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Sommario del 27/08/2015
- Il Papa: Beatificazione Melki, speranza per i cristiani in Medio Oriente
- Il grazie delle famiglie al Papa per il "Nobel" del tempo moltiplicato
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Onaiyekan a 500 giorni da rapimento Chibok girls: Boko Haram verso sconfitta
- Austria: 50 migranti morti in un Tir. Onu: "Serve piano Ue"
- Libia, stallo nei negoziati Onu: Tripoli abbandona colloqui
- Il governo stringe sul caporalato: presto un piano d'azione globale
- Settimana liturgica nazionale su “Eucaristia, matrimonio, famiglia”
- Vallini: Roma, città anemica spiritualmente, serve nuova linfa
- Yemen: 2000 vittime civili in 6 mesi di guerra
- Corte Strasburgo: no a donazione embrioni per ricerca
- Card. Montenegro: emigrazione diminuisce con lotta a ingiustizia
- Scuole cristiane in Israele : positivo incontro con presidente Rivlin
- Vescovi e rabbini tedeschi visitano insieme la Sinagoga di Roma
- Agostiniani: videoriflessioni per il Giubileo della Misericordia
Il Papa: Beatificazione Melki, speranza per i cristiani in Medio Oriente
Papa Francesco desidera che la Beatificazione di mons. Flavien Michel Melki, martirizzato cento anni fa durante le persecuzioni dell'Impero Ottomano, sia un messaggio di speranza e incoraggiamento a tutti i cristiani che oggi sono umiliati e oppressi: è quanto afferma il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, che parteciperà al rito di Beatificazione del vescovo siro-cattolico, sabato prossimo, ad Harissa, in Libano. Per il porporato “molti cristiani, oggi, in Medio Oriente, ma anche altrove, soffrono il tramonto di una civiltà umana di convivenza pacifica. Ma questi nostri fratelli non vogliono arrendersi al terrore” e rispondono alle violenze “con coraggio e grande fede”. Sulla figura di mons. Melki, ascoltiamo il cardinale Amato al microfono di Sergio Centofanti:
R. - Flavien Michel Melki nacque nel 1858 in un piccolo villaggio nei pressi di Mardin (Turchia). La famiglia apparteneva alla Chiesa monofisita siro-ortodossa (chiamata anche giacobita). A dieci anni il fanciullo fu inviato al monastero di Zaafarane, residenza del Patriarcato ortodosso, per i suoi studi e lì rimase per 10 anni. All'età di 20 anni fu ordinato diacono e assunse il ruolo di bibliotecario del monastero. Durante questo periodo maturò la decisione di aderire al cattolicesimo.
D. - Come avvenne il suo ritorno alla Chiesa cattolica?
R. - A 21 anni, nonostante la contrarietà dei parenti - il fratello giunse perfino a legarlo e a trascinarlo con la forza per riportarlo al monastero giacobita - e le pressioni dei monaci per farlo desistere, il Servo di Dio, convinto della sua scelta vocazionale, aderì ufficialmente al cattolicesimo recandosi subito in Libano presso il Patriarcato Cattolico, per continuare la formazione e diventare sacerdote. In questo periodo libanese, Flavien Michel Melki, come seminarista diocesano di Mardin, aderì alla Fraternità di S. Efrem, impegnandosi a pronunciare i tre voti di povertà, castità e obbedienza e a destinare per testamento il terzo dei suoi beni a favore della Fraternità.
D. – Qual è stata la sua azione pastorale?
R. - Dopo l'ordinazione sacerdotale, avvenuta il 13 maggio del 1883, Flavien Michel fu nominato professore del seminario di Mardin e missionario presso i villaggi siro-ortodossi e russi per seguire ed aiutare le famiglie cattoliche residenti in quei luoghi. Dopo questo apostolato, fu nominato vicario patriarcale e successivamente vescovo di Djezireh, regione siriana ai confini con l'Irak e la Turchia. La sua attività sacerdotale, prima, e quella episcopale dopo, fu centrata sulla formazione dei sacerdoti usciti dal giacobinismo, sulla riparazione di molte chiese distrutte e sulla costruzione di nuove. In tutta la sua vita mons. Melki lottò contro l'oppressione dei più deboli, manifestando solide virtù evangeliche e conducendo una vita completamente votata a Dio, nella povertà e nell' obbedienza.
D. – Quale il contesto del suo martirio, avvenuto il 29 agosto del 1915 a Djezireh-ibn-Omar, in Turchia?
R. - Il contesto di questa uccisione fu l'odium fidei dei musulmani contro i cristiani durante la micidiale persecuzione turca, che provocò lo sterminio degli armeni e il massacro delle altre minoranze cristiane. In questo tragico periodo il Servo di Dio divenne un instancabile difensore dei diritti del suo popolo, cercando di aiutare, senza fare distinzioni, tutti i cristiani della Djezireh, che venivano sottoposti ai peggiori trattamenti. Un suo amico musulmano di nome Osman gli offrì la possibilità di fuggire e di salvarsi, rifugiandosi nella vicina città di Yézidis. Egli rifiutò: «È impossibile abbandonare i miei fedeli per salvare me stesso. Ciò è contrario alla mia fede e al mio dovere di pastore».Catturato e imprigionato a metà agosto del 1915 insieme ad alcuni sacerdoti e laici, nella prigione di Djezireh-ibn-Omar fu operoso anche tra i prigionieri che erano reclusi con lui, esortandoli a rimanere saldi nella fede. Venne poi sottoposto all'interrogatorio di rito. In tale occasione, gli fu proposto che se voleva aver salva la vita, doveva convertirsi all'Islam. Ma egli rifiutò. Anche i preti e i fedeli lo imitarono, rifiutandosi di convertirsi. Per questo furono tutti fucilati a gruppi di cinque. Mons. Flavien Michel Melki fu fatto distendere a terra e picchiato a sangue fino allo sfinimento. Trascinato fuori fu ucciso a colpi di fucile. Il suo corpo martoriato e sanguinante fu gettato, come quello degli altri fedeli, nelle acque del fiume Tigri.
D. – E oggi le persecuzioni anticristiane continuano ...
R. - Oggi, come cent' anni fa, le tenebre sono calate in molte terre di antica civiltà cristiana. I fedeli vengono discriminati, perseguitati, cacciati, uccisi. Le loro case vengono segnate non con il sangue dell'agnello pasquale per essere salvate, ma con la N rossa (che significa nazareni, cristiani), a indicare la loro condanna. Come cento anni fa, ai tempi del martirio di mons. Melki, ai cristiani viene negata ogni libertà, costretti ad abbandonare la loro patria o a convertirsi forzatamente o a morire. In realtà è la morte che domina sovrana nella mente e nei cuori di pietra dei persecutori, che non sopportano la civiltà cristiana della libertà, della fraternità, del rispetto del prossimo, della giustizia, della carità.
