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Sommario del 08/08/2015

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Presto Beato, mons. Flaviano Michele Melki, martire sotto l'Impero Ottomano

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La Chiesa avrà presto un nuovo Beato: si tratta del vescovo siro-cattolico Flaviano Michele Melki, ucciso in odio alla fede cento anni fa a Djézireh, nell'attuale Turchia, durante le persecuzioni avvenute nel periodo dell'Impero Ottomano. Papa Francesco, infatti, dopo aver incontrato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato il dicastero a promulgare il decreto riguardante il suo martirio. Il Servo di Dio mons. Flaviano, al secolo Giacomo, apparteneva alla Fraternità di Sant’Efrem ed era vescovo di Djézireh dei Siri. Nato nel 1858 a Kalaat Mara (attuale Turchia), venne assassinato il 29 agosto 1915. Sulla figura del prossimo Beato ascoltiamo il postulatore della Causa, padre Rami Al Kabalan, intervistato da Sergio Centofanti

R. – Lui ha giocato un ruolo fondamentale nell’incoraggiare la gente nel difendere la propria fede nelle difficoltà dell’epoca, durante le persecuzioni dell’Impero Ottomano. Viveva in estrema povertà, ha venduto pure i suoi paramenti liturgici per aiutare i poveri a combattere contro la miseria; girava in tutte le parrocchie, svolgeva il suo apostolato con zelo. Era figlio di una famiglia siro-giacobita e si è convertito al cattolicesimo prima della sua ordinazione sacerdotale.

D. – C’è qualche ricordo particolare di mons. Flaviano?

R. – C’è una sua frase, che sempre mi ha toccato il cuore. Loro cercavano di convertirlo all’Islam e lui diceva: “Difendo la mia fede fino al sangue”.

D - Che cosa ci dice questo martirio oggi?

R. – Dopo 100 anni, proprio nel suo centenario, noi cristiani di Oriente subiamo quasi le stesse persecuzioni, anche se in modo diverso… Per cui la figura di questo martire ci dà il coraggio di difendere la nostra fede e vivere la nostra fede. Non dobbiamo avere paura, malgrado le circostanze difficili di tutti i cristiani dell’Oriente, dell’Iraq, della Siria, per quello che sta succedendo. Perciò personalmente credo che la beatificazione abbia veramente una importanza ecclesiale molto forte proprio nel contesto di oggi. La figura del martire non muore, rimane viva nella Chiesa, nella memoria dei fedeli: noi siamo tutti chiamati a vivere il martirio in modi diversi.

D. – La Chiesa siro-cattolica, in questo momento, sta soffrendo molto…

R. – E’ la più piccola Chiesa unita al Successore di Pietro. Siamo attaccati in Iraq, a Mosul, la cui comunità cristiana ormai non esiste più; ad Aleppo e adesso la situazione di Al Qaryatain, la diocesi di Homs… Siamo veramente la Chiesa più ferita! Stiamo subendo persecuzioni dappertutto…

D. – Quali sono le vostre speranze?

R. – Speriamo veramente che il Signore illumini tutti i potenti di questo mondo, quelli che hanno in mano il potere, perché realizzino la pace!

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Mons. Zenari: Papa vicino a sofferenze siriani, urgente ricostruire convivenza

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La Siria è nel cuore di Papa Francesco che è costantemente aggiornato sulla drammatica situazione nel Paese. Ultimo evento tragico in un conflitto che sembra senza fine è stato l’attacco dei jihadisti dell’Is alla cittadina di Al Qaryatain con il rapimento di decine di civili inermi, donne e bambini, tra cui numerosi cristiani. Un evento ancora più triste considerando che questa città siriana era, fino a pochi anni fa, un esempio di convivenza tra cristiani e musulmani, come sottolinea il nunzio a Damasco, mons. Mario Zenari, raggiunto telefonicamente in Siria da Alessandro Gisotti

