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Sommario del 02/04/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa: sacerdoti chiedano grazia di essere "ben stanchi"

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Imparare ad essere “ben stanchi” e imparare a riposare: è l’esortazione di Papa Francesco ai sacerdoti nell’omelia per la Messa Crismale presieduta nella Basilica di San Pietro in questo Giovedì Santo. Durante la celebrazione i sacerdoti della Diocesi di Roma hanno rinnovato le promesse sacerdotali e sono stati benedetti gli Oli dei Catecumeni e degli Infermi e il Crisma che serviranno per l’amministrazione dei Sacramenti nel corso dell’anno. Il servizio di Sergio Centofanti

La stanchezza dei sacerdoti va dritta al cuore del Padre
Non è facile il compito di “ungere il popolo fedele” di Dio, anzi “è duro”, afferma il Papa, che parla della stanchezza dei sacerdoti: 

“Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre”.

Il riposo è una chiave della fecondità sacerdotale
Occorre superare “la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione”, esorta il Papa che sottolinea come sia “difficile imparare a riposare” e ricorda: “una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo”:

“So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più  raffinati,  non  quelli  dei  poveri  ma  quelli  che  offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare?”.

La stanchezza sana di stare in mezzo alla gente
Tante sono le fatiche dei sacerdoti che stanno in mezzo alla gente e condividono la loro vita, le loro gioie e i loro dolori, ma questa “è una stanchezza sana” e bella perché “la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori” e non li lascia senza impegno diretto, “salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati”. “Questa stanchezza è buona”:

“E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34)”.

La stanchezza dei nemici
C’è poi – ricorda il Papa - “la stanchezza dei nemici”. “Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo”. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare il male:

“Neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza”.

La stanchezza di se stessi
E infine – osserva Francesco - c’è la stanchezza forse “più pericolosa” quella di sé stessi. E’ quando si abbandona il primo amore, non capendo che “solo l’amore dà riposo”, perché “ciò che non si ama, stanca male e alla lunga stanca più male”:

“Questa stanchezza mi piace chiamarla ‘civettare con la mondanità spirituale’. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva”.

Chiedere la grazia di imparare a essere “ben stanchi”
Ma Gesù – afferma Papa Francesco - si «coinvolge» con le fatiche dei sacerdoti, “si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso” che si attacca nel cammino di chi sta in mezzo al suo popolo “nel suo Nome” con “il coraggio di uscire e andare ‘sino ai confini del mondo, a tutte le periferie’, a portare” la “buona notizia ai più abbandonati, sapendo che Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Quindi il Papa conclude:

“E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!”.

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Francesco a Rebibbia: in carcere torna la speranza

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Papa Francesco si reca nel pomeriggio nel Carcere di Rebibbia a Roma, presso la Chiesa del “Padre Nostro”, per celebrare la Messa “in Coena Domini”, durante la quale laverà i piedi ad alcuni detenuti e detenute della vicina Casa circondariale femminile. Sull’attesa nell’istituto di detenzione Fabio Colagrande ha sentito Daniela de Robert, volontaria a Rebibbia, presidente dell’associazione VIC volontari in carcere della Caritas di Roma: 

R. - L’attesa è molto forte. Sicuramente è un’attesa gioiosa tra tutti, in particolare naturalmente, tra quei 300 che potranno partecipare alla Messa, 150 uomini e 150 donne che verranno dal vicino carcere femminile; è un’attesa che coinvolge un po’ tutti, perché è un ennesimo segnale di Papa Francesco, un segnale molto forte di vicinanza con questa periferia che è il mondo del carcere; un segnale di attenzione che cambia sensibilmente la vita delle persone.

D. - C’è un magistero particolare di Papa Francesco dedicato ai detenuti, riassumibile nella frase detta recentemente nel carcere di Poggioreale a Napoli: “Nessuno può dire io non merito di essere carcerato”. Cosa significa?

R. - Significa moltissimo, e - mi permetto di dirle - in continuità anche con gli altri due pontefici, Giovanni Paolo II che incontrò la persona che gli sparò con un gesto di perdono fortissimo; Benedetto XVI che scelse di incontrare i detenuti, parlare dialogare con loro nello stesso carcere di Rebibbia, e Papa Francesco che da sempre dice: “Non giudichiamo, perché siamo tutti sulla stessa barca in qualche modo”. Ricordo quando lui incontrò i cappellani delle carceri e raccontò di queste sue telefonate con i detenuti e disse: “Quando metto giù il telefono mi chiedo perché loro sono lì e io no”. È un modo di dire: “Non siete diversi da noi, non siete il male, non siete le persone che dobbiamo allontanare. Siamo tutti uguali con destini diversi, con scelte diverse, con peccati forse anche diversi, ma il giudizio non serve”. E non giudicare in un mondo dove si è costantemente giudicati - durante il processo, quando si sta in carcere, quando si esce si diventa ex-detenuti, comunque persone da condannare - è un messaggio che scalda il cuore,  ed è un messaggio importante anche per la comunità cristiana che non sempre pensa che quel fare visita ai detenuti sia un po’ alla pari con il far visita ai malati.

D. - Cosa significa vivere la Settimana Santa in carcere? Immagino che anche detenuti non credenti stiano attendendo la visita del Papa …

R. - Sì, la spiritualità, la domanda di spiritualità è un aspetto molto forte della vita in carcere quando si ha anche più tempo per pensare, per stare con se stessi, un tempo vuoto che spesso è riempito dalla riflessione. C’è una domanda di spiritualità, ci sono esigenze comuni; spesso anche i detenuti non cristiani, di altre religioni, vengono alla Mesa perché comunque è uno spazio di preghiera e di forte condivisione. Per tutti il messaggio del Papa è questo: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Siamo un unico popolo, siamo un’unica comunità. Venerdì scorso abbiamo celebrato, sempre nella stessa chiesa, la Via Crucis insieme a don Enrico Feroci, il direttore della Caritas diocesana, che aveva portato in carcere la Croce di Lampedusa. Quel condividere sofferenze diverse è stato un momento importante.

D. - Giovedì il Papa incontrerà anche le detenute; anche mamme con bambini. Ricordiamo che per le donne detenute spesso c’è una sofferenza in più, quella della separazione dai figli …

R. - La separazione dai figli per le donne è devastante. È un dolore immenso, lo vivono anche gli uomini naturalmente, ma per una donna essere separata dai figli vuol dire vivere moltissimo, un senso di colpa, vuol dire sentirsi cattive madri, sentirsi abbandonate dai figli. Verranno tutte le donne del nido con i loro bambini tra zero e tre anni; saranno in prima fila nella chiesa, ma simbolicamente con il Papa ci saranno in quel momento tutti i figli e tutte le figlie troppo violentemente e troppo profondamente separati dai genitori per il carcere.

D. - Giovedì sera, quando il Papa lascerà il carcere di Rebibbia dopo la celebrazione di questa Santa Messa nella Cena del Signore cosa lascerà?

R. - Lascerà speranza, una solitudine meno profonda. Lascerà il senso di non esser proprio gli ultimi della Terra, lascerà forse la voglia di cambiare grazie a questo gesto, lascerà la sensazione di essere uomini e donne come gli altri e di avere diritti come gli altri, ma anche doveri come gli altri.

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10 anni fa la morte di Papa Wojtyla: "Voi non vi rassegnerete!"

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Il 2 aprile del 2005, 70 mila persone in Piazza San Pietro e il mondo intero collegato in diretta televisiva accompagnarono gli ultimi istanti di vita di Giovanni Paolo II. L’annuncio della sua morte chiudeva una lunga e straordinaria pagina di storia, non solo ecclesiale, dominata dalla figura del Pontefice polacco che pochi anni dopo sarebbe stato proclamato Santo. Alessandro De Carolis ricorda nel suo servizio quella sera di 10 anni fa e ripropone alcuni pensieri di Giovanni Paolo II: 

Rare volte accade che un luogo in un punto preciso del mondo fermi il divenire delle cose. Che il tempo in quel luogo, e in quel punto, rallenti fino quasi a solidificare l’infinito brulichio degli affari umani in uno stesso gesto, un medesimo pensiero, in un’ultima speranza. Offrendo a milioni di persone l’impressione di essere, per una forza non umana, vicini anche se agli antipodi, uniti anche se persi in labirinti di divisioni, prossimi a migliaia di cuori che per una particolare sincronia hanno preso a condividere gli stessi sentimenti:

“Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore (...) Tu stendi il cielo come una tenda (...), fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento…”

Alla casa del Padre
Si è verificato questo raro fenomeno nelle ore che hanno preceduto un’ora e un minuto precisi, le 21.37 del 2 aprile 2005. È successo in un luogo, Piazza San Pietro, e in un punto, sotto una finestra illuminata e scrutata da decine di migliaia di sguardi con l’intensità con cui si fissa un’eclissi a rovescio – le lacrime a proteggere gli occhi e qualcosa a mordere dentro perché si sa che alla fine del suo passaggio il disco oscuro non avrà restituito la luce:

“Carissimi fratelli e sorelle, alle 21.37 il nostro amatissimo Santo Padre Giovanni Paolo II è tornato alla Casa del Padre…”.