D. – Di cosa hanno bisogno oggi i cristiani in Medio Oriente?
R. - I cristiani in Medio Oriente hanno bisogno della solidarietà, della preghiera, e della nostra presenza concreta. E da questo punto di vista è importante la beatificazione di mons. Melki, che è proprio un dono di Papa Francesco alla Chiesa del Medio Oriente e in particolare alla Chiesa siro-cattolica. E’ un dono per far conoscere a tutto il mondo il valore umano e cristiano di questo eroe di Cristo, che è il Beato Melki, e infondere coraggio e speranza ai fratelli umiliati e offesi dagli odierni oppressori. La Chiesa piange per i suoi figli uccisi o costretti a rinnegare la loro fede e si rallegra per tutti coloro che hanno conservato intatta la fede e che, esuli nel mondo, diventano portatori di vangelo in una civiltà, come quella occidentale, bisognosa di testimoni credibili di Dio. Questa Beatificazione è dunque un messaggio di Papa Francesco a tutti i cristiani, soprattutto a quelli perseguitati in Medio Oriente, perché continuino a sperare nel Signore, ad avere salda la fede e a cantare un inno di speranza col Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 23,1-4). È un canto di speranza nel trionfo del regno di Dio sulla terra. È un canto di vittoria che annuncia l'alba del giorno nuovo, dopo le tenebre della notte.
Il grazie delle famiglie al Papa per il "Nobel" del tempo moltiplicato
Grande gioia nelle famiglie per le parole del Papa che ieri, nella centesima udienza generale del suo Pontificato, ha esortato a coltivare la preghiera insieme. Francesco ha espresso ammirazione per le famiglie che "moltiplicano" il proprio tempo, tanto che “papà e mamme - ha detto - dovrebbero ricevere il Nobel perché trasformano le 24 ore in 48”. Massimiliano Menichetti ha raccolto la testimonianza di Marco e Tiziana, due giovani sposi che vivono a Roma:
Tiziana – La famiglia è il dono più grande che ho cercato e che il Signore mi ha fatto trovare. Mi è rimasta impressa una frase che disse un giorno un sacerdote, in occasione di un matrimonio: “La famiglia è una palestra di misericordia”. Ed effettivamente lo sto sperimentando. E’ il vivere quella misericordia di Dio, che passa attraverso mio marito Marco, il mio bambino Matteo e il piccolino che cresce dentro di me e che tra qualche mese arriverà tra di noi.
Marco – Per me la famiglia è il luogo in cui mi sento chiamato dal Signore, in cui esercitare quel servizio, la custodia, l’amore, il perdono, continuamente, nella semplicità. E’ un divenire: ci siamo sposati ed eravamo Tiziana ed io, poi è venuto Matteo e adesso siamo in attesa di un altro bambino. E’ un continuo sentirsi chiamati ad uscire da sé.
D. – Il Papa ha parlato della centralità della preghiera in famiglia, in un tempo affollato, occupato, preoccupato – ha detto – e la preghiera riconsegna questo tempo a Dio…
Tiziana – Come dice anche il Papa, sembra che non si abbia mai tempo per la preghiera, però è la preghiera stessa ciò che alimenta e che rende viva la famiglia; con semplicità ci aiuta a non staccarci da Dio e ci dona la forza per andare avanti.
Marco – Facciamo esperienza tutti del quotidiano. Il lavoro, le preoccupazioni, la malattia, le fatiche in generale, tendono a schiacciarci, a farci ripiegare su noi stessi, a guardare il nostro ombelico. Il momento della preghiera è un tempo in cui si decide di alzare la testa, ci si affida a Lui ed è Lui che ci conduce, ci tiene per mano. Quindi è un elemento essenziale. E’ come respirare.
D. – In Piazza San Pietro è scoppiato un applauso quando Francesco ha detto che ci sono papà e mamme che dovrebbero ricevere il Nobel, perché trasformano in sostanza le 24 ore della giornata in 48…
Tiziana – Sì ... direi anche più ore se possibile! Lo sto vivendo e me ne rendo conto adesso che ho soltanto un bambino e sono in attesa dell’altro. I ritmi di lavoro sono frenetici, le esigenze sono molteplici, però è proprio la fede che ti aiuta a trovare il tempo e gli spazi necessari, quel desiderio di fermarsi e ringraziare, per coltivare proprio quell’amore caldo di cui parla il Papa e di cui si ha bisogno per stare vicino a Dio.
Marco – Sorridevo perché effettivamente le ore sono sempre 24, però è una nostra scelta il modo in cui vivere il tempo. Effettivamente ci si rende conto di fare alcune volte i salti mortali, soprattutto in una società che non è pensata per la famiglia. Ciò che ci dà la forza è proprio la fede, che dona anche il coraggio di scegliere.
D. – Il Papa dice quanta tenerezza c’è quando una mamma insegna ai propri figli a mandare un bacio a Gesù o alla Madonna…
Tiziana – Da mamma è stato spontaneo, anche quando il mio bambino non diceva ancora nulla ed era piccolissimo, insegnargli una preghiera, fargli mandare un bacino a Gesù o a Maria. E adesso è lui che, nonostante abbia soltanto due anni, a chiedermi la mattina di andare davanti alle campane della Chiesa o di andare a cantare in Chiesa, e quegli stessi canti che lui ascolta durante la Messa poi magari li ripete in casa gioiosamente.
Marco – Credo che i bambini imparino dal vissuto, da ciò che fanno le persone che li circondano e, in particolar modo, dai propri genitori, che nei primi anni di vita sono i punti di riferimento. Ed effettivamente così come lo è stato per noi, allo stesso modo pensiamo che sia per Matteo e per i figli che il Signore vorrà donarci.
D. – Qual è il tuo augurio a tutte le famiglie e che cosa auguri alla tua famiglia?
Tiziana – Il mio augurio più grande è che la famiglia possa sempre, nonostante le fatiche e le difficoltà che inevitabilmente ci saranno, stare dentro la tenerezza e l’amore di Dio, sentire sempre quel balsamo che viene da Dio.
Marco – Di rimanere sempre in ascolto; rimanere sotto la custodia di Dio, che - per ritornare alle parole del Papa - è anzitutto presenza viva, vera, verso la quale si nutre affetto; rimanere sotto la sua custodia e allo stesso tempo rimanere in ascolto, perché il Signore nel custodire, manda, e lì cercare di capire giorno per giorno qual è la chiamata nel mondo, nella società, nella parrocchia, lì dove siamo chiamati a vivere e dove lo faremo nel futuro.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
La trentatreesima puntata: in un’intervista di Silvina Perez, Marcelo Figueroa ricorda i dialoghi con l’amico Jorge Mario Bergoglio.
Bare sull’asfalto e sul mare: ennesime tragedie nel Mediterraneo.
