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Sommario del 24/08/2015
- Papa: prego perché ci sia spirito di pace in Ucraina, vicino a chi soffre
- Nomina episcopale in Portogallo
- Bagnasco: Stato e Chiesa diano proprio contributo senza ingerenze
- Migranti. Flusso infinito in Serbia, 23 mila in 2 settimane
- Economia: in forte calo borse asiatiche ed europee
- Libano, scontri tra polizia e manifestanti: 400 feriti
- Marò. Tribunale del mare: stop processi, Latorre resta in India
- Meeting Rimini: Betori parla del Convegno della Chiesa italiana
- Benin. Card. Sarah chiude il pellegrinaggio mariano nazionale
- Capitolo Clarettiani: testimoniare gioia del Vangelo
- Proteste in Ecuador. Appello dei vescovi al dialogo
- Cremisan. Vescovi canadesi: muro israeliano viola legge
- Solidarietà in Belgio: cittadini aprono le case ai rifugiati
- Vescovi svizzeri: appello a sostenere 1.100 diocesi povere nel mondo
- Card. Souraphiel: povertà è problema più grande delle famiglie africane
- Castel Gandolfo: Sodano presiede celebrazioni Madonna del Lago
- L'Uruguay verso la Giornata nazionale della gioventù
Papa: prego perché ci sia spirito di pace in Ucraina, vicino a chi soffre
“Prego per il vostro Paese in questa difficile situazione” e “sostengo gli sforzi che aiutano la nazione ucraina andare avanti in uno spirito di pace e di riunificazione”. Sono le parole del messaggio che Papa Francesco ha fatto pervenire al presidente Poroshenko, nel giorno del 24.mo dell’indipendenza del Paese est europeo. Gli auspici del Papa – che rinnova anche la “vicinanza spirituale alle vittime, alle loro famiglie e a tutti coloro che soffrono” – seguono l’appello di pace per l’Ucraina levato ieri all’Angelus, perché cessi un conflitto che ha fatto migliaia di morti, feriti, sfollati. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Fucili lucidi e marcia in assetto da parata per una festa dal retrogusto di dramma, che gli scintillii della celebrazione non possono cancellare. Kiev è l’epicentro dell’anniversario, il 24.mo dell’indipendenza ucraina, ma le cifre che il presidente Poroshenko offre alla folla e al Paese nel suo discorso ufficiale non regalano alcun sorriso. Quasi 2.100 soldati morti nel conflitto nel Donbass contro i filorussi, circa 7 mila quelli rimasti feriti, 6.800 morti in totale dall’inizio delle ostilità e molti fra loro erano civili. Nel clima teso che aleggia sull’Ucraina, le parole di Francesco ieri all’Angelus sono una brezza leggera che regala speranze, come conferma don Ivan Kulyk, parroco ai Santi Sergio e Bacco, la chiesa nazionale degli Ucraini a Roma:
“Per noi è molto importante che il Papa abbia fatto questo appello per la pace in Ucraina. Credo che tutti gli ucraini che hanno sentito queste parole siano stati contenti perché il Papa, che è il capo della Chiesa, prega per l’Ucraina e ricorda nel suo cuore il popolo dell’Ucraina, ricorda questa difficile situazione che si sta vivendo in Ucraina”.
Sulle agende delle cancellerie d’Europa, la crisi ucraina è ai primi posti come quella dell’immigrazione, temi di punta al vertice trilaterale in programma a Berlino tra Germania-Francia-Ucraina. Dietro i tentativi di politica e diplomazia, si agita intanto la questione umanitaria delle decine di migliaia di persone rimaste senza casa né terra:
“Ci sono tante persone che hanno lasciato e devono lasciare la terra dove abitano perché quasi tutto è stato distrutto. Ci sono tanti bambini, donne e uomini che devono lasciare questa zona di conflitto. Questa gente, quando fugge, ha bisogno di una casa, di un’abitazione e questa è un’emergenza molto grande”.
Nascono allora dal cuore gli auguri di don Ivan al suo Paese, per questo giorno di festa senza il sapore della festa:
“Noi dobbiamo essere un popolo unito. Dobbiamo stare insieme soprattutto in questo momento difficile perché l’unità ci dà la forza. E volevo augurare che davvero possiamo sentire soprattutto nel nostro cuore questo grande dono dell’indipendenza, della libertà. Infatti, già da 24 anni il popolo dell’Ucraina è un popolo libero e questo è un grande dono del nostro Signore”.
Nomina episcopale in Portogallo
In Portogallo, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Setúbal, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Gilberto Délio Gonçalves Canavarro dos Reis. Al suo posto, il Papa ha nominato padre José Ornelas Carvalho, già superiore generale dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani). Mons. Carvalho è nato il 5 gennaio 1954 a Porto da Cruz (Madeira), diocesi di Funchal. Dopo aver frequentato il Seminario diocesano di Funchal (1964-1967), sente la chiamata ad abbracciare l’ideale missionario e fa ingresso nel Collegio Missionario “Sagrado Coração”, a Funchal, guidato dai sacerdoti dehoniani (1967-1969). Poi ha completato gli studi liceali presso l’Istituto Missionario “Sagrado Coração” a Coimbra (1969-1971). Ha fatto il Noviziato ad Aveiro, emettendo i voti temporanei nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani), il 29 settembre 1972. Il 23 settembre 1977 ha fatto la professione religiosa perpetua. Il suo percorso formativo comprende: Corso di Filosofia presso l’ISET – Instituto Superior de Estudos Teológicos in Lisbona (1972-1974); Tirocinio nella diocesi di Gurué, in Mozambico (1974-1976); Corso di Teologia presso la Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica Portoghese, in Lisbona (1976-1979), ottenendo anche il Baccalaureato. Inoltre, ha frequentato l’Istituto Biblico di Roma, dove ha ottenuto prima la Licenza e più tardi il Dottorato in Teologia Biblica. Dopo il ricevimento dell’ordinazione sacerdotale, il 9 agosto 1981, ha ricoperto i seguenti incarichi: Vice-Rettore del Seminario Nossa Senhora di Fátima in Alfragide; Professore di Sacra Scrittura nella Facoltà di Teologia dell'Università Cattolica Portoghese; Segretario della Facoltà a Lisboa (1983-1991); Consigliere provinciale (1985-1988); Prefetto degli studi nel Seminario Nossa Senhora de Fátima; Vice-Provinciale (1997-2000); Superiore Provinciale (2000-2003) e Superiore Generale (2003-2015).