"Aiutate il Papa!"
Milioni di orfani a queste parole. Smarrimento di palpebre che si serrano e dita che sbiancano aggrappate alla catena del Rosario. Il Papa “venuto di un Paese lontano” e che di lì a poco sarà il “Santo subito” è volato via per andare ad affacciarsi alla finestra della Casa del Padre. Però sulla terra è stato 27 anni di fuoco. E un fuoco così non lo spegne la morte. La sua fiamma crepita e rischiara ciò che il senso di vuoto sembra ingoiare. E soprattutto consola:

“Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Non abbiate paura!”.

Fammi servo dei tuoi servi
Già sotto la finestra che adesso illumina la pace di un corpo sfinito, la memoria collettiva comincia il suo lavoro. Giovanni Paolo II riprende a parlare, liberato dall’ultimo bavaglio della sofferenza. Parla nelle mille angoli delle confidenze sussurrate alla luce delle candele e il naso nel fazzoletto. Nel battito di labbra di tanti soliloqui che vogliono risentirlo e ripeterselo. Nei mille “Guarda, io ero proprio là quando il Papa disse…”. Dalle 21.38 del 2 aprile 2005, Piazza San Pietro è silenzio di preghiera e insieme mosaico di ricordi nei quali Karol rivive fin da quando la sua voce era tuono e padrona dei confini:

“O Cristo! Fa’ che io possa diventare ed essere servitore della tua unica potestà! Servitore della tua dolce potestà! (...) Fa’ che io possa essere un servo! Anzi, servo dei tuoi servi”. 

Non vi rassegnerete
Ha avuto parole per tutti e per tutto Giovanni Paolo II, capace di portare con sé ogni categoria di persone, di ogni distanza geografica e umana, a varcare soglie di speranza mai sperate. Anche quando, dopo il Giubileo e la fine del secolo delle guerre mondiali, la nuova era ricominciava con la guerra al terrorismo e le stesse miserie di sempre. Chi il 2 aprile piange Papa Wojtyla, non sta piangendo un uomo della resa. Piange e ricorda un difensore della fede che la malattia renderà insicuro nei passi, mai nella sua missione, nella roccia del suo annuncio, anche quando la forza diventa logora:

“Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti”.

Tutto per la Madre amata
Negli ultimi ricordi il tuono ormai è un ansito sottile. L’uomo il cui il fuoco dentro continua ad ardere non è più quell’ampio e solido braciere da cui parole e azioni si sono diffusi nel mondo per un tempo che pareva infinito. Al tramonto di Karol, ogni parola è un passo penoso, strappato alla china di una malattia che toglie al corpo qualcosa ogni giorno. Ma chi prega e piange e ricorda quella sera di dieci anni fa – gli occhi sulla finestra ancora accesa – sa con certezza, come se lo avesse udito di persona in quella stanza, che l’ultimo fiato del figlio esausto e ardente sarà stato speso, flebile tuono, per Lei al cui abbraccio sempre si è affidato:

“Ti rinnovo, per le mani di Maria, Madre amata, il dono di me stesso, del presente e del futuro: tutto si compia secondo la tua volontà (...) perché possiamo con Te procedere sicuri, verso la casa del Padre. Amen!”.

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Ruini: Giovanni Paolo II, un grande uomo con un grande cuore

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Dieci anni fa moriva Giovanni Paolo II. Il cardinale Camillo Ruini, allora suo vicario per la Diocesi di Roma, ricorda quella giornata drammatica in questa intervista rilasciata a Fabio Colagrande

R. – Il mio ricordo personale è questo: dapprima una corsa tumultuosa, perché io abitavo in San Giovanni in Laterano e quando è giunta la notizia ho dovuto affrettarmi con l’automobile a raggiungere il Vaticano. Poi sono entrato nell’appartamento papale e lì c’era una grande tristezza, ma anche una grandissima serenità. Sono stato anche io ammesso a vedere la salma… E’ stato un momento di grande commozione. Lo ricordo come fosse oggi: ricordo i suoi lineamenti composti; ricordo tutto quello che, anche da morto, la sua salma esprimeva; i suoi occhi, anche se non c’era più lo sguardo di prima, quello sguardo che entrava dentro, quello sguardo che diceva la grandezza di un uomo e la grandezza del suo cuore.

D. – A due anni dall’inizio del Pontificato di Papa Francesco, quanto resta attuale la figura e la testimonianza di San Giovanni Paolo II nella Chiesa di oggi?

R. – Resta – a mio parere – totalmente attuale: attuale nel grande messaggio della nuova evangelizzazione, che Papa Francesco – con altre parole – riprende quando parla di uscire e di andare alle periferie dell’esistenza; resta attuale il suo grande coraggio di innovare, perché Giovanni Paolo II è stato un grande innovatore e anche in questo Papa Francesco – con un altro stile – si pone sulla stessa linea; resta attuale il tema della misericordia, tanto è vero che adesso avremo un Anno Santo dedicato alla Misericordia e Giovanni Paolo II – come sappiamo – è l’autore dell’Enciclica “Dives in Misericordia” – Dio ricco di misericordia – che esprime il profondo del suo cuore e che è una Enciclica nella quale si dice come la misericordia sia il centro di tutto. E anche l’ultimo libro che ha scritto riguarda ancora la misericordia, perché dice che “il limite del male, il limite che il male non può superare è la misericordia di Dio”.

D. – Papa Francesco ha definito San Giovanni Paolo II il Papa della famiglia e proprio sulla famiglia, attraverso il cammino sinodale si sta giocando una delle sfide più importanti di questo Pontificato. Un altro elemento che dimostra l’attualità del magistero di Karol Wojtyla…

R. – Certo. Ricordiamo che il primo documento ufficiale, la prima Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II fu la “Familiaris Consortio”, che resta fondamentale e totalmente attuale. Ricordiamoci le sue catechesi sull’amore umano, che sono il primo grande ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II, che hanno approfondito in una chiave insieme tradizionale ed estremamente moderna. Il rapporto tra i coniugi, il senso dell’amore coniugale e quindi il senso della famiglia. E ricordiamo la sua grande battaglia a favore della famiglia e contro le manomissioni del ruolo della famiglia compiute purtroppo da tanti Stati e la sua battaglia a favore della vita sintetizzate nella grande Enciclica “Evangelium Vitae”.

D. – L’attualità internazionale ci dimostra anche la fortissima attualità della predicazione di Giovanni Paolo II sul versante del dialogo interreligioso, la sua preghiera per la pace ad Assisi…

R. – Certo, anche in questo, Giovanni Paolo II ha aperto un cammino. Ricordiamoci le due giornate di Assisi che sono state davvero memorabili. Ricordiamoci la sua capacità nella piena fermezza della dottrina, però di aprire le porte, dimostrare che il cristianesimo, proprio per essere fedele a se stesso, deve essere una fede inclusiva perché ha al suo centro l’amore di Dio per noi e, per conseguenza, l’amore nostro per Dio e per il prossimo. E, quindi, essendo la religione dell’amore, è la religione che più di ogni altra favorisce il dialogo.

D. - A proposito dell’Europa, San Giovanni Paolo II parlava di “un’apostasia silenziosa”: non siamo andati purtroppo molto avanti da quei tempi descritti da Wojtyla…

R. – Direi che la situazione semmai è peggiorata, purtroppo… Comunque, Giovanni Paolo II è stato un grande, non solo difensore, ma in qualche modo ricostruttore dell’Europa. E’ sua l’affermazione dell’Europa con i due polmoni. E’ suo lo sforzo per abbattere la cortina di ferro che divideva l’Europa. Ricordo bene, nella giornata mondiale della gioventù di Częstochowa, nel 1991, proprio quando finalmente la cortina di ferro andava del tutto in frantumi, la gioia profonda di Giovanni Paolo II e il suo ringraziamento a Maria, la Madonna Nera, la Madonna venerata a Częstochowa.

D. – Eminenza, infine, quale ricordo personale fra i tanti, è quello più forte per quanto riguarda il pontificato di Giovanni Paolo II?