Andare, e andare insieme: anticipazione dell’intervento dell'arcivescovo Bruno Forte al Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste di Torre Pellice.
Manlio Simonetti sulle delusioni di Origine nella predicazione a Cesarea.
Silvia Guidi su Blandina, la suora del Far West: verso la causa di beatificazione della religiosa.
Quell’ultima spiaggia per gli ebrei europei: Gabriele Nicolò sul ghetto di Shangai.
Punto raso e imparaticci: Simona Verrazzo recensisce la mostra, a Torino, dedicata a otto secoli di ricami.
Onaiyekan a 500 giorni da rapimento Chibok girls: Boko Haram verso sconfitta
A 500 giorni dal rapimento di più di 200 studentesse da parte di miliziani di Boko Haram la notte del 14 aprile 2014, nella località dello Stato di Borno, nel Nord della Nigeria, oggi è stata indetta una marcia per ricordarle. Delle “ragazze di Chibok”, il nome in cui sono ormai note in tutto il mondo, al momento non ci sono ancora notizie “anzi, ora abbiamo paura che molte siano già morte o che siano sulla strada del suicidio”: queste le parole del cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, al microfono di Maria Caterina Bombarda:
R. – Oggi è una giornata speciale che riguarda tutta la popolazione nigeriana. Di fatti, c’era pericolo che si dimenticasse perché dopo quella delle “Chibok Girls”, ci sono state altre sciagure, altri rapimenti così che si rischia di non più considerarla come gran cosa. Ma oggi, per i 500 giorni dal rapimento, tutti devono ricordare!
D. – Che cosa si sa, oggi, di queste ragazze?
R. – Non si sa proprio niente! Ci sono storie, voci, ma notizie vere e proprie non ce ne sono … Anzi, abbiamo sempre paura che forse queste ragazze sono già morte, o che sono già sulla strada del suicidio, al quale assistiamo quotidianamente … Alcune, qualche mese fa, sono tornate, ma molto poche. E le persone che sono riuscite a scappare dal controllo di Boko Haram hanno detto che hanno visto queste “Chibok Girls”. Sembra che i terroristi le tengano separate dagli altri profughi che sono con loro, perché conoscono il valore simbolico di queste “Chibok Girls”. Ci dicono che qualcuna di loro sono già diventate membri di Boko Haram, sono passate a loro, mentre alcune altre – secondo quello che ci riportano – si sono rifiutate sia di convertirsi all’islam, sia di andare con i Boko Haram ... con conseguenze che possiamo soltanto immaginare.
D. – Oggi qual è la situazione?
R. – Ora si può dire che c’è stato un progresso, nel senso che quasi tutto il territorio nigeriano che Boko Haram aveva conquistato, è stato liberato. Si dice che tutta l’organizzazione di Boko Haram sia stata smantellata e questo vuol dire che dal punto di vista militare siamo avviati alla sua fine. Se è vero, lo vedremo tra poco. Comunque, il presidente ha promesso ai nigeriani che massimo in tre mesi metterà fine a questa cosa. Ma si può anche aggiungere: anche quando Boko Haram non ponesse più alcun pericolo militare, c’è ancora gande lavoro da fare, e forse sarà il lavoro più grande, e cioè guadagnare la pace in quelle zone.
D. – Lei ha sempre ribadito che non si tratta di cristiani contro musulmani, ma che Boko Haram sono terroristi che vogliono distruggere lo Stato …
R. – Dicevo queste cose tre anni fa, e quando le dicevo ci sono state persone che mi hanno accusato di non voler riconoscere la verità, e cioè - secondo loro - che si trattasse di un piano di musulmani. Almeno oggi vediamo le cose in maniera molto più chiara: non è vero che i musulmani sono tutti dietro Boko Haram e contro i cristiani; adesso si vede che quelli che soffrono di più e che si preoccupano di più di Boko Haram sono proprio i musulmani della Nigeria, e in particolare la comunità musulmana di quella zona.
D. – Come si esce da questa spirale?
R. – Secondo me, abbiamo già cominciato, nel senso che la comunità musulmana nigeriana ha finalmente accettato il fatto che i Boko Haram appartengono alla casa dell’islam e allora tocca alla comunità musulmana trovare il modo di non dare appoggio a queste persone, che sono terroristi, estremisti. Non sono tanti ma sono pericolosi.
Austria: 50 migranti morti in un Tir. Onu: "Serve piano Ue"
Nuova tragedia dell'immigrazione in Europa. In Austria, secondo la polizia regionale, in un Tir che viaggiava in autostrada sono stati trovati tra i 20 e 50 cadaveri di profughi morti per asfissia. Intanto, a sud di Lampedusa sono iniziate le operazione di soccorso di un barcone con circa cento persone. E altre 3000 sono giunte nelle ultime 24 in Ungheria malgrado la barriera anti-migranti. Da parte sua, la Germania deroga al tratto di Dublino e accoglie i siriani. Il servizio di Marco Guerra:
Ieri la morte ha colto 51 migranti nella stiva di un barcone nel Canale di Sicilia per le esalazioni del motore e oggi altrettanti hanno perso la vita dentro il rimorchio di un Tir in viaggio per le autostrade austriache. La morte per asfissia non è l’unica similitudine delle tragedie che si ripetono sulle rotte del Mediterraneo e dei Balcani: 3000 le persone salvate ieri al largo della Libia, 3000 quelle arrivare nelle ultime 24 ore in Ungheria, il numero maggiore in una sola giornata secondo la polizia magiara. Migranti che stanno marciando sui binari della ferrovia o alzano con mezzi di fortuna il filo spinato eretto dal governo di Budapest. Intanto la Germania, in deroga ai trattati che prevedono che il richiedente asilo resti nel Paesi di prima accoglienza, sospende l’espulsione dei profughi di nazionalità siriana; mentre la Commissione europea punta a proporre entro la fine dell'anno "un meccanismo permanente, vincolante e con quote" per la ripartizione di richiedenti asilo. Oggi il vertice di Vienna tra i rappresentati dell’Ue e quelli di sei Paesi balcanici per far fronte alla crisi dei Migranti. Per un commento sulla situazione e sulla risposta dell’Europa a questa emergenza sentiamo Carlotta Sami, portavoce dell’Acnur, l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati:
R. – Siamo di fronte a una crisi umanitaria, non una crisi migratoria, questo è un punto molto importante. Quelli che spesso vengono definiti migranti sono rifugiati. Siamo davanti alla più grande crisi di rifugiati dalla Seconda Guerra mondiale. Sono ben 60 milioni le persone nel mondo che hanno lasciato la propria casa a causa di guerre o violenze. L’86 per cento di queste persone vive nei Paesi in via di sviluppo. Una piccola parte di queste persone sta cercando protezione in Europa. Parliamo di qualche centinaio di migliaia di persone in un continente di oltre 500 milioni di abitanti, l’Europa appunto.