Bagnasco: Stato e Chiesa diano proprio contributo senza ingerenze
La polemica deforma la verità, non è logico omologare realtà diverse come famiglia e unioni civili. La teoria del gender, come ha più volte detto il Papa, è una dittatura del pensiero unico. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, l’arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, aggiungendo che il fenomeno dell’immigrazione è una responsabilità mondiale:
R. – La polemica non aiuta certamente ad affrontare nessun problema, nessun discorso, perché deforma la verità, la realtà delle cose. Bisogna affrontare qualunque discussione, qualunque problematica con serenità di giudizio, con onestà intellettuale. E con la volontà di trovare veramente e serenamente il meglio. Parlando poi di Stato e di Chiesa, nessuno può fare delle ingerenze, nel modo più assoluto: tutti devono portare il proprio contributo rispettando le responsabilità di ciascuno.
D. – Diversi osservatori sostengono che il linguaggio dei vescovi, anche della Chiesa, stia cambiando, prediligendo una comunicazione più diretta. La verità, oltre a rendere liberi, ha anche bisogno, oggi, di una maggiore chiarezza?
R. – Se ci parliamo dobbiamo farlo con sufficiente chiarezza – la maggiore chiarezza possibile – e con il rispetto dovuto per tutti. Quindi, uno stile della massima comunicazione, trasparenza, chiarezza e – ripeto e aggiungo – rispetto.
D. – Perché, secondo la Chiesa, il governo non deve porre su uno stesso piano famiglia e unioni civili?
R. – Perché sono cose diverse, essendo realtà diverse. La famiglia naturale è fondata sul matrimonio, come anche riconosce la nostra Costituzione. Bisogna riconoscere la diversità delle realtà, e quindi, trattare le singole realtà secondo la concreta situazione. Omologare automaticamente mi pare che sia contro la logica.
D. – Quali oggi, in Italia, le preoccupazioni della Chiesa sulle questioni del “gender”?
R. – Il Santo Padre più volte è ritornato su questo punto con grande preoccupazione e con estrema chiarezza, perché è una categoria, questa, estremamente soggettiva, nel senso che vorrebbe che ognuno, sul piano della propria identità, anche sessuale, fosse quello che ognuno decide di volta in volta, a prescindere da quello che è un dato biologico. Questa teoria, questo schema mentale, il Santo Padre più volte lo ha stigmatizzato come una dittatura del pensiero unico.
D. – Il fenomeno dell’immigrazione è una responsabilità mondiale, ma i singoli Stati in questo ambito sembrano lasciati alla deriva, come dei barconi nel Mediterraneo …
R. – E’ vero. Fin quando si pensa che questo grande fenomeno, che è una tragedia umana, è il problema di ogni singolo Stato e quindi viene lasciato, scaricato su ogni singolo Stato, non si affronterà mai in modo dignitoso, umano e giusto questo fatto che credo sia assolutamente reversibile e che non finirà in poco tempo. L’abbiamo visto ancora in questi giorni: questa povera gente, disperata, che fa di tutto, rischia la vita in ogni modo, pur di sperare di andare verso un futuro migliore, è un problema veramente mondiale. A livello locale, sia dei singoli Stati, sia addirittura di un Continente come l’Europa, io ritengo che questo sia insufficiente. Proprio perché è qualcosa di estremamente ampio che implica almeno due aspetti: il primo, quello di assicurare un’accoglienza dignitosa, compatibile naturalmente con le situazioni di accoglienza dei Paesi ospitanti; il secondo, anche di intervenire sulle cause e sui Paesi di partenza in modo che, da un punto di vista della pace, da un punto di vista dell’economia, da un punto di vista del governo, delle libertà fondamentali questa povera gente non sia costretta ad abbandonare le proprie terre per andare altrove in cerca di fortuna. Questo è un problema talmente grave e grande, che solamente una autorità mondiale, nella quale convergono i poteri politici e i poteri economici, può affrontare.
D. – Hanno suscitato grande imbarazzo in Vicariato, a Roma, le scene hollywoodiane del funerale del boss dei Casamonica. Vangelo e mafia sono incompatibili. L’unica possibilità è la vera conversione …
R. – La vera possibilità è la via della conversione che tocca tutti, assolutamente tutti, e quindi certi fenomeni devono essere stigmatizzati per quello che sono e devono essere una provocazione per tutti, indistintamente, a percorrere la via del Vangelo e dei suoi valori: l’onestà, la dignità, la trasparenza, la legalità.
D. – Il Papa ha più volte esortato la Chiesa a volgere lo sguardo verso le periferie esistenziali. Quali sono oggi le periferie che in Italia maggiormente preoccupano la Chiesa?
R. – Sono diverse. Certamente ci sono queste situazioni-limite della povertà, dei bisogni materiali, delle nuove schiavitù … Questo fenomeno del lavoro nero di tanti immigrati ma non solo di tanti immigrati. Penso anche ai nostri ragazzi che viaggiano su vie di morte, come la droga, l’alcol, ma anche il gioco d’azzardo. Su questo punto bisognerebbe, credo, fare molto di più. Quindi le periferie esistenziali, anche in Italia, sono molte e ci preoccupano profondamente. La Chiesa - attraverso le parrocchie, i sacerdoti, i religiosi, le religiose - cerca di essere presente e vicina a queste persone particolarmente indigenti o anche indifese; però bisogna – società civile, comunità cristiana, tutti insieme – agire molto di più. Ancora di più.
D. – Anche perché l’Italia è piena di forze vive …
R. – E’ la nostra storia che dobbiamo continuare, apprezzare e arricchire. E’ la storia di vicinanza della Chiesa, delle comunità cristiane alla gente e al Paese. Certamente storia di tradizioni, di valori, di fede, di vissuto. C’è tanto bene nella povera gente, nel popolo semplice! Tantissimo bene. Mi auguro che questa ricchezza non sia soltanto salvaguardata e promossa, ma possa essere anche ascoltata per il bene comune, per comporre, per costruire il bene comune. E non sia mai ostracizzata, mai. E quindi queste forze vive, che sono proprie della Chiesa in Italia - grazie a Dio e grazie anche ai nostri sacerdoti e a tanti laici - sono al servizio del Paese e della società intera.