R. – Di ricordi personali ne ho tanti che è difficile scegliere! Però voglio ricordare il primo incontro che ebbi con lui, quand’ero ancora vescovo regionale di Reggio Emilia e vicepresidente del comitato preparatorio per il convegno di Loreto. Era l’autunno del 1984 e con mia grande sorpresa mi giunse l’invito a cena dal Papa e mi trovai a cena con lui, con mons. Stanislao e con l’allora mons. Re, soltanto noi quattro. E fu una conversazione di estrema franchezza perché il Papa poneva domande molto precise e voleva risposte precise. E rimasi conquistato subito dal suo stile, dalla sua lungimiranza, dalla sua penetrazione e anche dalla bontà che traspariva da tutto il suo atteggiamento.

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Card. Filoni in missione tra cristiani e yazidi del Kurdistan

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Continua la missione in Iraq dell’inviato del Papa il card. Fernando Filoni, Prefetto di Propaganda Fide, che in queste ore si trova nei villaggi a nord del Kurdistan iracheno dove sono stati accolti migliaia di profughi in fuga dai jihadisti del sedicente Stato Islamico. Il porporato questa sera nella cattedrale di Dehoc celebrerà la Messa in Coena Domini e laverà i piedi a 12 rifugiati. Al microfono di Roberto Piermarini, che lo ha raggiunto telefonicamente nella cittadina di Zhako, il porporato racconta come sia stato impressionato dall’incontro con i profughi non solo cristiani ma anche musulmani e yazidi: 

R. – Intanto devo dire che è come un pellegrinaggio, passare in queste parrocchie, in questi centri dove si radunano sia i cristiani residenti sia anche i rifugiati, ma anche alcune famiglie musulmane: già ho visto tante famiglia degli yazidi che sono venute, anche loro, a partecipare a questo nostro incontro. Questo, naturalmente, è molto bello perché è proprio il senso dell’unità, della fratellanza tra tutte queste situazioni dove, alla fine, non c’è differenza per la situazione di sofferenza, tra cristiani, musulmani e yazidi. E’ un piccolo esempio di comunione in questa Settimana di Pasqua che tutti, qui, abbiamo apprezzato.

D. – Ha incontrato anche le autorità politiche della zona?

R. – Sì: ho incontrato il governatore e poi, dove sono passato, in questi piccoli centri, c’erano i sindaci, le autorità locali: sono persone molto semplici, molto cordiali. A loro ho sempre espresso una parola di gratitudine per il gran lavoro che hanno fatto in questi mesi, per dare una sistemazione un po’ a tutte queste famiglie e insieme alle organizzazioni internazionali, soprattutto a tante organizzazioni come la Caritas, che qui hanno una presenza fattiva. E quindi, anche in collaborazione con la Chiesa, le diocesi, le parrocchie: praticamente, non ci sono parrocchie dove non ci siano o nelle scuole o nelle aule di catechismo, sistemate alcune famiglie. E quindi, questa apertura un po’ a tutti. E poi, ovviamente, ci sono i grandi Campi che naturalmente raccolgono anche qui, nella zona, migliaia e migliaia di rifugiati, soprattutto nella parte della Siria.

D. – Che cosa le chiedono i rifugiati?

R. – Intanto, devo dire che a volte hanno delle espressioni molto, molto, molto affettuose nel dire “grazie”: “Noi certamente stiamo meglio di tanti altri che soffrono di più”, e questa è una cosa che ha colpito tutti perché da loro non ce lo saremmo aspettato. E poi, c’è questa gratitudine: naturalmente manifestano la speranza di poter rientrare quanto prima nei loro villaggi e nelle proprie case. Nessuno ha chiesto di andare via; anche, in genere, dicono: “Vorremmo che quanto prima i nostri villaggi possano riaccoglierci in modo che noi possiamo ricominciare”. Naturalmente, poi ci sono anche alcuni casi di sofferenza, di malattia, di anziani che sono soli o che comunque sono in condizione di sofferenza: bè, questi sono casi umani che un po’ troviamo dovunque.

D. – C’è un fatto, un avvenimento, un momento che l’ha commossa in questi primi giorni di missione in Iraq?

R. – Direi, proprio prima di arrivare qui a Zakho, da dove parlo, siamo stati a Peshkhabour, che è un po’ il limite con la Turchia: sotto questo promontorio scorre il fiume Peshkhabour, dall’altra parte è già Turchia. E qui sono venute tante donne yazide con i loro bambini, che hanno voluto in questo modo – con la loro presenza – dare senso a questo momento di incontro, di fraternità. E naturalmente, a loro ho portato anche il saluto che ieri, passando da Lalish, mi ha dato Baba Sheikh, il loro capo spirituale, che ho incontrato: loro erano contenti, alcuni hanno battuto le mani perché ho ricordato il loro luogo sacro, appunto Lalish, con i loro saggi, i loro capi. In questo senso, hanno sentito anche una nostra vicinanza al di là solo della questione umanitaria: anche un po’ questa condivisione spirituale … Appunto, passando di là, ho incontrato queste personalità religiose, qualcuna delle quali era anche stata a Roma; ed erano grate che Papa Francesco le aveva incontrati, e hanno detto: “Noi non dimenticheremo mai le parole che ci ha detto, che dovunque c’è uno yazidi anche noi parleremo per lui e per la sua sofferenza”. Questo lo ricordano bene e ne sono molto, molto grati. Sono stati momenti di grande emozione e anche di grande affettuosità, perché dopo questi mesi in cui si è dovuto lavorare per dare una sistemazione almeno un po’ migliore, vedono che nel frattempo – in attesa di tempi migliori – hanno una sistemazione per le famiglie, per le persone …

D. – Qual è il suo programma nelle prossime ore?

R. – Nelle prossime ore, da Zhako visitiamo ancora qualche comunità nei dintorni; poi torniamo a Dohuk dove poi, nel pomeriggio, dopo le cinque, abbiamo la celebrazione liturgica alla quale anche il governatore – che non è cristiano – ha detto di voler essere presente; lì ci sarà anche il rito della Lavanda dei piedi. Il vescovo ha voluto che fossero 12 persone – uomini – che provengono appunto da villaggi dai quali sono fuggiti, quindi profughi che hanno dovuto abbandonare le loro case: è un servizio che in questo modo anche liturgicamente rendiamo loro. E questo sarà il momento celebrativo con tutta la comunità di Dohuk, con il vescovo e con le altre persone cristiane che sono presenti.

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Francesco al popolo colombiano: lottate per la verità e la giustizia

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Proseguire “l’opera di giustizia, fraternità, solidarietà, dialogo e comprensione”,  “fondamenta” per costruire “una società rinnovata”. L’incoraggiamento di Papa Francesco rivolto ai vescovi e al popolo della Colombia, in una lettera - a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin - inviata in occasione della Settimana Santa. Servizio di Roberta Gisotti:

Si dice consapevole il Papa dell’importanza cruciale di questo momento, in cui il popolo colombiano  con “rinnovato sforzo” sta  “cercando di costruire una società più giusta e fraterna: una società in pace”. Da qui l’invito a collaborare tutti "nell'opera di pace che nasce dall'amore di Dio" e “a lottare senza sosta contro ogni forma di ingiustizia, iniquità, corruzione, esclusione, e contro quei mali che distruggono la vita della società”.

“Costruire la pace – sottolinea il Papa - è un processo complesso che non si esaurisce in spazi o piani a breve termine. Bisogna correre dei rischi per cementare la pace a partire dalle vittime, con un impegno costante al fine di ripristinare la dignità, per riconoscere il dolore riparando così il danno subìto”. “Costruire una pace stabile e duratura – prosegue Francesco - significa anche lavorare in favore di rapporti sani nelle famiglie colpite oggi da preoccupanti situazioni di violenza affinché, trasformate dalla potenza del Vangelo, siano semi e scuola di una cultura di pace e di riconciliazione”. Dà quindi un incoraggiamento: “non perdetevi d'animo e non abbandonate la speranza di fronte alle difficoltà” e "continuate a lavorare per la verità, la giustizia, la riparazione” e perché “ciò che è stato non si ripeta”.

Per questo “è necessario correre il rischio di trasformare tutta la Chiesa” parrocchie e istituzioni in un "ospedale da campo", ovvero “un luogo sicuro dove sia possibile far reincontrare chi ha subito le atrocità con chi ha agito con violenza”. Che “nella Chiesa – esorta Francesco - tutti trovino guarigione e opportunità per recuperare la dignità perduta o tolta. Che diventi possibile il pentimento, il perdono e la decisione di non riprodurre di nuovo la catena di violenza”. La lettera si conclude con una preghiera di Papa Francesco “alla Madonna di Chiquinquirá, perché incoraggi la speranza di tutti i colombiani”.

