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Sommario del 18/08/2015
- Papa: facciamo opere di misericordia. Mons. Zuppi: ci umanizzano
- Papa, tweet: se sperimentiamo la misericordia vogliamo condividerla
- Il cordoglio del Papa per la morte del cardinale Paskai
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Strage Bangkok: si cerca sospetto ripreso dalle telecamere
- Sud Sudan, Salva Kiir non firma l'accordo di pace
- L'Onu vara un piano di pace per la Siria
- Ucraina: nuovi scontri nell’est, almeno 9 morti
- Boldrini: su immigrazione ci sono professionisti della polemica
- Scuola. Uciim: non ci saranno tutte le assunzioni annunciate
- Tendopoli di S. Gabriele. Giovani riflettono sulla famiglia
- Mons. Quiroga: il ruolo di Papa Francesco per la pace in Colombia
- Chiese d'Asia con il Papa per la lotta ai cambiamenti climatici
- Terra Santa: ruspe israeliane al lavoro per il Muro di Cremisan
- Brasile: la Chiesa chiede garanzie per i diritti dei migranti
- Jrs Portogallo: Europa non chiuda le porte ai rifugiati
- Chiesa argentina: la corruzione ruba la speranza al popolo
- Filippine: prime dirette della Tv satellitare cattolica
- Mons. Galantino non sarà in Trentino per la Lectio su De Gasperi
- Malawi: la Chiesa in aiuto degli ipovedenti
Papa: facciamo opere di misericordia. Mons. Zuppi: ci umanizzano
Chi ha bisogno senta “il calore della nostra presenza, della nostra amicizia e della nostra fraternità”. Lo scrive il Papa nella Bolla di indizione del prossimo Giubileo della Misericordia e le stesse parole Francesco le ripete nel messaggio inviato a Manuel Martín Sjöberg, presidente del “Servicio Sacerdotal de Urgencia”. Si tratta di un’esperienza nata nel 1952 in Argentina, nella città di Córdoba, allo scopo di assicurare ai fedeli i Sacramenti anche in orari in cui non è facile trovare un sacerdote, in particolare agli ammalati e ai moribondi. Sul valore delle opere di misericordia – oggi talvolta considerate anche nel mondo cristiano come una “vecchia” pratica di fede – Alessandro De Carolis ha chiesto una riflessione a mons. Matteo Zuppi, vescovo ausiliare di Roma:
R. – È molto vero, sembra che le opere di misericordia siano accessorie, un qualcosa riservato solo a qualcuno degli “addetti ai lavori”, quelli però un po’ specialistici… Diciamo che il cristiano non può non essere uno “specialista” della misericordia: noi siamo e saremo giudicati sulla misericordia. Le opere di misericordia sono sostanzialmente quelle del Vangelo di Matteo, capitolo 25, in cui Gesù ci presenta come saremo giudicati. E invece, effettivamente, le prendiamo molto poco in considerazione, come se la misericordia fosse qualcosa che riguarda qualcuno nello specifico... E invece riguarda tutti. Non c’è Vangelo senza misericordia, il Vangelo è il frutto della misericordia di Dio verso di noi e troveremo misericordia se siamo misericordiosi. Cosa fare? Io credo che questo Anno Santo – questo Anno Giubilare – ci aiuterà tantissimo anche a capire come la misericordia ci faccia vivere bene. Le opere di misericordia non sono infatti una “tassa” da pagare: sono una liberazione, da noi stessi, dalle nostre paure, e ci permettono di incontrare il prossimo.
D. – Le opere di misericordia sono spesso, per così dire, un argomento quaresimale. Si può dire che il Giubileo, che si aprirà in dicembre, dilaterà in un certo senso questo orizzonte, a dire appunto che la misericordia non ha stagioni?
R. – Certamente. Ed è vero anche che per certi versi, purtroppo, l’itinerario quaresimale è visto come fosse un itinerario di penitenza da fare. Ma la penitenza è per ritrovare noi stessi, la penitenza è per star meglio! Al contrario, se noi non prendiamo la “medicina della misericordia” stiamo peggio: ci gonfiamo di noi stessi, siamo pieni di paure, di paranoie… Quando non c’è la misericordia, ci vengono dei pensieri o maturiamo delle pratiche che sono disumane, veramente disumane.
D. – Papa Francesco, nella Bolla di Indizione del Giubileo, accompagna questo invito a essere fraterni e solidali con un vocabolo: “calore”. Lo dice spesso: il cristiano deve far percepire agli altri il calore e la tenerezza di Dio... Qual è l’importanza del calore?
R. – È come se uno ti dicesse: “Ti voglio bene”, ma te lo comunica come fosse un ordine di servizio… È pensabile una misericordia senza calore? No! Perché? Perché il cuore è calore! Purtroppo molte volte, quando la misericordia diventa una cosa da funzionari – e poi non è più misericordia – pensiamo di essere a posto per aver compiuto qualche opera di misericordia. Ma se non c’è il cuore – e quindi il calore – non sapremo vedere chi ha fame e chi ha sete, chi è carcerato, chi è malato e chi è forestiero…
D. – Volevo chiederle un ricordo particolare di una sua esperienza come sacerdote, come vescovo, che le ha toccato il cuore “vivendo” le pratiche di misericordia…
R. – Quando, per grazia del Signore, ho vissuto questa via della misericordia, ho trovato il mio cuore: guardando e facendo propria la miseria del cuore degli altri, si trova anche il nostro. Pensiamo alla visita ai malati. La commozione, l’affetto e l’amore che trovo nelle persone anziane – purtroppo troppo poco, dovrei andarci molto di più – ma ogni tanto, quando riesco ad andare, mi rendo conto che sono loro la vera ricompensa. Lì capisco l’importanza della misericordia e come questa dia vita e la faccia ritrovare. Gli anziani nella visita ritrovano forza, sentono quel calore che fa vivere e fa sentire amata, rivestita di tenerezza e di protezione, la propria vita. Ecco, io credo che il sorriso, il calore, gli occhi soltanto degli anziani che ti guardano, tutto valga più di qualunque altra cosa e faccia capire come, se diamo misericordia, la troveremo a nostra volta.
Papa, tweet: se sperimentiamo la misericordia vogliamo condividerla
Papa Francesco ha lanciato un tweet dal suo account @Pontifex: “Quando sperimentiamo l’amore misericordioso del Padre, siamo più capaci di condividere questa gioia con gli altri”.
