Parlamento. Il primo ministro Nawaz Sharif ha detto che il suo Paese “non ha fretta” di decidere sulla richiesta saudita di unirsi alla coalizione, ha aggiunto che il Pakistan vuole difendere “l’integrità territoriale” dell’Arabia saudita, ma ha chiesto che anche l’Iran sia coinvolto in colloqui sulla sicurezza nella Penisola arabica. E finora nel dibattito in corso sulla questione nessun parlamentare si è espresso a favore di un intervento a fianco dei sauditi. (R.P.)

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Kenya: la strategia degli Shabaab contro i cristiani

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“Gli Shabaab si sono alienati gran parte della popolazione somala, che è tutta di religione islamica, per i massacri commessi contro altri musulmani. Per questo ora gli Shabaab in Kenya quando colpiscono un luogo affollato discriminano tra musulmani e cristiani, risparmiando i primi e uccidendo i secondi”: lo spiega all’agenzia Fides mons. Joseph Alessandro, vescovo coadiutore di Garissa, dove giovedì santo, 2 aprile, 148 persone sono state uccise nel locale Campus universitario, in un assalto degli Shabaab somali, che hanno scelto le loro vittime sulla base della loro appartenenza religiosa.

Il vescovo ricorda l'eccidio dei lavoratori cristiani a Mandera
“Questo è uno dei motivi per i quali sono presi di mira i cristiani in Kenya, ma ci sono anche altri fattori, anche se il risultato finale è che le vittime sono sempre dei cristiani” aggiunge mons. Alessandro ricordando che alla vigilia del Natale scorso, erano stati uccisi, con modalità simili, dei lavoratori cristiani a Mandera e che anche nel massacro del Centro commerciale Westegate a Nairobi, gli Shabaab avevano preso di mira i cristiani.

Gli Shabaab vogliono riprendere il controllo della costa somala per i loro traffici
“La rivendicazione degli Shabaab afferma che questi attacchi terroristici sono delle ritorsioni per la presenza dell’esercito keniano in Somalia, le cui truppe hanno avuto un ruolo importante nel cacciare gli Shabaab da aree importanti della costa, interrompendo i traffici lucrosi con i quali il movimento integralista si finanziava” sottolinea il vescovo. “Con queste azioni, gli Shabaab sperano di costringere il Kenya a ritirare le proprie truppe dalla Somalia, permettendo loro di riprendere il controllo delle città della costa, tra cui Mogadiscio, in modo da ricominciare a tassare la popolazione e riavviare i loro traffici”.

Colpita un'area ignorata dal governo centrale
​Colpendo l’università, gli Shabaab hanno voluto colpire la speranza di sviluppo di un’area a lungo ignorata dal governo centrale. “Questo è vero come è vero che studenti e insegnanti sono bersagli facili” risponde mons. Alessandro. “Si tenga conto che la maggior parte degli insegnanti vengono da altre parti del Kenya e che qui non si sentono a casa loro. Questo perché la zona di Garissa storicamente faceva parte della Somalia. Gli inglesi hanno tracciato una linea retta per delineare il confine tra Somalia e Kenya, separando una tribù somala. In realtà il confine è molto poroso e la gente passa da una parte all’altra con molto facilità” conclude il vescovo coadiutore di Garissa. (L.M.)

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Nigeria. Mons. Doeme: non cedere a tentazioni di vendetta

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“Possono distruggere le nostre strutture, ma non la nostra fede. La nostra fede è energica e viva... nella persecuzione siamo purificati” ha affermato mons. Oliver Dashe Doeme, vescovo di Maiduguri (nel nord-est della Nigeria), che ha visitato gli sfollati ritornati nei villaggi appena liberati dalla presenza di Boko Haram, dalle truppe di Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Secondo quanto riferisce all’agenzia Fides padre Gideon Obasogie, direttore delle Comunicazioni sociali della diocesi di Maiduguri, la delegazione guidata da mons. Doeme ha visitato diverse comunità negli Stati di Adamawa e Borno. La diocesi di Maiduguri infatti comprende gli Stati di Borno (del quale Maiduguri è la capitale), Yobe e alcune aree di quello di Adamawa.