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Mons. Tomasi: Boko Haram e Is sono un cancro da fermare

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Fermare le violenze del gruppo terroristico Boko Haram in Nigeria e negli altri Stati coinvolti: a chiedere un intervento urgente della comunità internazionale è mons. Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, intervenuto ieri nel Consiglio Onu sui diritti umani, riunito nella città elvetica. Il servizio di Roberta Gisotti

Soprattutto la Nigeria ma anche Camerun, Benin, Ciad e Niger sono il bersaglio di “continue violenze, persecuzioni e omicidi per mano del gruppo Boko Haram”, reo di “gravi trasgressioni del diritto internazionale, inclusi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, che richiedono – indica l’arcivescovo Tomasi - una risposta urgente ed efficace degli Stati coinvolti, insieme alla solidarietà della comunità internazionale”. Siamo infatti testimoni – denuncia il presule – del continuo sviluppo e diffusione di un tipo di estremismo radicale e spietato, ispirato da un’ideologia che tenta di giustificare i suoi crimini in nome della religione”. Ma “i crimini in nome della religione non sono mai giustificati”. “Massacrare persone innocenti in nome di Dio non è religione ma manipolazione della religione per altri fini”, sottolinea  mons. Tomasi. Ad aggravare la situazione è “la recente esplicita alleanza di Boko Haram con il cosiddetto Stato islamico”. “Non si può essere ciechi – ammonisce il rappresentante della Santa Sede – di fronte al fatto che tali gruppi estremisti stanno crescendo come un cancro, propagandosi in altre parti del mondo ed attraendo anche militanti esteri per combattere nelle loro file”. La Nigeria in particolare – ricorda l’arcivescovo – ha dovuto affrontare “nuove e violente forme di estremismo e fondamentalismo per motivi etnici, sociali o religiosi”. Nonostante gli sforzi del governo nigeriano per fermare questi terroristi, anche con il sostegno di una forza multinazionale, composta dai Paesi confinanti, minacciati da Boko Haram, “gli estremisti continuano nella loro furia violenta, creando sempre più instabilità nell’Africa occidentale”. Mons. Tomasi invoca quindi “un’azione rapida, decisiva e combinata da parte del governo nigeriano, i Paesi confinanti, l’Unione Africana e le Nazioni Unite”. “Non possiamo permetterci – invoca infine il presule – di avere un atteggiamento di indifferenza” e di “non azione in risposta a tali orribili crimini”.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Santa stanchezza: alla Messa crismale nella Basilica vaticana Papa Francesco parla della fatica pastorale del sacerdote.

Generazioni perdute: in prima pagina, Lucetta Scaraffia sui bambini vittime della guerra.

Oltre le sbarre: intervista di Maurizio Fontana al cappellano del carcere romano di Rebibbia dove il Papa celebra la Messa "in Coena Domini".

La battaglia nascosta: Annalisa Guida su Gesù nell'orto degli ulivi.

Quella scritta sopra la testa: Carlo Carletti sulla sentenza del Nazareno.

Prima il perdono: anticipazione del lungo sermone di don Antonio Pelayo sulle sette parole pronunciate da Cristo sulla Croce.

Passando oltre: l'ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, Zion Evrony, su riti e tradizioni della Pasqua ebraica.

Un articolo di Sabino Caronia dal titolo "Quando il desiderio di pace uccide la giustizia": Ponzio Pilato nella letteratura.

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Oggi in Primo Piano



Mons. Zenari: Siria e Medio Oriente in fiamme

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In Siria, il sedicente Stato islamico si avvicina a Damasco. I jihadisti hanno occupato gran parte del campo profughi di Yarmuk, simbolo della diaspora palestinese, alle porte della capitale. Intanto, sul fronte della guerra civile siriana, la città di Idlib è caduta nelle mani delle milizie islamiche anti-Assad, che hanno anche sequestrato un sacerdote greco-ortodosso. Quanto preoccupa la presenza dell’Is a Damasco? Giancarlo La Vella lo ha chiesto al nunzio apostolico in Siria, mons. Mario Zenari

R. – Questo è quello che aggrava la situazione: il sedicente Stato islamico, che è già presente da alcuni mesi all’Est e al Nord-Est del Paese, è anche vicino ad Aleppo; e poi c’è anche tutta la regione che si potrebbe dire “in fiamme”, visto quello che sta succedendo nello Yemen. Anche l’Iraq ha questi problemi della presenza del presunto Stato islamico, e quindi si vede il fuoco che divampa qua e là in tutta la regione mediorientale …

D. – La situazione sembra complicarsi; ma rimane in piedi almeno un barlume di speranza?

R. – La speranza c’è sempre perché è la Provvidenza divina che guida la storia. E sappiamo anche che Dio ha messo nel cuore dell’uomo la ragione e la ragione prima o poi fa riflettere di fronte a tutte queste distruzioni, di fronte a tutti questi morti, i feriti … le statistiche delle varie agenzie delle Nazioni Unite sono preoccupanti. Per quanto riguarda la Siria, per esempio, quattro siriani su cinque vivono sotto il livello della povertà, il 58% non ha lavoro … Prima o poi, credo che la ragione umana faccia riflettere e che si uscirà da questo tunnel: con l’aiuto di Dio e con la buona volontà tra siriani, e con l’aiuto della comunità internazionale.

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Kenya: attacco al Shabaab a Garissa, 15 morti in un campus

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È salito ad almeno 15 vittime il bilancio dell'attacco di oggi in un campus universitario di Garissa, nell'est del Kenya, da parte di uomini armati col volto coperto. I feriti sono almeno 65. L'azione, secondo la Cnn on line, è stata rivendicata dagli estremisti somali di al Shabaab che, penetrati nel campus, si sono asserragliati in un dormitorio, aprendo il fuoco per diverse ore. Circa cinquanta studenti, dapprima sequestrati, sono stati liberati. Al momento le operazioni sono ancora in corso. Uno degli assalitori è stato arrestato. Sui motivi di questo nuovo attacco al Kenya, Giada Aquilino ha intervistato Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali (Cesi): 

R. – Per gli Shabaab il Kenya ormai è diventato un territorio strategico dell’offensiva di matrice jihadista nella regione del Corno d’Africa. Le ragioni dell’attacco al popoloso Paese africano sono sostanzialmente di ordine politico e militare. Quello militare attiene all’avanzata che Amisom - la missione internazionale dell’Unione Africana - sta portando avanti in Somalia e che quindi costringe al Shabaab a perdere alcuni luoghi strategici, alcuni snodi vitali sul territorio somalo e ad estendere la sua azione al di fuori dei confini della Somalia. Quello politico riguarda il fatto che al Shabaab ormai da alcuni anni non è più soltanto una realtà somala, ma una realtà maturamente jihadista internazionale e che quindi cerca di colpire territori in tutto il Corno d’Africa e di portare un’agenda internazionale del jihad.

D. – Gli attacchi degli Shabaab non sono purtroppo una novità in Kenya. Nel 2013 il sanguinoso attentato ad uno dei Centri commerciali di Nairobi, ora un campus a Garissa. A cosa puntano quindi gli estremisti islamici?

R. – Puntano alla destabilizzazione del Kenya, che è uno dei Paesi che più si è impegnato nella lotta e nel contrasto al terrorismo jihadista nel Corno d’Africa. Tuttavia è un Paese che vive equilibri etnico-religiosi molto fragili e una situazione economica precaria. L’agenda di al Shabaab è quella di cooptare le esigenze delle fasce più deboli e più esposte ed utilizzarle contro il governo keniota come strumento di pressione politica. Non dimentichiamo che le fasce settentrionali del Kenya ospitano nutrite rappresentanze somale: quindi c’è la possibilità di sfruttare un network tribale consolidato, nel tentativo di imitare o comunque di puntare alla ‘territorializzazione’ del movimento. L’idea del Califfato di creare delle realtà statali o parastatali jihadiste è diventata il nuovo obiettivo che accomuna movimenti anche geograficamente molto lontani. In questo momento al Shabaab non ha dichiarato affiliazione ufficiale allo Stato Islamico: fa parte del network di al Qaeda, però non è da escludere che per rilanciare la propria immagine e il proprio ‘appeal’ magari una delle fazioni di al Shabaab decida di cambiare rotta e di dichiararsi fedele allo Stato Islamico, per tentare di rinvigorire i propri ranghi ed i propri obiettivi politici e militari.

D. – Ha fatto cenno al quadro del Kenya. La situazione in Somalia oggi qual è?

R. – La Somalia è oggi un Paese che cerca faticosamente di ricostruire se stesso. Ci sono finalmente un governo e una presidenza della Repubblica che in un certo qual modo sono più o meno rappresentativi di alcune realtà tribali e della volontà del popolo. A Mogadiscio si cerca difficilmente di vivere con normalità, anche se gli attacchi appunto degli Shabaab sono quotidiani. Nel resto del Paese è in corso una guerra silenziosa, perché non ha in molti casi l’attenzione dei media rispetto ad altri teatri che vivono situazioni identiche. Ed è un Paese che ha bisogno del sostegno politico innanzitutto della comunità internazionale, per tornare a pieno titolo all’interno delle relazioni internazionali, dopo oltre 20 anni in cui è stato definito purtroppo uno Stato fallito, un buco nero geopolitico, nel quale sono proliferati terrorismo islamico, pirateria ed altri fenomeni di instabilità.