R. – Mi è venuto alla memoria un bel ricordo che ho di questa cittadina, Al Qaryatain, che è sulla strada che da Homs va verso Palmira. Questo ricordo risale al settembre del 2010 quando fui invitato come nunzio apostolico all’inaugurazione del restauro di un’antica chiesa del VI secolo: il monastero di Mar Elian. È stata una bella festa: tutta la comunità partecipava, c’è stata sempre una bella convivenza tra la comunità cristiana e quella musulmana. E ricordo che erano presenti il parroco, padre Jacques Murad, e padre Paolo Dall’Oglio, che si è offerto di tradurre la mia omelia dal francese all’arabo. Quindi ero accompagnato da questi due carissimi padri dei quali vogliamo vedere la liberazione quanto prima… Questa cittadina era un po’ anche un simbolo di una buona convivenza, come un po’ in tutta la Siria, prima del conflitto. E allora il mio desiderio, pensando al restauro che abbiamo festeggiato qualche anno fa lì ad Al Qaryatain, e la mia speranza è quella di avere ancora la possibilità di celebrare, festeggiare, i restauri delle chiese danneggiate un po’ dappertutto in Siria, dei luoghi di culto; ma soprattutto arrivare un giorno - quanto prima - a vedere il restauro di questo mosaico vivente di etnie che era la Siria, a vederlo restaurato com’era prima…

D. – Davvero, come diceva lei, la Siria per tanto tempo è stato proprio questo: quasi un esempio anche per gli altri popoli della Regione?

R. – Sì, direi un esempio...  Ricordo i discorsi del Santo Padre in occasione dello scambio delle presentazioni delle credenziali dell’ambasciatore di Siria presso la Santa Sede, veniva sottolineato quest’aspetto: questa convivenza esemplare. Direi che l’impegno dei cristiani è di fare come sempre da ponte in questo momento di divisione nel Paese, di odi, di vendette… Direi che la caratteristica dei cristiani dovrebbe essere questa, oggi e domani: fare da ponte.

D. – La vicinanza del Papa è costante, nella preghiera e anche nel mettere – come dire – in primo piano la situazione di questi popoli, purtroppo a volte dimenticati anche dalla cosiddetta “comunità internazionale”…

R. – Per mia conoscenza ed esperienza, il Santo Padre segue continuamente la situazione, si informa, è aggiornato. Nell’ultima udienza che mi ha concesso ho potuto constatare quanto sia presente questa sofferenza per quanto riguarda la Siria. Il Papa la porta nel cuore questa sofferenza di tutti, della Siria e poi del Medio Oriente naturalmente: la sofferenza dei cristiani, come quello che sta accadendo in questi giorni. Non solo il Papa prega, richiama la comunità internazionale, ma sostiene anche tutte quelle opere che è possibile sostenere, che la Chiesa ha la possibilità di sostenere. Dunque, il Santo Padre richiama la comunità internazionale: non solo prega, ma c’è anche l’opera concreta per questa povera gente.

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Tweet: siamo tutti peccatori. Lasciamoci trasformare da misericordia di Dio

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Il Papa ha lanciato un nuovo tweet dall'account @Pontifex: "Siamo tutti peccatori. Lasciamoci trasformare dalla misericordia di Dio".

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Francesco nomina il prof. Soccorsi suo medico personale

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Papa Francesco ha nominato suo medico personale il prof. Fabrizio Soccorsi. 73 anni, romano, il prof. Soccorsi è primario emerito di epatologia dell'Ospedale San Camillo di Roma e consulente della Direzione di Sanità ed Igiene del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.

Laureato in Medicina e Chirurgia all'Università "La Sapienza" di Roma nel 1968, ha ottenuto l'anno successivo l'abilitazione all'esercizio della professione. Ha svolto un'ampia attività professionale e di docenza, fino agli incarichi di primario del Reparto di Epatologia e direttore del Dipartimento Malattie del Fegato, Apparato Digerente e Nutrizione e del Dipartimento Medicina Interna e Specialistica dell'Ospedale San Camillo Forlanini di Roma.

Ha insegnato Immunologia presso la Scuola Medica Ospedaliera di Roma e della Regione Lazio, tenuto Corsi di aggiornamento sulle patologie del fegato presso l'Ospedale San Camillo ed è stato titolare di Cattedra di Medicina Clinica e Farmacologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università "La Sapienza". Ha inoltre sviluppato diverse collaborazioni e consulenze nel Settore Pubblico, con oltre un centinaio di pubblicazioni e contributi scientifici. E' perito della Consulta Medica della Congregazione delle Cause dei Santi.

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Nomina inviato speciale a consacrazione cattedrale della diocesi francese di Créteil

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Papa  Francesco ha nominato il Card. André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi, Suo Inviato Speciale alla consacrazione della nuova cattedrale della diocesi di Créteil (Francia), che avrà luogo il 20 settembre 2015.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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Identità da rispettare: il Papa al Movimento eucaristico giovanile.