Sfollati e rifugiati tornati dal Camerun affrontano enormi difficoltà 
Diverse famiglie sono ancora separate e molto persone sono date per disperse. Gli anziani che non sono potuti fuggire hanno preferito farsi uccidere pur di non abiurare la fede cristiana. Le case sono state completamente razziate, le chiese e le altre strutture ecclesiali sono state del tutto distrutte. Ma il vescovo e i sacerdoti che lo accompagnavano durante la Messa di riconciliazione hanno invitato i fedeli a non cedere alla tentazione della vendetta e a rimanere saldi nella fede, ricordando che il Rosario è l’arma più potente per un cristiano. (L.M.)

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Pakistan: mons. Shaw ricorda i 22 martiri di Youhanabad

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“Non abbiate paura. Abbiate fiducia nel Signore, come hanno fatto i martiri di Youhanabad”: è quanto ha detto mons. Sebastian Francis Shaw, arcivescovo di Lahore, parlando agli oltre duemila fedeli riunitisi dopo la Pasqua nella chiesa cattolica di San Giovanni in Youhanabad per pregare “per i 22 martiri” e per i 70 feriti tuttora in ospedale.

Vescovo ringrazia per solidarietà di amministratori e leader religiosi
Come riferisce l'agenzia Fides, l’arcivescovo ha sottolineato che “il terrorismo colpisce l’intera nazione, senza fare distinzione tra chiese, moschee, scuole o istituzioni governative”. “I fedeli cristiani ripongono la loro fiducia nel Signore e pregano per la vera pace e per l'intera nazione. Ringraziamo il governo, l'amministrazione civile e i leader religiosi per la solidarietà dimostrata” ha aggiunto, scongiurando “tensione e sentimenti cattivi tra comunità diverse”, dopo il linciaggio di due musulmani avvenuto dopo gli attentati.

I fedeli confortati dalla Chiesa per evitare altre tensioni
Padre Francis Gulzar, parroco alla chiesa di san Giovanni e vicario generale nella diocesi di Lahore, ha ringraziato l'arcivescovo, i leader religiosi e gli esponenti politici che hanno mostrato attenzione, solidarietà e interesse verso la comunità cristiana colpita. Come riferito a Fides, nei giorni scorsi anche una delegazione della Commissione nazionale “Giustizia e Pace” della Conferenza episcopale del Pakistan, guidata dal direttore, padre Emmanuel Yousaf, ha visitato e confortato i fedeli del luogo, cercando di alleviare la tensione e le complicazioni insorte dopo gli attacchi. 

Aiuti della Chiesa per le famiglie delle vittime e per i cristiani arrestati
La Commissione infatti si è fatta interprete delle esigenze dei cristiani locali, agendo da mediatrice nel rapporto con le autorità, soprattutto per i fedeli innocenti arrestati all’indomani del linciaggio. La Commissione ha distribuito aiuti in denaro alle famiglie delle vittime degli attentati e alle famiglie dei cristiani arrestati ingiustamente, assicurando loro anche assistenza legale gratuita. (P.A.)

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Chiesa in Sri Lanka: sicurezza, terre e lavoro per i tamil

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Il vescovo di Jaffna, mons. Thomas Savundranayagam, dopo aver incontrato Robyn Mudie, ambasciatore australiano ed alcuni giorni prima Jürgen Morhard, l’ ambasciatore tedesco, parlando con i giornalisti ha fatto notare che il nuovo governo dovrebbe garantire la sicurezza degli ex membri delle Tigri Tamil (Ltte), poiché ancora oggi, anche dopo che si sono integrati nella società e hanno frequentato corsi di riabilitazione, vengono spesso intimiditi.

La Chiesa chiede terre per gli sfollati interni
Allo stesso tempo, mons. Savundranayagam ha detto che tranne alcune modifiche, come il rilascio di alcune aree di terra e la riduzione di zone dichiarate ad alta sicurezza nel nord Valikamam e nell’est, nulla è cambiato in modo significativo nella penisola di Jaffna. Egli – riferisce l’agenzia Misna - si aspetta comunque che il governo rilasci presto altre terre in possesso delle forze di sicurezza a favore degli sfollati interni ancora presenti nella zona.