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Turchia nel caos: decine di arresti dopo gli attentati ad Istanbul

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Decine di presunti militanti del gruppo  marxista Dhkp considerato fuorilegge in Turchia, sono stati  arrestati ad Istanbul all’indomani dell’attacco contro la sede della  polizia e del partito islamista Akp, in cui una donna kamikaze è rimasta  uccisa e un secondo assalitore ferito. Arresti anche in altre tre province turche. Nei giorni scorsi il black out elettrico, forse provocato da un cyber-attacco terroristico, e l’uccisione del Pm che seguiva il caso del Gezi Park, avevano già allarmato il governo. Ma che cosa sta succedendo nel Paese? Cecilia Seppia lo ha chiesto ad Alberto Rosselli, giornalista esperto dell’area: 

R. – Ritengo che la Turchia stia attraversando un periodo di travaglio non indifferente, in quanto oltre ad esserci delle spinte interne da parte delle componenti fondamentaliste, ci sono anche spinte esterne. Ricordiamo che il sogno di Erdogan è quello di fare della Turchia lo Stato guida della Umma islamica, cosa che non viene condivisa assolutamente da Paesi come l’Iran, come il Qatar o come l’Arabia Saudita, che come è noto appoggiano e nutrono simpatie nei confronti dei movimenti fondamentalisti. Parlo dell’Is e parlo di al Qaeda, che agiscono anche tramite altri movimenti nazionalisti e fondamentalisti all’interno della Turchia, in funzione antigovernativa.

D. – La stampa indipendente di Ankara parla di forze oscure entrate in azione per provocare il caos prima delle elezioni previste per il 7 giugno, che sono considerate le più importanti nel Paese. Questa lettura è plausibile?

R. – E’ senz’altro plausibile. Bisogna vedere fino a che punto esiste questa consapevolezza da parte del governo turco e soprattutto da parte della presidenza. Ricordiamoci che Erdogan è presidente, ma di fatto riveste un incarico che è molto più importante di quello di una normale presidenza di una Repubblica: Erdogan ha in mano anche tutta la politica turca. Quindi, diciamo che la sicurezza della Turchia dipende dalla chiarezza stessa della Turchia nell’affrontare determinati problemi.   

D. – Sappiamo che Erdogan vuole un’ampia maggioranza per cambiare la Costituzione, per imporre un regime – potremmo anche dire – “super presidenziale” e l’opposizione in qualche modo teme invece che si trasformi in una sorta di dittatura islamica…

R. – Erdogan praticamente vuole “contarsi”. Queste elezioni sono importanti per lui, per vedere in quale misura lui riesce ancora ad incidere veramente nella politica turca, che  - ripeto - ormai è diventata molto frastagliata. La Turchia ha un’eredità - che è l’eredità di Ataturk – laicista, che però in questi ultimi anni è stata corrosa, è stata indebolita da quelle che sono state le aperture che Erdogan ha dovuto fare giocoforza nei confronti dei movimenti islamici e fondamentalisti, che non vedono assolutamente di buon occhio una Costituzione laicista. Quindi è un lavoro di equilibrismo, molto, molto difficile e probabilmente Erdogan si giocherà il tutto e per tutto in queste elezioni, per vedere chi sta con lui e chi sta contro di lui, in maniera chiara.

D. – Quanto è vicino alla Turchia il terrorismo dello Stato islamico in questo momento?

R. – Io oserei dire che è già all’interno dei confini turchi. Ormai l’Is o questi movimenti – chiamiamoli come vogliamo – destabilizzanti, non hanno ormai un recinto di tipo geografico e l’abbiamo visto in Europa, l’abbiamo visto a Parigi, l’abbiamo visto in Tunisia. La Turchia non è impermeabile: è uno Stato forte, uno Stato fortemente militarizzato, uno Stato che ha un regime di polizia molto, molto efficiente, molto, molto duro, ma non è totalmente impermeabile.

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Messaggio di Pasqua dei leader cristiani della Terra Santa

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Nessuna vera religione può giustificare la violenza. E’ quanto scrivono, nel loro messaggio di Pasqua, i 13 capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme che hanno anche inviato i loro auguri alla comunità ebraica. “L’esistenza stessa della città di Gerusalemme – si legge inoltre nel documento – è un segno paradossale della speranza che prevale il regno di Dio”. Su questo messaggio si sofferma, al microfono di Amedeo Lomonaco, il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa: 

R. – Gerusalemme è una città incredibile, bisogna venire qui per rendersene conto. E’ una città che ha potenzialità incredibili. E’ veramente la casa di preghiera per tutti i popoli secondo la profezia di Isaia perché ci sono tutti: ci sono ebrei, cristiani, musulmani. E ci sono cristiani di tutte le Chiese. Veramente, tutto il mondo qui è raccolto. Allo stesso tempo, è anche una realtà molto ferita. Tutte queste comunità sono ferite dalla storia complicata e da relazioni che non sono mai scontate, ma sono sempre da costruire ogni giorno. Gerusalemme è tutto questo. C’è sicuramente la paura, il sospetto, che è segno della morte, ma ci sono anche tante possibilità, tante piccole realtà che si costruiscono nonostante tutto, che sono anche la speranza per il futuro.

D. – A proposito di segni di morte, nel messaggio si condannano con massima fermezza le azioni che colpiscono in particolare le minoranze… “Coloro che perpetrano comportamenti così barbaro - scrivono i capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme - disumanizzano  essi stessi insieme alle loro vittime” …

R. – Sì, noi siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Queste azioni barbare, alle quali assistiamo purtroppo quasi quotidianamente, negano il progetto di Dio e negano anche il nostro essere uomini. E’ una cosa che deve essere condannata senza se e senza ma e senza equilibrismi.

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Giornata Autismo: in dirittura d'arrivo il "Dopo di noi"

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Nel 30 % dei casi la causa dell’autismo è genetica e con le nuove tecniche si spera di riuscire a scoprire alche le altre. Lo dice una ricerca europea guidata dal Campus Bio-Medico di Roma che ha utilizzato una tecnica di analisi genetica innovativa su 200 famiglie. In tempi forse più rapidi del previsto, sarà dunque possibile mettere a punto cure personalizzate. L’annuncio arriva in occasione della “Giornata mondiale di consapevolezza dell’autismo” che si celebra il 2 aprile. Nella serata della vigilia Palazzo Montecitorio, Palazzo Chigi e Palazzo Madama, così come i principali monumenti del mondo, si sono illuminati di blu in segno di partecipazione delle istituzioni alla ricorrenza. Ma quest’anno in Italia c’è attesa per un traguardo più importante come conferma, al microfono di Adriana Masotti, l’on. Ileana Argentin prima firmataria di una delle proposte che, insieme ad altre quattro, formano il testo unificato della legge sul “Dopo di noi”.  Celebrando la Giornata, il presidente Sergio Mattarella ha sollecitato "un approccio tempestivo" da parte della societa' e dello Stato per affrontare i problemi delle "persone caratterizzate da autismo e delle loro famiglie", a cominciare dal riconoscimento del diritto costituzionale al lavoro e dalla approvazione, appunto, "in tempi brevi" della legge in materia. Ma sentiamo l’on. Argentin: 

R. – Beh, sì, stiamo facendo passi da giganti. Devo dire che quest’anno non parliamo solo di luci azzurre, ma parliamo di fatti concreti: la Legge sul “Dopo di noi” è stata chiusa alla Camera e la Legge al Senato sull’autismo è stata chiusa e questo vuol dire che presto arriveranno in Aula parlamentare. Per quanto riguarda il “Dopo di noi” le posso dire anche una data: per giugno dovrebbe arrivare. Parliamo di 260 milioni di euro che, nei prossimi tre anni, verranno messi a disposizione, per dare risposte al dopo di noi di quei genitori che hanno figli autistici o disabili gravi, proprio per quanto riguarda il momento in cui loro verranno a mancare perché, come la vita vuole, si nasce e si muore. Questi ragazzi, invece di essere abbandonati, troveranno finalmente una risposta nello Stato. Senza fare guerre tra poveri, perché ci sarà un capitolo di bilancio specifico: quindi non andremo a togliere soldi per l’assistenza, né tantomeno toglieremo soldi alle persone anziane non autosufficienti. Ci sarà proprio un capitolo sul “Dopo di noi” e questa è una conquista immensa.