Migranti. Flusso infinito in Serbia, 23 mila in 2 settimane
Dopo l’apertura delle frontiere della Macedonia, prosegue il viaggio dei migranti lungo la cosiddetta rotta balcanica. Nelle ultime due settimane, oltre 23 mila profughi sono entrati in Serbia. Quattro i campi allestiti, mentre Belgrado concede loro di 72 ore per lasciare il Paese e proseguire verso nord e l’Ungheria si appresta a concludere la costruzione della barriera anti-migrati. Emergenza anche nel Mediterraneo, 963 profughi sono sbarcati stamani a Cagliari altri 548 a Palermo, tutti parte degli circa 4.400 salvati a largo della Libia nei giorni scorsi. E di immigrazione parleranno la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Hollande, nel vertice di oggi pomeriggio a Berlino. Ma sull’apertura dei confini di Serbia e Macedonia, Marco Guerra ha raccolto l’analisi di Francesco Martino, corrispondente da Sofia dell’Osservatorio Balcani e Caucaso:
R. – Premetto che da parte delle autorità macedoni non c’è stata molta chiarezza sulle dinamiche che hanno portato alla decisione prima di chiudere il confine e poi di riaprirlo. Diciamo che in generale l’afflusso di richiedenti asilo e rifugiati in Macedonia in realtà va molto più indietro nel tempo. In queste settimane, però, c’è stato un aumento considerevole dei numeri. La reazione probabilmente delle autorità macedoni è stata quella di provare a chiudere il confine, per provare a spostare il problema da qualche altra parte. Ricordiamo che nei Balcani questa strategia è stata presa già da vari Paesi tra cui la Bulgaria, la Grecia e più recentemente, a nord, l’Ungheria, che hanno deciso ad esempio di costruire delle vere e proprie barriere fisiche, tentando di spostare il flusso che difficilmente può essere fermato. In qualche modo, c’è una dinamica ambivalente, in qualche modo le due strategie si alternano: prima tentando di fermare, poi quando la cosa si rivela difficile o impossibile, provando a spostare il problema più in là, in una sorta di “scaricabarile”. Anche perché ricordiamo che l’obiettivo finale della stragrande maggioranza dei richiedenti asilo è di raggiungere il cuore dell’Unione Europea, soprattutto Paesi come Germania, Svezia e Austria.
D. – Il governo macedone e quello serbo hanno detto di aspettarsi nuovi aiuti da parte dell’Ue e a Belgrado sono stati istituiti punti di assistenza. Ma è veramente un’emergenza senza precedenti nei Balcani questo flusso di migranti?
R. – Nei Balcani, il fenomeno di questo tipo di migrazione ormai ha qualche anno. Ricordiamo appunto che nel 2013 la Bulgaria si è trovata di fronte a una situazione simile. Io direi, allargando un attimo lo sguardo, che la situazione senza precedenti è l’emergenza rifugiati in Siria. Gli ultimi numeri parlano di più di quattro milioni di persone che hanno dovuto lasciare le proprie case. Quindi, direi che quello che succede oggi nei Balcani sia il riflesso di una tragedia immane, che si svolge a poca distanza dall’Europa e che quindi si riverbera inevitabilmente sul nostro continente. Ultimamente, la rotta balcanica viene utilizzata in modo massiccio, questo perché è sempre più massiccio il numero di persone che è costretto a tentare la fuga per salvare la propria vita. Inserirei questa situazione, sicuramente senza precedenti nei Balcani, in una situazione probabilmente senza precedenti nella storia recente per quanto riguarda una crisi di rifugiati, almeno così vicino all’Europa.
D. – Come è composto questo flusso e perché c’è stata questa impennata?
R. – Fondamentalmente, numeri alla mano l’impennata è dovuta al numero enorme di siriani che fuggono dal proprio Paese. All’immigrazione siriana forzata, si aggiunge quella che proviene dai Paesi che sono, per così dire, tradizionalmente esportatori di rifugiati e richiedenti asilo. Parliamo soprattutto dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ultimamente, la via balcanica è stata e viene utilizzata in modo crescente anche da persone che fuggono da conflitti, ad esempio, in Africa, e che appunto cercano un’alternativa a quella che è la strada – chiamiamola tradizionale – che è l’attraversamento del Mediterraneo via nave. Quindi, c’è anche questa componente che va ad aggiungersi al flusso.
Economia: in forte calo borse asiatiche ed europee
Borse europee in forte calo stamani dopo il nuovo tonfo dei mercati asiatici. Addirittura, a Milano sono state numerose le sospensioni di titoli per eccesso di ribasso. Si registra anche il netto ridimensionamento del prezzo del petrolio e delle materie prime, mentre il rublo continua a cedere su dollaro ed euro. Sulla situazione che si sta creando nell’economia globale a causa delle difficoltà cinesi, Giancarlo La Vella ha intervistato Angelo Baglioni, docente di Economia monetaria all’Università Cattolica di Milano:
R. - Prosegue questo momento di crisi, che sembra essere stato scatenato sui mercati dalla decisione della Banca centrale cinese di svalutare lo yuan di circa il 5%. Questo è stato un segnale di debolezza dell’economia cinese: ha gettato un po’ nel panico gli investitori locali e anche quelli delle borse internazionali, cioè si teme la contrazione dell’economia cinese, che naturalmente vuol dire poi difficoltà di esportare in Cina per Paesi come la Germania o anche alcuni esportatori italiani. Questo significa che si diventa meno competitivi nei confronti della Cina, perché comunque la si guardi di fatto è stata una svalutazione competitiva e quindi questo fa sì che sia più difficile per gli altri Paesi esportare in Cina e viceversa, presumibilmente aumenteranno le importazioni dalla Cina.
D. - Considerando che il petrolio è in caduta libera, e che anche, andando a vedere la Russia, il rublo sta perdendo nei confronto di euro e dollaro, questo vuol dire che l’economia mondiale è strettamente collegata in questo momento?
R. - Sì, l’economia mondiale è molto interconnessa, sia per i flussi commerciali che per le interconnessioni finanziarie. Per quanto riguarda il prezzo delle materie prime e del petrolio, è chiaro che il rallentamento della Cina, Paese dal grande impatto di mercato, naturalmente faccia sì che il prezzo del petrolio e delle materie prime che vengono utilizzate si riduca, perché si contrae la domanda. Questo ha un effetto negativo sui Paesi esportatori di petrolio, di gas e di materie prime, come la Russia. Questo spiega il calo del rublo.
D. - L’economia cinese è considerata in questo momento debole, ma è un’economia che naviga sempre su un +7% del Pil. Si tratta forse di preoccupazioni ingiustificate?
R: - No, le preoccupazioni sono, a mio avviso, giustificate per il fatto che si è verificata una sorta di "bolla", una crescita molto sostenuta dall’indebitamento privato - non pubblico come da noi - che ha sostenuto il mercato immobiliare, ha fatto crescere molto il settore delle costruzioni e i prezzi del settore immobiliare. Di conseguenza, c'è stato un sensibile aumento della borsa. Quindi, ci sono degli squilibri di carattere finanziario che adesso, a quanto pare, stanno subendo una brusca correzione .
D. - Quali scenari a breve termine è possibile immaginare?
R. - Probabilmente, si assisterà a un’ulteriore svalutazione della moneta cinese. Ci saranno, quindi, ulteriori correzioni sui mercati di borsa. Il punto di domanda adesso riguarda anche quello che si prospetta negli Stati Uniti. Il tutto dà vita a uno scenario effettivamente abbastanza preoccupante, perché, se dovesse esserci un rallentamento anche degli Stati Uniti, che si somma al rallentamento della Cina e degli altri Paesi emergenti, effettivamente si creerebbe uno scenario anche molto preoccupante per l’Europa, che già ha tutti i suoi problemi e potrebbe risentire di un rallentamento internazionale.
Libano, scontri tra polizia e manifestanti: 400 feriti
Secondo la Croce Rossa libanese, sono 400 i feriti negli scontri, scoppiati lo scorso fine-settimana a Beirut, tra polizia e manifestanti scesi in piazza contro il governo per l’emergenza rifiuti. La protesta, portata avanti dal movimento “You stick” e scaturita dalla chiusura della principale discarica di Beirut, è più generalmente rivolta contro la paralisi politica e la corruzione nel Paese. Annunciata e poi smentita la notizia della morte di un manifestante, tra i feriti ci sarebbero anche 99 agenti. La polizia ha reso noto di aver arrestato 32 persone nel corso delle proteste, mentre il ministro dell’Interno, Nohad al Machnouq, dopo un incontro con il premier, Tammam Salam, ha affermato il pieno diritto di manifestare degli attivisti del movimento “You Stick”, "ma - ha aggiunto - ci sono alcuni gruppi legati a certi partiti politici che hanno un'agenda diversa". Sulla crisi che interessa il Libano, da oltre un anno senza presidente della Repubblica per la mancata intesa tra le diverse formazioni politiche a trovare un accordo sul nome del successore di Michel Suleiman, Elvira Ragosta ha intervistato Stefania Azzolina, del Cesi, Centro studi internazionali:
R. – E’ da un anno che le due coalizioni che compongono il governo nazionale non riescono a trovare una sintesi e quindi un nome che riesca a mettere d’accordo le diverse anime del governo. Inoltre, elemento molto importante è che i due schieramenti sono divisi anche nel contesto siriano. La coalizione dell’8 marzo a maggioranza sciita, che vede anche in essa Hezbollah, appoggia il regime di Assad, mentre dall’altra parte la coalizione del 14 maggio, a maggioranza sunnita, è molto più vicina ai ribelli siriani. Tutto questo che cosa ha determinato? Ha determinato anche la decisione di fissare lo scioglimento delle Camere previsto nel 2013 addirittura al 2017, proprio per evitare che questo scontro istituzionale potesse determinare una vera e propria crisi del Paese.
D. – Una protesta quindi contro la corruzione, contro il malgoverno, contro la paralisi politica. Ma chi sono questi manifestanti? Dalle immagini si vedono molti giovani in piazza…
R. – Sì, sono prevalentemente giovani che sono afferenti principalmente a questo movimento “You Stick” che appunto ha manifestato contro questi grandi cumuli di spazzatura in città. Parliamo di una fascia di popolazione, quella dei giovani, che è esasperata dalla crisi istituzionale e dalla corruzione che caratterizza il panorama governativo libanese ed è magari una fascia di popolazione giovanile che magari non vede un futuro roseo, cioè non vede la propria affermazione all’interno di una società così complessa.
D. – Che prospettive ci sono, secondo lei, per il futuro politico del Paese?
R. – Evitare uno scontro in questo momento può sembrare una saggia decisione per evitare il completo collasso istituzionale del Paese. Il Libano è da sempre caratterizzato dalla ricerca di un equilibrio a livello istituzionale, un sistema formato da pesi e contrappesi volto a garantire un’adeguata rappresentatività in ambito istituzionale delle tantissime componenti etnico-religiose del Paese.
D. – Anche per questo la legge prevede che il nuovo presidente della Repubblica debba essere di confessione cristiana…
R. – Sì, un cristiano maronita. In realtà, si è tentato nei mesi precedenti di trovare una sintesi. Sono stati anche proposti referendum per riavvicinare la popolazione allo svolgimento della vita istituzionale del Paese ma, ripeto, le grandi contrapposizioni hanno portato alla fine sempre a un nulla di fatto e a uno stallo e in questo momento la crisi siriana si sta prepotentemente riflettendo sugli equilibri istituzionali, già di per sé storicamente fragili del Paese.
D. – Quindi, secondo lei la mancanza di un equilibrio geopolitico regionale influisce anche sulla situazione che si è venuta a creare negli ultimi decenni in Libano, una volta considerato la Svizzera del Medio Oriente, un esempio di convivenza tra più religioni?
R. – Assolutamente sì. Il Libano è sempre stata la cartina di tornasole delle contrapposizioni che caratterizzavano l’intera area mediorientale, per cui questo elemento si manifesta nuovamente anche nell’attualità e in riferimento alla crisi siriana. Quindi, credo si potrebbe ritornare a una fase di maggiore stabilità all’interno del Libano, laddove si riuscisse a trovare una sintesi anche in relazione alla crisi che viviamo oggi in Siria.
Marò. Tribunale del mare: stop processi, Latorre resta in India
Sospesi i procedimenti giudiziari nei confronti dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, sia in India che in Italia, ma nei loro confronti non è stata decisa alcuna misura cautelare come invece era stato chiesto da Roma. E’ questo il pronunciamento di oggi del Tribunale internazionale del Diritto del mare di Amburgo, chiamato a esprimersi sulla vicenda dei due fucilieri accusati dall’India della morte di due pescatori avvenuta nel 2012. La vicenda ora passa nelle mani di un Ttribunale arbitrale in via di costituzione. Il servizio di Benedetta Capelli:
Dopo l’acceso scontro tra l’Italia e l’India sulla vicenda dei due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, il Tribunale internazionale del mare di Amburgo si è pronunciato sul caso dei due fucilieri che, impegnati in una missione antipirateria sulla "Enrica Lexie" nel 2012, spararono al largo delle coste del Kerala. Nell’azione persero la vita due pescatori scambiati per pirati. La Corte ha deciso di sospendere ogni procedura giudiziaria o amministrativa nei confronti dei due marò, in attesa della pronuncia del Tribunale arbitrale che è in via di costituzione. Ma proprio perché sarà compito dell'arbitrato internazionale all'Aja giudicare sul caso, il Tribunale del mare non ha accolto la richiesta italiana di misure temporanee come il rientro del fuciliere Girone, ancora in India, contrariamente a Latorre tornato dopo un malore. La decisione è stata presa a maggioranza ma non all’unanimità, 15 i "sì" e 6 i "no". Il commento di Angela Del Vecchio, docente di Diritto internazionale alla Luiss di Roma:
R. – Mi sembra che uno dei punti richiesti dall’Italia sia stato accettato. Si chiedeva che venissero sospesi tutti i procedimenti in corso davanti ai giudici indiani: questo è indubbiamente un successo perché ogni procedimento in corso in India contro i due marò deve essere sospeso e questo è un elemento positivo. Altra richiesta dell’Italia era che il Tribunale si pronunciasse sulla continuazione della permanenza in India dei due marò: il Tribunale non ha visto, non ha colto l’urgenza della questione e ha detto che su questo punto si pronuncerà il Tribunale arbitrale che è in via di costituzione.
D. – Quindi, possiamo dire che quest’ultimo punto è in un certo modo a favore dell’India?
R. – Potremmo dire che c’è stato un punto a favore dell’Italia e uno a favore dell’India. Del resto, è difficile vedere che dopo tre anni ci sia motivo d’urgenza, è stato plausibile che il Tribunale non la cogliesse. Diverso sarebbe stato se l’Italia avesse fatto questa richiesta nel 2013, quando la Corte suprema indiana emise la sua sentenza dicendo che era una controversia internazionale, che non era competente e che ci voleva un altro tribunale.
D. – Come si procederà per questa vicenda?
R. – Adesso, le misure provvisorie sono queste: i procedimenti in corso in Italia – e ricordiamoci che nel nostro Paese ci sono due procedimenti in corso nei confronti dei due marò: uno davanti alla Procura militare e uno davanti alla Procura ordinaria – e quelli in India devono essere sospesi. Poi, entrambi i Paesi devono comunicare al Tribunale internazionale del mare di avere agito in questo senso. Per i due marò la situazione rimane invariata. Adesso, quindi, vivremo un’altra fase e probabilmente rimangono in India.
D. – Secondo lei, quando si concluderà questa vicenda? È possibile prospettare dei tempi?
R. – Un Tribunale arbitrale ha sempre tempi lunghi nelle decisioni. Adesso, ci stiamo spostando dal Tribunale internazionale del mare a questo Tribunale arbitrale che stiamo costituendo. I tempi sono sempre lunghi, quindi dobbiamo mettere in conto due o tre anni.
Meeting Rimini: Betori parla del Convegno della Chiesa italiana
Non c'è libertà senza Cristo. Lo ha ribadito il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, intervenuto questa mattina al Meeting di Rimini. Il porporato ha parlato del rapporto tra fede e arte, ma ha guardato anche al prossimo Convegno ecclesiale della Chiesa italiana che si terrà a novembre nel capoluogo toscano, sottolineando la necessità di una fede legata all’uomo. Ascoltiamo il cardinale Betori al microfono del nostro inviato Alessandro Guarasci:
R. - Penso che il Convegno, riportandoci a Cristo, come legame tra Dio e l’uomo, mostri il vero volto dell’uomo e quindi ci aiuta a comprendere sempre meglio anche noi stessi. Credo che quanto più noi faremo una lettura cristologica della problematica umana, tanto più saremo aiutati a vivere più umanamente, che è ciò che conta in questi momenti difficili di oggi.
D. – Lei vede una società italiana pronta ad accogliere questo messaggio?
R. – Come dice il tema del Meeting, l’attesa, la mancanza, il desiderio sono inestirpabili. Quindi, al di là di quelle che sono le difficoltà che anche oggi la società manifesta soprattutto – ahimè – nelle popolazioni più giovani, credo che il desiderio e l’attesa siano qualcosa su cui possiamo fondare un dialogo ancora fruttifero per il domani del nostro Paese.
D. - Questo dibattito sull’immigrazione su una scarsa capacità di accogliere, mette in luce il messaggio cristiano non è stato pienamente recepito in Italia?
R. - Il problema della non ricezione del messaggio cristiano è un tema che ci accompagna da sempre non solo in Italia ma ovunque. Il problema è capire che non possiamo non riconoscere nel volto del fratello quello di Cristo chiunque egli sia. Questo è un principio sul quale bisogna trovare le forme storiche. Ovviamente bisogna mettere, da una parte, un impegno dalla base - e questo è quello che cerchiamo di fare - dall’altra però, anche quelle che sono le istanze più alte a cominciare da quelle internazionali che devono farsi carico di un problema che non riguarda l’emergenza ma di un mondo che si sta trasformando.
Benin. Card. Sarah chiude il pellegrinaggio mariano nazionale
Si è concluso ieri nel Santuario mariano di Dassa-Zoumé il pellegrinaggio nazionale della Chiesa in Benin. Migliaia di fedeli hanno partecipato alla Messa presieduta dal cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti. Dal Benin, il servizio di Jean-Baptiste Sourou:
Dassa si trova a circa 200 chilometri da Cotonou, la capitale economica del Benin, e accoglie dal 1954 il pellegrinaggio mariano nazionale della comunità cattolica. E' un santuario caro al cuore di ogni fedele cattolico beninese, perciò ogni anno il pellegrinaggio della domenica dopo l'Assunta è uno degli appuntamenti maggiori della vita ecclesiale. Vi partecipano anche fedeli di Paesi limitrofi e non. Infatti, tra i circa 10.000 fedeli presenti questa domenica, molti provenivano dalla Nigeria, dal Niger, dal Togo, dal Burkina Faso, dal Mali, dalla Costa d'Avorio e dalla Guinea. Alcuni di loro sono arrivati già venerdì sera per momenti di devozione personale e comunitaria e per seguire anche le catechesi sul tema del pellegrinaggio di quest'anno: “Maria, educatrice e protettrice delle anime consacrate”.
Domenica, assieme al cardinale Robert Sarah, hanno concelebrato 12 vescovi tra cui i 9 del Benin, l'arcivescovo di Conakry in Guinea, mons. Vincent Coulibaly, il nunzio apostolico in Benin e Togo, mons. Brian Udaigwe, il segretario del Pontificio Consiglio per la Cultura, mons. Barthélemy Adoukonou, e 500 sacerdoti. Il presidente della Repubblica, Thomas Boni Yayi, alcuni membri del suo Governo, molte alte cariche dello Stato e altre autorità civili, tradizionali e religiose delle altre confessioni hanno partecipato all'evento.
Nell'omelia, il prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti ha sottolineato la centralità della persona di Gesù, dell'intimità con Lui, con il suo Corpo eucaristico, nella vita di ogni credente. Tale rapporto è la strada che ci porta a Dio, “perché – ha detto il porporato citando Papa Benedetto XVI – all'origine dell'essere cristiano non c'è una decisione etica oppure una grande idea filosofica, ma l'incontro intimo e personale con un Evento, una Persona: il Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e quindi un orientamento decisivo”. “La scelta di una intimità esclusiva con Dio non è possibile e realizzabile se non attraverso la relazione personale e intima con Gesù Eucaristia. E' Dio Padre stesso che vuole quel passaggio obbligatorio”, ha affermato - e questa novità è il motivo per cui molti hanno abbandonato Gesù a Cafarnao, perché preferivano non una relazione che libera, ma un rapporto da padrone a schiavo con Dio. Citando l'esempio di Pietro che ha detto: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”, il cardinale Sarah ha concluso dicendo che “la salvezza dei Dodici, come di tutti noi, non è di essere senza peccati e senza difetti, ma unicamente e soprattutto nel seguire Gesù e nel configuraci a Lui ogni giorno”. Alla fine della lunga e bella celebrazione ritmata da canti nelle varie lingue del Benin, il cardinale Robert Sarah è stato insignito dalla più alta onorificenza dello Stato.
Capitolo Clarettiani: testimoniare gioia del Vangelo
Al via oggi a Roma il Capitolo generale ordinario dei Missionari Figli del Cuore Immacolato di Maria, i Clarettiani, congregazione fondata nel 1849 da Sant’Antonio María Claret, religioso spagnolo. Il Capitolo si svolge sul tema “Chiamati ad evangelizzare. Testimoni e messaggeri della gioia del Vangelo”. “Un figlio del Cuore Immacolato di Maria – diceva il fondatore - è una persona che arde di carità e dovunque passa brucia. Desidera effettivamente e si dà da fare con tutte le forze per infiammare gli uomini con il fuoco dell’amore divino”. Sugli obiettivi di questo Capitolo, ascoltiamo padre José Félix Valderrabano, segretario generale della congregazione, al microfono di Alberto Goroni:
R. – Da una parte, in primo luogo, riaffermare il nostro carisma missionario nel contesto attuale e poi valutare la vita della congregazione, definire le priorità apostoliche e, non meno importante, l’elezione del nuovo governo generale che dovrà mettere in atto e animare tutte le priorità e le decisioni che usciranno da questo capitolo. Lo facciamo ogni sei anni perché veramente l’evoluzione del mondo, anche della Chiesa, è velocissima. Adesso viviamo in un contesto mondiale molto particolare. Da una parte il pluralismo culturale e religioso che si manifesta in tanti modi e in tante situazioni; la secolarizzazione che già fu denunciata da Benedetto XVI; la velocità delle comunicazioni tramite le reti sociali; il modello di famiglia di cui si parlerà nel prossimo Sinodo dove entra in gioco la vita della Chiesa, evidentemente; le situazioni di guerra e di persecuzione religiosa che in tanti Paesi si vivono drammaticamente. Però anche il momento ecclesiale diverso, per il pontificato di Papa Francesco, dà orientamenti che toccano veramente il cuore di noi Clarettiani. Ed è importante che celebriamo questo capitolo proprio nell’Anno della vita consacrata.
D. - Come vi interpella Papa Francesco?
R. - Papa Francesco ha parlato e ci ha interpellato sulla nostra vocazione e la nostra fede: da questa nostra fede e dalla nostra vocazione devono scaturire la gioia con cui dobbiamo vivere e annunciare il Vangelo. Ci parla, e per noi è importante, della fraternità, della vita comunitaria in un momento in cui l’individualismo è forte anche fra noi, nelle nostre comunità, nelle nostre case e anche nelle periferie, le periferie che provengono dalla povertà, dalla solitudine di tante persone, ma anche dall’allontanamento della Chiesa. Ci sono tante persone che vivono al margine della vita ecclesiale e della vita credente. Per questo il tema del nostro capitolo è “Chiamati ad evangelizzare”: cioè, noi abbiamo ricevuto la vocazione di portare al mondo la buona novella del Vangelo, noi siamo testimoni e messaggeri della gioia del Vangelo e quindi non è un messaggio che riceviamo noi e per noi ma che dobbiamo diffondere in tutto il mondo e le circostanze e gli ambienti in cui ci troviamo.
Proteste in Ecuador. Appello dei vescovi al dialogo
“Le manifestazioni di violenza fisica o verbale, da qualunque parte vengano, saranno sempre la strada sbagliata per arrivare ad un vero dialogo, che purtroppo spesso non è desiderato da tutti”. È quanto si legge in un comunicato dei vescovi dell’Ecuador sull’attuale situazione del Paese, dove crescono i toni dello scontro tra i sostenitori e gli oppositori del presidente Rafael Correa, al potere dal 2007. Al centro delle proteste, degenerate in queste settimane in scontri violenti, le riforme costituzionali attualmente al vaglio nel Congresso e che comprendono la possibilità di un nuovo mandato per il capo dello Stato. Ad alimentare le tensioni, nonostante i toni più concilianti assunti dal presidente Correa, contribuiscono i social network, in un contesto segnato da un profondo malcontento sociale che nel decennio precedente la salita al potere dell’attuale governo, ha provocato le dimissioni di ben 7 presidenti.
Riconciliare le diverse posizioni con il dialogo
Di qui l’accorato appello dei vescovi a un dialogo che permetta di riconciliare le posizioni discordanti con l’ascolto e il rispetto reciproco: “Chi dialoga – affermano i presuli nella nota – cerca un accordo ed è disposto a prendere in considerazione le proposte positive di chi la pensa diversamente per portare le correzioni necessarie, sempre in funzione degli interessi più alti della stabilità e della convivenza sociale”.
Dalla visita del Papa un incoraggiamento
La Conferenza episcopale ricorda quindi le parole di Papa Francesco durante il suo recente viaggio apostolico, a luglio, per incoraggiare gli ecuadoregni a ritrovare nel Vangelo le chiavi per affrontare le sfide attuali, “valorizzando le differenze, promuovendo il dialogo e la partecipazione senza esclusioni in modo che gli obbiettivi di progresso e di sviluppo raggiunti finora si consolidino e garantiscano un futuro migliore” . I vescovi sottolineano in proposito che è questo l’impegno della Chiesa, al servizio di un popolo che si è “risollevato con dignità” .
Attenzione al vulcano che si risveglia
Nel comunicato i vescovi ecuadoregni parlano anche del minaccioso risveglio del vulcano Cotopaxi, vicino alla capitale Quito, che negli ultimi giorni ha ripreso ad eruttare cenere e lapilli, dopo 138 anni. I vescovi hanno esortato i cittadini a seguire le raccomandazioni suggerite dalle autorità competenti nel caso di un’eventuale emergenza per minimizzare i rischi e salvaguardare, soprattutto, l’incolumità delle persone aiutandole con spirito di solidarietà. (A.T.)
Cremisan. Vescovi canadesi: muro israeliano viola legge
Anche i vescovi canadesi si dicono ”delusi” dalla ripresa dei lavori di costruzione del muro di separazione tra Israele e Palestina nella Valle di Cremisan, a Beit Jala. I lavori – come è noto - sono ripresi il 17 agosto, dopo il ‘nulla osta’ dato l’8 luglio dalla Corte suprema d’Israele, che pure nell’aprile scorso si era espressa in difesa delle 58 famiglie palestinesi residenti nell’area, bloccando il progetto al termine di una lunga battaglia legale.
Il muro è un’ingiustizia che minaccia la pace
In un comunicato diffuso il 20 agosto, il segretario della Conferenza episcopale canadese (CECC/CCCB) mons. Patrick Powers riprende la nota ufficiale del Patriarcato latino di Gerusalemme, che il 19 agosto aveva condannato fermamente l’operazione israeliana “effettuata in violazione dei diritti delle famiglie della valle”, ribadendo che “la costruzione del muro di separazione e la confisca delle terre che ne consegue sono un insulto alla pace”. Il Patriarcato aveva quindi rivolto un appello alle autorità israeliane affinché fermino i lavori ed attendano la decisione richiesta pochi giorni fa alla Corte Suprema da parte delle famiglie cristiane della valle.
Le proteste della Chiesa in tutto il mondo rimaste inascoltate
Oltre ai terreni di queste famiglie, l’area su cui deve sorgere il muro comprende anche un monastero e un convento salesiani, con annessa una scuola elementare. Con la costruzione del Muro, le due strutture salesiane resteranno in territorio palestinese, mentre i terreni delle famiglie cristiane finiranno nella parte israeliana. Le proteste dei vescovi di tutto il mondo, a cominciare da quelli di Terra Santa, fino a questo momento sono rimaste inascoltate. Israele ha giustificato l’espansione della barriera di cemento armato con motivi di sicurezza, ma per molti l’obiettivo di Tel Aviv è quello di collegare le colonie – illegali secondo il diritto internazionale – di Gilo e Har Gilo, separandole dalla cittadina palestinese di Beit Jala. (L.Z.)
Solidarietà in Belgio: cittadini aprono le case ai rifugiati
Di fronte al boom di domande di asilo che tocca anche il Belgio in questi mesi, i vescovi del Paese accolgono l’appello della Caritas Internationalis ad incoraggiare i privati a mettere a disposizione dei rifugiati le loro case. L’organizzazione cattolica è attivamente impegnata a dare una sistemazione temporanea e assistenza ai richiedenti asilo in collaborazione con le autorità, ma le strutture a disposizione non bastano.
Molte le persone disposte ad aiutare
“Molte persone ci chiamano e ci vogliono aiutare – spiega all’agenzia Cathinfo.be il direttore di Caritas internationalis François Cornet - noi siamo felici di questo slancio di solidarietà e speriamo che contribuisca a mettere a disposizione strutture di accoglienza supplementari per fare fronte alle nuove richieste. E’ un modo molto concreto di venire in aiuto a queste persone, garantendo loro i diritti di asilo e protezione in Belgio”, ha aggiunto il responsabile. Da 15 anni Caritas Internationalis, particolarmente impegnata in queste settimane nell’emergenza profughi ai confini orientali dell’Unione Europea, promuove l’accoglienza in abitazioni private che permette ai richiedenti asilo di vivere autonomamente con le loro famiglie e favorisce l’integrazione.
Aprire le porte agli stranieri
Un’idea supportata dai vescovi belgi che hanno invitato le comunità parrocchiali e tutti i cristiani nel Paese a mobilitarsi rispondendo così all’esortazione di Papa Francesco “ad aprire le porte a chi cerca la protezione di uno Stato”. Gli alloggi ricercati dalla Caritas Internazionali devono rispondere ad alcuni requisiti: devono essere abitabili secondo le norme dello Stato, disponibili per una durata minima di sei mesi e dotati di servizi igienici e di una cucina. La Caritas assicura la gestione dell’abitazione per tutto il periodo di occupazione, il pagamento dell’affitto e si fa garante del mantenimento in buono stato dell’abitazione stessa. Gli ospiti vengono seguiti per le loro esigenze dagli operatori dell’organizzazione. (L.Z.)
Vescovi svizzeri: appello a sostenere 1.100 diocesi povere nel mondo
“Appassionati di Cristo, noi ci impegniamo!”. Con questo motto, la Conferenza episcopale svizzera esorta i fedeli a partecipare con generosità alla Domenica della missione universale che si celebra in coincidenza della Giornata missionaria mondiale. L’iniziativa ricorre la penultima domenica di ottobre che quest’anno cade il 18 del mese. Tale appuntamento, scrivono i presuli in una nota a firma del loro presidente, mons. Markus Büchel, “promuove la comunione in seno alla Chiesa e ci rammenta la massima di Ad Gentes”, il decreto Conciliare sull’attività missionaria della Chiesa: “La Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria” (AG 2).
In aiuto di oltre mille diocesi in difficoltà nel mondo
Ringraziando, quindi, quanti contribuiranno con le loro donazioni alla colletta per la Domenica della missione universale, i presuli elvetici sottolineano che i fondi raccolti serviranno a “sostenere concretamente le 1.109 diocesi in difficoltà nel mondo, finanziando progetti pastorali e sociali”. Ad occuparsi concretamente della raccolta sarà “Missio”, l’organismo svizzero delle Pontificie Opere Missionarie, che “conosce i bisogni delle diocesi del mondo e ripartisce opportunamente i fondi di aiuto in 118 Paesi”. (I.P.)
Card. Souraphiel: povertà è problema più grande delle famiglie africane
“La Chiesa cattolica è un’istituzione universale, umana e divina, non è né europea, né canadese, né statunitense; è una realtà diversificata, perché i problemi che devono affrontare le famiglie sono diversi da Paese a Paese”. E’ quanto ha affermato all’agenzia Cns il cardinale etiopico Berhaneyesus Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba, indicando la strada che potrebbe percorrere il prossimo Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia a ottobre. Ad affermarlo all’agenzia Cns è il cardinale etiopico Berhaneyesus Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba.
Famiglie in Africa: il problema più grande è la povertà
Se per l’Europa e il Nord America il problema è quello di trovare risposte pastorali alla legalizzazione delle unioni omosessuali e alla questione dei fedeli divorziati e risposati, in altri Paesi le famiglie devono affrontare le difficoltà derivanti dalla globalizzazione e dalla rapida urbanizzazione. “In Etiopia, ad esempio, il vero grande problema è la povertà: se manca la sicurezza economica avrai un marito che lavora da una parte e la moglie che lavora dall’altra: la famiglia si separa e chi ne soffre sono i figli”. La sfida per la Chiesa locale sarà quindi di contribuire ad alleviare la povertà.
Fare in modo che il Vangelo sia inculturato in una determinata società
In questo senso il ruolo delle Conferenze episcopali, secondo il cardinale Souraphiel, dovrebbe essere quello di aiutare i singoli vescovi ad adattare le indicazioni emerse dal Sinodo alla realtà dei loro rispettivi Paesi e regioni: “Il compito delle Conferenze episcopali non è di cambiare gli insegnamenti di Nostro Signore Gesù Cristo o la dottrina della Chiesa, ma di fare in modo che il Vangelo sia inculturato in una determinata società”.
La Chiesa africana farà sentire la sua voce al Sinodo
Quanto al ruolo dei vescovi africani al Sinodo, il card. Souraphiel afferma che essi faranno sentire la loro voce in difesa della vita e della famiglia: “Molte cose cambieranno e stanno già cambiando. Ma ci devono anche essere dei valori che restano: l’amore tra marito e moglie, il rispetto tra figli e genitori e il rispetto per gli anziani. La grande domanda – conclude - è che cosa dovrebbe essere cambiato e cosa dovrebbe restare”. (L.Z.)
Castel Gandolfo: Sodano presiede celebrazioni Madonna del Lago
Sarà il card. Angelo Sodano, decano del Collegio Cardinalizio, a presiedere quest’anno le tradizionali celebrazioni per la Madonna del Lago, a Castelgandolfo. La festa è in programma per sabato 29 agosto: alle ore 18.30, presso la Chiesa della Madonna del Lago, il porporato presiederà la Santa Messa, preceduta dalla recita del Rosario. Al termine della celebrazione, la statua della Vergine verrà portata in processione, via terra, fino al porticciolo della cittadina e da lì verrà imbarcata su un battello per una seconda processione, questa volta via lago. I fedeli attenderanno l’arrivo dell’icona mariana sul pontile, all’altezza della Chiesa. Conclusa la processione, verrà impartita la benedizione solenne.
Una festa significativa per i salesiani
Ad organizzare le celebrazioni è la Parrocchia pontificia di Castelgandolfo, intitolata a “San Tommaso da Villanova”, affidata dai Salesiani. Per questo, quest’anno le celebrazioni della Madonna del Lago assumono un significato particolare, poiché coincidono con il bicentenario della nascita di Don Bosco, fondatore della Famiglia salesiana.
Una Chiesa nata per volontà di Paolo VI
L’origine della festa della Vergine lacustre di Castelgandolfo risale agli anni ’50 quando l’allora parroco di San Tommaso da Villanova, don Dino Sella, decise di dedicare un momento di preghiera e di ringraziamento alla Madonna, con una processione sulle rive del lago. Fu poi Paolo VI, negli anni ’60, a dare stimolo alla costruzione di una Chiesa, che lui stesso inaugurò il 15 agosto 1977. Il luogo di culto è stato visitato anche da Giovanni Paolo II che il 2 settembre 1979 vi celebrò la Santa Messa. (I.P.)
L'Uruguay verso la Giornata nazionale della gioventù
Sono circa 6mila i giovani cattolici dell’Uruguay attesi a Montevideo dal 5 al 6 settembre per la 37.ma Giornata nazionale della gioventù (Jnj). Organizzata dalla Commissione per la Pastorale giovanile della Conferenza episcopale locale (Ceu), l’iniziativa avrà per tema “Egli trasforma il tuo cuore”. Il programma dell’evento, si legge sul sito della Ceu, prevede “momenti di riflessione, una Veglia di preghiera con l’adorazione del Santissimo Sacramento, esperienze di servizio e missione in città e la Santa Messa conclusiva, che sarà presieduta, alle ore 14.00 del 6 settembre, dal card. Daniel Fernando Sturla Berhouet, arcivescovo di Montevideo”.
Un evento 2.0 seguibile sui social network
“La Jnj – informa ancora la Ceu – sarà un evento 2.0”, ovvero interattivo, “grazie alla creazione di un’apposita pagina Facebook e dell’hashtag Twitter #37JNJ2015 che permetteranno ai partecipanti di condividere sui social network le loro esperienze e le principali informazioni”. Il tutto, spiegano ancora i presuli, con l’obiettivo di esortare i ragazzi a “hacer lío”, ovvero a “fare chiasso”, come dice spesso Papa Francesco quando invita i giovani a far sentire la propria voce e ad impegnarsi attivamente nella vita della Chiesa e della società.
Nel logo, una Croce ed un cuore stilizzato
Ulteriori aggiornamenti saranno disponibili pure sull’apposito sito http://jnj2015.com.uy/ dal quale si può scaricare anche l’Inno della Giornata, cantato e suonato da un gruppo di giovani. Infine, qualche dettaglio sul logo dell’evento: disegnato nei colori nazionali del giallo e del blu, esso rappresenta due mani che accolgono un cuore stilizzato, sul quale campeggia una Croce, insieme alla scritta “Jnj Montevideo 2015”. (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 236