Per i giovani tamil, mancanza di lavoro genera emigrazione
Mons. Thomas ha informato gli ambasciatori che il desiderio dei giovani Tamil di lasciare ancora oggi il Paese nasce dalla mancanza di opportunità di lavoro. Affermando che il cambiamento di governo è avvenuto grazie anche ai Tamil e ai musulmani, che hanno avuto un ruolo importante nelle elezioni, il vescovo ha sostenuto che essi dovrebbero avere una maggiore presenza e partecipazione nel governo stesso. (P.L.)

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Canada: Consiglio delle Chiese su missione in Iraq e Siria

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In una lettera indirizzata al primo ministro Stephen Harper, il Consiglio canadese della Chiese chiede una strategia internazionale per l’Iraq e la Siria, entro la quale possa muoversi la missione militare e umanitaria inviata dal Canada. I leader delle 25 Chiese e comunità ecclesiali dell’organismo fondato nel 1944 esprimono le loro inquietudini a proposito della crisi umanitaria nei due Paesi e definiscono crimini di guerra e contro l’umanità le migliaia di morti, i brutali rapimenti, le gravi violazioni dei diritti umani, l’assassinio di antiche comunità cristiane e gli attacchi mirati contro altre minoranze religiose di cui è responsabile il sedicente Stato Islamico.

Occorre una strategia internazionale per aiutare il Medio Oriente
Per il Consiglio canadese delle Chiese un intervento militare non basta a mettere fine ai conflitti in Medio Oriente e per stoppare o limitare le atrocità occorrono altre misure. Nella lettera si riferisce anche della riconoscenza delle Chiese del Medio Oriente e delle agenzie che continuano ad operarvi per gli aiuti provenienti da diverse nazioni, ma si sottolineano anche i dubbi circa l’efficacia di azioni militari e per presto viene suggerita prudenza. “Chiediamo al governo canadese di moltiplicare i suoi sforzi diplomatici, di accrescere l’aiuto umanitario e l’aiuto ai rifugiati – scrive il Consiglio canadese delle Chiese – di sostenere le organizzazioni della società civile, di controllare gli armamenti e di proteggere in particolare lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, in particolare con l’instaurazione di strutture di governo inclusive in Iraq e in Siria”.

Azione militare non può essere risolutiva. Occorre una politica chiara per i rifugiati
I leader cristiani canadesi insistono sulla diplomazia per bloccare l’afflusso di risorse e di armi a favore dell’Is e ribadiscono il loro sostegno economico per gli aiuti umanitari. Al governo canadese viene inoltre chiesta una politica chiara per l’accoglienza dei rifugiati e per l’Iraq si auspica che polizia, magistratura e altri settori del governo possano essere sensibilizzati e formati al rispetto dei diritti umani, alla giustizia e alla corretta applicazione del diritto.

Cristiani, ebrei e musulmani in Canada pregano per la pace e proseguono il dialogo
“La libertà di coscienza e di religione e, più globalmente, il rispetto dei diritti umani sono essenziali all’emergenza in Iraq di una società aperta, pacifica e democratica – prosegue la lettera del Consiglio canadese delle Chiese –. Questi principi rappresentano le fondamenta sulle quali edificare la sicurezza del Paese, quella dei suoi cittadini e delle sue comunità … Cristiani, ebrei e musulmani credono nella misericordia di Dio - conclude la lettera –. Noi ci incontriamo e … preghiamo per la pace in Iraq e in Siria. Siamo impegnati a dialogare con le comunità musulmane in Canada, perché sappiamo che le distorsioni violente di ciò che è l’islam sono causa di malintesi e di sofferenze in Canada per i musulmani che vogliono la pace così come le comunità non musulmane. Condanniamo ogni tentativo per demonizzare l’islam e i musulmani pacifici e rispettosi della legge”. (A cura di Tiziana Campisi)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 98

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.