D. – Non tutti sono d’accordo, però: ad esempio il Movimento 5 Stelle non la voterà…

R. – Sì, il Movimento 5 Stelle sostiene che questo è già implicito nella Legge 328. Ma non è assolutamente così: purtroppo la 328 non è stata finanziata. Per cui va bene tutto, ma se poi non ci sono i soldi le cose non si fanno. Hanno ragione nel dire che già fosse prevista, ma se non si fa la battaglia per poi finanziarla e per condurla ad una risposta vera e concreta… I livelli assistenziali previsti da quella norma sono importanti, ma sono abbandonati, molto spesso, dagli enti locali e dalle Asl, che dovrebbero invece farsene carico.

D. – Le disabilità sono tante: qui parliamo in particolare dell’autismo e di una Giornata mondiale per la consapevolezza: questo vuol dire che c’è stato un po’ un ritardo nel rendersi conto anche di questa forma di disabilità…

R. – Ci sono alcune patologie che si ha più difficoltà ad accettare. Lì dove c’è chiusura così com’è il mondo dell’autismo - e soprattutto i ragazzini e i grandi non erano riconosciuti come tali – è chiaro che queste giornate di sensibilizzazione diventano fondamentali e importantissime. E’ stato più difficile accettarli, perché era più difficile avvicinarli: io credo che sia questo il problema culturale. Comunque adesso ci siamo dentro e speriamo che questa Giornata diventi 365 giorni e non soltanto un’unica giornata all’anno.

D. – Anche il ministero per la pubblica istruzione si è mobilitato e oggi presenta tutta una serie di iniziative per una maggiore inclusione dei ragazzi autistici nelle scuole…

R. – Sì, da parte di tutti i ministeri c’è stata una grossa attenzione. Continuiamo a lavorare per dare risposte a queste persone.

D. – Lei è in contatto con persone che si confrontano con questo problema dell’autismo? Quanta pressione c’è, quanta attesa da parte del mondo che soffre per questo?

R. - Ce n’ è tanta! I genitori sono centinaia di migliaia… E’ da questa mattina che ricevo telefonate e, le dirò, soltanto di ringraziamento, perché poi è  gente molto dignitosa. Sono tantissime queste mamme e questi papà, ma anche fratelli e sorelle, perché molte volte sono dovuti già subentrare a sostituire i genitori, che si fanno carico di queste situazioni che – le assicuro – dal punto di vista etico sono bellissime, ma anche molto pesanti.

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Stop al gioco d'azzardo in 4 mosse. Manifesto delle associazioni

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Fermare l’azzardo in 4 mosse: divieto di pubblicità, più poteri ai sindaci, cure a carico dello Stato e moratoria su nuovo progetti. Questo l’obbiettivo che varie associazioni propongono ai politici impegnati in questi mesi nello studio di una legge che disciplini una piaga che causa gravi dipendenze e attorno alla quale fioriscono gli interessi delle mafie. Sui 4  punti del manifesto Paolo Ondarza ha sentito Matteo Iori, presidente di Conagga, coordinamento nazionale gruppi giocatori d’azzardo: 

R. – Dei quattro punti, il primo è legato alla pubblicità: al divieto, alla richiesta di inserire un divieto totale per le pubblicità, perché diventa oggi un continuo messaggio, un continuo incentivo per il cittadino ad andare a giocare. Un altro punto è legato ai comuni, alle regioni che devono avere la possibilità di tutelare i cittadini attraverso delle leggi specifiche: chi vive il territorio deve avere la possibilità di aiutare, stare vicino ai propri cittadini. Un terzo punto è finalmente riconoscere il fatto che , il gioco d’azzardo può dare delle dipendenze psicologiche mentre oggi paradossalmente in Italia il gioco d’azzardo non è ancora riconosciuto nei “lea” (livelli essenziali di assistenza). E infine, si chiede una moratoria per i nuovi giochi, quindi che non ne siano inseriti di nuovi e che lo Stato veda il gioco d’azzardo non solo come un bacino per fare cassa …

D. – Per quanto riguarda lo stop alle pubblicità del gioco d’azzardo, non è sufficiente per voi la regolamentazione di una fascia protetta?

R. – Assolutamente no! La bozza del sottosegretario Baretta che abbiamo visto è su questo punto – a mio avviso – ridicola! Una regolamentazione che va dalle quattro alle sette del pomeriggio a esclusione dei canali sportivi, delle manifestazioni sportive, è veramente una cosa non solo inutile, ma che persino sembra una foglia di fico paradossale. Non può essere quella, la limitazione alle proposte di gioco d’azzardo e alla diffusione di immagini, di segnali, di comunicazioni che tendono soprattutto a raggiungere le persone più fragili che credono davvero che con il gioco si possa risolvere la loro vita.

D. – Ecco: l’azzardo come risorsa economica per lo Stato. E qui nasce un’altra riflessione. Voi dite: la cura delle persone affette da “gap” (gioco d’azzardo patologico) – disturbo da gioco d’azzardo – dev’essere a carico dello Stato e non a carico dell’industria dell’azzardo. Ma non è anche una contraddizione in termini, il fatto che da una parte lo Stato legalizzi l’azzardo e poi debba occuparsi della cura di chi finisce vittima dell’azzardo?

R. – No. A mio avviso, no. Anzi. Sarebbe una contraddizione che fossero le industrie per il gioco d’azzardo a occuparsi dei giocatori patologici, perché l’industria del gioco d’azzardo persegue una propria “mission” che è commerciale. Le persone più fragili nel nostro Stato devono essere curate dallo Stato che in qualche modo si ritrova anch’esso in un conflitto di interessi, perché permette e liberalizza nuovi giochi, incassa denaro, cioè 8 miliardi di euro all’anno; deve però anche farsi carico di coloro che perdono il controllo del gioco, che acquisiscono una sorta di patologia.

D. – Continuano a fiorire nuove possibilità di gioco: questo è un fenomeno in crescita e riguarda anche i giovanissimi …

R. – Non dimentichiamo che l’ultimo governo Berlusconi aveva dato la possibilità di inserire due nuovi tipi di gioco, che per ora non sono stati inseriti. Uno è il “poker live” – le sale da poker dal vivo – e l’altro era la cosiddetta “lotteria al consumo”, nella quale la massaia che faceva la spesa poteva decidere di lasciare il resto, di non ritirare il resto alla cassa, partecipando a una grande lotteria nazionale. Questi progetti sono chiusi in qualche cassetto, da qualche parte; vorremmo che rimanessero chiusi lì. Rispetto ai giovanissimi, il Consiglio Nazionale delle Ricerche ci dice che il 44% degli studenti tra i 15 e i 19 anni ha giocato d’azzardo almeno una volta nell’ultimo anno; ha giocato il 42% dei 17enni, il 40% dei 16enni e persino il 36% dei 15enni! Quindi, il gioco d’azzardo è sicuramente un problema anche per le giovani generazioni, anche quando per legge in teoria non potrebbero giocare; soprattutto è un problema importante, oggi, perché tramite cellulari, Iphone, Ipad sono disponibili proposte di gioco online che molto facilmente possono affascinare i più giovani.

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Esposte ai Musei Vaticani due opere recuperate dai Carabinieri

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Il 'Compianto di Adamo ed Eva sul corpo di Abele' di Giovanni Battista Caracciolo, detto Battistello, e il gruppo scultoreo 'Mitra tauroctono' databile tra il II e III secolo d.C., sono i due importanti reperti artistici recuperati grazie all'intervento dell'Arma dei carabinieri, Comando Tutela Patrimonio Culturale, presentate ieri alla stampa nei Musei Vaticani. Le opere saranno ospitate ed esposte al pubblico all’ interno dei musei fino al fino al 7 agosto, per poi fare rientro nei loro luoghi d’origine. Il servizio di Marina Tomarro

Una tela della pittura napoletana della prima metà dei seicento il 'Compianto di Adamo ed Eva sul corpo di Abele”  recuperata grazie alla segnalazione di un antiquario e il gruppo scultoreo 'Mitra tauroctono' trovata a Fiumicino, sono le due importanti opere ritrovate grazie all’intervento dell’Arma dei carabinieri. Antonio Paolucci direttore dei Musei Vaticani.

“Il Mitra tauroctono è parola greca che vuol dire Mitra, questa divinità orientale, che uccide il toro, il toro sacro, che ha un significato simbolico molto alto. E’ una religione, quella di Mitra, della luce e del sole, della rigenerazione cosmica e quindi l’uccisione del toro significa la redenzione. Era una religione che competeva con il cristianesimo, esprimendo valori in parte simili, che è stata molto importante nel secondo e nel terzo secolo. E’ importante perché documenta la diffusione di questo culto anche in aree periferiche. Questo viene da Tarquinia, quindi la periferia di Roma. Mentre l’altra opera è un dipinto di Battistello Caracciolo, un caravaggesco della primissima generazione, che ha significato la diffusione in terra napoletana della rivoluzione caravaggesca. Quindi due opere entrambe di rilievo museale che abbiamo sistemato qui all’interno dei Musei Vaticani fino al 7 agosto e saranno una bella occasione per gli studiosi, perché sono cose che vanno approfondite dal punto di vista scientifico e anche di stupore, di ammirazione, per i visitatori”.