D. – I fenomeni a cui stiamo assistendo in questa estate sono legati anche alle guerre e alle crisi nel Medio Oriente…
R. – Queste crisi sono strettamente legate soprattutto alla terribile guerra siriana che non trova una soluzione, che ha provocato la più grande popolazione di rifugiati al mondo: oltre 4 milioni di persone sono fuori dal Paese. Iraq, Libano, Giordania, Turchia, Egitto, questi sono i Paesi che accolgono la maggior parte dei rifugiati siriani. Una piccola parte di loro, vivendo in condizioni oramai disperate, arriva anche in Europa. Perché dico in condizioni disperate? Perché purtroppo i programmi di aiuto per questi rifugiati che noi in primis portiamo avanti sono finanziati solo per il 30 per cento. Questo ormai cronicamente da diversi anni.
D. – Oggi a Vienna il vertice tra i Paesi balcanici e i vertici dell’Unione europea. Che risposte vi aspettate da questo incontro?
R. – Il tema dell’accoglienza dei rifugiati è al centro dell’incontro. E’ un incontro che era già previsto per altri motivi. Sappiamo che ormai è chiaro a tutti che un arrivo di rifugiati come quello che sta fronteggiando la Grecia, quindi poi i Paesi che si trovano lungo la rotta terrestre balcanica, non può essere affrontato da singoli Paesi e soprattutto non è assolutamente utile a nessuno affrontare questo problema, questa crisi, erigendo muri o cortine di ferro. Sono migliaia i rifugiati siriani e iracheni che arrivano ogni giorno sulle isole greche. E’ importantissimo che il governo greco crei un sistema di accoglienza che al momento non esiste e che venga dato supporto a questi rifugiati che moltissime volte sono persone disabili, persone ferite dalla guerra, bambini che portano addosso le ferite della guerra, proprio perché molti hanno lasciato la Siria da pochi giorni. Noi siamo presenti da mesi sul territorio greco e abbiamo aumentato molto la nostra presenza e i nostri aiuti e portando supporto alle autorità nell’identificare luoghi dove le persone possono essere accolte, nel prepararle nella maniera più adeguata.
D. - Siete presenti anche nei Balcani?
R. – Siamo presenti anche nei Balcani: in Macedonia, in Serbia, in Ungheria, in tutti questi Paesi. In queste stesse ore stiamo aumentando anche le forniture di beni di prima necessità. Stiamo indicando alle autorità quali sono le modalità migliori per creare spazi per il riposo dei rifugiati per permettere poi anche ad altre organizzazioni umanitarie di portare la prima assistenza, ripeto, ad un gruppo di migliaia e migliaia di persone che non sono stabili, sono in movimento. E questa è la sfida più grande che abbiamo perché dobbiamo essere in grado di monitorare la situazione e di portare aiuto là dove serve.
D. – La redistribuzione dei richiedenti asilo può essere conciliata con il Trattato di Dublino o vanno rivisti gli accordi europei?
R. – Si concilia benissimo. L’agenda europea che era stata approvata nei primi mesi dell’estate deve trovare implementazione e anzi ampliamento. Anzi è molto importante che l’Europa porti un piano immediato di intervento per questa crisi umanitaria, risorse immediate e la partecipazione di tutti i Paesi europei, dentro e fuori Schengen.
D. – La Germania accoglierà i profughi siriani e quindi la strada da seguire è quella di Berlino …
R. – Sicuramente la Germania ormai, già da almeno tre anni, sta facendo un grossissimo lavoro per l’accoglienza dei rifugiati siriani. E’ insieme alla Svezia il Paese che accoglie più della metà di tutti i rifugiati. E il passo di sospendere il Trattato di Dublino è un passo estremamente positivo che accelererà l’analisi delle richieste d’asilo per i rifugiati siriani. Ed è un passo che possono fare anche tutti gli altri Paesi perché lo stesso Trattato di Dublino prevede che qualsiasi Paese europeo possa decidere di accogliere le richieste di asilo in deroga al Trattato stesso.
D. – Quindi gran parte della sfida sarà accelerare le operazioni burocratiche per le richieste d’asilo…
R. – Gran parte della sfida sarà questo, sarà anche approntare strutture idonee all’accoglienza e sarà anche mostrare alla cittadinanza europea che la gestione di questa crisi, che pur sorprende così tanto, è qualcosa di assolutamente fattibile. Ripeto, stiamo parlando di qualche centinaio di migliaia di persone a fronte di un continente che ha una cittadinanza di oltre 500 milioni di persone.
Libia, stallo nei negoziati Onu: Tripoli abbandona colloqui
In Libia il capo delegazione del parlamento non riconosciuto di Tripoli, Saleh Makhzoum, abbandona i negoziati, che avrebbero dovuto riaprirsi questa mattina in Marocco sotto l’egida delle Nazioni Unite. Dopo la mancata firma da parte di Tripoli della bozza siglata a luglio dal governo di Tobruk - quello riconosciuto dalla comunità internazionale - e dalle altre parti politiche che attualmente si contendono il potere in Libia, si fa, dunque, fa sempre più lunga la strada per la formazione di un governo di unità nazionale che stabilizzi il Paese e ponga un freno all’avanzata dei jihadisti legati al sedicente Stato islamico. L'inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino León, intanto, conferma la sua fiducia sulla possibilità che si formi un governo di unità nazionale entro la metà di settembre e afferma: “l'arma più forte della Libia contro lo Stato islamico è l'unità". La proposta dell’Onu prevede un anno di governo di unità nazionale, in cui vi sia un Consiglio dei ministri, guidato da un premier e due vice, scelti per rappresentare entrambe le parti. Sui motivi di opposizione del parlamento di Tripoli all’accordo, Elvira Ragosta ha intervistato Gabriele Iacovino, analista del Cesi (Centro studi di politica internazionale):
R. – In primo luogo, il riconoscimento da parte della comunità internazionale di un ruolo del governo, del Parlamento di Tripoli, all’interno delle istituzioni libiche, cosa che finora non è avvenuta - e si è totalmente lontani dal raggiungimento di una simile opzione. Inoltre, nel processo di ricostruzione istituzionale, portato avanti dalle Nazioni Unite e da León, il ruolo, appunto, delle istituzioni di Tripoli a maggioranza islamista è finora stato messo in un angolo: non è stato riconosciuto un grandissimo ruolo, in relazione anche a quello che è riconosciuto al Parlamento di Tobruk e al governo della Cirenaica.
D. – L’inviato speciale dell’Onu, Bernardino León, ha sottolineato che in assenza di un accordo l’alternativa è che i miliziani legati al sedicente Stato islamico approfittino ulteriormente del caos libico. Sirte è occupata da gennaio, sembra che i miliziani controllino anche Derna, con l’appoggio di al-Qaeda. Qual è la situazione sul territorio al momento?
