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Sommario del 07/04/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Mons. Zenari: Papa ci dà sempre coraggio, mondo lo ascolti

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Il mondo non si volti dall’altra parte. È rimbalzato ovunque nel mondo l’ennesimo appello di Papa Francesco, levato ieri al Regina Coeli in favore dei cristiani perseguitati. Iraq e Siria sono i Paesi dove in particolare le violenze anticristiane sono crudeli e insistite. Alessandro De Carolis ha sentito per un commento il nunzio in Siria, mons. Mario Zenari, che questa mattina a Homs ha preso parte alla celebrazione in memoria di padre Frans Van der Lugt, l’anziano gesuita olandese assassinato nella città martire il 7 aprile di un anno fa: 

R. – Padre Frans, che aveva scelto di rimanere con la popolazione che è stata sotto assedio per due anni, è stato assassinato un mese prima che la città di Homs venisse liberata. Questo esempio è davvero emblematico. Questa mattina, qui, prima di celebrare la Santa Messa, ho visto molta gente e – cosa che mi impressiona – moltissimi giovani e famiglie venute da diverse parti della Siria, non solo cristiani ma anche musulmani, che hanno stimato e amato padre Frans. Venendo da Damasco – sono due ore di strada – si passa attraverso una zona desertica che proprio nei mesi di marzo ed aprile è coperta da una leggera coltre di verde. E io facevo questo pensiero: questi cristiani, questa gente che soffre, che dà la vita perché ama i propri fedeli, ama il proprio popolo, è come questi semi che anche se sono calpestati prima o poi germogliano. Questa, direi, è anche un po’ la speranza della Siria che sta vivendo un dramma tutto particolare: tanta gente e tanti innocenti che soffrono, vite spezzate come quella di padre Frans van der Lugt. L’importante è seminare semi di bontà, semi di non violenza, di rispetto della dignità umana e prima o poi questi germoglieranno e sarà veramente primavera, sarà anche la primavera araba.

D. – La morte di padre Frans è emblematica delle aggressioni che subiscono tanti cristiani in Siria e anche altrove e il Papa in questi giorni di festa di Pasqua li ha ricordati. Che impressione le hanno fatto le sue parole rivolte al mondo a non avere un “silenzio complice”, a fare di più, a non voltarsi dall’altra parte…

R. – Questo messaggio del Papa, questo richiamo è molto apprezzato dai cristiani di qui e non solo dai cristiani. Credo sia un dovere di tutta la comunità internazionale di proteggere questi gruppi minoritari, che alle volte sono aggrediti con atrocità. Qui c’è un dovere – e il Papa fa bene a richiamarlo – un dovere di tutta la comunità internazionale. E direi che questo ha incoraggiato, ha dato forza anche ai cristiani della Siria. Questi appelli poi hanno un tocco particolare: il giorno di Natale aveva menzionato per prima “l’amata Siria” e questo aggettivo fa molta presa sui cristiani di qui e, ripeto, non solo sui cristiani ma su tutti i siriani, che hanno una grande stima del Santo Padre.

D. – Come ha vissuto le feste di Pasqua la comunità cristiana di Damasco e quali notizie le sono giunte da altre zone?

R. – Ho celebrato il Venerdì Santo a Damasco presso la cattedrale greco-cattolico-melkita. Era strapiena di gente, di cristiani. E da tutte le parti della Siria, anche qui a Homs, ho sentito dire che mai come ora i cristiani riempiono le chiese. Direi che la fede e la preghiera sono una grande forza contro il timore, contro l’ansia per il futuro, soprattutto dei cristiani. E’ stata una Pasqua molto, molto sentita. Credo, infatti, che i nostri cristiani abbiano sentito molto la Passione del Signore Venerdì Santo. Tutti i siriani – cristiani, musulmani e di altre fedi – hanno dovuto cominciare un cammino di Via Crucis. Quante sofferenze, quante morti... Ora, ci si chiede a quale “stazione” della Via Crucis siamo arrivati. Siamo arrivati alla 14.ma, quella che precede la Risurrezione? Oppure, siamo ancora purtroppo a metà del cammino della Via Crucis? Questo è quello che pesa un po’ sull’animo dei cristiani e direi di tutti i siriani.

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Nomine episcopali in India e Venezuela

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In Venezuela, Papa Francesco ha nominato vicario apostolico di Tucupita padre Ernesto José Romero Rivas, dei Frati Minori Cappuccini, finora parroco e  pro-vicario della medesima diocesi. Il neo presule è nato il 19 aprile 1960 a Machiques (Stato Zulia), in Venezuela. Ha completato le scuole primarie presso il Collegio San Pablo, diretto dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Dopo aver conseguito la maturità ed aver frequentato per un breve periodo l’Università, è entrato nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini. Ha svolto il triennio filosofico presso l’Istituto German Roscio dei Padri Gesuiti e il quadriennio teologico presso l’Istituto di Teologia per Religiosi (ITER) di Caracas. Ha emesso la prima Professione l’11 settembre 1980 e quella perpetua il 24 marzo 1990. E’ stato ordinato sacerdote il 2 agosto 1990. Ha ricoperto i seguenti incarichi: 1990-1992: Amministratore parrocchiale della Parrocchia San José del Vicariato Apostolico di Tucupita; 1992-1996: Maestro dei Post-novizi, Vicario, Consigliere e Consigliere Vice-Provinciale dei Frati Minori Cappuccini in Venezuela; 1997-1998: Studi a Roma, ottenendo la Licenza in Catechetica alla Pontificia Università Salesiana. 1999-2005: Superiore, Parroco, Economo e Consigliere Vice-Provinciale dei Frati Minori Cappuccini in Venezuela; 2005-2009: Maestro dei Post-novizi, Superiore e Rettore, Consigliere dei Frati Minori Cappuccini in Venezuela; 2008-2013: Ministro Vice-Provinciale dei Frati Minori Cappuccini in Venezuela; dal 2013: Pro-Vicario di Tucupita e Parroco della Parrocchia di San José.
Il Vicariato Apostolico di Tucupita (1954), ha una superficie di 40.200 kmq e una popolazione di 167.676 abitanti, di cui 120.000 sono cattolici. Ci sono 4 parrocchie e 42 cappelle servite da 8 sacerdoti (1 diocesano e 7 religiosi), 7 Fratelli Religiosi e 13 suore. Il Vicariato Apostolico di Tucupita, è vacante dal 24 maggio 2014, in  seguito al trasferimento di S.E. Mons. Felipe González González, O.F.M. Cap., a Caroní.