Alla presentazione c’era anche il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Ascoltiamo il suo commento:

“E’ una delle tante operazioni straordinarie che ogni anno i carabinieri del nostro comando per la tutela del patrimonio culturale fanno in Italia. Alcune non fanno notizia perché non sono grandi opere. E’ davvero un lavoro importantissimo di prevenzione, di individuazione dei responsabili, di restituzione ai proprietari o comunque alla comunità nazionale. Non a caso, i nostri carabinieri sono un’eccellenza riconosciuta nel mondo. Sono anche punto di riferimento per corsi di formazione, trasferimento di conoscenza per molti altri Paesi e il riconoscimento da parte della Città del Vaticano e dei Musei Vaticani per noi è particolarmente motivo di orgoglio”.

E il Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma in 46 anni di attività ha recuperato e restituito al patrimonio culturale dell’Italia circa 740 mila opere d'arte e 600 mila reperti archeologici. il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette:

R. - Questo nostro speciale reparto dell’arma costituito 46 anni fa ha operato via via in maniera sempre più professionale e ha potuto approntare questa banca dati importantissima delle opere trafugate - la migliore, la più fornita, la più importante del mondo per questo - proprio attraverso questa collaborazione con la Chiesa. Noi sappiamo che l’Italia è il Paese probabilmente più ricco di opere d’arte e la Chiesa in Italia è sicuramente un assoluto tesoro e quindi è stato particolarmente importante nel tempo. L’esposizione di queste due opere nei Musei Vaticani è per noi il riconoscimento più prestigioso della attività svolta da questo speciale reparto.

D.  – Cosa si potrebbe fare per proteggere maggiormente queste opere d’arte?

R. – Le opere vanno protette in maniera determinata, sul piano preventivo innanzitutto. Noi incoraggiamo i privati da sempre a fotografare queste opere e a difenderle con misure di difesa passiva adeguate. Il fatto di poter immagazzinare immagini di opere trafugate è particolarmente significativo nella fase successiva. Il quadro del Battistello Caracciolo è stato recuperato proprio perché è stato possibile confrontare l’opera che era stata individuata con la fotografia da quella asportata molti anni prima, nel 1990.

E l’importanza dell’attività di tutela di  questo  comando anche per il patrimonio culturale custodito negli edifici di culto è stata sottolineata dal cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato del Vaticano:

R. - Questo entra proprio nella vita dei Musei Vaticani, di offrire la possibilità a quanti vengono a visitare i Musei del Papa di poter ammirare alcune opere, queste poi particolarmente significative.

D. – Quanto è importante la collaborazione tra l’Arma dei carabinieri e la Chiesa in questo caso?

R. – Credo che la Chiesa in questo deve essere riconoscente a quello cha fa l’Arma dei carabinieri perché tantissime opere che vengono trafugate dalle nostre chiese. Nel mio piccolo Paese, per esempio fu rubata una porta molto antica, di una piccola cappella… Siamo all’esempio tipico!

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Nella Chiesa e nel mondo



Terra Santa. Alta Corte: Muro israeliano non passerà a Cremisan

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“Il Muro non passerà più a Cremisan. L’Alta Corte di Israele ha rigettato la richiesta del ministero della Difesa israeliana di costruire il muro nella Valle di Cremisan”. A riferirlo all'agenzia Sir sono fonti locali, subito dopo aver appreso la notizia. “Il Triduo Pasquale è iniziato sotto i migliori auspici” dichiarano le fonti vicine al patriarcato latino di Gerusalemme. Come è noto la costruzione di una parte del Muro di separazione nella valle di Cremisan, nell’area di Betlemme, prevedeva il passaggio sulle terre agricole a rischio espropriazione di 58 famiglie del villaggio palestinese di Beit Jala. 

La Chiesa si è sempre battuta contro la costruzione del Muro
Nell’espropriazione sarebbero stati coinvolti anche due monasteri salesiani, uno delle suore che gestiscono una scuola materna con 400 bambini cristiani e musulmani e l’altro dei monaci produttori del vino di Cremisan. Contro l’edificazione del Muro in questa zona si è sempre battuta la Chiesa cattolica locale per la quale questo pezzo di Muro aveva il solo scopo di collegare gli insediamenti israeliani di Gilo e Har Gilo. 

Il patriarcato latino di Gerusalemme parla di "grande vittoria"
“Si tratta di una grande vittoria - spiega al Sir l’avvocato Raffoul Rofa, direttore della Society of St. Yves che opera in senso al patriarcato latino di Gerusalemme e che ha seguito il caso giudiziario - la Corte ha rigettato la costruzione del Muro secondo il percorso scelto dal ministero della Difesa di Israele. Questo, infatti, non avrebbe garantito l’integrità dei due monasteri salesiani, delle terre agricole che appartengono alle famiglie del villaggio di Beit Jala. Secondo la Corte andavano tenuti presenti i danni che la costruzione avrebbe potuto cagionare. Le nostre istanze sono state accettate. Oggi, dopo una battaglia cominciata nel 2006, possiamo parlare di grande vittoria legale”. 

Per la Corte il Muro non assicurerebbe l'integrità dei due monasteri
​Secondo quanto riportato da fonti palestinesi la Corte ha chiesto allo Stato israeliano di considerare altre alternative meno dannose per la popolazione locale e per i monasteri siti nella valle di Cremisan. La Corte ha confermato che il percorso suggerito dalla Difesa israeliana non è l’unica alternativa in grado di assicurare la sicurezza e di provocare meno danni possibili. Nella sentenza la Corte ha deciso che il Comando militare deve riconsiderare il tracciato. A riguardo uno dei due giudici della Corte ha aggiunto, a titolo personale, che ogni progetto futuro dovrebbe assicurare l’integrità e la contiguità dei due monasteri e la loro accessibilità da parte della popolazione locale. Ciò significherebbe che i due monasteri dovrebbero rimanere sul lato palestinese del Muro. Con questa decisione, affermano le fonti palestinesi, la Corte ha riconosciuto che il Muro, nel suo tracciato previsto, era stato progettato per confiscare una vasta area di terre proprietà delle famiglie di Beit Jala. (R.P.)

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Cei: oltre 11,5 milioni per 63 interventi nel Terzo mondo

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Sierra Leone, Burkina Faso, Brasile, India. Sono alcuni dei Paesi nei quali si trovano i progetti finanziati dal Comitato Cei per gli interventi caritativi a favore del terzo mondo. Venerdì scorso, rende noto il Comitato, "sono stati approvati 63 progetti, per i quali saranno stanziati € 11.531.097,70 così suddivisi: € 5.709.362,70 per 29 progetti in Africa; € 4.177.368 per 14 progetti in America Latina; € 1.644.367 per 20 progetti in Asia".

In Sierra Leone un Centro per i bambini orfani di ebola
In Sierra Leone - riferisce l'agenzia Sir - il finanziamento è per l‘emergenza ebola: il progetto "prevede la sensibilizzazione alla diffusione del virus attraverso l‘implementazione di una serie di attività di promozione e sviluppo sociale delle comunità della zona di Madaka", oltre alla "realizzazione di un Centro di accoglienza e di formazione (St. Mary Institute) a favore soprattutto dei giovani rimasti orfani a causa dell‘ebola".

Le iniziative in Burkina Faso, Brasile,e India
In Burkina Faso, invece, il contributo è per "l‘equipaggiamento e la formazione del personale di un blocco operatorio nell‘ospedale San Camillo di Ouagadougou". Ancora, in Brasile verranno sostenute le iniziative promosse dalla Caritas diocesana di Campo Limpo e da Caritas Santa Susana, "che operano da anni nel campo dell‘educazione dei bambini e nella formazione professionale". Infine, in India verrà realizzato un ostello per ragazze tribali a Kumadappaly - Odisha, per "dare a queste ragazze, che spesso sono vittime di traffici e prevaricazioni, la possibilità di accedere a un‘educazione di qualità". (R.P.)

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Salesiani nello Yemen: presenza a rischio

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“La situazione è sempre stata difficile per i Salesiani in Yemen, ma i recenti avvenimenti ora rendono la vita più difficile che mai”, come spiega Ans, l’agenzia info salesiana, ripresa dal Sir. I Salesiani sono presenti nello Yemen da 28 anni. La loro presenza, dipendente dall’Ispettoria di India-Bangalore, è dovuta all’invito ricevuto dal vicariato apostolico di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, e si è sviluppata in 4 presenze: a Sana’a, la capitale, e ad Aden, Taiz e Hodeida. La situazione conflittuale nel Paese, la mancanza di un potere centrale autorevole, il ritiro delle missioni diplomatiche estere e in particolare il richiamo da parte dell’India dei suoi circa 4000 cittadini, rende ogni giorno più difficile e pericolosa la permanenza dei salesiani.

Situazione fuori controllo ad Aden
“Riguardo alla situazione qui, finora sono al sicuro. Certo, personalmente ho vissuto momenti di grande paura, con razzi che passavano proprio sopra il taxi in cui viaggiavo, spari e grida attorno alla chiesa, il boato delle esplosioni e dei missili caduti dai 5 ai 10 km di distanza…”, riporta uno dei salesiani presente ad Aden. “Anche se già prima era in corso una guerra civile, Aden era un luogo sicuro, con la presenza di numerose ambasciate stabili, i loro servizi di sicurezza e l’esercito attorno. Ma ora, è diverso. Attualmente, non ci sono ambasciate ad Aden e quei Paesi presenti come forze di protezione o impegnati negli addestramenti militari hanno richiamato il personale”. (R.P.)

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Civiltà Cattolica: intervista al patriarca Bartolomeo

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I grandi temi della comunione tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa, il rapporto tra primato e sinodalità, anche in vista del Grande e Santo Sinodo che si terrà a Istanbul nel 2016. Sono alcuni dei temi chiave dell’intervista al patriarca Bartolomeo che viene pubblicata sul numero de “La Civiltà Cattolica” del 4 aprile, una delle più estese che il patriarca abbia concesso. Al direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, Bartolomeo dichiara: “Sono grato ai Gesuiti” perché “sono stato vostro allievo al Pontificio Istituto Orientale”, e parla della “leadership straordinaria di Francesco” come “diaconia al servizio della comunione”. 

I temi sul Primato e sulla collegialità
Sui temi del “Primato”, il patriarca spiega che “ci vorrà del tempo per discernere le vere preoccupazioni e le intenzioni di ognuno”, perché ogni volta che se ne discute “tra gli ortodossi si pensa subito a quello dell’autorità pontificia, soprattutto alla luce degli abusi in epoca medievale”, mentre “ogni volta che tra i cattolici romani si discute della collegialità, si teme immediatamente che l’autorità del Papa sia in questione”. Di certo, aggiunge il patriarca, “è importante il modo in cui la leadership ortodossa viene vissuta, se essa è davvero un autentico modello per la collegialità e non invece un’occasione o un alibi per una rivalità nazionale o istituzionale”. 

Sul Sinodo panortodosso le ombre dei 'conservatori ortodossi'
Quanto al grande Sinodo panortodosso che si terrà nel 2016 - riferisce l'agenzia Sir - due i grandi temi che lo attraverseranno: “I rapporti delle Chiese ortodosse con le altre Confessioni cristiane e con le altre religioni” e “i rapporti tra le Chiese ortodosse stesse”. A questo proposito non mancano le ombre che dall’interno potrebbero compromettere l’esito dell’assise: “C’è un elemento conservatore in crescita in molte Chiese e ambienti ortodossi, che reagisce alle sfide contemporanee della nostra epoca rinchiudendosi in un’esistenza soffocante ed escludente. 

La religione ha una forza di mobilitazione sociale e istituzionale
Inoltre, per quanto riguarda le relazioni fraterne e collegiali tra le Chiese ortodosse stesse, c’è stata una crescente riduzione, nazionalista e trionfalistica, della natura eucaristica ed ecumenica della Chiesa”. Dall’immigrazione al cambiamento climatico, dall’ingiustizia sociale al fondamentalismo: questi gli altri temi trattati da Bartolomeo, che esprime la convinzione che non ci sia “mai stato nella storia un momento come questo, in cui le persone possono esercitare una influenza ampia sul proprio ambiente di vita”. La religione - “probabilmente la forza più pervasiva e potente della terra” - ha dunque per il patriarca il ruolo fondamentale di “forza di mobilitazione sociale e istituzionale”. (R.P.)

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Lourdes: riaperto l'accesso alla Grotta di Massabielle

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"Finalmente, la Grotta!". Oggi, 2 aprile 2015, Giovedì Santo, alle ore 9.30, mons, Nicolas Brouwet, vescovo di Tarbes-Lourdes, insieme con padre Horacio Brito, rettore del santuario di Nostra Signora di Lourdes, hanno ufficialmente riaperto l‘accesso alla Grotta di Massabielle. La cerimonia, prevista per ieri, era stata rinviata a causa di problemi riscontrati dagli addetti ai lavori all‘ultimo minuto, ma prontamente risolti. "Siamo qui oggi - ha detto il rettore - per tornare là dove Maria richiama tutti noi ogni giorno, come faceva con Bernadette durante le apparizioni e là dove Maria ci ha chiesto di venire in processione. Facciamolo in raccoglimento".

Molte le novità strutturali nella Grotta
Gli operai hanno rimosso le barriere di protezione e mons. Brouwet, con padre Brito, hanno guidato i fedeli in processione, intonando l‘Ave Maria di Lourdes. Arrivati in Grotta, il vescovo ha invitato i fedeli a "vivere questo luogo in silenzio, per riuscire a pregare e a meditare con la giusta concentrazione. Oggi è la giornata perfetta per iniziare a farlo, avviandoci verso la Domenica di Pasqua". Dopo aver pregato insieme ai pellegrini, il vescovo si è avvicinato alla roccia, inaugurando il passaggio in Grotta. Tra le novità presenti presso la Grotta di Lourdes, la pavimentazione in pietra a forma semicircolare; l‘impianto d‘illuminazione potenziato; le panche in legno, di forma curva. (R.P.)

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India: 4 arresti per lo stupro della suora in West Bengala

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La polizia di Ludhiana (Punjab) ha arrestato ieri quattro uomini in relazione allo stupro di gruppo di una suora di 72 anni, superiora del convento delle Religiose di Gesù-Maria a Ranaghat (West Bengal), avvenuto il 13 marzo scorso. Gli arrestati - riferisce l'agenzia AsiaNews - sono tutti originari del Bangladesh e sono accusati anche di furto e compravendita di valuta straniera per milioni di rupie. I quattro sono stati identificati come Aslam Sohad, Jinnat, Salim e Habibul. 

Gli arrestati hanno confessato di far parte della banda
​La loro detenzione avviene cinque giorni dopo l’arresto di altri due accusati, Mohammed Salim Sheik e Gopal Sarkar, fermati fra Mumbai e New Delhi. Gli agenti spiegano che l’identificazione dei bangladeshi è stata possibile grazie alle informazioni e alle foto messe in giro dalla polizia del West Bengal dopo l’aggressione. Le forze dell’ordine stanno ancora cercando di capire il ruolo dei bangladeshi nella vicenda. Tuttavia, gli arrestati hanno confermato di essere parte della banda che ha compiuto lo stupro sulla suora e il furto e la dissacrazione nella cappella del convento. (R.P.)

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Australia: a maggio, terzo Congresso dei media cattolici

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“La bocca parla dalla pienezza del cuore”: sarà questo il tema, tratto dal Vangelo di Matteo (Mt 12,34) del Congresso nazionale dei media cattolici, in programma a Sydney, in Australia, dal 4 al 6 maggio prossimi. L’evento è organizzato dall’Ufficio delle Comunicazioni sociali della Conferenza episcopale australiana ed è rivolto gli operatori diocesani nel settore dei mass-media, ma anche a giornalisti e fedeli interessati all’argomento. 

Oltre 200 partecipanti. Previsto saluto di mons. Celli
Oltre 200 i delegati attesi all’incontro; tra gli interventi previsti, anche quello di mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Al centro delle riflessioni dei partecipanti, si prevede ci sia anche il Messaggio del Papa per la 49.ma Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, intitolato “Comunicare la famiglia: ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore”.

Sarà il terzo Congresso, dopo quelli del 2009 e 2012
La Chiesa di Sydney continua, così, a dare risalto all’importanza della stampa cattolica: il Congresso del prossimo maggio, infatti, sarà il terzo dedicato a questo tema, dopo quelli del 2009 e del 2012. Il primo, intitolato “Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo”, era nato come uno dei frutti della Giornata mondiale della gioventù svoltasi proprio a Sydney nel luglio 2008. Il convegno del 2012, invece, si era concentrato sul tema “Comunicare il mondo: messaggi senza tempo, nuovi media” ed aveva affrontato temi specifici come l’e-conference, la pubblicazione di video sul web, le nuove tecnologie per l’evangelizzazione, il rapporto tra l’etica ed i nuovi media. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 92

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.