R. – Sicuramente questa è una minaccia importante per la stabilità libica. La presenza, comunque, dello Stato Islamico finora è stata circoscritta alla regione soprattutto di Sirte, perché nella regione lo Stato islamico e i sedicenti rappresentanti dello Stato Islamico si sono molto legati a coloro i quali erano i rappresentanti del regime di Gheddafi. E’ un po’ quello che è successo anche in Iraq con i baahtisti, che sono stati la base della nascita e della crescita dello Stato islamico di Baghdad. Situazione un po’ diversa è quella di Derna dove di fatto è in corso uno scontro per il potere tra i nuovi rappresentanti dello Stato Islamico e i rappresentanti dei gruppi storici jihadisti libici, che non vedono di buon occhio lo Stato islamico.
D. – Quali dovrebbero essere, secondo lei, le condizioni politiche per il raggiungimento dell’accordo che porti al governo di unità nazionale?
R. – Finora, rispetto alle posizioni di partenza negoziale, portate avanti anche da León, si sono fatti dei passi in avanti, per esempio mettendo nel negoziato anche le rappresentanze locali, le municipalità, che sono le rappresentanze tribali più importanti su cui si fonda la struttura sociale libica. Finora, però, si è parlato poco di federalismo o, comunque, di una federazione all’interno della Libia, e ancora di meno si è parlato del Fezzan, perché continuiamo a parlare della Tripolitania e della Cirenaica, dimenticandoci totalmente di una parte importante, forse la regione anche più importante della Libia, che è quella di accesso dal Sahel e da dove stanno entrando tutti i traffici illegali di armi, droga, esseri umani, che continuano a rendere sempre più instabile il Paese. Una strada possibile da seguire è appunto quella di una federalizzazione, nel senso di una divisione del potere all’interno delle varie rappresentanze locali, che è il punto fondamentale su cui poi si vanno a creare gli ostacoli più importanti per il negoziato.
Il governo stringe sul caporalato: presto un piano d'azione globale
Entro due settimane sarà messo a punto dal governo un "piano d'azione organico e stabile" contro il fenomeno del caporalato e, più in generale, contro il lavoro irregolare nell'agricoltura. Lo hanno annunciato i ministri del Lavoro Poletti e delle Politiche Agricole Martina, che oggi hanno incontrato le organizzazioni del settore, dalle aziende alla grande distribuzione. Il servizio di Alessandro Guarasci:
Le morti di questa estate nei campi sono solo la punta dell’iceberg. Addirittura ad Andria il corpo di un uomo del Mali deceduto mentre raccoglieva pomodori è stato occultato dai caporali. Si calcola che il lavoro nero in agricoltura riguardi un lavoratore su tre. Il governo pensa a una legge per confiscare i beni alle aziende che si macchiano di caporalato. Ma per il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina l’intervento deve essere più ampio:
"Sicuramente il rafforzamento dei controlli, sicuramente l’investimento nella rete del lavoro agricolo di qualità, come vera leva per cambiar passo in questa strategia; un piano d’azione organico che possa immaginare qualche innovazione anche sul versante delle regole; un investimento vero, unitario, delle organizzazioni del mondo del lavoro, delle organizzazioni dell’impresa agricola, dell’esperienza della grande distribuzione e delle istituzioni”.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha assicurato che sono partite già una serie di verifiche in tante aziende. Ma è anche l’intero sistema produttivo che va rivisto. Sui banchi dei mercati troppo spesso troviamo frutta e verdura a prezzi troppo bassi. Il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo:
“Quando i valori – come spesso sta già accadendo: il pomodoro in questi giorni a 8 centesimi, le arance a 3-4 centesimi al kg – sono chiaramente al di sotto dei costi di produzione, noi rischiamo di dare uno spazio in più a quelle realtà criminali che, attraverso il caporalato o attraverso altre iniziative vivono nell’illegalità, aggiungono concorrenza sleale a quella che già subiamo dai Paesi terzi dove le regole sono molto meno stringenti che da noi”.
Settimana liturgica nazionale su “Eucaristia, matrimonio, famiglia”
“Eucaristia, matrimonio, famiglia”: questo è il tema scelto per la 66.ma Settimana liturgica nazionale italiana, al via oggi a Bari. Organizzato dal Centro di azione liturgica, l’appuntamento di formazione e di spiritualità riunisce oltre 700 iscritti, fra laici, operatori pastorali, rappresentanti delle diocesi e degli Istituti religiosi, provenienti da tutta Italia. Su questo evento ascoltiamo mons. Claudio Maniago, presidente della Commissione Cei per la liturgia, al microfono di Maria Caterina Bombarda:
R. – Proprio su questo legame Eucarestia-matrimonio-famiglia si individua uno dei pilastri della vita della Chiesa. Per cui non soltanto l’importanza della famiglia e del matrimonio, ma dell’Eucarestia, che ne è in qualche modo la fonte e che si vede rispecchiarsi nel matrimonio e famiglia quasi una delle dimensioni, rendendo visibile, si direbbe, il modo con cui Cristo stesso si è posto nei confronti dell’umanità e della sua Chiesa in particolare.
D. – Quanto è importante la dimensione eucaristica nella famiglia e quali sono i motivi della difficoltà delle famiglie oggi alla partecipazione dell’Eucarestia domenicale?
R. – Lo si può dire del rapporto tra Eucarestia, matrimonio e famiglia, usando l’espressione del Concilio: “L’Eucarestia davvero è culmine e fonte della vita della famiglia”. Culmine, perché tutto il cammino di una famiglia, questo laboratorio d’amore, di vita e di fecondità che è la famiglia, trova nell’Eucarestia il suo riferimento, il suo sbocco. D’altra parte, anche fonte, perché è con la forza del cibo, del pane della vita, che si può vivere questa impegnativa esperienza che è quella del matrimonio, di un amore coniugale che ha le espressioni più belle usate dal Signore stesso. Certamente ci sono delle difficoltà a fronte di questa grande ricchezza, che lega Eucarestia, matrimonio e famiglia, difficoltà di ordine pratico, che oggi sono i ritmi di vita delle famiglie, i ritmi di vita della società, che impongono talvolta una difficoltà a parteciparvi, anzitutto come famiglie, proprio perché i ritmi di lavoro, portano purtroppo a non poter vivere questa bella esperienza insieme. In questo c’è sicuramente una ricerca da fare, con celebrazioni che vengano incontro ai ritmi della famiglia di oggi, a livello di orario, di accoglienza, di possibilità. Evidentemente, infatti, i ritmi in cui la famiglia oggi vive non sono più i ritmi di qualche decennio fa.
D. – Il giorno 29, sabato, è prevista una tavola rotonda intitolata “Domenica, famiglia, riposo”, in cui interverranno tre coppie di coniugi. In che cosa consisterà?
R. – E’ il tentativo solito nella Settimana Liturgica non solo di proporre degli insegnamenti, quanto piuttosto anche di portare delle testimonianze, per far capire che si sta parlando di qualcosa che tocca la vita. Questo è il tentativo di questa tavola rotonda: di dare voce a chi vive l’esperienza matrimoniale, alla luce e con la forza dell’Eucarestia, e anche con le problematiche che possono nascere per le famiglie nel confrontarsi con le celebrazioni, così come vengono proposte anche nei nostri piani pastorali.
D. – Quale contributo può dare la Settimana Liturgica in vista del Sinodo generale della famiglia che si terrà in ottobre?
R. – Io direi un contributo importante, intanto nel far vedere che la Chiesa cammina in una unità, in una comunione che è significativa. La Chiesa universale, che riflette sulla famiglia insieme al Santo Padre. Così la nostra Chiesa italiana, nel suo piccolo, sicuramente con il Convegno che si terrà a Firenze e anche con questa esperienza che è la Settimana Liturgica, riflette intorno a questo tema della famiglia. Quindi sarà un contributo che aiuterà a capire che non sono temi astratti e non se ne può parlare in astratto, ma che la vita della Chiesa già propone un itinerario e un’esperienza.
Vallini: Roma, città anemica spiritualmente, serve nuova linfa
“C’è bisogno di laici cristiani che nei loro ambienti di vita e di lavoro diventino punti di riferimento e di discussione feconda. Roma oggi è una città anemica spiritualmente e questo dà il via a tutte quelle conseguenze morali negative; perciò c’è bisogno di una nuova linfa vitale che la percorra”. Questo l’appello lanciato da Lourdes dal cardinale vicario Agostino Vallini che in questi giorni guida il tradizionale pellegrinaggio della diocesi nella cittadina pirenaica. Tra i partecipanti, oltre 100 universitari degli atenei della capitale. Il servizio di Marina Tomarro:
Si viene a Lourdes portando nel cuore i pesi, le delusioni ma anche le speranze. Affidiamo alla Vergine la nostra vita e chiediamoLe di aiutarci a capire quali strade dobbiamo intraprendere. E l’acqua ci purifichi dandoci forza e coraggio. Così il cardinale vicario Agostino Vallini ha salutato i giovani che partecipano al pellegrinaggio della diocesi di Roma a Lourdes. Tante sono le emozioni dei ragazzi. Ascoltiamo i loro commenti:
R. – Ho voluto ritagliarmi questo arco di tempo per trovare un po’ di pace interiore perché comunque gli studi sono sempre molto faticosi e Lourdes mi è sembrato il luogo giusto per ritrovare la serenità e la pace e la carica giusta per ritornare poi sui miei passi.
D. – Tu invece?
R. – Io credo che ciò che mi ha spinto sia stata una chiamata. Una chiamata che arriva in un momento della vita in cui si sente la necessità di voler fare qualcosa per leggere meglio all’interno di se stessi per poter stare meglio con se stessi e con gli altri.
R. – Io mi sono laureato a luglio e sono voluto venire qui a Lourdes per ringraziare la Madonna per avermi aiutato in questo percorso e anche per rivivere, dato che è la seconda volta che vengo qui, il contatto con i malati dal punto di vista umano e professionale, in un certo senso, e quindi riscoprire questi valori.
D. – Il tema di queste giornate è la gioia della missione. Cosa porterai a casa di quello che stai vivendo?
R. – Sicuramente a livello personale un arricchimento che è dato dal confronto, dalla comunità che comunque si crea con la gente che vive questa esperienza insieme a te, con la quale 24 ore su 24 condividi momenti molti intimi di preghiera. Questa sicuramente è la carta più bella che spero di portarmi a casa.
R. – Porterò a casa la sensazione di aver vissuto a contatto con le persone sofferenti. Cercherò di farne tesoro e di conservare questa sensazione di missione gratuita e quindi di vivere a pieno con questi valori la mia professione futura.
D. – E insieme ai giovani anche diversi cappellani universitari. Don Stefano Sarro, cappellano alle facoltà sanitarie dell’università la Sapienza:
R. – Io penso che un giovane a Lourdes quando viene ha fatto una nuova scoperta, perché normalmente Lourdes potrebbe essere visto come un luogo in cui la fede è vissuta in modo più tradizionale. Quando invece un giovane si lascia incontrare dalla grazia di Dio, senza esserne magari così pienamente consapevole, può sentire un’attrazione verso questo posto perché questo luogo, in cui c’è una sorgente che guarisce e che ci parla di Cielo, è un segno e risveglia in noi questa nostalgia di Cielo e di questo amore che guarisce.
Yemen: 2000 vittime civili in 6 mesi di guerra
Sono quasi 2000 le vittime tra i civili nello Yemen in 6 mesi di conflitto che sta attanagliando con bombardamenti e scontri di terra la popolazione. Secondo stime dell’Onu nello Stato più povero di tutto il mondo arabo si contano ad oggi 4.271 feriti e 20 mila rifugiati solo a Gibuti; in totale un milione e 300 mila cittadini hanno abbandonato le loro case. I dati sono riportati dal portale Terrasanta.net che rende noti anche i rapporti dell’Unicef sui bambini soldato. Nello Yemen costituiscono un terzo dei combattenti; nei posti di blocco Houthi a 12 miglia da Sana'a, gli adolescenti dichiarano di essere volontari entusiasti, di lavorare gratis. Pare che le famiglie di questi ragazzi donino denaro per la causa Houthi in modo che, oltre ai loro figli, altri ragazzi possano unirsi alla lotta per difendere il Paese dagli invasori sauditi.
Tanti i minori coinvolti nella guerra
Lo Yemen, Paese a forte componente tribale, ha una lunga storia di reclutamento degli adolescenti nei conflitti armati ed è comune per i ragazzi imparare a usare il kalashnikov in tenera età. Al punto che, secondo l’Onu, è uno dei soli otto Paesi al mondo i cui eserciti di Stato possono includere adolescenti nelle loro file. Nell’ultimo conflitto, secondo Save the Children, tutti i ragazzi maggiori di 12 anni sono stati risucchiati nella lotta armata anche al Sud. Ad Aden, ex colonia britannica, i medici dell’ospedale al Jomhoria hanno confermato che le strade, dopo la battaglia, erano piene di cadaveri di giovanissimi, spesso attratti con la promessa del paradiso dopo la morte, senza contare gli innumerevoli casi di ragazzini, combattenti o meno, ridotti a prigionieri di guerra e/o rapiti per vendetta nei confronti delle famiglie, oppositrici di una delle parti in lotta. L’Unicef, in un rapporto molto dettagliato, afferma che almeno 398 sono i bambini uccisi e 605 quelli feriti in seguito all’inasprimento del conflitto dall’inizio del marzo scorso. Più di un milione sono i bambini che rischiano di patire qualche forma di malnutrizione entro la fine dell’anno, mentre sono quasi 3.600 le scuole che hanno chiuso i battenti, a discapito di una popolazione scolastica di un milione e 800 mila giovanissimi studenti.
Manca l’assistenza sanitaria di base per oltre 15 milioni di persone
Tutto ciò in un quadro generale nel quale 15,2 milioni di persone non hanno accesso all’assistenza sanitaria di base, 900 strutture sanitarie sono state chiuse dal 26 marzo e 20,4 milioni di persone hanno bisogno di assistenza per stabilire o mantenere l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici o per via della carenza di carburante, dei danni alle infrastrutture e della mancanza di sicurezza. Oltre mezzo milione di donne incinte, invece, nelle zone dello Yemen più colpite dal conflitto, sono ad alto rischio di complicazioni in gravidanza o al momento del parto perché non possono raggiungere le strutture mediche. Negli ultimi sei mesi, l’Unicef, oltre alle normali attività (servizi di salvataggio, tra cui la distribuzione di acqua potabile e il trattamento dei bambini affetti da malnutrizione, così come da diarrea, morbillo e polmonite) ha fornito sostegno psicologico per aiutare più di 150 mila bambini ad affrontare gli orrori del conflitto, mentre 280 mila persone hanno imparato ad evitare lesioni causate da ordigni inesplosi e mine. Nonostante le enormi esigenze, l’ufficio locale ha ottenuto finanziamenti pari solo al 16 per cento dei 182.600.milioni dollari ritenuti necessari per far fronte all’emergenza di cui i media non parlano. (T.C.)
Corte Strasburgo: no a donazione embrioni per ricerca
La Corte europea per i diritti umani di Strasburgo ha stabilito che l'Italia non ha violato la Convenzione europea sui diritti dell'uomo per non aver permesso la donazione a scopo scientifico di embrioni umani ottenuti attraverso la fecondazione in vitro. Lo si legge in una nota distribuita dalla Corte. Il caso riguarda una cittadina italiana, Adelina Parillo, che nel 2002 ricorse alla fecondazione in vitro insieme al suo partner, ottenendo cinque embrioni che non sono stati però mai impiantati a causa della morte del compagno nel novembre 2003, nell'attentato di Nassyriah, in Iraq. La signora Parillo rinunciò alla gravidanza, ma decise di donare gli embrioni per la ricerca scientifica, in particolare per la cura di malattie difficili da curare.
La legge italiana vieta tuttavia esperimenti sugli embrioni umani. La richiesta della signora Parillo è stata quindi rifiutata, nonostante sia giunta prima che l'attuale legge che vieta l'uso di embrioni umani fosse entrata in vigore nel 2004. La Corte spiega la sua decisione sottolineando che la preparazione della legge italiana "ha generato un dibattito significativo" e che le autorità italiane "hanno preso in considerazione l'interesse dello Stato nel proteggere l'embrione e l'interesse degli individui coinvolti", si legge in una nota della Corte.
La Corte ritiene inoltre che in questo caso specifico "il divieto è necessario in una società democratica" in quanto non ci sono prove che il compagno della signora Parillo fosse d'accordo con la donazione degli embrioni. La Corte ha però accettato per la prima volta il principio che una decisione sulla sorte di un embrione riguarda la vita privata di una persona, aprendo quindi nuove possibilità di ricorsi nel futuro.
La Corte di Strasburgo fa capo al Consiglio d'Europa, un'organizzazione distinta dall'Unione Europea, e di cui sono membri anche Paesi come Russia, Turchia e Azerbaigian.
Card. Montenegro: emigrazione diminuisce con lotta a ingiustizia
“L’emigrazione non è il male, ma il sintomo dell’ingiustizia che esiste nel mondo. Soltanto quando riusciremo ad eliminare l’ingiustizia, l’emigrazione diminuirà”. Così il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, durante un incontro di cui riferisce l’associazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre”. La situazione si è aggravata – osserva il porporato – “perché sempre più gente è costretta a fuggire”, non tanto spinta da ragioni economiche per cercare una vita migliore in Italia e in Europa, quanto per “la guerra, la fame e la persecuzione religiosa”.
Bibbia e Corano a Lampedusa
Il cardinale Montenegro riporta delle tante Bibbie e copie del Corano che hanno attraversato il mare assieme ai profughi, non sempre sopravvissuti. “Molte delle pagine di questi testi sacri – osserva - erano sottolineate. Da qui l’idea lo scorso anno di un incontro e un libro su “Bibbia e Corano a Lampedusa”, per raccontare la religiosità, pur vissuta in maniera diversa, che ha accompagnato molti dei naufraghi fino al momento in cui hanno perso la vita.
Nell’accoglienza non fare distinzioni di credo
Tra chi fugge la persecuzione anche molti cristiani, aumentati negli ultimi anni sulle coste italiane di circa il 30 per cento, secondo quanto documentato dall’agenzia Habeshia. Il cardinal Montenegro invita a non fare distinzione di credo. “Di fronte ad un uomo che muore devo fermarmi a riflettere senza domandarmi a quale religione appartenga. È chiaro però che la morte di uno dei miei fratelli nella fede mi procura un dolore particolare, perché quell’uomo è legato a me da un qualcosa in più”. La Chiesa intanto si sta mobilitando sempre più nell’accoglienza, non soltanto nelle aree costiere, ma in tutto il Paese. “Ora che i profughi vengono suddivisi in diverse località, ogni diocesi si sta attivando nell’accoglienza. Ed è una vera grazia per la nostra Chiesa”. Tuttavia il cardinal Montenegro non nasconde la sua preoccupazione per i tanti muri che la crescente paura dell’altro sta generando all’interno della comunità cattolica. “Dobbiamo imparare a riconoscere Cristo anche tra chi arriva tra di noi con un barcone. Se non riusciamo ad accettare questa presenza particolare di Cristo allora siamo degli atei, pur essendo credenti”. (R.G.)
Scuole cristiane in Israele : positivo incontro con presidente Rivlin
“Un passo positivo”, cosi il Segretariato generale dell'Ufficio delle Scuole cristiane in Israele, interpreta l'incontro avuto con il presidente israeliano Reuven Rivlin, come riferisce l’agenzia Fides. Al centro del colloquio la crisi in cui versano le scuole cristiane in Israele, che restano “chiuse fino a nuovo ordine”, in attesa di “ulteriori negoziati”, informa un comunicato del Segretariato, diffuso anche dal Patriarcato Latino di Gerusalemme. Nello stesso documento si offrono dettagli dell'incontro, avvenuto lunedì 24 agosto a Gerusalemme, tra il Comitato negoziale delle Scuole cristiane presieduto dal vescovo Giacinto Boulos Marcuzzo, vicario patriarcale per Israele del Patriarcato Latino e il presidente Rivlin. Presente anche il ministro israeliano dell’Istruzione Naftali Bennett, accompagnato da una delegazione del Ministero. “Il presidente Rivlin - si legge nel testo - ha aperto la riunione apprezzando il ruolo delle scuole cristiane in Israele, sottolineando l’importanza dell’eccezionale esperienza pedagogica che forniscono da molti anni”. Ed ancora, il ministro Bennett ha riaffermato il sostegno all’esistenza di scuole cristiane nel Paese e l'impegno a cercare soluzioni per risolvere la crisi di bilancio di cui soffrono. Le scuole cristiane si sono impegnate a preparare una relazione di carattere tecnico sugli aspetti finanziari della propria attività educativa, rivolta a 30 mila studenti, solo per metà cristiani. Lo scorso 27 maggio, le scuole cristiane d'Israele avevano organizzato una manifestazione senza precedenti per denunciare le politiche discriminatorie di cui si sentono fatte oggetto da parte del governo. Esse appartengono alla categoria delle scuole “riconosciute ma non pubbliche” e ricevono un finanziamento parziale dal Ministero. Il resto dei costi è coperto dalla quota corrisposta dai genitori. Da anni, il Ministero dell’Educazione sta riducendo il budget delle scuole cristiane (negli ultimi 10 anni del 45%), costringendo ad aumentare il costo a carico delle famiglie, che pesa soprattutto su quelle arabe israeliane con redditi sotto la media nazionale. Prima di quella manifestazione, un comitato nominato dall’Ufficio delle Scuole cristiane in Israele aveva negoziato per otto mesi con il Ministero, che aveva proposto divenissero scuole pubbliche. Ipotesi reputata dai titolari delle scuole (chiese e monasteri) come la fine dell’impresa educativa cristiana. Un grave colpo alle comunità cristiane di Terra Santa. (R.G.)
Vescovi e rabbini tedeschi visitano insieme la Sinagoga di Roma
In occasione del 50 mo anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, una delegazione di vescovi e rabbini tedeschi visiterà il 9 settembre la Sinagoga romana, ed incontrerà il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni. "La Conferenza episcopale tedesca intende esprimere il suo apprezzamento per il luogo e le persone, che, come il cardinale Agostino Bea e l'ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, hanno avuto un ruolo determinante sulla realizzazione della Nostra aetate”, si legge in una nota della Conferenza episcopale tedesca (Dbk). “Durante e dopo il Concilio - prosegue il testo - la Sinagoga romana è diventata un luogo centrale dell'intesa tra cattolici ed ebrei; da essa sono partiti impulsi per l'incontro tra ebrei e cristiani anche in Germania".
I vescovi tedeschi hanno ormai da molti anni numerosi scambi con il Consiglio centrale degli ebrei in Germania, che rappresenta le comunità ed hanno regolari colloqui con la Conferenza generale dei rabbini di Germania (Ark) e con la Conferenza dei rabbini ortodossi della Germania (Ord). La visita della Sinagoga romana conclude una serie di attività con cui la sottocommissione per le relazioni religiose con l'ebraismo della Dbk celebra i 50 anni di Nostra aetate. Tra queste figurava, oltre ad un dibattito con il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, per la prima volta un viaggio comune di vescovi e rabbini in Israele.
Prima della visita, il prossimo 9 settembre i delegati della Conferenza episcopale tedesca, tra cui il presidente della sottocommissione per le relazioni religiose con l'ebraismo, mons. Heinrich Mussinghoff (Aquisgrana), e quello della sottocommissione per il dialogo interreligioso, mons. Hans-Jochen Jaschke (Amburgo), con i rabbini Jaron Engelmayer (Karmiel-Israele) e Jona Pawelczyk-Kissin (Heidelberg) terranno una conferenza stampa presso la Sinagoga romana, presente anche il rabbino capo Riccardo di Segni. (R.G)
Agostiniani: videoriflessioni per il Giubileo della Misericordia
La Chiesa ricorda il 27 agosto Santa Monica, madre di Sant’Agostino, vescovo di Ippona, di cui si fa memoria il 28. Per celebrarli l’ordine di Sant’Agostino ha avviato un percorso di formazione e approfondimento spirituale verso il Giubileo straordinario della Misericordia con una serie di videoriflessioni tenute dai frati dell’Ordine e pubblicate su YouTube e sui principali canali di comunicazione dell’Ordine stesso.
La Parola di Dio alla luce del pensiero agostiniano al centro delle videoriflessioni
Le meditazioni si articolano sulla Parola di Dio alla luce del pensiero e del carisma agostiniano. La prima riflessione, è tenuta da p. Joseph Farrell, vicario generale dell’ordine di Sant’Agostino. “Credo che un modo per prepararci al meglio all’anno giubilare sia ri-scoprire, scoprire di nuovo, il tesoro di saggezza, spiritualità, fede che abbiamo negli scritti di Sant’Agostino, spiega Padre Farrell. Le Lettere, i Sermoni, le Esposizioni sui Salmi di Sant’Agostino contengono numerosi riferimenti alla Misericordia, quella stessa che lo ha portato alla conversione e che ha continuamente ricevuto nel corso della sua esistenza”. I video sono visibili sul sito internet della Curia Generalizia Agostiniana, augustinians.net, nelle pagine facebook della Curia Generalizia-Agostiniana e sul canale video di YouTube CuriaGenAgostiniana. Diverse le celebrazioni nei cinque continenti per ricordare Santa Monica e Sant’Agostino.
Le principali celebrazioni in memoria di Santa Monica e Sant’Agostino in Italia
A Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove sono custodite le reliquie di Monica morta ad Ostia nel 387, il pomeriggio del 27 agosto alle 18.30 presiede la solenne liturgia eucaristica mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare della diocesi di Roma per il settore centro; il 28 agosto, sempre alle 18.30, a celebrare Sant’Agostino ci saranno tutti i rappresentanti della famiglia agostiniana (frati, suore e laici) e la Messa sarà presieduta da p. Giuseppe Caruso, vicepreside dell’Istituto Patristico Augustinianum. A Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, dove si conserva l’urna con i resti mortali del grande padre della Chiesa, celebra il solenne pontificale il card. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona – Osimo.
Il priore della Provincia agostiniana d’Italia: Agostino insegna che l’umiltà porta a Dio
“Agostino è stato capace di tradurre le sue conoscenze profonde e i suoi pensieri sublimi nel linguaggio della gente semplice – scrive in occasione delle festività agostiniane il priore della Provincia Agostiniana d’Italia p. Luciano De Michieli - lui, che invochiamo dottore della grazia, lui che ha conosciuto la sterilità della vuota superbia, ci ammonisce ad essere infiammati dal desiderio, ma consapevoli dei nostri limiti. Ci invita a non presumere di noi stessi ma ad attingere alla vera fonte, dove abita la grazia, dove tutto è possibile a Dio, e dove solo gli umili possono entrare”. (A cura di Tiziana Campisi)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 239