In prima pagina, sulla cripta bizantina di Carpignano Salentino, un editoriale di Ferdinando Cancelli dal titolo "L'oriente che è in noi".

Nuovi romanzi religiosi: Lucetta Scaraffia sul ritorno del cristianesimo nella narrativa contemporanea.

Nel mirino dell'Is: almeno sessanta cristiani tra gli oltre duecento rapiti dai jihadisti nella città siriana di Al Qaryatain.

Unità a rischio: nuovo appello dei vescovi maroniti a colmare il vuoto istituzionale in Libano.

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Oggi in Primo Piano



Asia Bibi scrive dal carcere: continuate a pregare per liberarmi dal buio

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Un messaggio di fede e speranza: è l’ultimo appello lanciato dal carcere da Asia Bibi la donna pakistana cristiana, madre di 5 figli, condannata a morte con false accuse di blasfemia contro Maometto e in carcere ormai da sei anni. Ad oggi, dopo la prima sentenza d’appello, nel terzo e definitivo grado di giudizio, la pena è stata sospesa e il caso è al riesame della Corte Suprema che ha ammesso il ricorso della difesa. In attesa della prossima udienza Asia Bibi e la sua famiglia continuano a pregare e a chiedere il sostegno internazionale. Il servizio di Gabriella Ceraso: 

Diffuso attraverso la rete CitizenGO, che si batte sul web per la difesa dei princìpi non negoziabili e le libertà fondamentali dell’uomo, l’ultimo commosso messaggio di Asia Bibi è arrivato a quanti, cristiani e non, nel mondo si stanno mobilitando per il suo caso.” Una situazione” - la definisce“ - in cui sono stata ingiustamente coinvolta”. “Non ho parole per esprimere la mia gratitudine”, scrive la cinquantenne, “perché avete fatto conoscere la mia storia. So che mi siete vicini e Dio Onnipotente è pronto a rispondere alle vostre preghiere e a tutti gli sforzi che state continuando a fare per me e per la mia famiglia”. ”Non ho commesso nessun reato”, ripete ancora una volta. “Non avrei mai pensato che la mia famiglia dovesse affrontare una vicenda così terribile, specialmente le mie figlie Esha e Eisham, che allora erano molto piccole”. Ma la speranza prevale sui timore e le fa dire: “Presto sarò di nuovo in mezzo a voi, per la grazia del Signore. Non vedo l’ora di sentire di nuovo il sole e il freddo, di vedere il cielo aperto, le stelle e la luna”. Quindi l’appello: ”Vi prego di continuare a pregare per liberarmi da questo buio, così potrò stare con voi alla luce del sole”. Parole vere di un “confessore della fede” come la definisce, Sara Fumagalli, presidente onorario dell’Associazione pakistani cristiani in Italia e coordinatrice della organizzazione di beneficenza "Umanitaria Padana Onlus":

R. – Sì, Asia Bibi è una donna eccezionale, che incarna quello che ha il popolo cristiano del Pakistan: da un lato, una fede incrollabile e, contestualmente, anche una capacità di lotta umana pacifica in ciò che Dio è, cioè verità e giustizia. Quindi non si fanno piegare dalle aggressioni, dalle ingiustizie, dalla paura.

D. – Voi siete riusciti a farle arrivare una statua della Madonna in carcere. Sapete quanto è stato importante per lei questa presenza, visto che non ha altro per pregare?

R. – Questa statuetta non è potuta rimanere in carcere con lei, ma ha potuto farle visita come una vera Madonna pellegrina di Fatima, e Asia Bibi si è potuta intrattenere a pregare davanti a questa statua, in silenzio. Quindi, sicuramente questo è stato di grande conforto per lei. Asia Bibi è stata sempre sorretta dalla preghiera, sin dall'inizio della sua vicenda. Quando lei parla del buio, che vive nella cella, sta parlando di una esperienza reale, perché la sua cella, per ragioni di sicurezza è isolata e senza finestre. Insomma, questi sono veramente sentimenti che nascono da un’esperienza di dolore profonda, seppur sempre sorretta dalla fede. Bisogna dunque continuare a pregare per questa donna: i pericoli non sono passati, anzi noi sappiamo che in Pakistan tanti cristiani vengono uccisi, anche dopo la loro assoluzione.

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Emergenza migranti in Grecia. L'Onu: situazione vergognosa

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Atene chiede aiuto all’Unione Europea per l’emergenza immigrati. Nel solo mese di luglio sono arrivati in Grecia quasi 50 mila profughi e il premier Tsipras domanda: "E' l'Ue della solidarietà o quella che cerca di proteggere i suoi confini?". La cosiddetta “rotta greca” è in costante crescita. Profughi arrivano dal Medio Oriente e dall'Africa in Turchia per poi raggiungere le vicine isole greche nel Dodecaneso. I migranti sono distribuiti in nove centri di accoglienza. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha parlato di “situazione vergognosa”, mentre l’ong Save the Children denuncia la mancanza di cibo e di condizioni sanitarie sufficienti, come spiega il direttore generale della sezione italiana Valerio Neri, al microfono di Michele Raviart: 

R. – Abbiamo visto la situazione estremamente drammatica: migliaia di persone senza nessuna protezione né fisica né psicologica. Per fisica intendo senza tende sotto le quali ripararsi, senza acqua da bere, senza vitto né alloggio, senza alcuna protezione, psicologicamente esposti a paura, fame… E visto che noi siamo “Save the Children” la preoccupazione per i bambini è massima.

D. – Quanti sono i bambini nei centri di accoglienza e che cosa rischiano?

R. – Ci sono migliaia di bambini spesso accompagnati dalle famiglie. Invece è minore il numero dei non accompagnati: per esempio in giugno sono arrivati 4.800 bambini, ma soltanto 86 non accompagnati. Inoltre – aggiungo – c’è una mancanza totale di igiene, probabilità altissima di dissenterie e di infezioni: penso alla scabbia o ad altre forme di malattia che si trasmette per contagio di pelle, di sporcizia, dato che sono persone che non si lavano da chissà quanti giorni. C’è una situazione drammatica: non saprei come altro definirla!

D. – Da dove arrivano i profughi che secondo le vostre stime potrebbero diventare 200.000 entro la fine dell’anno?

R. – In gran parte sono siriani, poi del Corno d’Africa, Somalia ed Eritrea. E c’è anche una componente afghana abbastanza importante. Su 75.000 persone, 16.000 nel nostro assessment erano afghani, e poi una parte Somalia e una parte Eritrea; ma 44.700, quindi quasi il 60% e più, sono siriani.

D. – Nel Dodecaneso ci sono nove centri di accoglienza: voi li avete definiti “centri di detenzione”. Perché una definizione così dura?

R. – Un posto in cui non si ha protezione, non si hanno i generi alimentari e igienici di base, non si può uscire, si è costretti a stare, non c’è nessuna possibilità di scappare: bambini, famiglie, messi vicino ad adulti estranei, vivendo in una situazione di così grande confusione e bisogno… Non saprei come altro definirlo se non detenzione!

D. – In questi giorni distribuirete kit igienici, pannolini, cibo: di che cosa c’è bisogno?

R. – L’Europa deve intervenire quanto prima. Noi ovviamente stiamo intervenendo: arriveremo in Grecia - ci stiamo organizzando - per portare ogni tipo di soccorso possibile, però, per quanto lo faccia “Save the Children” o per quanto possano tentare di farlo altre agenzie delle Nazioni Unite o consimili, è il governo greco, e anche l’Europa dietro al governo greco che deve dare almeno un sollievo a questa situazione! Stavo per dire una “soluzione”, ma dato l’egoismo estremo in cui - tutti noi vediamo - si dibatte l’Europa, io sinceramente in questo momento la soluzione non credo che l’Europa la troverà.

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Nuovi attentati a Kabul mentre cresce la miseria

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Una serie di attentati ha insanguinato negli ultimi giorni le strade di Kabul, riportando sotto i riflettori la drammatica situazione dell’Afghanistan. Almeno 35 i morti, in attacchi suicidi contro postazioni militari e forze di polizia da parte dei talebani e circa 400 i feriti. Un conflitto a bassa intensità in cui i civili pagano un prezzo altissimo, tanto che il 2015, denuncia un rapporto delle Nazioni Unite, si candida a diventare l’anno più pericoloso per gli afghani dal 2008. Sarebbero infatti oltre 1500 i civili morti e 3300 i feriti in soli sei mesi. Giacomo Zandonini ha raccolto la testimonianza del presidente di Fondazione Pangea onlus, Luca Lo Presti, appena rientrato da Kabul: 

R. – La situazione nella capitale, nello specifico, non è particolarmente pericolosa, al di là del fatto, come si è visto ieri, che gli attentati non si possono mai escludere. Però, è vero che l’Afghanistan è un Paese che dal 2008 ad oggi ha visto un graduale peggioramento della situazione in termini di guerra e occupazione dei territori da parte dei talebani. La cosa che ho constatato, essendo a Kabul proprio in questi giorni, è che i normali spostamenti fuori città, che solitamente facciamo, verso alcune province come Jalalabad piuttosto che Bamiyan, oggi non sono percorribili in auto, perché le strade sono presidiate appunto dai posti di blocco dei talebani. Mi piacerebbe, però, anche ricordare che l’Afghanistan, in ogni caso, riporta dati agghiaccianti per quanto riguarda la mortalità materna e infantile, che è una tra le più alte al mondo – è il secondo Paese con la più alta mortalità dei bambini dai 0 ai 5 anni – per cui, al di là delle condizioni di guerra, le condizioni della quotidianità della vita non sono per niente migliorate, malgrado sia stato affermato da tutti i Paesi del mondo di voler portare la pace in quel Paese e di portare benessere... Considerate che sono stati investiti 600 miliardi di dollari dal 2001 ad oggi e Kabul, che è la capitale, è una città che ancora non ha le strade asfaltate e le fognature.

D. – Proprio le donne con cui voi lavorate quotidianamente stanno pagando un prezzo altissimo, ma allo stesso tempo sono un agente di cambiamento. Qual è il vostro lavoro e a cosa mira?

R. – La Fondazione Pangea ha cominciato nel 2002 proprio dalle donne e ha cominciato con 5 donne. Oggi abbiamo parecchie decine di migliaia di beneficiarie dei nostri progetti. C’è una capacità di ribellione, di rivoluzione da parte delle donne notevolissima. In questo ultimo nostro giro di monitoraggio sul progetto ho avuto comunque modo di vedere donne che ormai non portano più il burka o donne presentatrici in televisioni anche un poco più integraliste: le televisioni pashtun o quelle dei tagiki, dei mujaheddin. Diciamo che ci sono donne presentatrici nei tg e nelle trasmissioni. Poco alla volta la società cambia. Dovrebbe essere la pace il motore che dà la costante sul cambiamento, ma questo si costruisce giorno dopo giorno.

D. – Cosa significa per milioni di afghani convivere quotidianamente con la violenza, con il rischio di attentati, con l’insicurezza completa anche dal punto di vista economico?

R. – E’ proprio questo che si può notare in questi giorni. Tra il 2001 e il 2008 c’è stata una costante crescita verso l’ottimismo: si vedevano ristoranti, anche italiani, e si vedevano piccoli centri commerciali sorgere nella capitale, e quant’altro. Oggi, le speranze che erano state riversate anche nelle elezioni di questo presidente, che ha avuto molto consenso popolare, Ashraf Ghani, sono disilluse, perché poi i presidenti afghani non hanno grande possibilità di agire se non ci sono accordi internazionali forti. Quindi, la popolazione è in un costante barcollamento tra una fame, che prima non c’era – ho visto persone oggi, che non vedevo da tantissimi anni, mangiare solo zampe di capra bollite con una cipolla – e l’insicurezza del dormire. L’attentato che c’è stato ieri [venerdì 8 agosto, ndr] che va a colpire la popolazione civile di notte, in una zona altamente popolata, è un segnale forte del fatto che non c’è sicurezza. Per cui è difficile anche continuare a dare segnali di speranza, in questa crisi totale. Una cosa è certa: le scuole pubbliche non hanno i soldi per gli stipendi degli insegnanti e hanno solo tre ore di lezioni al giorno. Almeno noi con le nostre piccole scuole riusciamo a dare un segnale differente, a dare ogni giorno una costante presenza e attenzione per i bambini e per le donne, che possono così sperare in un futuro migliore.

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L'arcivescovo di Accra: la povertà dilaga, colpiti soprattutto i giovani

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Per riflettere sul Vangelo, sulla santità della vita, sulla purezza del matrimonio, così come sulla dignità della sessualità umana, la Conferenza episcopale del Ghana ha organizzato ad Accra un convegno dal titolo “Promuovere i valori della vita e della famiglia di fronte all’attuale cultura della morte”. Ad accompagnare la conferenza anche una marcia in favore della vita e della famiglia che oggi percorre le vie principali della città. Quali le sfide, per la Chiesa soprattutto? Festus Tarawalie lo ha chiesto all’arcivescovo di Accra, mons. Gabriel Charles Palmer-Buckle:

 

R. – La sfida principale è la povertà che sta dilagando dappertutto. Povertà economica, povertà finanziaria, che sta portando anche verso una povertà culturale, spirituale, una povertà nelle scelte politiche, purtroppo anche a causa della pressione dei donatori internazionali e dei vari gruppi sociali del mondo. Dobbiamo dire che, per ora, anche se questo è un Paese molto, molto ricco e molto dotato da Dio nelle risorse minerali, nelle risorse umane, nelle risorse spirituali e anche religiose, purtroppo per il malgoverno si vede la crescita della povertà, della miseria, soprattutto dei giovani. Queste sono alcune delle sfide che dobbiamo affrontare.

D. – Come Chiesa locale come intendete affrontare questi problemi?

R. – Abbiamo già cominciato a studiare la situazione per cercare di vedere quale sia il ruolo e il compito della Chiesa, in particolare il compito profetico della Chiesa, il compito di educare le persone alla vita, il compito di aiutarle a prendere la propria vita nelle proprie mani. Questo convegno riunisce insieme tutte le componenti della Chiesa e della società: i giovani, i laici, i rappresentanti delle leadership politiche e delle leadership religiose, e ci permette di vedere come potremo, in sinergia, far fronte a questa cultura della morte. Veramente l’africano è portato alla cultura della vita e dobbiamo aiutare l’africano a vivere questa cultura della vita.

D. – Recentemente il Secam, che riunisce le Chiese del continente, ha proclamato l’”Anno africano della riconciliazione”. Quali sono le ragioni?

R. – Il Papa emerito Benedetto XVI, nell’“Africae Munus”, cogliendo gli indizi e le opinioni dei diversi vescovi e padri africani, durante il Sinodo sull’Africa del 2009, aveva inserito questa sua esortazione: la proposta di indire un anno giubilare della riconciliazione nel continente africano. E nel 2013, quando ci siamo incontrati alla XVI Assemblea Plenaria del Secam, a Kinshasa, abbiamo deciso di cominciare la celebrazione il 29 luglio di quest’anno, e si concluderà il 29 luglio dell’anno prossimo. Questo è l’“Anno giubilare della riconciliazione continentale”. E’ stata decisa proprio la data del 29 luglio perché è la Giornata del Secam: nacque il 29 luglio del 1969 a Kampala ed abbiamo dichiarato per tutto il continente che il 29 luglio è la Giornata del Secam. Per questo l’abbiamo inaugurato in questa giornata. Abbiamo chiesto, nelle indicazioni date, ai seminari di organizzare degli incontri, dei convegni e degli studi a livello delle Conferenze episcopali nazionali per vedere quali siano stati, in quel Paese, gli indizi per una non riconciliazione fra la gente. Quindi, all’interno di ogni diocesi e di ogni nazione, la leadership della Chiesa deve cercare di capire quali siano state le origini del peccato, della divisione, della disunità, cercando la strada per arrivare alla riconciliazione in Cristo. La celebrazione di questo anno giubilare è un anno di preghiera per chiedere a Dio che ci aiuti ad essere riconciliati gli uni con gli altri, tra i vari gruppi etnici, le varie tribù e tra le varie nazioni, laddove vi siano dei problemi, e quindi a livello continentale.

D. – Quali conflitti, a suo parere, necessitano una profonda riconciliazione, a quali il Secam vuole dare particolare attenzione?

R. – Abbiamo veramente bisogno di cercare la riconciliazione tra i gruppi etnici. Purtroppo lo abbiamo visto in Rwanda, lo vediamo oggi in Burundi e lo vediamo anche in altri Paesi, in cui magari non ci sono state guerre civili ma dove c’è questo attrito tra i vari gruppi etnici. Dobbiamo cercare di trovare la soluzione a questo. Purtroppo anche gli uomini politici, molte volte, sono fautori di conflitti tra i vari gruppi etnici. Questo accade quando un gruppo etnico comincia ad assumere un politico potere contro gli altri. 

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P. Cantalamessa: diaconi siano volto della misericordia tra la gente

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I diaconi una risorsa per la Chiesa di oggi nei diversi servizi offerti ai fedeli e che con le loro famiglie possono offrire una preziosa testimonianza. E’ quanto è stato sottolineato al XXV Convegno Nazionale dei diaconi in Italia sul tema “La famiglia del diacono scuola di umanità” in preparazione del prossimo Sinodo della Famiglia. Iniziato mercoledì a Campobasso, si è concluso oggi con una relazione di padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontifica. Tiziana Campisi gli ha chiesto quali contenuti ha sviluppato nella sua relazione “Il diacono servitore di Cristo”: 

R. – Ho insistito sul fatto che il diacono, prima di essere servo del parroco e degli uomini, è servo di Gesù Cristo ed è proprio servendo Cristo che serve i fratelli. E poi ho sviluppato alcuni aspetti particolari dell’attività dei diaconi permanenti, del loro ruolo caritativo, del prossimo Anno della Misericordia, del loro ruolo come tramite della misericordia, volto della misericordia della Chiesa presso la gente.

D. – Quella del diacono è una figura antichissima, ma poco nota. Oggi che cosa può offrire alla comunità?

R. – E’ un’istituzione che è stata assente dalla vita della Chiesa per tanti secoli e reintrodotta dal Concilio Vaticano II e quindi è un’istituzione in fase di rodaggio. Non bisogna meravigliarsi che ancora non abbia trovato tutto l’assetto che - per esempio - ha il clero, che hanno i presbiteri! Però si tratta di una forza dinamica, una novità benefica per la Chiesa, perché - con la scarsità dei sacerdoti sempre più in aumento - questo ufficio del diacono, come rappresentate della Chiesa, annunciatore della Parola, membro attivo nelle opere caritative della Chiesa, è una figura indispensabile. Si parla in genere della promozione del laicato, ma io credo che i diaconi permanenti siano l’elemento di spicco, l’elemento qualificante di questa partecipazione attiva dei laici, pure se loro – a dire la verità – appartengono più al clero come categoria che non ai laici, anche se la loro vita di sposati li pone a tutti gli effetti a livello dei laici. Quindi è un segno dei tempi questo: la promozione dei laici è frutto anche questo del Vaticano II.

D. – Come guardare ai diaconi e come fare riferimento a queste figure nel contesto, appunto, delle comunità cristiane?

R. – Questo dipende un po’ e varia da parte a parte. Io ho più esperienza all’estero che non con il diaconato qui in Italia. In alcuni Paesi è molto sviluppato e i diaconi hanno una funzione, alle volte, di primo piano; in certi Paesi, ad esempio, sono impegnati nell’ecumenismo e sono spesso tramite di dialogo con cristiani di altre confessioni. Molto, in questo, dipende dalla diocesi, dai sacerdoti e dai parroci nel dare loro spazio. Un lamento che raccolgo spesso è che molte volte i sacerdoti fanno fatica a dare spazio, ad assegnare loro dei compiti che non siano semplicemente quelli iniziali delle mense, ma anche compiti – come appare nella figura di Santo Stefano, il protodiacono – di annuncio della Parola: Santo Stefano fu eletto diacono, ma in realtà negli Atti degli Apostoli appare come un uomo predicatore, predicatore di Gesù. Quindi credo che da parte del clero occorre dare spazio e non essere avari nel delegare e nel demandare cose che possono forse fare anche meglio di noi i diaconi permanenti; da parte loro io direi invece che occorre evitare un certo spirito di indipendenza, prendere iniziative personali e non clericalizzarsi, perché c’è anche il pericolo di clericalizzarsi e quindi diventare un doppione del clero, anziché una figura nuova.

D. – Il convegno che lei ha chiuso a Campobasso ha avuto come tema “La famiglia del diacono. Scuola di umanità in preparazione al Sinodo ordinario sulla famiglia”. Quale riscoperta può aversi del diacono all’interno del Sinodo sulla famiglia?

R.- Credo che questo sia davvero un aspetto qualificante della loro missione nella Chiesa: quello di vivere in prima persona i problemi della famiglia, che il clero cattolico – per il suo stato celibatario – conosce solo, diciamolo pure, dai libri. Quindi, i diaconi permanenti – ma non solo, perché c’è tutto il laicato cattolico che può naturalmente portare un contributo su questo campo – hanno un posto speciale nella Chiesa e giustamente si è insistito sulla famiglia del diacono, che rappresenta la novità perché ha un piede nella Chiesa e un piede nella società e nella vita, grazie alla famiglia. Perciò può essere un ponte, può essere il tramite attraverso cui i problemi della famiglia giungono a conoscenza della Chiesa: i problemi veri, reali, concreti, spiccioli e non quelli teorici. Mi auguro che nel Sinodo della famiglia ci siano dei laici che possano portare il loro contributo. Il fatto stesso del diacono sposato, che coltiva la famiglia, che si presenta alla società come uno che condivide i problemi della famiglia di oggi, è una testimonianza grandissima in favore della famiglia e dice che ci può essere una famiglia sana, che vive fino in fondo l’esigenza del Vangelo pur vivendo pienamente la vita di coppia.

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Giardini Vaticani: il laser per restaurare sculture e fontane

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Quasi 600 opere d’arte che abbelliscono i Giardini Vaticani, tra cui fontane e statue, torneranno al loro originario splendore grazie alla tecnologia del “laser ad olmio” impiegata tra l’altro in chirurgia per la rimozione dei calcoli renali. Sulle opportunità offerte da questa metodologia, Grazia Serra ha intervistato il prof. Ulderico Santamaria, responsabile del Laboratorio di Diagnostica dei Musei Vaticani: 

R. – La tecnica del laser ha la sua giustificazione nelle proprietà del raggio laser: il raggio laser è una luce coerente, diversa dalle nostre lampadine proprio perché trasporta molta energia, che può essere usata proprio per le attività di rimozione delle sostanze sulle superfici: permette quindi di fare una pulitura senza danneggiare il materiale sottostante. Nasce negli anni Settanta. Da molti anni è utilizzata soprattutto per la pulitura delle opere interne, noi abbiamo pensato di usarla in esterno.

D. – Può dirci quali sono le opere d’arte presenti nei Giardini Vaticani che saranno poi restaurate proprio con questa tecnica del laser?

R. – Molte delle opere, sono circa 570 tra sculture e fontane, hanno bisogno della pulitura con sistema fisico: il laser lavora, appunto, con un principio fisico e poi si trasforma in interazione chimica perchè è molto attivo sulla patina biologica e sulle concrezioni.

D. – E’ la prima volta che questa tecnica viene utilizzata sulle opere d’arte dei Giardini Vaticani?

R. – Sì, è la prima volta. Proprio perché il progetto di recupero, conservazione e restauro delle opere ha questa sensibilità verso il rispetto della storia e della conservazione e questo ovviamente in collaborazione con Direzione Lavori, Direzione Musei e il restauratore, che è il maestro Devreux, che si sta occupando di tutto il progetto e con il quale condividiamo tutte le scelte e con il quale abbiamo deciso di trovare sempre nuove strade per assicurare la trasmissione di questo bene inestimabile, con la sua storia e le sue grandi fattezze artistiche.

D. – Quali sono i principali vantaggi del laser?

R. – Il laser aiuterà molto anche per i tempi perché è molto veloce e non si impiegano sostanze chimiche, che nei Giardini non sarebbero certo rispettose dell’ambiente e anche degli operatori o dei visitatori o di chi frequenta i Giardini Vaticani, che non dovrà respirare sostanze tossiche. Tutto verrà fatto in grande sintonia con l’ambiente.

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A Festival Locarno, "Genitori" film sulla famiglia tra speranze e fragilità

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Sarà presentato lunedì prossimo nella sezione Fuori concorso del Festival del Film di Locarno il documentario di Alberto Fasulo "Genitori": come nelle famiglie si affrontano dolore e difficoltà, ma anche si coltivano speranze, quando ogni giorno ci si confronta con la disabilità dei propri figli. Un film importante e necessario. Il servizio del nostro inviato a Locarno, Luca Pellegrini

Dodici madri e due padri sono obbligati a confrontarsi con la disabilità dei loro figli. Si riuniscono ogni quindici giorni per mettere a nudo tutte le loro paure e condividere esperienze e speranze. Fanno parte dell'Associazione "Vivere insieme", nata nel 1996 a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone. