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Sommario del 26/08/2015
- Francesco: in famiglia si impara a pregare Dio con affetto
- Giornata di preghiera per il Creato. Papa: superare crisi ecologica
- Grande gioia per la 100.ma udienza generale di Papa Francesco
- Papa a cattolici di lingua ebraica: siate artefici di dialogo e pace
- India. Assenso Papa a elezione vescovo Chiesa siro-malabarese
- Il 29 agosto in Libano Beatificazione di Flaviano M. Melki
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Ungheria, stretta sui migranti. Cri: barriere fomentano crimini
- Parroco Gaza a un anno da fine guerra: aspettiamo miracolo tra le macerie
- Attesa per la firma per accordo in Sud Sudan: pressione Onu
- Ebola, dimesso l’ultimo paziente in Sierra Leone
- Meeting Rimini: 800 mila visitatori, il bilancio di Emilia Guarnieri
- Siria, colpite chiese. Arcivescovo maronita: tragedia senza fine
- Chiesa Gerusalemme aiuta richiedenti asilo sudanesi ed eritrei
- Sri Lanka: l'impegno dei leader religiosi per la pace nel Paese
Francesco: in famiglia si impara a pregare Dio con affetto
Il luogo privilegiato per imparare a pregare Dio con calore e spontaneità è la famiglia. Ed è quella la preghiera più bella, che non ha bisogno di troppe parole e gesti. Lo ha spiegato Papa Francesco, dedicando al rapporto famiglia e preghiera la catechesi dell’udienza generale presieduta in Piazza San Pietro, la 100.ma dall’inizio del Pontificato. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Lontano e distaccato come un giudice. Vicino e affettuoso come un papà. Riuscire a pregare Dio con intensità di cuore dipende tutto da come lo percepiamo. E la percezione nasce dal rapporto che abbiamo con Lui, personale ma anche in ambito familiare. In fondo è molto semplice, spiega il Papa, che dopo aver approfondito il rapporto tra famiglia e festa e famiglia e lavoro, affronta quello tra famiglia e preghiera.
Dio, carezza di vita
Prima di riflettere sulle ricadute di una preghiera condivisa in casa, Francesco parte dal modo individuale di sentire e vivere il tempo della preghiera. Va bene, dice, sperare che Dio “ci aiuti nelle difficoltà, va bene sentirsi in dovere di ringraziarlo. Tutto giusto. Ma vogliamo anche un po’ di bene al Signore? Il pensiero di Dio ci commuove, ci stupisce, ci intenerisce?”:
“Riusciamo a pensare Dio come la carezza che ci tiene in vita, prima della quale non c’è nulla? Una carezza dalla quale niente, neppure la morte, ci può distaccare? Oppure lo pensiamo soltanto come il grande Essere, l’Onnipotente che ha fatto ogni cosa, il Giudice che controlla ogni azione? Tutto vero, naturalmente. Ma solo quando Dio è l’affetto di tutti i nostri affetti, il significato di queste parole diventa pieno. (…) Non è impressionante che Dio ci carezzi con amore di padre? E’ tanto bello, tanto bello!”.
Calore più che parole
In sostanza, osserva il Papa, se non coltiviamo nel cuore “un amore ‘caldo” per Dio’, possiamo “moltiplicare le parole” come i pagani o “esibire i nostri riti” – lo facevano i farisei – senza però nutrire quel calore che una preghiera genuina accende dentro:
“Un cuore abitato dall’affetto per Dio fa diventare preghiera anche un pensiero senza parole, o un’invocazione davanti a un’immagine sacra, o un bacio mandato verso la chiesa. E’ bello quando le mamme insegnano ai figli piccoli a mandare un bacio a Gesù o alla Madonna. Quanta tenerezza è in quello! In quel momento il cuore dei bambini si trasforma in luogo di preghiera”.
Quel “poco tempo” da recuperare
È lo Spirito che accende un amore affettuoso per Dio, che spinge a chiamarlo “Abbà”, “Padre”. E “questo dono dello Spirito – sottolinea Francesco – è in famiglia che si impara a chiederlo e apprezzarlo”. “Se lo impari con la stessa spontaneità con la quale impari a dire ‘papà’ e ‘mamma’”, allora – assicura – “l’hai imparato per sempre". Tuttavia, il tempo per pregare sembra sempre poco, riconosce il Papa, e in famiglia questo “tempo complicato e affollato, occupato e preoccupato” pare ancora meno:
“Chi ha una famiglia impara presto a risolvere un’equazione che neppure i grandi matematici sanno risolvere: dentro le ventiquattro ore ce ne fa stare il doppio! E’ così, eh? Ci sono mamme e papà che potrebbero vincere il Nobel, per questo. In 24 ore ne fanno 48! Non so come fanno ma si muovono e fanno! C’è tanto lavoro in famiglia! Lo spirito della preghiera riconsegna il tempo a Dio, esce dalla ossessione di una vita alla quale manca sempre il tempo, ritrova la pace delle cose necessarie, e scopre la gioia di doni inaspettati”.
Ritmi familiari in armonia
Francesco conclude indicando due modelli del Vangelo, Marta e Maria, le sorelle che – afferma – “impararono da Dio l’armonia dei ritmi familiari”, ovvero “la bellezza della festa, la serenità del lavoro, lo spirito della preghiera”:
“La preghiera sgorga dalla confidenza con la Parola di Dio. C’è questa confidenza nella nostra famiglia? Abbiamo in casa il Vangelo? Lo apriamo qualche volta per leggerlo assieme? Lo meditiamo recitando il Rosario? Il Vangelo letto e meditato in famiglia è come un pane buono che nutre il cuore di tutti. E alla mattina e alla sera, e quando ci mettiamo a tavola, impariamo a dire assieme una preghiera, con molta semplicità: è Gesù che viene tra noi, come andava nella famiglia di Marta, Maria e Lazzaro”.
Giornata di preghiera per il Creato. Papa: superare crisi ecologica
“Vogliamo offrire il nostro contributo al superamento della crisi ecologica che l’umanità sta vivendo”, cosi il Papa stamane all’Udienza generale annunciando che martedì prossimo, primo settembre, sarà celebrata la prima Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, in comunione con i fratelli ortodossi, che già da tempo nella stessa data osservano questa ricorrenza. "In tutto il mondo - ha detto il Pontefice - le varie realtà ecclesiali locali hanno programmato opportune iniziative di preghiera e di riflessione, per rendere tale Giornata un momento forte anche in vista dell’assunzione di stili di vita coerenti. Con i vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate e i fedeli laici della Curia romana, ci troveremo nella Basilica di S. Pietro alle ore 17, per la Liturgia della Parola, alla quale fin d’ora invito a partecipare tutti i romani, tutti i pellegrini e quanti lo desiderano”. Su questa iniziativa, Roberta Gisotti ha intervistato mons. Gilberto Bertoglio, arcivescovo della Chiesa ortodossa autonoma di Italia e Romania:
D. - Eccellenza, quanto è importate che tutti i cristiani assumano questo impegno di “conversione ecologica”, come scrive il Papa nell’Enciclica Laudato si'?
R. – E’ molto importante che i cristiani prestino questa attenzione anche perché il mondo che ci circonda è già stato abbastanza rovinato da chi intendeva solo fare soldi sulla natura. Il mondo rischia di finire, perlomeno l’umanità. Bisogna portare rispetto a qualsiasi cosa Dio ha creato perché nella natura si vede Dio. Dio non si manifesta a noi esclusivamente di persona, ma si manifesta sempre attraverso o gli altri o la natura. La natura va rispettata al cento per cento. Sarebbe ora che smettessero di tagliare alberi e cominciassero a piantarne altri. E anche gli animali vanno rispettati. In questo periodo, dove abito hanno appeso la testa di un lupo a un cartellone di una piantina della valle: è una cosa vergognosa! Gli animali c’erano prima di noi e dovrebbero continuare ad esserci. Se continuiamo ad uccidere la natura, finirà che noi non esisteremo più perché proprio non è nella natura di Dio distruggere tutto.
D. – Francesco chiede che questa Giornata sia anche “un momento forte in vista dell’assunzione di stili di vita coerenti”, quindi non solo parole ma fatti….
R. – Esatto. I fatti sono quelli di cominciare veramente a rispettare. Noi come monaci portiamo molto rispetto alla natura perché prima di tagliare un albero ci pensiamo mille volte: l’albero è vita e non è giusto abbatterlo perché mi fa ombra o perché mi dà fastidio perché mi fa venire le foglie nella piscina - dice molta gente - o nei canali dell’acqua. L’albero va rispettato. Tutti gli uomini dovrebbero imparare a rispettare queste cose, una per una.
D. – I cristiani forse devono anche imparare a dare testimonianza di maggiore coraggio nel chiedere alla politica strategie, appunto, di tutela del creato…
R. – La politica dovrebbe pensare a salvare questa nostra natura, in tutto il mondo. Poi teniamo presente che la natura c’è stata prestata perché noi qui siamo di passaggio, prima o poi ce ne andiamo, lasciamo tutto. E allora perché dobbiamo distruggere? Ai nostri figli che cosa lasciamo, al futuro cosa lasciamo? Un mondo desolato, un mondo senza piante, un mondo senza animali? Un mondo che muore.
Grande gioia per la 100.ma udienza generale di Papa Francesco
Tanta la gioia in Piazza San Pietro per la 100.ma Udienza Generale del Papa. Il sole battente ed il caldo non hanno impedito a migliaia di persone di pregare con il Successore di Pietro. Il Papa, dal 10 dicembre 2014, sta svolgendo le sue catechesi sulla famiglia in vista del Sinodo di ottobre. Questo mese di agosto ha iniziato un piccolo percorso di riflessione su tre dimensioni che scandiscono il ritmo della vita familiare: la festa, il lavoro, la preghiera.
Nella prima udienza generale del Pontificato, il 27 marzo 2013, Papa Francesco aveva annunciato di voler proseguire le riflessioni di Benedetto XVI sull’Anno della fede. Altri cicli di catechesi hanno riguardato i Sacramenti, i doni dello Spirito Santo e la Chiesa. Il servizio di Massimiliano Menichetti:
Un mosaico di colori ed applausi. Così piazza San Pietro per la centesima udienza generale di Papa Francesco. Le transenne assiepate di fedeli venuti da ogni parte d’Italia e del mondo che quasi esplodono di gioia ogni volta che l’auto con sopra il Papa si avvicina alla gente. In questi mesi in tanti hanno chiesto la benedizione del Papa porgendo il proprio figlio, regalato oggetti di ogni tipo, preparato il mate che Francesco ha sistematicamente bevuto, così come sovente ha scambiato il proprio copricapo. E anche oggi c’è chi si è alzato di notte, percorso centinaia di chilometri e aspettato ore in piazza:
R. – Solo il fatto di poter vedere il Papa è stato eccezionale. E’ sempre una cosa unica.
R. – Ci colpisce tantissimo stare qui. Francesco è un amante della famiglia e noi siamo famiglie, siamo venuti da Montegrosso, vicino Asti… Sentiamo il Papa una persona come noi!
R. – Mi piace che stia portando avanti il messaggio di una Chiesa povera per i poveri. Come un buon pastore, pian piano tante pecorelle si stanno avvicinando molto a lui, come succede anche a me.
R. – E’ una brava persona!
R. – Sorride sempre!
R. – A me piace molto il modo che ha di rapportarsi con la gente, come se fosse uno dei tanti fedeli che vengono a cercarlo. E questo dà grande merito a lui perché pone ancora più al centro la figura del Signore. Ha l’umiltà di abbassarsi a noi.
Gli ammalati, i sofferenti nello sguardo del successore di Pietro hanno un posto privilegiato, anche introno alla Basilica vaticana e Francesco li saluta sempre uno ad uno. E quando gli suggerirono di ridurre questo tempo, rispose che doveva essere raddoppiato.
R. – E’ assolutamente uno di noi. Vorrei dirgli di continuare come sta facendo.
D. – Che cosa la colpisce più del Papa?
R. – La semplicità.
R. – L’umanità.
R. – Il suo amore per il popolo.
R. – La sua umiltà.
R. – Il suo coraggio.
R. – Questo linguaggio che arriva al cuore.
R. – La sua bontà, la sua dolcezza.
R. – La trasparenza e la verità che sono fondamento di ogni rapporto autentico, di ogni rapporto di amore e di fede.
D. – Questa è la 100.ma Udienza Generale, se lei potesse dire qualcosa al Papa, cosa direbbe?
R. – Ti voglio bene.
R. – Di continuare a chiederci di essere nella Chiesa pieni di gioia.
R. – Di continuare così, che va bene.
R. – Di ringraziarlo per quello che fa per tutti noi, tutti i giorni.
D. – Oggi il Papa ha parlato dell’importanza della preghiera soprattutto in famiglia…
R. – Sono cose che noi sentiamo dentro, Francesco ci dà forza ogni giorno. Lo ringraziamo per tutto il sostegno che dà a noi giovani, soprattutto per le nuove famiglie.
D. – Quanto è importante la preghiera?
R. – E’ importantissima. E’ l’espressione più alta di chi si sente sotto gli occhi di Dio.
R. – E’ fondamentale, è il respiro del cristiano: se non si respira non si va avanti.
Papa a cattolici di lingua ebraica: siate artefici di dialogo e pace
Papa Francesco esprime i suoi “cordiali auguri” per i 60 anni di fondazione dell’Opera di San Giacomo, che riunisce i cattolici di lingua ebraica in terra israeliana. In un messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, il Pontefice, ricordando le “numerose grazie concesse da Dio” a questa comunità nel corso degli anni, prega perché i fedeli di lingua ebraica possano essere rinnovati nella “gioiosa testimonianza del Vangelo ", “non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio" (Evangelii Gaudium, 259). “In questo modo, non solo la comunità del Vicariato sarà rafforzata, ma diventerà anche uno strumento sempre più efficace di dialogo e di pace” all'interno della società e “un segno dell'amore di Cristo per i più bisognosi”.
Il responsabile dell’Opera di San Giacomo, padre David Neuhaus, ha inviato al Papa una copia della lettera pastorale che ha scritto per l’occasione, in cui ribadisce l’importanza della ricostituzione della comunità ebraico-cristiana nello Stato di Israele. In un contesto lacerato da tensioni e conflitti – afferma padre Neuhaus – i cattolici di lingua ebraica vogliono essere ponte di dialogo e riconciliazione tra israeliani e palestinesi: “Noi siamo chiamati ad essere una Chiesa unita, abbiamo la vocazione di parlare forte sulla pace, sulla giustizia, sulla riconciliazione fra il mondo arabo e il mondo israeliano. Non è facile, perché ci sono tantissimi che vogliono la violenza, la guerra, e non pensano alla riconciliazione; noi che parliamo ebraico dobbiamo dare questa testimonianza al cuore della società ebraica: essere con gli ebrei, per gli ebrei, ma anche discepoli di Cristo che annunciano chiaramente pace, giustizia, riconciliazione, non c’è un altro cammino. Facciamo questo in comunione profonda con i nostri confratelli cristiani arabofoni che dicono la stessa cosa nella società palestinese e nel mondo arabo”.
India. Assenso Papa a elezione vescovo Chiesa siro-malabarese
In India, Papa Francesco ha esteso i confini dell'eparchia di Mandya dei Siro-Malabaresi, includendo i sei distretti civili intorno a Bangalore, nei quali si trovano i fedeli siro-malabaresi: Bengaluru Urban, Bengaluru Rural, Chickballapur, Kolar, Ramnagara e Tumkur.
Il Sinodo della Chiesa Arcivescovile Maggiore Siro-Malabarese, riunito a Mount Saint Thomas, nello Stato indiano del Kerala, avendo ricevuto il previo assenso pontificio, ha canonicamente eletto vescovo dell'eparchia di Mandya dei Siro-Malabaresi padre Antony Kariyil, dei Carmelitani della Beata Vergine Maria Immacolata (Cmi), finora direttore della "Rajagiri School of Engineering & Technology", Cochin, Kerala.
Mons. Kariyil è nato il 26 marzo 1950 a Cherthala, nell’acieparchia di Ernakulam-Angamaly. Ha emesso la prima professione il 16 maggio 1967. È stato ordinato sacerdote il 27 dicembre 1977. Compiuti gli studi filosofici a Poona, ha ricevuto il Masters in Theology (M. Th.) al Dharmaram College (Bangalore), e dopo l'ordinazione ha completato il dottorato in Scienze Sociali all'Università di Poona. Conosce il malayalam, l'inglese e l'hindi. Dopo l'ordinazione, il Rev. P. Kariyil ha ricoperto i seguenti incarichi: membro del personale al Christ College, Bangalore, di cui in seguito divenne Preside per vari anni; cappellano della comunità siro-malabarese alla Resurrection Church, Bangalore; Preside del College of Social Science, Rajagiri, Kalamassery; collaboratore del consiglio provinciale della Rajagiri Sacred Heart Province; Priore Generale della C.M.I. (per 6 anni) e Presidente Nazionale della C.R.I. (Conference of Religious of India) della Sezione per i Sacerdoti. Attualmente è Direttore della Rajagiri School of Engineering & Technology, Cochin, Kerala.
L’eparchia è stata eretta il 18 gennaio 2010 da una biforcazione dell'Eparchia di Mananthavady, al fine di servire i circa 5.000 fedeli di quella circoscrizione residenti nello Stato di Karnataka. Il territorio già abbastanza ampio (24.300 km2) viene ora raddoppiato con l'estensione dei confini per comprendere i sei distretti civili intorno a Bangalore, dove si trovano i fedeli siro-malabaresi: Bengaluru Urban, Bengaluru Rural, Chickballapur, Kolar, Ramnagara e Tumkur. L'estensione aggiunge più di 80.000 fedeli siro-malabaresi all'Eparchia di Mandya. Circa la metà sono già registrati nelle 23 parrocchie e altrettanti centri eucaristici a Bangalore. mentre il resto della popolazione è formato principalmente da studenti, infermieri e residenti temporanei. La cura pastorale della nuova zona è affidata a 45 sacerdoti eparchiali aiutati da più di 100 sacerdoti religiosi. Inoltre, una forte presenza di religiose siro-malabaresi (in 28 case) anima una varietà di opere sociali, 8 università o collegi. 12 scuole. 2 ospedali e 4 case per gli anziani.
La sede dell'Eparchia di Mandya è resa vacante per il trasferimento avvenuto il 22 agosto 2014 del primo Vescovo, S.E. Mons. George Njaralakatt, all'Arcieparchia di Tellicherry.
Il 29 agosto in Libano Beatificazione di Flaviano M. Melki
Il vescovo siro cattolico Flaviano Michele Melki, martirizzato durante le persecuzioni dell'Impero Ottomano, sarà proclamato Beato sabato 29 agosto, durante una liturgia solenne in programma presso il convento patriarcale di Nostra Signora della Liberazione a Harissa, in Libano, cui prenderanno parte numerosi Patriarchi e capi delle Chiese cristiane d’Oriente provenienti dal Libano, dalla Siria e dall’Iraq. La cerimonia di beatificazione sarà presieduta dal patriarca siro cattolico Ignatius Youssef III e il decreto di Beatificazione sarà letto all’inizio della Divina Liturgia dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.
Flaviano Michele Melki fu ucciso in odium fidei proprio il 29 agosto di cento anni fa a Djézireh, nell’attuale Turchia (“all’epoca la città faceva parte della Grande Siria”, spiega il postulatore della causa di beatificazione padre Rami Alkabalan), durante i massacri perpetrati contro gli armeni, i siro-cattolici e i membri di altre comunità cristiane su istigazione dei Giovani Turchi.
Melki era nato nel 1858 a Kalaat Mara, villaggio a est di Merdin. Ordinato vescovo di Gazarta nel 1913, viveva in estrema povertà e aveva venduto anche i suoi paramenti liturgici per soccorrere i poveri. Nell’estate del 1915, mentre si trovava lontano dalla sua diocesi, decise di tornare presso la sua sede episcopale dopo aver saputo che le violenze si sarebbero presto abbattute anche sui suoi fedeli. Fu arrestato dalle autorità ottomane il 28 agosto, insieme al vescovo caldeo della stessa città. Secondo testimonianze oculari riportate da fonti musulmane, i due vescovi furono uccisi dopo essersi rifiutati di abiurare la propria fede e di convertirsi all'islam. Michele Melki fu seviziato a morte e infine decapitato.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
La parte migliore del tempo: alla centesima udienza generale del pontificato Francesco parla della preghiera in famiglia.
La presentazione del cardinale Leonardo Sandri e l'introduzione dell'autore al volume di Manuel Nin "Uno sguardo orientale a Roma. Parole sparse su eventi della vita della Chiesa".
Un articolo di Gabriele Nicolò dal titolo "Anche Hollywood s'inchinò a quelle fossette": il 29 agosto 1915 nasceva a Stoccolma Ingrid Bergman.
Se la Shoah modifica il Dna: Anna Foa sugli inquietanti risultati di uno studio.
Tra sogno e realtà: Claudio Toscani recensisce "L'uomo sulla bicicletta blu" di Lars Gustatsson. La speranza di un reale cambiamento: ventunesima edizione del Grido degli esclusi in Brasile.
Ungheria, stretta sui migranti. Cri: barriere fomentano crimini
Sono oltre duemila gli uomini inviati da Budapest per pattugliare il confine ungherese: è un nuovo corpo speciale di frontiera, creato dal premier Viktor Orban, con l’obiettivo di bloccare il flusso di migranti. L’Ungheria sta valutando se inviare al confine meridionale l’esercito, intanto però la sua polizia avrebbe sparato gas lacrimogeni in un centro di accoglienza, alla frontiera con la Serbia, per impedire ai migranti di parlare con i giornalisti. Continua anche il flusso in Serbia di chi, proveniente da Grecia e Macedonia, cerca di entrare in Ungheria per poi passare nei Paesi del nord, mille i nuovi arrivi la notte scorsa. La Commissione Ue ha deciso di assegnare complessivamente un milione e mezzo di euro di aiuti a Serbia e Macedonia.
Nei primi sei mesi del 2015, sono passati in Serbia 37 mila migranti, il mese di luglio e la prima metà di quello di agosto hanno registrato una cifra pari a più del doppio, 83 mila. Solo negli ultimi fine settimana sono transitati dal confine con la Macedonia in novemila. Il flusso è inarrestabile e in aumento, racconta Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione internazionale di Croce Rossa in Serbia. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – Parliamo di persone che scappano dalla guerra, dalle persecuzioni, in maggioranza siriani, iracheni e afghani, e negli ultimi due mesi tantissime famiglie con bambini.
D. – In che condizioni sono queste persone quando voi le incontrate, soprattutto che viaggio hanno fatto, se ve lo raccontano?
R. – L’emblema della Croce Rossa, della Mezzaluna rossa, è un emblema che ispira prima di tutto fiducia. Quindi, ci cercano, vengono a parlare con noi, ci raccontano i loro viaggi. Io parlavo con un ragazzo ieri che veniva dalla provincia di Anbar in Iraq: in 15 giorni, grazie al fatto che era da solo e aveva delle risorse finanziarie, era arrivato in Serbia. Ma ci sono viaggi molto più lunghi. Ancora ieri parlavo con degli afghani che ci hanno messo due mesi ad arrivare in Serbia. Dipende dalle risorse economiche, dalle condizioni del mare, quando passano tra la Turchia e la Grecia, e dipende anche dalle varie complicazioni che trovano sulla loro strada. Sono viaggi molto pericolosi, che costano tanto, che mettono a serio rischio soprattutto i più vulnerabili. Ovviamente, quando arrivano qui in Serbia sono molto stanchi, ma con una grande voglia di proseguire il viaggio verso il centro-nord Europa.
D. – Il loro obiettivo, i Paesi di arrivo, nel loro immaginario quali sono?
R. – Nell’immaginario collettivo dei migranti sicuramente si parla di Germania, di Svezia, in alcuni casi di Inghilterra e di Francia. I siriani, che sono la grande maggioranza, rispondono praticamente tutti quanti che in realtà il loro sogno sarebbe tornare a casa, nella propria terra. E la richiesta è proprio quella di raccontare al mondo che c’è bisogno di un intervento della comunità internazionale in Siria e quindi di porre termine alla motivazione principale per cui loro stanno partendo.
D. – Si può raccontare chi sono queste persone?
R. – Sono persone come noi, che possono avere qualunque tipo di età, posizione sociale, lavoro… Parlavo con alcuni ragazzi siriani scappati dalla zona di Palmira: ingegneri, ingegneri elettronici, ingegneri edili, persone con famiglie, interi nuclei familiari che si muovono. Sono persone che non hanno più una casa, non hanno più un futuro, e l’unico futuro che loro vedono, l’unico sogno che loro hanno, è stare in un posto dove non ci siano le bombe, dove non ci siano persecuzioni, dove la loro famiglia possa crescere sicura. Ho incontrato una persona che si occupava di comunicazione e giornalismo in Siria e che, adesso che nella sua area si è spostato parte del conflitto e dei bombardamenti, ha deciso di scappare da casa propria.
D. – Si è registrata la brutta, triste e drammatica morte di un ragazzino di neanche 15 anni per le percosse e i maltrattamenti subiti in Libia. Chi arriva lì in Serbia in che condizioni fisiche è?
R. – In questo momento, fortunatamente, le persone che arrivano lungo la rotta dei Balcani possono essere stanche, provate dal viaggio, ma mediamente in buone condizioni fisiche. Questo è legato ovviamente all’estate, alla buona condizione del mare e al percorso che fanno attraverso la Macedonia, la Serbia e il centro-nord Europa. La grande preoccupazione è quello che succederà in autunno e in inverno. Come sappiamo la rotta dei Balcani passa per nazioni che hanno avuto in autunno fortissime piogge e alluvioni e in inverno temperature molto basse. Su questo, come Croce Rossa, noi richiamiamo la comunità internazionale e tutti i partner a sforzarsi sempre di più nell’aiuto ai migranti perché questa non è una situazione che finirà, ma che andrà avanti perché le guerre purtroppo stanno andando avanti, e quindi purtroppo ci sarà sempre più bisogno di aiuto per le persone che scappano dalla guerra.
D. – Non è cosa di oggi, ormai è cosa di mesi, la tensione che si registra in quelle aree proprio a causa degli incessanti flussi di migranti. A voi arrivano notizie?
R. – Ovviamente, le comunità ospitanti vivono una situazione complicata. La mia esperienza personale, qui in Serbia, è che la popolazione locale fino ad oggi ha espresso un grande profilo di solidarietà. Ho visto persone che si avvicinavano ai migranti appena entrati in Serbia per portare magari una bottiglietta d’acqua o un cambio di magliette per i bambini o pannolini per i più piccoli. Anche perché loro hanno vissuto in prima persona cosa significa scappare da una guerra e cosa significa essere un rifugiato.
D. – La Federazione internazionale della Croce Rossa che tipo di preoccupazione ha?
R. – Prima di tutto, quello che noi diciamo ogni volta è che proteggere le persone migranti è una responsabilità collettiva. Sono persone che portano dei diritti: chi scappa da guerre e persecuzioni ha diritto a essere protetto, ha diritto ad avere un posto sicuro dove stare, persona singola o con la propria famiglia. Le nostre preoccupazioni ovviamente sono sia dal punto di vista di autunno e inverno che stanno arrivando, sia per alcuni segnali di chiusura di molti Stati nei confronti di flussi migratori. Anche perché quando si mettono barriere ai flussi migratori, non si fermano i flussi migratori, ma si mette solamente a rischio la vita delle persone e si alimenta ancora di più il mercato criminale dei trafficanti di uomini e questa è una grande preoccupazione che noi abbiamo.
Parroco Gaza a un anno da fine guerra: aspettiamo miracolo tra le macerie
Un anno fa si concludeva l’offensiva israeliana su Gaza, iniziata l’8 luglio per contrastare il lancio di razzi dalla Striscia da parte di Hamas, avviato a sua volta dopo il giro di vite deciso dallo Stato ebraico in seguito al rapimento e l'uccisione di tre adolescenti israeliani. 50 giorni di guerra hanno causato circa 2.200 vittime tra i palestinesi, tra cui 500 bambini, mentre tra gli israeliani hanno perso la vita 66 soldati e 5 civili, tra cui un bambino. Immani le devastazioni nella Striscia. Sulla situazione, ad un anno dall’entrata in vigore della tregua, ascoltiamo il parroco di Gaza, padre Mario Da Silva, della Congregazione del Verbo Incarnato, al microfono di Antonella Palermo:
R. – Dopo la guerra, sono stati promessi tanti soldi per la ricostruzione e ancora, un anno dopo, noi veramente non vediamo un grande lavoro in tema di ricostruzione. Governi come il Qatar, come gli Stati Uniti, hanno avuto problemi politici perché non sapevano se questi soldi sarebbero andati a questa o a quell’altra persona, se sarebbero andati a questo governo o a quell’altro: sono problemi veri, ma è già passato un anno e noi non vediamo lavori grossi per la ricostruzione. Cioè, le persone che hanno perso le loro case vivono ancora tra le macerie e i bambini vanno a scuola tra le macerie e tante scuole sono usate per coloro che hanno perso tutto. Nell’ultimo inverno alcuni bambini sono morti di freddo … Qui manca tutto: manca il cibo, manca il gas, perché in particolar modo dopo la guerra è stato un po’ chiuso tutto, anche dalla parte dell’Egitto e pure dalla parte di Israele: entrano meno cose e i prezzi sono altissimi!
D. – Come parrocchia, una volta alla settimana, andate ad aiutare le famiglie più disagiate …
R. – Quando arriva l’aiuto, per esempio, ora sono arrivati dall’Italia un centinaio di scatole con cibo, pasta, riso, allora noi andiamo lì a portarlo: è come una goccia d’acqua nel deserto. Ma loro sono contenti.
D. – E la comunità cristiana?
R. – La comunità cristiana ha un grande problema, qui. E’ un problema generale di mancanza di lavoro: la disoccupazione arriva fino al 40%, alcuni dicono fino al 45%, ma fra i cristiani è ancora più alta perché i cristiani sono una minoranza. Perché quando uno va a cercare lavoro e le persone vedono nel documento che è cristiano, preferiscono dare il lavoro a un loro fratello musulmano. E’ una condizione molto dura …
D. – Qual è il suo messaggio quotidiano, come religioso?
R. – Qui è un po’ difficile predicare il perdono, ma io comunque lo predico. Ma vedendo l’ingiustizia che c’è qui, il predicare sul perdono deve avere una forza speciale. Predicare l’amore al prossimo, predicare l’amore ai nemici: qui hanno una forza molto grande, è molto difficile, ma è anche la forza dei cristiani, qui. Uno vede un odio molto grande, perché vivono in un carcere, non possono uscire e non sanno perché. Questo genera un odio molto grande. E i cristiani hanno il vantaggio che nelle nostre prediche c’è sempre il perdono, c’è sempre l’amore al prossimo e anche l’amore per i nemici, e questo è un vantaggio molto grande: che fra i cristiani possiamo mitigare questo odio.
D. – Quali sono i suoi auspici su Gaza?
R. – Quello che noi ci auguriamo – anche in politica – è solo un miracolo. Perché non si vedono vie d’uscita a questi problemi. La fine del tunnel non la vediamo … Allora, quello che aspettiamo è solo un miracolo. Quello che vogliamo noi, e parlo a nome dei palestinesi, dei cristiani e dei musulmani che qui vivono, è un diritto essenziale per ogni uomo, che è la libertà. La libertà di andare in altri posti: visto che la vita qui è molto difficile, si chiede la libertà di andare in un altro posto. E la libertà di religione, pure, di praticare la mia religione, quella che io ho ricevuto dai miei genitori e quella che io liberamente professo: chiediamo pure quello, la libertà di religione. La libertà è un diritto essenziale per ogni uomo.
D. – Le minacce da parte dello Stato islamico, quanto vi spaventano?
R. – I cristiani si sono spaventati, molto: sull’edificio della Caritas è apparso un simbolo del sedicente Stato islamico, è stato fatto qualche attentato, hanno avuto problemi con il governo di Gaza e i cristiani ci chiedevano: “Padre, ma se arriva l’Is e se diventa forte – perché sappiamo che la presenza c’è già! – che cosa faremo noi?”. E dicevano anche: “Padre, almeno in Siria, se arriva l’Is, loro possono fuggire da un’altra parte, in un altro Stato; ma se arrivano qui, a Gaza, che cosa faremo noi se non possiamo passare dal muro che ci separa da Israele? Dove andremo?”.
Attesa per la firma per accordo in Sud Sudan: pressione Onu
Ultimatum dell'Onu al Sud Sudan: il Consiglio di sicurezza fa sapere che "agirà immediatamente" se il presidente Salva Kiir non siglerà l'intesa oggi come previsto. L'accordo è stato raggiunto dopo 20 mesi di guerra civile nel Paese, tra le due fazioni del partito di governo, l’Splm (Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese), rispettivamente guidate dal presidente Salva Kiir e dall’ex vice-presidente Riek Machar. Il 17 agosto scorso, ad Addis Abeba, il leader sud sudanese si è rifiutato di firmare l'intesa, chiedendo altri 15 giorni. Ma quali sono i motivi di preoccupazione per una pacificazione che continua ad essere molto difficile? Fausta Speranza lo ha chiesto a Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica:
R. – Il conflitto che è in corso dal dicembre 2013 nel Sud Sudan sembra giunto a una fase importante, nel momento in cui verrà – se verrà siglato – l’accordo di pace. Questo sicuramente è un momento importante. Dovrebbe porre fine a un lungo periodo di conflittualità, anche molto alta, tra le due parti, ossia il governo e la fazione ribelle che però fa capo a quello che era il vicepresidente del Paese, Riek Machar, quando il Paese è diventato indipendente nell’estate del 2011. L’accordo è un momento importante e fondamentale anche perché fa vedere i risultati della diplomazia regionale e internazionale nel porre fine alla conflittualità. Il punto interrogativo è quanto potrà durare questo accordo, perché bisogna tenere in considerazione che la contesa, i motivi di conflitto non sono terminati. La firma dell’accordo comunque lascia un punto interrogativo molto forte, su quale sarà il futuro del Paese.
D. – Ricordiamo questi motivi del contendere?
R. – Sicuramente. Alla base c’è il contrasto tra le due figure di punta del Splm del partito al potere, cioè il presidente Kiir e l’ex vicepresidente Machar, e i loro sostenitori. E’ bene evidenziare che non si tratta di un conflitto meramente di natura etnica tra i due principali gruppi etnici dei Paesi – i dinka e i nuer – ma di una contesa politico-istituzionale che poi ha a che fare, fondamentalmente, con la capacità del governo e di chi tiene le istituzioni di gestire le “revenues” petrolifere che sono l’asset più importante del Paese. Il Sud Sudan – dobbiamo ricordarlo – è un Paese estremamente povero, che manca di infrastrutture economiche e che si basa fondamentalmente sulla gestione delle rendite provenienti, appunto, dalla vendita del petrolio.
D. – A livello sociale, come si rispecchia questo conflitto tra parti politiche?
R. – E’ uno dei punti interrogativi, cioè una volta che si giungerà all’accordo di pace e a una stabilizzazione anche di breve periodo del Paese, bisognerà poi rispondere alle domande fondamentali: questo Paese ha milioni di abitanti che vivono sotto la soglia di povertà, mancano i servizi di base fondamentali e quindi se non si risponderà a questi bisogni fondamentali della popolazione, il rischio è che sorgano nuovi conflitti. Anche perché diverse parti che fino a oggi hanno partecipato al conflitto non sono d’accordo con la firma degli accordi di pace ed è probabile che nei prossimi mesi possano sorgere nuovi conflitti.
Ebola, dimesso l’ultimo paziente in Sierra Leone
Dimesso l'ultimo paziente con Ebola in Sierra Leone, dove da due settimane non si registrano nuovi contagi. Si tratta di una donna di 35 anni, accolta dal presidente Ernest Bai Koroma in persona, che ha voluto celebrare quella che ha definito “l'inizio della fine di Ebola”. Intanto, in Guinea si registrano ancora nuovi sporadici casi, mentre in Liberia si segnala un solo contagio dopo che la malattia era stata dichiarata debellata da diverse settimane. E l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) intende studiare la possibilità di sanzioni contro i Paesi che violano le norme sanitarie, dopo le carenze nella risposta all’epidemia. Per un’analisi sulla situazione in Africa Occidentale, Marco Guerra ha intervistato Saverio Bellizzi, epidemiologo di Medici senza frontiere:
R. – Innanzitutto, è una bellissima notizia che sia stato dimesso l’ultimo paziente in Sierra Leone, che è stato uno dei tre Paesi dove il virus ha registrato il massimo picco. Tuttavia, non è stato ancora debellato: bisogna che passino 42 giorni prima di dichiarare il Paese libero dall’Ebola, però ci sono ottimi segnali. In Africa occidentale, c’è ancora la Guinea con un paio di casi a settimana, però logicamente, se confrontiamo la situazione attuale a quella di mesi fa, questa è nettamente migliorata.
D. – Quindi, la situazione è sotto controllo…
R. – La situazione è sotto controllo, ciononostante non bisogna abbassare la guardia. Una testimonianza ci viene dalla Liberia, dove è sorto un nuovo caso dopo varie settimane in cui non ce ne erano stati. E risultano sempre, soprattutto in Guinea nelle zone forestiere, delle aree in cui le comunità sono ancora resistenti. Quindi, sì, ottimi risultati e ottimi segnali, però non abbassiamo la guardia proprio in questo momento.
D. – Quali sono stati i principali problemi nell’affrontare questa epidemia, soprattutto per i medici, per voi infettivologi? Insomma, perché è stato così duro combatterla?
R. – Il grosso problema è stato quello delle resistenze culturali e di una sensibilizzazione che è iniziata con ritardo con grandi problemi ad affrontare la situazione locale. Localmente, non c’era mai stata l’Ebola in precedenza ed era stata confusa con altre patologie come la malaria. E quindi anche la risposta ritardata a livello delle autorità locali e delle Nazioni Unite ha fatto sì che, nel momento in cui si è intervenuti come Medici senza frontiere, vi fossero già moltissimi casi dislocati nel territorio ed è stato molto difficile rintracciare le varie fonti di infezione.
D. – L’Organizzazione mondiale della sanità ha detto di studiare la possibilità di sanzioni contro i Paesi che violano le norme sanitarie. Questo dopo le carenze della risposta all’epidemia di Ebola. Di quali carenze parliamo?
R. – A cosa esattamente si riferisca l’Oms non lo so, in quanto non sono addentro a queste politiche. Quello che è sicuro è che la risposta, come menzionavo prima, è venuta con molto ritardo, non solo da parte delle autorità locali, ma anche dell’Oms stessa. In più, siamo di fronte a una situazione multifattoriale: ci sono Paesi con sistemi sanitari già al collasso in partenza, e ancora di più in questo momento in cui molti – il personale sanitario e parasanitario – sono deceduti durante la diffusione dell’Ebola. Ci sono Paesi con grosse trasformazioni anche dal punto di vista geopolitico... Andiamoci quindi cauti nell’interpretazione di queste parole, perché bisogna veramente vedere come continueranno le cose. Non soltanto l’Ebola, ma anche varie malattie, come varie epidemie che prima erano più sotto controllo, risorgeranno in questi Paesi che sono al collasso. Un grande problema adesso riguarda per esempio la salute materno-infantile: in questi sedici mesi, dove hanno partorito le donne c’è stato un peggioramento degli indicatori sulla mortalità neonatale e sulla mortalità materna. Un paio di mesi fa, c’è stata una epidemia di morbillo in Liberia. Insomma, l’Ebola ha come conseguenza un aggravamento della situazione sanitaria generale. Ora, la grossa sfida è quella di mettere fine a questa epidemia ed evitare che si ripresenti in questa forma drammatica come è avvenuto negli ultimi due anni, ma anche quella di far fronte alle diverse conseguenze di questa epidemia.
D. – Di Ebola si era parlato anche in relazione ai flussi migratori. Su quel fronte non c’è stata alcuna emergenza fortunatamente…
R. – Assolutamente no. Come da quando è nato il problema mesi fa, nelle varie interviste abbiamo sempre detto che non ci sarebbe mai stato nessun pericolo da questo punto di vista. E come dicevamo, non c’è mai stato un caso di Ebola sorto attraverso gli sbarchi. perché c’è l’incubazione breve, ci sono le condizioni cliniche di un paziente che non si mette in viaggio se ha l’Ebola, perché sta veramente male. E, anche dal punto di vista geografico, buona parte degli sbarchi sono di persone che in questo momento arrivano dalla Siria e da altri Paesi, come il Sud Sudan. Mentre una percentuale molto, molto minore viene da Paesi dell’Africa occidentale.
Meeting Rimini: 800 mila visitatori, il bilancio di Emilia Guarnieri
Sono state almeno 800 mila le presenze all'edizione 2015 del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. Incontri, dibattiti, mostre che hanno avuto inizio una settimana fa e che si chiudono oggi. Un evento che ha riproposto l'incontro con quanti sono diversi. L'edizione del prossimo anno sarà dedicata al tema "Tu sei un bene per me" e si svolgerà dal 22 al 28 agosto. Dunque il meeting si conferma un mosaico di avvenimenti dedicato alla ricerca dell'altro, che è stato anche il tema di quest'anno. Alessandro Guarasci ha sentito la presidente della Fondazione per l'Amicizia fra i Popoli, Emilia Guarnieri:
R. – Una trasversalità totale sia di provenienze sia anche di tematiche affrontate. Questo credo che sia nella tradizione del Meeting. E rispetto al tema di quest’anno si è proprio visto che questa mancanza, cioè che questo bisogno di qualcosa che sia oltre, è veramente ciò che tutti gli uomini hanno in comune. Nei diversi approcci e nei diversi percorsi, questo segna comunque il movimento dell’uomo. Altro aspetto, che in questi giorni è venuto ampiamente in evidenza, è proprio questa mancanza che muove gli uomini e che li mette insieme. Li mette insieme all’insegna proprio di un’esigenza che ognuno riscontra in sé della diversità dell’altro.
D . – In ogni edizione del Meeting si parla del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo per costruire la pace. Un ruolo ancora troppo marginale?
R. – Marginale soprattutto perché ancora non si è ancora riusciti a far sì che l’Italia sia la parte di un grande popolo europeo che guarda al Mediterraneo come qualcosa, come è stato nella storia, che può essere fonte di ricchezza, fonte di scambi culturali. L’Italia in questo momento è come una sorta di baluardo isolato di fronte ad un pericolo incombente. Non può essere così. Il Mediterraneo è un luogo di cultura. Abbiamo avuto tanti incontri importanti su questo, tra cui quello dell’altro giorno con il ministro degli Esteri italiano e il ministro tunisino che è stato proprio introdotto all’insegna di questo: il Mediterraneo non può essere solo il luogo della crisi. Però perché questo possa accadere l’Italia non può essere il baluardo isolato.
D. – Quest’anno ospite il premier Renzi, che lo scorso anno non è venuto. Si aspettava qualcosa di più dal suo intervento?
R. – Io credo che il premier Renzi ieri abbia documentato che siamo di fronte ad una responsabilità istituzionale esercitata nel tentativo – e mi pare in questo momento in gran parte anche avviato su un percorso positivo – di tirar fuori l’Italia dalle secche, di tirar fuori l’Italia dalla crisi, di fare le riforme, di guardare a ciò che si muove nella società. Questo mi sembra che ieri sia emerso.
D. – Obiettivi futuri del Meeting?
R. – Continuare proprio in questa storia di apertura, di larghezza, di incontri che aprono ad altri incontri. In questo Meeting sono successi anche fatti nuovi da questo punto di vista: il rapporto che si è instaurato anche da un punto di vista formale con il centro etica e cultura dell’Università Notre Dame americana, un protocollo di intesa e di collaborazione, sia di scambi di studenti sia di scambi di personalità importanti. Questi sono tutti momenti di crescita dal punto di vista dei rapporti. Quello che il Meeting cerca è esattamente questo.
Siria, colpite chiese. Arcivescovo maronita: tragedia senza fine
Una pioggia di colpi di mortaio provenienti dalle aree in mano alle milizie anti-Assad è caduta, domenica scorsa, nell'area della città di Damasco dove si trova la chiesa maronita. Lo riferisce l'arcivescovo maronita Samir Nassar, in un appello-comunicato pervenuto all'Agenzia Fides, specificando che i colpi d'artiglieria hanno provocato la morte di nove civili e il ferimento di quasi 50 persone, oltre a danneggiare la sua chiesa e una vicina parrocchia cattolica di rito latino. Fa parte della guerra di Siria”, aggiunge l'arcivescovo Nassar nel suo appello, “il fatto di vivere sotto bombardamenti indiscriminati, come in una sorta di roulette russa, che è sempre imprevedibile...". “Di coloro che sono morti”, aggiunge, “i sopravvissuti dicono: 'Almeno non dovrete più vedere e vivere questa crudele tragedia senza fine. Non vedrete i vostri figli, i vostri amici e i vostri vicini soffrire e morire per la violenza cieca e il fanatismo sanguinario, incapaci di salvarli o di aiutarli, senza capire perché". I sopravvissuti seppelliscono i morti, senza aver potuto curare i feriti, dal momento che mancano gli strumenti e le competenze necessarie. Essi si immergono in silenziosa preghiera davanti alle reliquie dei martiri, che sono i semi della fede”.
Chiesa Gerusalemme aiuta richiedenti asilo sudanesi ed eritrei
Ieri, 500 richiedenti asilo eritrei e sudanesi sono stati rilasciati dal centro di detenzione israeliano di Holot, nel deserto del Negev, dove erano stati forzatamente tenuti in violazione dei loro diritti fondamentali. A Gerusalemme – riferisce l’Agenzia Fides – il gruppo “Community for the Africans in Jerusalem”, in contatto con il Vicariato patriarcale per i cattolici di lingua ebraica del Patriarcato latino di Gerusalemme, sta mettendo in campo iniziative di assistenza e aiuto nei confronti di questo consistente gruppo di rifugiati provenienti anche da zone di conflitto, e nelle ultime ore ha lanciato un appello urgente a tutti quelli – singole persone, gruppi, associazioni – che possono contribuire a reintegrare i richiedenti asilo nella società, aiutandoli a trovare un alloggio e un lavoro, anche temporanei. “Tenendo conto degli appelli di Papa Francesco, nella prospettiva dell’Anno della Misericordia che si avvicina" si legge nell'appello lanciato anche attraverso i media del Patriarcato latino da padre David Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica, “sarebbe assai significativo se la Chiesa di Gerusalemme fosse in grado di dare testimonianza, in questo contesto, aprendo le sue porte ad alcune di queste persone”.
Sri Lanka: l'impegno dei leader religiosi per la pace nel Paese
Ranil Wickremasinghe, nuovo primo ministro dello Sri Lanka, ha detto ai leader religiosi che lui e il presidente Maithripala Sirisena si aspettano il loro sostegno per dar vita ad un periodo di pace, di convivenza religiosa e di progresso con il consenso di tutti. Il primo ministro – riferisce la Misna - ha espresso questo suo desiderio durante l’incontro con il cardinale Malcolm Ranjith e con altri vescovi della Chiesa cattolica dello Sri Lanka. "Ho cercato il sostegno di tutti i leader religiosi per far nascere una nuova cultura nel paese basata sulla riconciliazione e molti leader religiosi e tra questi anche i vescovi della Chiesa locale, mi hanno confermato il loro sostegno" ha detto ai media locali il primo ministro, dopo l'incontro con il cardinale.
Ranil Wickremasinghe ha inoltre ricevuto il sostegno della comunità indù durante una speciale Puja, (celebrazione) tenutasi presso il Tempio di Ponnambalam Vaneshwaram Kovil a Kochchikade, Colombo. Il primo ministro si è recato anche alla Grande Moschea della capitale per un incontro e un momento di preghiera, insieme ad alcuni leader musulmani eletti parlamentari nelle elezioni di alcuni giorni fa.
In questi ultimi anni, le tensioni createsi tra le varie comunità religiose a causa della crescita di movimenti radicali buddisti, hanno portato spesso a manifestazioni violente e attacchi mortali contro le minoranze etnico-religiose causando tensioni sociali e politiche, condannate non solo dai moderati e dagli attivisti dei diritti del paese ma anche dalla comunità internazionale.
Il processo politico di riconciliazione, dopo il lungo conflitto con i Tamil (Ltte), è stato uno dei temi principali della campagna elettorale che ha portato Wickremasinghe e il suo partito al governo e i prossimi anni saranno cruciali per determinare se, in una società etnicamente eterogenea e multi-religiosa ferita da una lunga storia di conflitti, è possibile stabilire una pace inclusiva e duratura.
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 238