Il cordoglio del Papa per la morte del cardinale Paskai
Papa Francesco si è unito al dolore della Chiesa d’Ungheria che piange, da ieri, la scomparsa del cardinale László Paskai, arcivescovo emerito di Esztergom-Budapest, spentosi all’età di 88 anni. “Mi ha rattristato aver appreso la notizia” della sua morte, scrive Francesco nel suo telegramma di cordoglio al cardinale Péter Erdő, capo della Chiesa ungherese.
Nel ringraziare Dio per i “molti anni di servizio” del cardinale Paskai alla sua comunità ecclesiale, il Papa termina il messaggio raccomandando il porporato “all’amore misericordioso del Padre” e “unendosi spiritualmente” con la sua benedizione apostolica a quanti prenderanno parte alle esequie, fissate per sabato prossimo, alle 10.30, nella Cattedrale di Esztergom-Budapest.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
Quel grido doloroso dei profughi in un autografo in parte inedito di Paolo VI.
Orfani di un prete: Lucetta Scaraffia ricorda monsignor Francesco Ventorino, per tutti don Ciccio.
Piano per la pace in Siria: l'iniziativa delle Nazioni Unite punta alla formazione di un Governo di unità nazionale.
Il vescovo di Angouleme sulla profezia di Madeleine Delbrel, l'assistente sociale di Ivry.
Le vite degli altri: Silvia Guidi sullo spettacolo teatrale "Come gli scambi del treno", dedicato alla mistica francese.
Strage Bangkok: si cerca sospetto ripreso dalle telecamere
Nuova tensione al centro di Bangkok, all’indomani dell’attentato che ha provocato 22 morti e oltre 120 feriti. Una bomba a mano è stata lanciata da un ponte verso un molo affollato, senza tuttavia provocare feriti. L'uomo che la lanciato l'ordigno non è stato identificato. Le autorità thailandesi affermano invece di aver identificato l’autore della strage di ieri grazie alle telecamere nella zona. Intanto è sempre più accreditata la pista delle cosiddette 'camicie rosse', vicine all’ex premier Thaksin Shinawatra e in contrapposizione alla giunta militare al potere. Marco Guerra ne ha parlato con Stefano Vecchia, giornalista esperto di Estremo Oriente:
R. – E’ un’ipotesi plausibile, certamente lo è dal punto di vista dei militari al potere, del governo che ad essi si appoggia. Lo è forse un po’ meno avendo presente la repressione reale che ha colpito il Paese negli ultimi 15 mesi da quando c’è stato il colpo di Stato militare nel maggio dello scorso anno. Un Paese sotto stretto controllo, con pochi spazi di libertà civili e di democrazia parlamentare. I partiti esistono ma di fatto non possono riunirsi. Questa situazione da un lato provoca o può provocare reazioni e dall’altro ha creato veramente un grande sconcerto e sostanzialmente azzerando, annullando ogni tipo di espressione contraria al potere al momento a Bangkok.
D. – Quindi per il momento il fantasma del terrorismo islamico di matrice internazionale può essere escluso?
R. – Può essere escluso, almeno non ci sono dati consistenti in questo senso, come può essere escluso, anche se non al cento per cento, un intervento della militanza indipendentista, che pure è di fede musulmana, dell’estremo sud al confine della Malesia che da anni è impegnata in una guerriglia contro il governo di Bangkok che ritiene un colonizzatore.
D. – Ma qual era l’obiettivo di questa bomba collocata in una zona molto affollata della città? Secondo le autorità c’era la volontà di provocare il massimo numero di vittime fra cui anche turisti…
R. – Sì, questo purtroppo senza dubbio. Di fatto è il più grave attentato di questo genere in Thailandia, almeno nella storia recente. Il fatto che abbia colpito un posto non soltanto molto frequentato come il sacrario induista di Erawan ma anche un’area affollata di turisti e con grandi alberghi e grandi magazzini, chiaramente è il cuore strategico di questa immagine della Thailandia che vuole essere aperta, che vuole essere anche del business, e che vuole essere accogliente verso il turismo. Quindi una località scelta certamente non a caso che però apre anche i dubbi sulla reale volontà poi di chi ha provocato l’attentato. Altri obiettivi sarebbero stati certamente più clamorosi e con un maggior numero di vittime probabilmente.
D. – Ma che fase è per la Thailandia? La giunta militare detiene ancora il potere, c’è un processo di normalizzazione in corso?
R. – E’ un processo di normalizzazione guidato dai militari che sostengono le élite tradizionali di questo Paese, quindi aristocrazia, e si appoggiano comunque a una situazione monarchica e a dei gruppi economici di grande rilievo. Di conseguenza la normalizzazione avviene sul piano di un arretramento in qualche modo degli strumenti democratici anche dei diritti civili e umani perché secondo la concezione di chi governa attualmente, in particolare dei militari, la necessità è quella di stabilizzare il Paese, più che normalizzare, stabilizzare. Hanno avviato un loro processo, una loro road map verso le elezioni che però vengono sempre più spostate, a questo punto al 2017, mentre nel frattempo si vengono a creare una serie di istituzioni “filtro” che di fatto permetteranno in futuro ben poche possibilità di libera espressione.
D. – Qualora venisse confermata la pista delle 'camicie rosse' ci sarebbe un’ulteriore stretta da parte delle autorità militari?
R. – Sicuramente questo evento, chiunque ne sia responsabile, porterà a un ulteriore irrigidimento del potere militare. I gruppi dissidenti sono presenti; sono dissidenti a livello politico ma anche a livello operativo, potenzialmente anche militante. E ci sono gruppi che dispongono anche di armi. La questione è che la dissidenza, l’opposizione al governo militare, è stata repressa per questi 15 mesi in modo molto forte. Questo da un lato può provocare in qualunque momento una reazione e quello di ieri potrebbe essere stato un esempio di questa reazione.
Sud Sudan, Salva Kiir non firma l'accordo di pace
Una firma con riserva, quella dell’accordo di pace per il Sud Sudan, siglato ieri a Addis Abeba sotto l’egida di diverse organizzazioni internazionali, fra cui l’Onu e l’Unione Africana. A esprimere dubbi sul piano di risoluzione del conflitto è stato il presidente del giovane Paese sub-sahariano, Salva Kiir, che ha chiesto 15 giorni per poter vagliare nel dettaglio i termini dell’accordo, caldeggiato negli ultimi mesi anche dalla Chiesa del Paese. Dopo 20 mesi di scontri, oltre 100 mila morti e due milioni di sfollati interni e rifugiati, la popolazione sud sudanese è allo stremo. L’analisi di Massimo Alberizzi, storico corrispondente dall’Africa del Corriere della Sera e direttore del sito Africa Express, al microfono di Giacomo Zandonini:
R. – Il Sud Sudan è un Paese nuovo, nuovissimo: è nato nel 2011. Tutti pensavano che potesse pacificarsi finalmente, invece è scoppiata la guerra civile. Questo accordo è stato firmato dalla parte dei ribelli di Riek Machar, accusati di avere tentato un colpo di Stato, il 15 dicembre del 2013. E' stato firmato anche da Pagan Amul, che è il segretario generale del Sudan People’s Liberation Army. Non è stato invece firmato, ma solo siglato, dal presidente Salva Kiir, il quale si è riservato di dare una risposta entro 15 giorni, cioè di tornare in patria e convocare i suoi Stati generali. Qualcuno esultava per questo accordo, ma non è un accordo proprio perché Salva Kiir non l’ha firmato. La cosa che dà fastidio è la richiesta di smilitarizzare Juba, che è la capitale del Sud Sudan, cioè tutto l’esercito regolare si deve ritirare. Juba dovrebbe essere una sorta di città aperta. L’Onu dovrebbe provvedere con delle forze di polizia a mantenere l’ordine a Juba e quindi nelle varie regioni. Le Nazioni Unite, tra le altre cose, sono abbastanza imbarazzate, perché loro avevano fissato per mezzanotte scorsa un ultimatum, dicendo: “O raggiungete un accordo, oppure io commino delle sanzioni”. Ora che Salva Kiir ha preso 15 giorni di tempo, non si sa bene se lasciargli questi 15 giorni di tempo oppure dire: “Tu non hai trovato l’accordo e quindi io sanziono solo te”.
D. – L’accordo prevede una sorta di spartizione di sfere di influenza fra i cosiddetti ribelli e il governo. Ma c’è un rischio che si arrivi effettivamente ad una sorta di divisione del Paese, secondo lei?
R. – L’accordo non è pubblico e quindi ci sono solamente delle voci: qualcuno ha riferito qualcosa. Per esempio, prevedrebbe un’integrazione nell’esercito, che ora è fatto da dinka, delle forze nuer, che sono quelle fedeli a Riek Machar, e di altre tribù minori, come gli shilluk e i bari.
D. – Molti evidenziano che più che uno scontro fra etnie – fra i dinka e i nuer – ci sia in realtà una dimensione economica forte, un interesse per il petrolio, che è concentrato in alcuni Stati. Qual è la situazione?
R. – Come al solito, in Africa si crede che le guerre siano tribali, ma in realtà non è vero. Certo, la manovalanza è tribale, ma i mandanti sono economici. Il grosso delle forze di Salva Kiir sono dinka e quelle di Riek Machar sono nuer. Ma, in realtà, ci sono per esempio dei dinka che sono schierati con Riek Machar. Tra l’altro, una persona importante è la vedova di John Garang, Rebecca Garang, e il figlio di Garang, che hanno appunto disconosciuto l’alleanza con i dinka di Salva Kiir e hanno sostenuto Riek Machar. Qualcuno ovviamente ha lanciato proclami di guerra, dicendo che "tutti i Dinka devono essere ammazzati" e questo preoccupa le Nazioni Unite e i Paesi interessati.
D. – A livello regionale, è una crisi che sicuramente pesa in un’area già molto instabile, dove ci sono anche forti interessi economici, fra cui l’interesse per il petrolio. Che cosa sta succedendo? Cosa si muove?
R. – Ci sono fortissimi interessi della Cina – la Cina sta conquistando l’Africa, in realtà – e anche questi interessi della Cina ovviamente pesano. C’è un oleodotto che era in progetto, e in parte in costruzione, che doveva unire il Sud Sudan con il Kenya e quindi Mombasa, il porto sull’Oceano Indiano, perché adesso il petrolio passa dal Sudan e va a finire nel Mar Rosso. Quindi, la geopolitica è molto interessata a questo conflitto.
L'Onu vara un piano di pace per la Siria
Per cercare di risolvere il dramma della Siria, martoriata dal conflitto civile nel quale si è inserito anche il sedicente Stato islamico, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato un nuovo piano di pace. Si tratta di un programma articolato in 16 punti che va verso la transizione politica. Tutto partirà a settembre, con la formazione di quattro gruppi di lavoro che si occuperanno di sicurezza, lotta al terrorismo, e ricostruzione. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Massimo Campanini, docente di Studi islamici all'Università di Trento:
R. – In primo luogo, bisogna che le fazioni siano effettivamente disposte a superare le loro rivalità interne per acquisire un fronte comune, cosa che ai tempi delle prime lotte anti-Assad non era successa. Il secondo punto è che le decisioni devono essere pragmatiche, nel senso che non bisogna mettere in campo ideologie, ma invece guardare alla realtà per quella che è. Quindi, da questo punto di vista ci deve essere una concretezza assoluta che non deve partire, per esempio, dal presupposto che il presidente Assad debba andarsene o cose di questo genere.
D. – Quale potrà essere, nel futuro della Siria, il ruolo dell’attuale presidente Assad?
R. – È chiaro che il potere di Assad deve essere ridimensionato. Tuttavia, io credo che, pragmaticamente, un ruolo anche potenzialmente solo formale – non sostanziale – bisognerebbe in qualche modo riconoscerglielo. Anche perché, certo, Assad era un dittatore, però sia lui che suo padre sono stati in fondo degli elementi di stabilizzazione del quadro mediorientale. Quindi, anche il fatto di trovargli un ruolo formale – ad esempio, presidente della Repubblica di una Siria rinnovata, in cui ci sia un governo di unità nazionale – potrebbe servire da garanzia, rendendosi conto che Assad non può venire cancellato con un tratto di penna.
D. – Il piano, di fatto, prende genericamente in considerazione il fenomeno Stato islamico…
R. – Lo Stato islamico rimane un oggetto veramente sconosciuto, ma direi qualcosa di più di un oggetto sconosciuto: rimane un oggetto problematico. Da dove viene, chi lo arma e cosa vuole? Questi sono tre quesiti che non sono stati ancora risolti. Cioè, se l’Is è veramente pericoloso, e se è davvero un’entità che dobbiamo temere, è chiaro che una presa di posizione morbida potrebbe essere ininfluente e non avere alcun effetto.
Ucraina: nuovi scontri nell’est, almeno 9 morti
Si continua a combattere, nonostante la tregua, nelle regioni orientali dell’Ucraina dove a causa di nuovi scontri sono morte nelle ultime ore almeno 9 persone, tra cui 7 civili. La Commissione europea esorta le parti coinvolte nel conflitto ad osservare il cessate il fuoco e a prendere misure necessarie per proteggere i civili. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
E’ triplice il fronte che rende sempre più incerto lo scenario dell’Ucraina: l’instabilità politica dopo la rivoluzione del 2014, la crisi economica con sullo sfondo lo spettro del default e soprattutto il conflitto che finora, nella parte orientale del Paese, ha provocato oltre 6.800 vittime. La fragile tregua, siglata lo scorso febbraio a Minsk, è continuamente interrotta. Gli ultimi scontri, avvenuti ieri tra esercito ucraino e separatisti, hanno nuovamente scosso Mariupol, importante centro portuale sul Mar Nero, e la città di Donetsk. Ai combattimenti è subito seguito il reciproco scambio di accuse: secondo l’esecutivo ucraino, i ribelli ricevono il sostegno di Mosca. Per il governo russo, invece, sono i soldati ucraini a violare il cessate il fuoco. Fulvio Scaglione, vice-direttore di Famiglia Cristiana esperto dell’area ex sovietica:
R. – Purtroppo, da quando gli accordi di Minsk sono stati firmati, si è entrati in una situazione di non pace e di non guerra che continua a fare molte vittime, soprattutto appunto tra i civili, come è successo anche in queste ore. Ci sono anche degli opposti estremismi che si confrontano, sia da parte di Kiev sia da parte di Mosca, per non parlare poi dei vari comandanti locali che solo in parte rispondono poi alle direttive dei governi di riferimento. Non dobbiamo dimenticare che sul lato ucraino, per esempio, ci sono milizie, battaglioni che sono finanziati da singole persone, da singoli oligarchi e più o meno altrettanto sul fronte russo.
D. – Sul conflitto quanto pesa la crisi economica che affligge sia la Russia sia l’Ucraina?
R. – Il momento economico, secondo me, pesa poco sul lato russo e tanto su quello ucraino. Poco sul lato russo perché la questione del Donbass è stata una delle grandi armi propagandistiche che hanno permesso a Putin di “vendere” la situazione agli elettori russi. La popolarità di Putin è altissima, è cresciuta addirittura da quando ha annesso la Crimea e, comunque, ha fatto sentire le istanze della Russia nella situazione del Donbass. Sul fronte ucraino, al contrario, l’inasprimento della situazione nel Donbass è uno dei sistemi per accreditarsi nei confronti dei grandi protettori internazionali, soprattutto degli Usa, come Paese minacciato e, quindi, come Paese che ha bisogno di un’assistenza senza 'se' e senza 'ma'.
Boldrini: su immigrazione ci sono professionisti della polemica
L'immigrazione è ancora al centro del dibattito politico in Italia. Lega e parte di Forza Italia chiedono di ricorrere ai respingimenti, mentre Pd e Ap difendono la linea del governo. Di come debba reagire l'Europa di fronte a chi fugge da fame e guerre, delle polemiche di questi giorni sull'accoglienza, abbiamo parlato con la presidente della Camera, Laura Boldrini. L'intervista è di Alessandro Guarasci:
R. – Ci sono professionisti delle polemiche nel nostro Paese, che peraltro sono quasi sempre privi di argomenti propri. Quindi, si esercitano attaccando gli altri e a volte facendolo anche in modo pesante e volgare. Io ritengo che bisogna invece prospettare le soluzioni e agire quanto più possibile anche a livello esteso, a livello europeo.
D. – Alcuni esponenti della Chiesa, tra cui mons. Galantino, sono stati attaccati in questi giorni per le loro posizioni sull’immigrazione. Qual è il suo commento?
R. – Il mio commento è che mons. Galantino esprime i principi del Vangelo ed esprime – peraltro – anche i temi a cui ogni giorno dà voce lo stesso Papa Francesco. Per cui, mi sembra normale che mons. Galantino possa essere libero di esprimere le proprie posizioni. E chi lo attacca lo fa – a mio avviso – in modo strumentale.
D. – Sulle tragedie dei migranti, il cardinale Bagnasco dice: “Dov’è l’Onu?”. Ma secondo lei, invece, dov’è l’Europa?
R. – Intanto, c’è da dire che l’Europa ha fatto un primo passo perché questa agenda per l’immigrazione, che è stata presentata dalla Commissione, è la prima volta che offre una condivisione dell’onere all’interno degli Stati – sia pure in un modo timido, ma è comunque un primo passo da valorizzare. Dopodiché, questo significa che c’è bisogno di più Europa. Io rimango sempre abbastanza sorpresa da chi invece propina il ritorno ai vecchi Stati nazionali chiudendo le frontiere e ognuno per sé, perché questo non solo è anacronistico, ma non è efficace, perché questo è perdente. Noi dobbiamo lavorare, tutti, con azioni concrete verso una prospettiva federale, verso quello che potrebbero essere – come obiettivo finale – gli “Stati Uniti d’Europa”. Bisogna andare avanti verso un’integrazione politica, partendo dalla crisi greca che ha dimostrato, appunto, la fragilità di questo impianto europeo.
D. – In Italia, si parla molto di riforme: la riforma della Legge elettorale, del Senato… Ma che fine ha fatto la “riforma della cittadinanza”?
R. – La riforma della cittadinanza sarà una delle leggi di cui ci occuperemo alla ripresa, a settembre. E’ stato depositato un testo. Mi pare che sia di fatto concentrato sulla cittadinanza dei minori. Se la legge sulla cittadinanza, però, è uno strumento di integrazione – e io credo che lo sia – allora ritengo che va bene occuparsi della cittadinanza e dei minori, ma ritengo che bisogna anche non escludere quella dei maggiorenni, quella degli adulti. Infatti, si creerebbe una situazione abbastanza difficile da gestire per le stesse famiglie e noi non vogliamo creare sacche di marginalità. Noi vogliamo fare in modo che chi vive nel nostro Paese e lavora nel nostro Paese e paga le tasse, abbia anche la possibilità di sentirsi parte attiva del nostro tessuto sociale.
Scuola. Uciim: non ci saranno tutte le assunzioni annunciate
Sono 7 mila le cattedre contese da oltre 71 mila aspiranti docenti che hanno fatto domanda di partecipare al piano straordinario di assunzioni previsto dal governo. A preoccupare i candidati è il timore di essere costretti a migrare, ovvero essere trasferiti in regioni lontane dalla propria famiglia. Chi rifiuta il posto sarà infatti cancellato dalla graduatoria. Il governo rassicura: la lontananza da casa potrebbe durare al massimo un paio d’anni. Tuttavia, secondo Rosalba Candela, presidente nazionale dell’Uciim, l’Unione Cattolica Insegnanti, il paventato esodo non è la vera emergenza. Paolo Ondarza l’ha intervistata:
R. – Non bisogna fare promesse, dire: “Dura un paio d’anni e poi si rientra”, perché questo potrebbe non verificarsi. Non dobbiamo andare a creare delle illusioni che poi non si possono verificare o speranze che poi non si realizzano. Per noi dell’Uciim, la questione più grave è che non verranno assunti tutti quelli che la legge aveva preannunciato. Questi posti dovranno comparire, come per magia, nei piani per l’offerta formativa. Questi piani saranno predisposti entro i primi di ottobre. Sarà una corsa contro il tempo, quella che si sta facendo. Io credo che ci sarà un po’ di confusione all’inizio dell’anno scolastico.
D. – Particolarmente coinvolti dal rischio di dover migrare sono gli insegnanti del Sud, vista la maggiore disponibilità di posti al nord. Perché questa possibilità di doversi spostare spaventa tanto?
R. – Io non vedo questo come uno spauracchio. Io invece punterei l’attenzione sull’averla la cattedra: ma magari! Non credo che gli insegnanti abbiano tutto questo timore. Che poi si vada a fare la gavetta per qualche anno – saranno due, saranno tre – si fa e poi si rientra, come in tanti abbiamo fatto.
D. – Forse bisognerebbe fare qualche distinguo tra il giovane aspirante docente e invece la persona che è già radicata, magari con figli, che si trova costretta, per due anni, ad allontanarsi dalla famiglia…
R. – Sì, è vero: questo è più duro e più difficile. Però, dove sono questi posti noi ancora non lo sappiamo! Questo è un allarmismo che si è creato prima. Incominciamo a vedere dove sono questi posti e quanti dovranno migrare e chi dovrà migrare. Bisogna vedere dove sono questi posti.
Tendopoli di S. Gabriele. Giovani riflettono sulla famiglia
Al via da oggi, fino al 22 agosto, la 35.ma Tendopoli di San Gabriele dell'Addolorata, dove centinaia di giovani da tutta Italia s’incontreranno al Santuario ai piedi del Gran Sasso, in provincia di Teramo, per riflettere sulla bellezza e il valore della coppia e sui pericoli che la minacciano. L’incontro, promosso dai Padri Passionisti, sarà incentrato sul tema “La famiglia tenda di Dio”. Maria Caterina Bombarda ne ha parlato con padre Francesco Cordeschi, ideatore e anima dell’evento:
R. – Dei due pellegrinaggi che facciamo ogni anno, uno lo facciamo da Morrovalle a Loreto, perché Morrovalle è il luogo dove San Gabriele ha fatto il noviziato, e un altro lo facciamo da Teramo a San Gabriele. Abbiamo avuto una partecipazione immensa di persone, specialmente a quello di Teramo-San Gabriele. Ormai è una tradizione. Migliaia di persone hanno partecipato ed è stata una cosa veramente bella e interessantissima, di notte, vissuta con molto raccoglimento e molta preghiera. Nella tendopoli oggi è una bellissima giornata, ieri pioveva, diluviava. Stiamo con gli occhi rivolti al cielo. Da un punto di vista metereologico, quindi, confidiamo nel Signore. Per quanto riguarda invece la percezione dei giovani, abbiamo una prenotazione di ragazzi che è maggiore di quella degli altri anni. Siamo, quindi, ottimisti anche per il numero dei partecipanti alla tendopoli di quest’anno.
D. – San Gabriele è invocato in tutto il mondo come il Santo dei miracoli. Che cosa dice ai giovani di oggi la sua figura?
R. – Dice che c’è qualcosa che va oltre e va oltre quando uno si pone in una dimensione che io chiamo “umana”, quando fa i conti con la sua umanità. Quando un giovane, infatti, o un uomo in genere, si pone dinanzi alla sua umanità, alla verità del suo essere uomo, percepisce che non è padrone della sua vita, che non può far tutto, percepisce i suoi limiti, e allora si rivolge naturalmente al Signore. San Gabriele si rivolge a Dio, quindi. San Gabriele è uno di quelli che – come tanti giovani – arrivato a 18 anni, con le sue belle speranze, promesse, attese, ha deciso: “Voglio dare la mia vita al Signore”. E in lui c’è quella frase: “Se io avessi continuato una certa vita, probabilmente non avrei avuto la gioia che ho adesso”. Anzi, aggiungeva: “La gioia che provo qua dentro è indicibile”. E poi: “Se le persone fuori sapessero quanto è bello stare dentro un convento, romperebbero i muri pur di entrare”. Quindi, per i giovani credo che sia l’icona di qualcosa che desiderano, ma che fanno fatica oggi a vedere. Si proiettano in questo Santo, quindi, e cercano in tutti i modi di imitarlo, chi ci riesce.
D. – Il tema scelto quest’anno è “La famiglia tenda di Dio”. Quali sono, secondo lei, le attese dei giovani su questo tema?
R. – Il tema è molto attuale, come si può ben capire. I giovani hanno la nostalgia di una famiglia. Molti giovani, infatti, che noi conosciamo ormai, vengono da famiglie che hanno delle problematiche. Il desiderio, dunque, di avere una famiglia dove le certezze possano ritrovarsi è il loro anelito. Sognano un luogo di stabilità, dove la verità che sentono nel cuore si possa collocare. Finora per noi era la famiglia, questa famiglia istituzionalizzata. Era un punto fermo. Oggi gli manca. Per loro la famiglia è un sogno, un desiderio di qualcosa di continuativo, dove possano giocarci la vita, dove possano fidarsi per sempre di qualcosa o di qualcuno – di una donna, quindi, di un uomo – per vivere il loro futuro.
D. – Ha un messaggio finale da dire ai tanti ragazzi e ragazze che domani parteciperanno alla tendopoli?
R. – Sì, quello che io voglio dire con tutto il cuore a questi ragazzi che verranno, che stanno venendo, è che il sogno è possibile, che la speranza è reale. E vorrei ripetere a loro le parole che diceva Mosè a Giosuè, che era un giovane, quando era abbastanza anziano e aveva 120 anni: “Fatti animo, coraggio, non temere, perché avanti a te cammina il Signore; il Dio d’Israele chiude la tua carovana”.
Mons. Quiroga: il ruolo di Papa Francesco per la pace in Colombia
Per mons. Luis Castro Quiroga, arcivescovo di Tunja, e presidente della Conferenza episcopale della Colombia, un incontro a Cuba tra Papa Francesco e esponenti delle Farc, Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, "e' una possibilita' realizzabile". Cosi' si e' espresso il presule che ieri ha guidato la delegazione dell'episcopato che si e' riunita con le Farc nella capitale cubana. Mons. Castro Quiroga - riferisce l'agenzia Ansa - ricordando che una tale eventualita' e' possibile nel corso della visita del Papa nell'Isola caraibica (19 - 22 settembre), ha voluto precisare: "E' una cosa che non dipende da noi e riguarda il governo di Cuba nonche' la chiesa cubana".
Il Papa è informato sui negoziati in corso a L'Avana
L'arcivescovo ha anche sottolineato che il Papa e' informato sui negoziati in corso per la pace in Colombia e sicuramente sarebbe utile per lui avere notizie dai protagonisti delle trattative. Con le Farc, ha aggiunto, "abbiamo parlato su questi temi, in particolare su cosa fare affinche' il desiderio di Francesco, dare un aiuto al raggiungimento della pace, si possa concretizzare in un modo pratico, come per esempio, attraverso un suo delegato". "Tutti vedono positivamente una partecipazione del Papa in questo processo", ha poi osservato mons. Castro Quiroga, il quale ha poi spiegato che: "Quest'idea e' una buona proposta. Non penso che occorra un'intermediazione nostra tra il Santo Padre e le Farc".
L'interesse delle Farc per l'incontro con il Papa
Da parte sua - riferisce il Sismografo, ripreso dall'agenzia Agi - Ivan Marquez, esponente delle Farc, oltre a confermare l'interesse e la richiesta di un incontro con il Papa, ha dichiarato: "Vogliamo salutare di cuore Papa Francesco. Magari ci offra quest'opportunita'. Noi abbiamo un atteggiamento molto positivo e vogliamo far progredire il processo di pace, in particolare con l'appoggio del mondo cattolico. La Chiesa offre tutta la sua esperienza per raggiungere un accordo finale". Prima di concludere, Ivan Marquez, con riferimento all'incontro con la delegazione dell'episcopato, ha raccontato ai giornalisti: "Abbiamo parlato su tutti i temi in discussione. Abbiamo discusso sul bisogno di verita' totale, sulla giustizia e sulla riparazione. Abbiamo parlato anche sul cessate il fuoco bilaterale e definitivo. Infine, abbiamo informato i vescovi sull'avvio di una discussione sul fenomeno dei gruppi armati paramilitari di destra, poiche' senza la fine di questo fenomeno in Colombia non vi sara' mai vera pace". (R.P.)
Chiese d'Asia con il Papa per la lotta ai cambiamenti climatici
Occorrono “soluzioni pratiche” per affrontare l’attuale crisi climatica mondiale: è quanto ha affermato il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, in Myanmar, nell’omelia pronunciata oggi a Bangkok. Nella città thailandese, infatti, il porporato ha presieduto la Messa inaugurale del Seminario di due giorni sui cambiamenti climatici, organizzato dalla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc) e destinato ai rappresentanti ecclesiali provenienti dal Sud-Est del continente.
Allarme per la distruzione della famiglia umana e del Creato
Mettendo in guardia contro i mali che “distruggono la famiglia umana ed il Creato, dono di Dio”, il card. Bo ha invitato tutti gli esponenti della Chiesa cattolica asiatica “ad unire gli sforzi per battersi in favore della tutela dell’ambiente”, così da rispondere anche all’appello lanciato da Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’ sulla cura della casa comune”.
I poveri, vittime costanti delle conseguenze dei cambiamenti climatici
Quindi, il porporato ha ricordato le numerose catastrofi naturali che hanno colpito il Myanmar negli ultimi tempi: dal ciclone Nargis, che nel 2008 ha provocato oltre 150mila vittime ed 800mila sfollati, alle alluvioni delle ultime settimane che hanno colpito più di un milione e mezzo di persone. “La popolazione più povera – ha detto il card. Bo – non conosceva neppure le parole ‘riscaldamento globale’, eppure ne è stata costantemente vittima, negli ultimi dieci anni, a causa dei cambiamenti climatici”. “Siamo ad un crocevia della storia – ha concluso l’arcivescovo – Quelli che prima erano attacchi sporadici al nostro ecosistema ora si sono trasformati in una malattia cronaca del nostro pianeta”. Di qui, l’appello a lavorare insieme, considerata “l’urgenza dell’obiettivo” finale da raggiungere.
Questione climatica, una sfida da affrontare tutti insieme
Sulla stessa linea si è posto anche il presidente di Caritas Thailandia, mons. Philip Banchong Chaiyara, il quale – pronunciando la prolusione di apertura del Seminario – ha ricordato il ruolo che tutti hanno “nello sviluppare strategie per la cura della casa comune”, così che ciascuno “giochi il suo ruolo” nella salvaguardia del Creato. Infine, padre Allwyn D’Silva, segretario dell’Ufficio della Fabc per i cambiamenti climatici, ha espresso apprezzamento per la “crescente consapevolezza” che c’è oggi, a livello sociale, sulle questioni climatiche ed ha ribadito che “sfide simili possono essere affrontate solo restando uniti”. (A cura di Isabella Piro)
Terra Santa: ruspe israeliane al lavoro per il Muro di Cremisan
Sono partite le ruspe israeliane per la costruzione di un muro nella valle di Cremisan, nonostante le proteste della popolazione palestinese e una sentenza della Corte suprema d’Israele che nell’aprile scorso aveva bloccato il progetto al termine di una lunga battaglia legale. A spianare la strada ai cingolati - riferisce l'agenzia Misna - è sopraggiunto, lo scorso 8 luglio, un ‘nulla osta’ della stessa Alta corte precedentemente espressasi in difesa dei palestinesi e per la salvaguardia dell’area, che accoglie, oltre ai terreni di 58 famiglie cristiane, anche un monastero e un convento salesiani, con annessa una scuola elementare.
Inascoltata la voce della Chiesa di Terra Santa
Con la costruzione del Muro, le due strutture salesiane resteranno in territorio palestinese, mentre i terreni delle famiglie cristiane finiranno nella parte israeliana. Forti le proteste della Chiesa di Terra Santa fino a questo momento inascoltata. Israele ha dichiarato che l’espansione della barriera di cemento armato è dovuta a motivi di sicurezza, ma per molti l’obiettivo di Tel Aviv è quello di collegare le colonie – illegali secondo il diritto internazionale – di Gilo e Har Gilo, separandole dalla cittadina palestinese di Beit Jala. (A.d.L.)
Brasile: la Chiesa chiede garanzie per i diritti dei migranti
Le questioni legate alla realtà dei migranti e dei rifugiati sono stati affrontate in una riunione tenutasi il 14 agosto scorso, presso la sede della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb). Il vescovo ausiliare di Brasilia e segretario generale della Conferenza, mons. Leonardo Steiner - riferisce l'agenzia Fides - ha incontrato il segretario nazionale della giustizia e presidente del Comitato nazionale per i rifugiati (Conare), Beto Vasconcelos, insieme alla direttrice dell'Istituto migrazione e diritti umani (Imdh), suor Rosita Milesi, e la segretaria esecutiva del settore per la Mobilità umana della Cnbb, suor Claudine Scapini.
I vescovi chiedono la tutela dei migranti
Tra i temi discussi, la necessità di progressi nelle politiche pubbliche, azioni ed iniziative di accoglienza, e programmi per favorire l'inclusione degli immigrati nella società. Si è inoltre evidenziata la necessità di una maggiore tutela da parte del governo federale dei diritti dei migranti che arrivano dal nord del Paese. I partecipanti hanno infine discusso dell'approvazione di una nuova legge sulla migrazione, che tuteli maggiormente i migranti, la cui presenza è in crescita in Brasile.
Gli haitiani superstiti del terremoto i migranti più numerosi in Brasile
Uno dei gruppi di migranti più numeroso in Brasile è quello proveniente da Haiti, perché dal terremoto del 2010, un gran numero di haitiani hanno cercato rifugio nel Paese sudamericano. Secondo le ultime stime tra il 2010 e l’agosto 2014 sono giunti in Brasile dai 35 ai 40.000 haitiani, la maggior parte dei quali vivono in condizioni di povertà. (C.E.)
Jrs Portogallo: Europa non chiuda le porte ai rifugiati
L’Europa non abbia un “atteggiamento di chiusura” nei confronti del problema dei rifugiati, perché in gioco c’è “la salvezza di vite umane”: questo l’appello lanciato da André Costa Jorge, direttore del Jesuit Refugee Service (Jrs) del Portogallo, in un’intervista rilasciata all’agenzia Ecclesia. Sottolineando come il numero di rifugiati accolto da ogni Paese dell’Ue sia “molto inferiore alle reali necessità”, Costa Jorge lamenta, nel Vecchio Continente, una mancanza di “consenso” sulla gestione delle migrazioni.
Guardare al bene comune ed alla tutela della vita umana
“L’Europa è vista dai rifugiati come un luogo di speranza – continua il direttore del Jrs portoghese – ed in questo contesto il Portogallo ha un ruolo essenziale da svolgere nel sostenere i Paesi in cui si verifica una maggiore pressione migratoria, come l’Italia, la Grecia e l’Ungheria”. Certo, riconosce il responsabile cattolico, la questione dei rifugiati “non è facile” perché riguarda sia “i diritti umani”, sia “la gestione della sicurezza delle frontiere” che ogni Paese affronta “in modo autonomo”. Tuttavia – è l’appello del Jrs – è necessario “un maggiore sforzo verso il raggiungimento del bene comune e la tutela della vita umana”.
Sviluppare maggiore consapevolezza sociale sul tema delle migrazioni
Quindi, il responsabile portoghese nota come “il dibattito sociale” sui rifugiati sia ancora da affrontare nel modo migliore ed è per questo che “spetta alla Chiesa cattolica ed alle organizzazioni che lavorano nel settore delle migrazioni collaborare per sviluppare, nella società, una maggiore consapevolezza” su questo tema.
Dare priorità ad accoglienza e integrazione dei migranti
Infine, Costa Jorge auspica che la situazione dei rifugiati venga affrontata “ad alto livello”, dando priorità “all’accoglienza, all’integrazione sociale, culturale e lavorativa” dei migranti, affinché essi possano, “per quanto possibile, partecipare anche all’economia nazionale” del Paese. (I.P.)
Chiesa argentina: la corruzione ruba la speranza al popolo
“Non si tratta solo di rubare i soldi, ma anche la speranza del popolo", ha affermato mons. Jorge Lozano vescovo di Gualeguaychú e presidente della Commissione per la Pastorale sociale della Conferenza episcopale argentina, in una conferenza pubblica presso l'Università di San Isidro.
Le inondazioni a Santa Fè hanno colpito i più poveri
Mons. Lozano è tornato di nuovo a criticare le "strutture di peccato" che permettono l'esistenza della corruzione istituzionale, del traffico di esseri umani e di quello della droga. Il vescovo ha poi sottolineato che di fronte alle inondazioni che hanno colpito la provincia di Buenos Aires e Santa Fe, “i più poveri sono i primi a subire il ritardo dei lavori pubblici”.
La corruzione rientra nelle strutture di peccato
Mons. Lozano ha poi ribadito: "Quando si parla di corruzione in senso strutturale, si parla di strutture della società preparate per favorire la corruzione. Ecco perché abbiamo parlato di "strutture di peccato". E quando esaminiamo come lavorare nella società, vogliamo promuovere il cambiamento nelle strutture, per non avere più queste situazioni di povertà. Se abbiamo problemi nel soffitto, e poi una forte pioggia, è chiaro che ci sarà l'acqua che goccia dal tetto, quindi mettiamo un secchio. Ma a un certo punto dobbiamo riparare il tetto. Ecco perché costa di più assicurare un cambiamento nelle strutture, per farle diventare strutture di giustizia e solidarietà", ha concluso il vescovo. (C.E.)
Filippine: prime dirette della Tv satellitare cattolica
“TV Maria”, la prima televisione cattolica satellitare delle Filippine, si arricchisce di un’ulteriore importante novità. Il 14 agosto l’emittente, fondata nel 2006 con il patrocinio della Conferenza episcopale e dell’arcidiocesi di Manila, ha lanciato le sue prime trasmissioni in diretta. “Un nuovo passo storico per migliorare l’offerta di questo canale”, così il suo direttore, padre Joselito Jopson, ha annunciato l’evento.
La prima diretta con il card. Tagle
Ad inaugurare le nuove trasmissioni live – riferisce l’agenzia dei vescovi Cbcpnews - è stato il cardinale arcivescovo di Manila Luis Antonio Tagle, che, rivolgendosi agli spettatori dagli studi di “TV Maria” della capitale, ha sottolineato l’importanza cruciale della presenza della Chiesa nei moderni mezzi di comunicazione sociale per annunciare il Vangelo: “Questa à la nostra missione. Attraverso la Sua Chiesa Dio, il Dio della comunicazione che si è rivelato a noi, ci parla e la Sua Chiesa non fa che continuare quello che Egli ha iniziato”, ha detto il porporato. “Qui non si tratta di rating, di pubblicità o di fare operazioni di immagine, ma di fare apostolato”, ha quindi puntualizzato l’arcivescovo di Manila, evidenziando che “con la fede, la speranza e la carità, "TV Maria" si sforza di fare conoscere l’opera di Dio per invitare i suoi ascoltatori a rispondere alla Sua chiamata”. In questo senso, ha continuato, essa non fa che proseguire l’opera svolta dai primi evangelizzatori cristiani con i mezzi a loro disposizione: “I primi cristiani evangelizzavano con i dipinti e gli affreschi che rappresentavano le scene della Bibbia, "TV Maria" fa lo stesso con le nuove tecnologie”.
Nel 2013 l’autorizzazione a trasmettere in chiaro
Fondata con l’obiettivo di annunciare il Vangelo attraverso la televisione, internet e altre piattaforme tecnologiche sul modello della EWTN, la nota catena televisiva mondiale fondata negli Stati Uniti da Madre Angelica, “TV Maria” propone, oltre a programmi liturgici e religiosi, notiziari e programmi di approfondimento su temi di attualità, documentari, telefilm e anche trasmissioni per bambini e giovani. Oltre a produzioni interne, il canale satellitare trasmette contenuti prodotti da altri enti cattolici, tra i quali il Jesuit Communications Foundation e il Family Rosary Crusade. Per fare fronte alla crescente competizione di altri gruppi religiosi nel Paese, nel 2013 “TV Maria” ha aperto all’ipotesi di diffondere i suoi programmi in chiaro, ottenendo dall’Autorità filippina per la Telecomunicazione, la necessaria licenza di trasmissione . (A cura di Lisa Zengarini)
Mons. Galantino non sarà in Trentino per la Lectio su De Gasperi
Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, non sarà oggi a Pieve Tesino per pronunciare la “Lectio degasperiana”. La decisione, riferisce una nota diffusa dall’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei e ripresa dall'agenzia Sir, è “in continuità con l’atteggiamento di riservatezza e di silenzio adottato nell’ultima settimana”. A spiegare la decisione è lo stesso mons. Galantino in un comunicato: “Raggiungo i membri della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi con un saluto cordiale, che estendo a tutti i partecipanti alla Lectio di quest’anno".
Rilettura del pensiero di De Gasperi alla luce dell'attuale momento storico
"L’invito rivoltomi - e da me volentieri accolto - mi ha offerto la significativa opportunità di riprendere tra le mani alcuni scritti del nostro grande Statista e di poterli rileggere alla luce del momento storico che stiamo vivendo: un momento davvero gravido di nuove e ampie possibilità per la società civile come per quella ecclesiale. Vi metto a disposizione il testo che per questa solenne occasione ho maturato. Mi scuso con ciascuno di voi - a partire dagli amici della Fondazione - se questa sera non sono a presentarvelo di persona, come pur sarebbe giusto”.
Parole forti per un'istanza evangelica
“La scelta di affidarlo al prof. Giuseppe Tognon - afferma mons. Galantino - l’ho soppesata con cura al fine di evitare, con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima invano esasperato. Proprio nel soffermarmi su alcune pagine biografiche di De Gasperi, mi sono convinto che la disponibilità a fare un passo indietro a volte sia la via migliore affinché alcune idee di fondo e alcuni valori si accreditino, puntando ad affermarsi. Questa fiducia è rafforzata dalla consapevolezza che, se con parole forti ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno, l’ho fatto per un’istanza che continuo a credere esclusivamente evangelica”. (R.P.)
Malawi: la Chiesa in aiuto degli ipovedenti
La Chiesa cattolica del Malawi ha annunciato la decisione di creare un ufficio specifico, dedicato alla diffusione dei principali documenti ecclesiali in scrittura Braille, così da permetterne la lettura anche agli ipovedenti. A dare l’annuncio è stato Samson Chima, presidente dell’Associazione dei disabili visivi cattolici del Malawi (Avicc), intervenendo, in questi giorni, all’Assemblea generale dell’organismo, svoltasi a Mangochi.
Gli ipovedenti contribuiscono alla vita della Chiesa
“Anche gli ipovedenti devono partecipare alla vita della Chiesa, come tutti gli altri fedeli – ha detto Chima – Essi hanno la capacità e la volontà di contribuire alle varie attività ecclesiali, ma devono affrontare la sfida della mancanza di accesso a strumenti e materiali loro dedicati, in scrittura Braille”, che li mettano in grado di “servire, come ogni altro cristiano, lo sviluppo della Chiesa”. Anche perché, ha sottolineato il presidente dell’Avicc, “a causa dell’impossibilità di leggere e conoscere i valori e la dottrina cattolica”, molti ipovedenti finiscono per scegliere altre confessioni cristiane o religioni diverse.
La soddisfazione dei vescovi del Malawi
Di qui, l’appello affinché ci sia una maggiore attenzione ad una Pastorale loro dedicata. Dal suo canto, padre Henry Chinkanda, membro della Conferenza episcopale del Malawi, ha espresso apprezzamento, da parte di tutti i vescovi, per l’operato dell’Avicc, evidenziando come, grazie a questa Associazione, sia “più facile per la Chiesa cattolica tendere la mano agli ipovedenti del Paese”. “I nostri vescovi sono con voi – ha detto all’Associazione – E siamo tutti lieti di vedere realizzati i vostri progetti”. Nata nel 2013, l’Avicc è composta, attualmente, dai rappresenti delle otto diocesi del Malawi.
Le iniziative della Radio Vaticana per ipovedenti: la lettura della Laudato si’
Da ricordare che anche la Radio Vaticana dedica attenzione ai suoi ascoltatori e navigatori ipovedenti. Due, in particolare, le iniziative in atto: fino a domenica 23 agosto, alle ore 18.30, su Radio Vaticana Italia viene trasmesso l'adattamento radiofonico dell’Enciclica di Papa Francesco, intitolata “Laudato si’ sulla cura della casa comune”: 14 puntate che ripropongono in forma integrale la lettura del testo arricchito da voci, suoni e suggestioni tipiche dell’ambiente naturale. L’iniziativa sarà riproposta, poi, settimanalmente, a partire dal 2 settembre fino al 2 dicembre 2015, tutti i martedì alle ore 21.00, in preparazione al Giubileo straordinario della misericordia indetto da Papa Francesco.
Accesso facilitato su web
Per quanto riguarda, invece, gli utenti del sito web www.radiovaticana.va , si ricorda che dai primi di agosto sono stati aggiunti dei link per facilitarne l’accesso ai lettori ipovedenti. È infatti sufficiente digitare il tasto Tab della tastiera e in alto a sinistra appare l’accesso diretto ai contenuti della pagina, oppure alla navigazione nel menu del sito, così da raggiungere in modo semplificato le varie categorie: Papa Francesco, Vaticano, Chiesa, Mondo ecc. Attualmente, i link sono disponibili sulle pagine in italiano ed in inglese. (I.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 230