In India, il Papa ha nominato vescovo della diocesi di Bagdogra il sacerdote Vincent  Aind, del clero di Jalpaiguri, decano della Facoltà di Filosofia del Morning Star Regional Seminary. Mons. Aind è nato il 30 gennaio 1955 a Kalchini, West Bengal, Diocesi di Jalpaiguri. Ha studiato Filosofia al Morning Star Regional Seminary, di Barrackpore, Calcutta, e Teologia al St. Joseph’s Seminary di Mangalore. Ha conseguito un Masters of Arts in Letteratura Inglese presso la North Bengal University di Calcutta, un Baccellierato in Economics presso il St. Joseph’s College di Darjeeling, una Licenza in Filosofia al Jnana-Deepa Vidyapeeth di Pune, e il Dottorato in Filosofia alla Pontificia Università Gregoriana, Roma. È stato ordinato sacerdote il 30 aprile 1984 per la Diocesi di Jalpaiguri. Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi: 1984 -1985:   Vicario parrocchiale della Christ the King Parish, Damanpur, Diocesi di Jalpaiguri; 1985-1987: Studi di Dottorato in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma; dal 1987: Docente di Filosofia al Morning Star Regional Seminary, Barrackpore; 1995-2000: Direttore Spirituale al Morning Star Regional Seminary; 2001 -2004:    Rettore del Morning Star Regional Seminary; 2004-2007: Parroco della St. Lucy’s Parish – Jyoti Ashram, Chalsa, Diocesi di Jalpaiguri; dal 2007: Docente e Decano della Facoltà di Filosofia del Morning Star Regional Seminary, Principal del Morning Star College. Dal 2007 è anche Consultore Diocesano e Membro del Consiglio per gli Affari Economici della Diocesi di Jalpaiguri, nonché Segretario Regionale della Commissione per il Clero, i Religiosi e i Seminari della Conferenza Episcopale Regionale di West Bengal.

La Diocesi di Bagdogra  (1997),  suffraganea dell'Arcidiocesi di Calcutta, ha una superficie di 1.200 kmq e una popolazione di 1.015.000 abitanti, di cui 54.301  sono cattolici. Ci sono 19 Parrocchie, servite da 58 sacerdoti (28 diocesani e 30 religiosi), 34 Fratelli Religiosi, 151 suore e 15 seminaristi. La Diocesi di Bagdogra, è vacante dal 12 marzo 2011, a seguito del trasferimento dell’Ecc.mo Mons. Thomas D’Souza all’Arcivescovo Coadiutore di Calcutta.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Non voltare lo sguardo: durante le celebrazioni pasquali l'invito del Papa alla comunità internazionale di fronte alla persecuzioni contro i cristiani.

Pellegrinaggio tra i rifugiati: conclusa la visita del cardinale Fernando Filoni in Iraq.

Escalation dell'orrore: fosse comuni scoperte a Tikrit mentre s'intensificano le violenze sui fronti siriani.

Filo rosso: la prefazione dei curatori Franco La Cecla e Lucetta Scaraffia e i contributi di Pierangelo Sequeri e Giuliano Zanchi dal catalogo della mostra sulle pratiche di preghiera nelle religioni che si aprirà l'11 aprile alla Venaria Reale nei pressi di Torino.

Quando ci si ammala di laicità: Henri Tincq sui manifesti per i cristiani d'Oriente censurati e poi riammessi nella metropolitana di Parigi.

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Oggi in Primo Piano



Yemen: scontri ad Aden tra ribelli sciiti ed esercito

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Nello Yemen i ribelli sciiti houthi hanno sferrato un duro attacco nel sud, puntando sull’importante porto strategico di Aden. Decine le vittime degli ultimi combattimenti. Intanto la coalizione araba a guida saudita continua a bombardare le postazioni dei ribelli nei dintorni della capitale Sanaa. Sul rischio che il Paese venga spaccato in due in seguito a questa situazione, Giancarlo La Vella ha intervistato Vincenzo Strika, docente emerito all’Orientale di Napoli di Storia Contemporanea dei Paesi arabi: 

R. – Diciamo che il Paese è già stato diviso in passato. Lo Yemen è ancora un Paese interessante, ma non più come una volta. Non dimentichiamo che per tanto tempo l’Oceano Indiano è stato un’area economica di grande importanza. Oggi ha ancora una certa attrattiva, gravitando lì l’India, l’area del Golfo e il Sudafrica. Lo Yemen, quindi, ridiventa un Paese potenzialmente decisivo.

D. – L’ingresso nel conflitto della coalizione araba a guida saudita, con l’Iran anche che appoggia i ribelli sciiti, potrebbe causare un conflitto più allargato?

R. – Un conflitto allargato lo escluderei. Guerriglia sì, questo è già in atto. E’ chiaro che se l’Arabia Saudita punta a destabilizzare lo Yemen, l’Iran risponde, tanto più che adesso è in una posizione di relativa forza, avendo concluso l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

D. – Qual è l’obiettivo dei ribelli sciiti houthi, a questo punto?

R. – Probabilmente instaurare un governo. Non bisogna poi dimenticare che nello Yemen il confronto sciiti-sunniti è molto spesso un conflitto tra ricchi e poveri: se prevale una tendenza rispetto all’altra, una diventa economicamente privilegiata, suscitando l’invidia dell’altra.

D. – Se i ribelli dovessero conquistare Aden, che è comunque un porto di importanza anche regionale, cosa potrebbe accadere?

R. – Non vedo ancora una vittoria chiara, vedo piuttosto una soluzione concordata all’interno della Lega Araba o dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, qualcosa che ad un certo punto risolva questo conflitto e dia anche un aiuto economico a questo Paese, martoriato dalla crisi da tanti anni.

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Onu: a Yarmouk è catastrofe umanitaria. Si salvino i civili

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Sono confuse e non confermate le notizie che provengono dal campo profughi palestinese di Yarmouk, alle porte di Damasco in Siria, dove i civili sono intrappolati da una parte dalle bombe delle truppe governative di Assad e dall’altra dai combattimenti tra le forze ribelli e i jihadisti dell’Is e del Fronte al Nusra, che negli ultimi giorni avrebbero conquistato circa l’80% del campo. Si parla di esecuzioni sommarie, di rapimenti, ma anche di decapitazioni dei palestinesi che difendono la zona. L’organizzazione umanitaria Save The Children denuncia che almeno 3.500 bambini siano intrappolati, a rischio di essere feriti o uccisi. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu preme perché sia garantito l’accesso per la consegna di aiuti umanitari. Francesca Sabatinelli ha intervistato Marina Calvino, segretario generale di Unrwa Italia, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi: 

R. – Ci è negato l’accesso al campo per la distribuzione di aiuti umanitari, cosa che purtroppo è successa già in passato. L’ultima distribuzione è avvenuta il 30 marzo. L’accesso è gestito dalle forze governative che circondano completamente l’area del campo che è un quartiere di Damasco, un vero e proprio sobborgo periferico, considerato luogo strategico per le varie forze in campo. Ma è anche un luogo in cui la debolezza della popolazione è arrivata a un punto di non ritorno, per cui è imprevedibile quello che può accadere al suo interno. E’ una situazione drammatica, di grande confusione, in cui i civili sono quelli che subiscono le maggiori conseguenze.

D. – Sono migliaia le persone che sono intrappolate tra i governativi da una parte e l’Is dall’altra…

R. – Esatto, fino a poco tempo fa erano 18 mila i rifugiati palestinesi bloccati all’interno del campo. Ho avuto notizie non ufficiali che, tra ieri e oggi, alcuni di loro sono riusciti a scappare in un corridoio estemporaneo. Ma quello che chiediamo noi è di poter avere l’accesso al campo per permettere quello che è il nostro mandato per la protezione dei rifugiati palestinesi e l’evacuazione di quelli che vogliono lasciare il campo quanto prima perché temono la loro sicurezza.

D. – Quali sono le emergenze di oggi, ma che sono poi quelle anche di mesi fa, del campo?

R. – E’ un anno che Yarmouk è completamente circondato. L’esigenza è quella di distribuire gli aiuti alimentari. Noi siamo riusciti a raggiungere con l’ultima distribuzione soltanto una quantità di calorie pro capite che ammonta a circa 400, quando normalmente il dispendio energetico dovrebbe coprire 2.000-2.100 calorie. Quindi, questo vuol dire che è necessario per noi avere un accesso più frequente, più regolare, e avere il tempo di distribuire maggiori razioni alimentari, acqua potabile soprattutto, perché al momento non c’è acqua potabile, né medicinali. La popolazione sta anche morendo delle patologie normalmente curabili con un semplice antibiotico, una semplice medicina. Questa popolazione sta morendo, giorno dopo giorno, intrappolata in un embargo che deve essere sciolto a livello politico. Per questo motivo, abbiamo fatto appello al Consiglio di sicurezza proprio ieri, nella persona del commissario generale dell’Unrwa, affinché tutte le parti, non solo quelle in conflitto, ma tutta la comunità internazionale, risponda al nostro appello di trovare una soluzione a questa crisi che è estremamente complessa e che necessita dell’aiuto e del coinvolgimento di tutte le parti in causa: non solo della comunità internazionale ma anche di soggetti che possano ispirare a livello religioso, a livello morale, qualsiasi soggetto che abbia un minimo di influenza su questo conflitto che, ripeto, è estremamente complesso.

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Il Rwanda a 21 anni dal genocidio non dimentica ma perdona

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21 anni fa, era il 7 aprile del 1994, il Rwanda viveva il suo olocausto: in cento giorni la furia degli hutu massacrò un milione di tutsi, soprattutto a colpi di machete, con la scusa della vendetta trasversale per l’uccisione dell’allora presidente Juvenal Habyarimana, morto il giorno prima, il 6 aprile, nell’abbattimento del suo aereo da un missile terra-aria, mentre rientrava in patria con il collega del Burundi. Della mano assassina ancora oggi è sconosciuto il nome, ma questo omicidio ha aperto una  delle pagine più drammatiche della storia africana, aggravata dalla totale indifferenza della comunità internazionale. Ancora oggi alcuni dei responsabili vivono in libertà, sebbene ad Arusha, in Tanzania, sia stato creato il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda. Valens Musabyemungu all’epoca aveva 10 anni, lui e la sua famiglia di etnia tutsi cercarono di sfuggire alla violenza, ma non tutti ce l’hanno fatta. Valens da 10 anni vive in Italia, studia all’Università e lavora ai Musei Vaticani. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato: 

R. – Era il 7 aprile, dopo la morte del presidente ci siamo rifugiati in una parrocchia, la nostra, perché incominciavano a bruciare le case. E là ci siamo incontrati con altre persone, eravamo in tanti, più di 4mila.

D. – E lì eravate al sicuro?

R. – All’inizio sì, finché siamo diventati tanti ed è incominciato a mancare un po’ il cibo, poi hanno tagliato l’acqua ma siamo rimasti là, non si poteva uscire, non si poteva andare a cercare il cibo. Eravamo al sicuro all’inizio, ma la cosa è durata due-tre giorni al massimo.

D. – Tu con chi eri?

R. – Io stavo con i miei: mio padre, i miei cinque fratelli, mia madre, i miei nonni, tutti quanti. Mio padre è morto subito, perché lanciavano le granate dentro, le persone che uscivano fuori per cercare cibo venivano uccise.  Mio padre è morto subito, dopo due settimane, e noi siamo rimasti là perché mia madre era incinta al settimo mese del mio fratellino, e ci siamo rimasti circa un mese, in cui venivano e uccidevano quelli che volevano uccidere e poi, io ricordo che sono venuti e hanno ucciso anche il parroco, perché ci proteggeva. Poi sono tornati e hanno detto che se gli uomini fossero usciti per farsi uccidere, avrebbero liberato le mogli e i figli. E allora, gli uomini che stavano là con noi hanno detto: “Va bene”, visto che eravamo circondati, c’erano i militari fuori, c’erano persone con il machete, lanciavano le granate dentro, non c’era più acqua, hanno selezionato quelli che volevano e li hanno uccisi e poi è andata avanti per un mese, dopo di ché ci hanno caricato sui pullman e ci hanno portati in un Campo profughi e siamo rimasti là per altri due mesi. In un mese ho visto solo la morte. In un mese ho visto la fame, le persone ferite senza cure, ho visto l’incubo e ho visto l’inferno.

D. – Tu hai perso tuo padre, e anche qualcun altro della tua famiglia?

R. – Sì: mio padre, la mia sorellina, i miei due nonni, due zie e le loro famiglie, ho perso 12 persone di casa mia in un mese.

D. – Quanto si riesce a perdonare? Come vivi con questi ricordi?

R. – Impari a conviverci, quando ho visto che anche i carnefici, quando tutto è finito e alcuni si sono rifugiati, sono andati in Congo, altri sono stati incarcerati, non ci hanno guadagnato niente. Uno crescendo, grazie poi alla fede e all’educazione ricevuta, si rende conto che l’odio non porta alcun beneficio. Ti rendi conto che l’unico modo per andare avanti è perdonare, non significa dimenticare, perché chi dimentica ricade sempre negli stessi errori, significa accettare quello che ti è successo, conviverci e andare avanti e perdonare per permettere a chi ti ha fatto un torto di venire davanti a te a chiedere perdono. Se uno rimane sempre attaccato a quei momenti non può andare avanti. Non può andare avanti, se non perdona. Però è sempre un lungo cammino da percorrere, perché comunque le ferite sono ancora aperte. Io, a 31 anni, adesso vorrei vedere mio padre, e non posso farlo, il mio fratellino, che è nato dopo che mio padre era stato ucciso, non conoscerà mai suo padre, non ne vedrà mai neanche le foto, perché hanno bruciato tutto.

D. – Il Rwanda che Paese è, oggi? E’ un Paese sereno?

R. – E’ un Paese sofferente ma nello stesso tempo speranzoso di andare avanti, di ricostruirsi, di riconciliarsi soprattutto. C’è una battaglia da combattere: del perdonare e del chiedere perdono, di riconciliarsi, carnefici e vittime. Da noi è un Paese sereno perché abbiamo imparato tutti, chi ha fatto del male e chi l’ha subito, che l’unico modo non è dividerci, l’unico modo di vivere la vita veramente nella maniera giusta è essere uniti e superare le differenze per vedere quello che ci unisce, perché io ho visto a cosa può portare l’odio, la separazione e la divisione. Io l’ho vissuto sulla mia pelle, purtroppo, e non lo auguro a nessuno. Scelgo la strada della pace piuttosto che quella della guerra. Tutti in Rwanda scegliamo l’unità. Invece di scrivere sulla carta d’identità “hutu” e “tutsi”, adesso cancelliamo questa cosa dalla carta d’identità, e scriviamo “rwandesi”. Adesso, se vai in Rwanda, vedi un Paese abbastanza sicuro, tranquillo, che sta crescendo in tutti i settori: nell’istruzione, in economia. Ci si sta ricostruendo, ci si sta facendo forza per andare avanti e cercare non di dimenticare, ma di correggere.

D. – Cosa farai, tu? Ti stai laureando per tornare a casa, o per restare in Italia?

R. – Mi sento ancora fiero di essere rwandese, mi sento di tornare e mi sento anche di contribuire all’unificazione e alla pacificazione del mio popolo.

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Giornata mondiale salute: 2 milioni di morti per cibo infetto o tossico

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Ogni anno, nel mondo, 2 milioni di persone muoiono per malattie e disturbi di origine alimentare, dalla diarrea al cancro. La denuncia arriva dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), nell’odierna Giornata internazionale della salute, dedicata alla sicurezza alimentare. Il servizio di Roberta Gisotti

Un piatto con una zuppa dentro e la scritta “Quanto è sicuro il tuo cibo?”, e sotto l’invito “Dal produttore alla tavola rendi sicuro il cibo”. La locandina della Giornata mondiale della salute 2015 rimanda un messaggio chiaro: l’importanza di vigilare su tutta la catena alimentare, dai coltivatori e allevatori, all’industria alimentare, ai fornitori, ai consumatori. 2 milioni di persone nell’arco di un anno - è la stima dell’Oms - perdono la vita a causa di patologie contratte attraverso l’ingestione di cibo avariato, contaminato, tossico, mal conservato, mal cucinato. I disturbi - come nausea, vomito, diarrea - possono essere passeggeri ma anche esiziali, specie se accomunati ad altre patologie e possono dare anche origine a malattie neurologiche ed oncologiche. L’Oms  ha catalogato oltre 200 patologie di origine alimentare, che ogni anno infettano quasi 600 milioni di persone - in gran parte bambini, anziani e malati - e provocano 351 mila decessi.

La direttrice generale dell’Oms, Margaret Chan, punta il dito su “una produzione alimentare industrializzata, e un commercio e una distribuzione dei prodotti globalizzata”, che ha aumentato “i rischi per il cibo di essere contaminato da batteri nocivi, virus, parassiti, sostanze chimiche pericolose”. La sicurezza alimentare oggi è dunque una responsabilità da condividere dai governi dei Paesi ai cittadini, dalle misure di sicurezza imposte dalla terra alla tavola, ai controlli lungo la filiera produttiva, distributiva e conservativa dei cibi, alle abitudini e stili di consumo adottati dalle persone. Per questo l’Oms indica a tutti cinque punti chiave nel trattare i cibi: osservare la pulizia, separare gli alimenti crudi e cotti, cuocere accuratamente il cibo, mantenerlo alla giusta temperatura, usare acqua e materie prime sicure.

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ActionAid: l'Italia sia coerente nella lotta contro la fame

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In vista dei prossimi vertici internazionali ad Addis Abeba e a New York, mirati alla definizione di un’agenda per lo sviluppo sostenibile e a meno di un mese dall’esposizione universale sul tema “ Nutrire il pianeta”, ActionAid Italia ha promosso a Roma il dibattito “Le nuove sfide per lo sviluppo sostenibile: una nuova partnership globale per sradicare la povertà entro il 2030”. Obiettivo, tracciare il ruolo che l’Italia e l’Europa saranno chiamati a rivestire in base alla nuova Agenda di sviluppo post-2015. Al microfono di Adriana Masotti, Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid Italia: 

R. – Nell’anno Duemila, i capi di Stato e di governo hanno approvato otto punti fondamentali che si chiamavano “Obiettivi di sviluppo del Millennio”, che scadevano nel 2015. Alla fine di quest’anno, a settembre, verrà concluso un percorso che ha coinvolto sia i governi che la società civile che il mondo privato nella definizione degli Obiettivi di sviluppo per i prossimi 15 anni: nella bozza attuale sono 17 gli obiettivi che definiscono cosa devono fare tutti gli attori coinvolti. Noi di ActionAid abbiamo chiamato quindi le istituzioni, i ministri, le Nazioni Unite, la Fao, il mondo dell’impresa e la società civile a discuterne oggi a Roma.

D. – Ma gli obiettivi fissati entro il 2015 sono stati raggiunti?

R. - Degli Obiettivi del Millennio che sono stati identificati 15 anni fa si sono fatti alcuni progressi su tutti, non su tutti si è arrivati in fondo… Oggi, ci stiamo occupando in particolare del diritto al cibo e sappiamo che le persone che soffrono la fame numericamente sono diminuite, anche se è aumentata la popolazione mondiale: quindi il progresso c’è, ma non è stato così evidente come ci aspettavamo. Quindi, la domanda è: è utile stabilire degli obiettivi nuovi? E la nostra risposta è: sì, perché stabilire degli obiettivi dà agio a tutti gli attori coinvolti di lavorare secondo una agenda condivisa.

D. – Prima citava la bozza della nuova Agenda di sviluppo in 17 punti: quali i principali?

R. – Riconoscere che l’agenda sociale dell’esclusione sociale, l’agenda economica dell’esclusione economica e quella che riguarda la sostenibilità ambientale del Pianeta vanno di pari passo. Questa maggiore integrazione è un punto di forza di questa bozza di “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, così verranno chiamati. Noi di ActionAid ci siamo focalizzati oggi su quello che è stato il primo obiettivo di sviluppo del Millennio e che rappresenterà i primi due del nuovo set di Obiettivi: il ruolo dell’agricoltura come possibilità per sradicare la fame nel mondo. Importante sottolineare che si parla ormai di sradicare la fame nel mondo, mentre prima di parlava di dimezzarla. Quindi, sempre nell’ottica che è vero che gli obiettivi si rimodulano, ma diventano anche più ambiziosi.

D. – Ci sono delle richieste precise che ActionAid fa all’Italia?

R. – ActionAid fa alle istituzioni italiane una richiesta di coerenza. Oggi, la fame nel mondo si combatte anche a casa. Faccio un esempio: nelle mense scolastiche si consumano 380 milioni di pasti all’anno in Italia, questa partita vale circa oltre un miliardo di euro all’anno e sono coinvolti 10 milioni di italiani. Bene, si può fare un passo molto concreto per orientare il mondo in cui il cibo viene prodotto su scala internazionale. Per esempio, il decreto sulla “Buona scuola” non fa menzione in alcun modo di quale debba essere la buona mensa nella scuola italiana. Ecco, su questo si può lavorare di più. Esiste un piano nazionale sullo spreco: bisogna ridurre lo spreco lungo tutta la filiera e certamente non buttando il cibo quando arriva sulle nostre tavole, ma anche facendo in modo che venga prodotto e distribuito senza sprechi. Poi, c’è tutto il versante internazionale: l’Italia si presenterà all’Esposizione Universale con una "Carta di Milano", che dovrebbe essere l’eredità politica e culturale di questa Esposizione Universale: al di là di questo, però, si possono fare delle scelte – per esempio – in ambito europeo, diminuendo i sussidi agli agrocarburanti che producono il fenomeno di accaparramento delle terre. Oppure, riconoscendo che devono cambiare anche i modelli di consumo in Europa… Insomma, l’Italia – sia i cittadini che le istituzioni – ha molti tavoli su cui giocare una partita, che si vince se si gioca tutti assieme. 

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Fr. Tasca: scandalo non è il troppo cibo ma ignorare i poveri

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In che modo la sobrietà del carisma francescano può contribuire a un rapporto con il cibo che sia utile per una “vita sana” e insieme una “vita santa”? È la domanda di fondo che guida la riflessione di fra Mario Tasca, ministro generale dei Frati minori conventuali, contenuta nella lettera inviata dal religioso al suo Ordine in vista dell’Expò di Milano. Lo stesso padre Tasca sintetizza le sue riflessioni al microfono di Federico Piana

R. – L’idea è nata proprio parlando con i frati. Sempre diciamo: “Ma, che cosa facciamo per questa Expo? Che apporto possiamo dare?”. E da qui è nata l’idea di condividere un po’ delle idee sul cibo, visto che il tema è appunto “Nutrire il pianeta – energia per la vita”. Io penso che il primo elemento sia proprio mettere in connessione come ho fatto cibo e relazioni. La prima domanda che ci siamo fatti è questa: il cibo che arriva sulla nostra tavola, da dove arriva? Come arriva? Dietro forse ci sono ingiustizia, sfruttamenti, umiliazioni o certamente anche gioie, soddisfazioni? Quante storie dietro il cibo che arriva sul nostro tavolo… E allora, penso sia il primo aspetto, quello di prendersi a cuore questa realtà che porta gioie, ma probabilmente anche ingiustizie e sfruttamenti e umiliazioni.

D. – Nella lettera lei fa una domanda importante: siamo all’altezza, noi frati di fama di povertà?

R. – Sì, penso sia una domanda dalla quale io mi aspetto delle risposte anche dai miei frati. Credo che anche qui dobbiamo fare una connessione molto importante: cibo e missione. Noi preghiamo ogni giorno il “Padre Nostro” e gli chiediamo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Quindi, noi chiediamo al Signore che sia provvidente nei nostri confronti. Ma poi il pane, il cibo, non è solo mio, è nostro. E abbiamo tutti insieme il dovere di far sì che sia davvero un “pane nostro”. Allora, credo che questa domanda porti raramente anche ad approfondire il rapporto tra cibo e missione, quanto siamo occupati e preoccupati perché tutti possano avere ogni giorno il pane quotidiano. E anche qui è interessante. Francesco, quando parla della missione e mette in connessione con la missione il digiuno, è la missione che segna i ritmi del digiuno e non il contrario. Infatti, i frati andavano a predicare a tutta la gente che incontravano e quindi davvero dovevano impegnarsi nel digiuno quando questo era possibile. Quindi, davvero la centralità della missione credo sia un elemento importantissimo, come frati, per rispondere a questa domanda.

D. – C’è un altro punto interessante nella sua lettera, che è quello dello spreco alimentare. Quello di non sprecare dovrebbe essere per noi, dice lei in questa lettera – noi francescani, ma noi cristiani, noi esseri umani – una sorta di comandamento…

R. – Certo. Anche qui io porto un esempio molto chiaro. Quando nel Vangelo si parla del ricco Epulone è interessante: il Vangelo parla non tanto e non pare sia difficile il fatto che questo (Epulone) mangi ogni giorno in banchetti lauti e vesta in una certa maniera. Il vero problema, il vero scandalo è che non si accorge del povero che sta alla sua porta. Credo che sia questa la sfida più grande che oggi siamo chiamati ad affrontare e alla quale dobbiamo dare qualche risposta: sentirci responsabili del povero che sta vicino a noi, che incontriamo quando passiamo per la strada. Davvero, di non chiuderci nella nostra realtà che può essere non dico ricca, può essere anche semplice. Ma l’obiettivo è di aprire gli occhi su chi sta intorno a noi.

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Nella Chiesa e nel mondo



Auguri di Pasqua del Patriarca di Mosca Kirill

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Il Patriarca di Mosca e tutta la Russia, Kirill ha inviato un messaggio di auguri di Pasqua ai capi delle Chiese non ortodosse. Tra i destinatari: Papa Francesco, il Patriarca supremo e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II, il capo della Comunione Anglicana e arcivescovo di Canterbury Justin Welby, il presidente della Chiesa evangelica in Germania, vescovo Dr. Heinrich Bedford-Strohm. "Formulo i miei più cordiali auguri - scrive Kirill - in occasione della grande e salvifica festa della Pasqua e Le rivolgo il gioioso saluto: Cristo è Risorto! In questo giorno luminoso celebriamo Gesù che si è rialzato dal sepolcro per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere (cf. Eb. 2, 14)". 

Il Patriarca invoca il rafforzamento della cooperazione tra cristiani
"Rendendo lode al Signore per la Sua indicibile benevolenza per il genere umano - prosegue il Patriarca - rafforziamo la cooperazione tra cristiani in nome del trionfo della verità di Dio, del consolidamento nella società degli alti ideali evangelici dell’amore, bene e misericordia e degli autentici valori spirituali e morali. Il sapiente Creatore che “ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia” (1 Pt. 1, 3-4) - conclude Kirill - La custodisca nella fortezza del corpo e dello spirito, e La ricolmi della Sua generosità. (A cura di Stefano Leszczynski)

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Mons. Twal: da questa Terra Santa martoriata sgorghi la pace

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“Da questa Tomba sono uscite la luce e la pace. E oggi ancora, da qui, da questa Terra Santa così martoriata, devono di nuovo sgorgare la luce e la pace. Imploriamo la grazia del Signore per la Terra Santa e per il mondo intero”. È la preghiera elevata dal patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dalla Basilica del Santo Sepolcro nella Città Santa. Celebrando la Messa di Pasqua - riferisce l'agenzia Sir - il Patriarca ha ricordato che “ogni giorno, in Medio Oriente, siamo testimoni di avvenimenti tragici che ci rendono ancora contemporanei del Calvario. Ma la nostra gioia e la nostra fede nel Risorto ‘nessuno ce la può togliere’ perché il Signore ci invita, benché in mezzo alle difficoltà che abbiamo, a gustare le primizie della sua Resurrezione”. 

Nella tomba di Cristo seppellire divisioni religiose, violenza e paure
Nell’omelia Twal ha esortato i fedeli a “vivere il primo miracolo della Resurrezione, il cambiamento radicale del cuore, la conversione, come il centurione romano ai piedi della Croce. C’è la conversione dei soldati, ma anche quella dei discepoli riuniti nel Cenacolo e chiusi a chiave per paura. La Risurrezione li ha trasformati e sono diventati testimoni, testimoni felici di soffrire per Cristo. Seppelliamo, dunque, nella Tomba di Cristo le nostre inclinazioni mondane, le nostre incoerenze, le nostre divisioni religiose, la nostra violenza, la nostra mancanza di Fede e le nostre paure”. 

I cristiani chiamati ad essere segno di contraddizione e di speranza
“Come cristiani - ha proseguito Twal - siamo chiamati, al cuore di questa regione del Medio Oriente scosso dalle guerre e insanguinato dalla violenza, ad essere segni di contraddizione, segni di speranza malgrado tutto. Il nostro futuro in questa regione e in questo mondo è incerto e persino più oscuro, ma noi non abbiamo paura, Cristo ci ha preceduto ed è con noi”. 

La Comunità internazionale si preoccupa molto poco del Medio Oriente
Tutto questo nonostante “i politici e la Comunità internazionale si preoccupano molto poco della nostra libertà e della nostra sorte. Gli interessi personali schiacciano la buona volontà di chi cerca la pace e la giustizia. Ma i martiri contemporanei - ha concluso il patriarca - non smettono di testimoniare la Resurrezione di Cristo: tutto, dalle processioni e dalle pietre di Gerusalemme ai rifugiati iracheni e siriani, che hanno perduto tutto a causa della loro fede, a coloro che sono prigionieri nel nome di Cristo, tutto testimonia che nostro Signore è vivo”. (R.P.)

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Card. Bo: Pasqua di solidarietà con i cristiani perseguitati

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Vicinanza ai cristiani perseguitati in Medio Oriente, vittime di una barbarie che “uccide, mutila e crocifigge persone innocenti in nome della religione”, e ai bambini che muoiono (almeno 30mila ogni giorno) per fame e malnutrizione in tutto il mondo. E ancora, un pensiero ai molti problemi che caratterizzato il Myanmar, nazione che cerca a fatica di uscire dalle ombre della guerra e della violenza spesso perpetrata dallo Stato. Sono molti i temi toccati dal card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon - riferisce l'agenzia AsiaNews - nel suo messaggio di Pasqua, una celebrazione che è occasione di “misericordia e riconciliazione” seguendo “i gesti e le parole” di Papa Francesco. Il porporato avverte che “il nostro compito non è finito”, perché la nazione è ancora “ferita” e “sanguina”, per questo è necessario “lavorare in modo attivo per la pace” e “promuovere l’armonia “fra le diverse comunità”. 

Il card. Bo ricorda la barbarie contro i cristiani in Medio Oriente
Il male non è scomparso dal Myanmar e dal mondo, sottolinea il card. Bo rivolgendosi ai fedeli, perché “continua nel suo terribile tentativo di annullare il bene”. Il porporato ricorda prima di tutto la barbarie che si sta consumando in Medio Oriente, dove i cristiani “vittime innocenti” vengono massacrati “in nome della religione”. E ancora, i 10 milioni di bambini deceduti per malnutrizione nelle aree più povere, mentre in altre parti del mondo “si sprecano milioni di tonnellate di cibo”. 

Preoccupazione anche per il Myanmar
Anche nella ex Birmania, prosegue l’arcivescovo di Yangon, vi sono ancora oggi elementi di preoccupazione. Dallo sfruttamento intensivo dei beni e delle risorse naturali - legname, pietre preziose, il fiume Irrawaddy - agli accordi di pace fra governo centrale e minoranze etniche, spesso rimasti solo carta straccia, sono molte le questioni ancora irrisolte. “Invochiamo una nuova resurrezione - afferma - di pace e prosperità per tutto il popolo”. Il Paese ha bisogno di “riconciliazione fra comunità” diverse, prosegue il prelato. Ancora oggi vi sono guerre nelle regioni del nord (Kachin e Shan), con giovani vittime innocenti, e centinaia di migliaia di persone (fra cui i musulmani Rohingya nello Stato di Rakhine) sfollate, costrette a sopravvivere in condizioni di fortuna o emigrare. Per il card. Bo “la riconciliazione fra gruppi etnici ed esercito è possibile” e la Chiesa birmana lavora per il dialogo e la pace fra le parti. 

Solidarietà con gli studenti che invocano una riforna dell'istruzione
L’arcivescovo di Yangon rinnova la solidarietà e la vicinanza agli studenti in piazza per una riforma in chiave democratica dell’istruzione, la cui protesta è stata repressa con la forza dalle autorità. “Essi vogliono dar vita a una nuova nazione - spiega il porporato - di speranze e opportunità”. Una generazione nuova, aggiunge, “lotta per uscire dall’oscurità… facciamo in modo che non tornino di nuovo nella tomba”. “La Chiesa è vicina alla nostra gente - avverte - nel suo sogno di uscire da un periodo di forzata oscurità”. 

La Chiesa birmana ha celebrato 500 anni di storia
La nostra è una Chiesa risorta, conclude il card. Bo, ricordando le repressioni della giunta militare negli anni ’60 del secolo scorso, che non sono riuscite però a cancellare la storia di una comunità che ha celebrato i 500 anni di vita e missione. “Siamo stati sepolti, ma siamo risorti nella fede. Siamo gli angeli della misericordia che vanno incontro a migliaia di poveri attraverso l’istruzione, la sanità e lo sviluppo umano”. “Oggi in Myanmar vi è speranza, perché la Pasqua è portatrice di speranza”.

I cattolici sono l'1% della popolazione birmana
L'arcidiocesi di Yangon - capitale commerciale della ex Birmania - è formata da quasi 100mila fedeli, su una popolazione di oltre 14 milioni di persone; il territorio è suddiviso in 39 parrocchie. Il Myanmar è una nazione multi-etnica (oltre 135 le diverse etnie e minoranze) e multi-confessionale: sebbene non vi sia una religione ufficiale di Stato, quasi l'80% dei cittadini professa il buddismo Theravada; i cristiani sono il 4% (i cattolici l'1%), come i musulmani anch'essi al 4%; l'1% professa l'induismo, mentre un ulteriore 2% pratica fedi diverse o legate alla tradizione animista. (F.K.T.)

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Centrafrica: attesa e speranze per Forum di pace di Bangui

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C’è grande attesa nella Repubblica Centrafricana per il Forum di Bangui, momento conclusivo di una serie d’incontri di dialogo popolare, nelle diverse province, per riconciliare la popolazione divisa dall’odio e dalla diffidenza. Ma non solo…. C’è grande attesa anche per un possibile viaggio di Papa Francesco. Nonostante ciò - riferisce l'agenzia Sir - “la situazione rimane ancora precaria”, come conferma mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui e presidente della Conferenza episcopale centrafricana. “La situazione è precaria. Stiamo assistendo a una fase di calma, ma sono convinto che siamo ancora seduti sui carboni ardenti e che sia sufficiente una piccola scintilla per riaccendere il fuoco. La nostra società è fragile e convalescente. 

Il Paese è ancora una polveriera
Il disarmo non ha ancora avuto luogo - aggiunge il vescovo - e il Paese è una polveriera. La gente parla molto del Forum e si aspetta un cambiamento magico. Piuttosto, io direi che abbiamo bisogno d’imparare a fidarci di nuovo, accettandoci, dialogando, ascoltandoci e proponendo possibili soluzioni. Stiamo assistendo a un rigurgito di criminalità, al fenomeno del banditismo su vasta scala. Continuano gli scontri nelle regioni di Bambari, Kaga Bandoro, Bossangoa... Gli agenti dello Stato sono riluttanti a cercare di riconquistare la provincia per timore delle milizie Balaka e Seleka”. 

Mons. Nzapalainga: è possibile che io incontri la prova e la morte
“Io preparo i genitori, i cristiani, al rischio che mi assumo per il gregge. È possibile che io incontri la prova e la morte. Non ho cambiato il mio programma - afferma mons. Nzapalainga - e continuo l’annuncio e la realizzazione delle opere di bene. Le visite che faccio ai villaggi sono una fonte di gioia. In generale, tutte le autorità cercano d’incontrarmi e pensano che io possa essere il loro portavoce presso il governo. Tuttavia, mi prendo il tempo per ascoltare e discernere. In alcune località abbiamo curato alcune persone, che hanno recuperato la salute. Così, la vita viene salvata. Di fronte alla minaccia di morte, sono rimasto sereno perché cerco il bene degli altri”. 

Possibile visita di Papa Francesco: una benedizione per il Paese
Quanto all’ipotetico viaggio di Papa Francesco entro quest’anno nella Repubblica Centrafricana e in Uganda, l’arcivescovo conclude: “La visita del Papa sarebbe una fonte di benedizione. Dio non ci ha dimenticati e ci viene incontro attraverso il Santo Padre che viene ad asciugare le nostre lacrime, a confortarci e invitarci a intraprendere il cammino della riconciliazione”. (R.P.)

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Giornata Rom. Appello ecumenico: vincere esclusione e povertà

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Un appello ai cristiani d’Europa perché diventino “sempre più aperti nei confronti dei Rom, che sono spesso esclusi e vivono in povertà ai margini della società”. A lanciarlo sono le Chiese europee attraverso i due loro organismi di rappresentanza - la Kek (per le chiese protestanti, ortodosse, anglicana) e il Ccee (per le Conferenze episcopali cattoliche) - in un messaggio comune scritto in occasione della Giornata internazionale dei Rom che si celebra domani, 8 aprile. “Ogni essere umano è creato a immagine di Dio, qualunque sia la sua lingua e la sua cultura”, scrivono Kek e Ccee. 

Le minoranze Rom hanno mantenuto una ricca cultura
“Nonostante la difficoltà vissute lungo tutta la loro storia - aggiungono - le minoranze Rom hanno mantenuto una ricca cultura che include valori come la vita familiare, l’amore per i bambini, la fede in Dio, il rispetto verso i defunti, il piacere della musica e della danza. Consideriamo questa cultura come un dono del Creatore, che merita rispetto e sostegno”. La realtà vissuta da questa popolazione nel continente europeo - riferisce l'agenzia Sir - è dappertutto estremamente difficile. Le Chiese ne danno testimonianza: “La situazione attuale di molte persone Rom in tutta Europa - scrivono infatti nel messaggio - è deplorevole. I principali problemi sono l’antigitanismo verbale e d’azione in tutta Europa, l’alto tasso di disoccupazione, la mancanza di formazione professionale e, di conseguenza, l’estrema povertà”. 

Cresciuta la sensibilità nei confronti dei Rom
“Allo stesso tempo - si legge nel messaggio -, si possono osservare alcune tendenze positive nelle società europee. È cresciuto il numero dei giovani Rom che studiano nelle scuole superiori e nelle università. La conoscenza della popolazione Rom e la sensibilità nei loro confronti è in crescita”. In prima linea nell’aiuto ai “loro fratelli e sorelle Rom” ci sono le Chiese cristiane, i sacerdoti, i pastori e i fedeli. “La nostra convinzione è - scrivono Kek e Ccee - che, accanto all’istruzione e all’occupazione, il cuore umano sia un terzo pilastro importante nello sviluppo delle relazioni con il popolo Rom”. 

Chiese europee: appello alla riconciliazione con il popolo Rom
Le Chiese aiutano le comunità Rom a migliorare la loro integrazione sociale, “preservando la cultura Rom” e questo aiuto passa per l’insegnamento del doposcuola, i servizi medici, gli aiuti alimentari, consulenze legali e altre forme di consulenza, ecc. “Chiediamo alle nostre comunità - è l’appello delle Chiese europee - di sostenere queste iniziative, per diventare veri fratelli e sorelle di queste persone nel bisogno. Operare per la giustizia significa lavorare per una riconciliazione con questo passato. Dobbiamo costruire nuove relazioni giuste con il popolo Rom e impegnarci nel difficile ma essenziale compito del risanamento e della riconciliazione”. (R.P.)

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Corte Strasburgo: condanna Italia per tortura a Scuola Diaz

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La Corte europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per tortura per l'irruzione delle  forze dell'ordine alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. La Corte - riferisce l'agenzia Adnkronos - ha stabilito  all'unanimità che i maltrattamenti subiti dalle persone presenti nella scuola Diaz di Genova da parte delle forze dell'ordine "devono essere  qualificati come 'tortura'", ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo. La decisione è nata dal ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, 62enne all'epoca dei fatti, presente nella scuola al momento dell'irruzione della polizia e vittima di  percosse che gli procurarono fratture multiple. 

Diritto penale italiano inadeguato a prevenire atti di violenza della polizia
Secondo la Corte di Strasburgo, la mancata identificazione degli  autori materiali dei maltrattamenti dipende "in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia". Ma, secondo la Corte, il diritto penale italiano è anche "inadeguato e privo di disincentivi in grado di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte della polizia".

Maltrattamenti inflitti in maniera totalmente gratuita
In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, "aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello", la Corte sottolinea "l'assenza di ogni nesso di causalità" fra la  condotta dell'uomo e l'utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell'irruzione nella scuola. E i maltrattamenti "sono stati inflitti in maniera totalmente gratuita" e sono qualificabili come  "tortura".

Sui fatti la reazione delle  autorità italiane è stata "inadeguata"
Inoltre la Corte europea dei Diritti dell'Uomo osserva che gli agenti  che hanno aggredito Cestaro non sono mai stati identificati, non sono  stati oggetto di un'inchiesta e restano "impuniti". E "si rammarica  che la Polizia italiana possa aver rifiutato impunemente alle autorità competenti la collaborazione necessaria per l'identificazione degli  agenti che passibili di essere coinvolti negli atti di tortura".  Di fronte alla gravità dei fatti la reazione delle  autorità italiane è stata "inadeguata", così come lo è il diritto  penale italiano nel sanzionare e prevenire atti di tortura.

Richiamo all'Italia a "stabilire un quadro giuridico  adeguato"
Infine la Corte di Strasburgo rileva che il carattere del problema è  "strutturale" e richiama l'Italia a "stabilire un quadro giuridico  adeguato, anche attraverso disposizioni penali efficaci", munendosi di strumenti legali in grado di "punire adeguatamente i responsabili di  atti di tortura o di altri maltrattamenti", impedendo loro di  beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte stessa.

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 97

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.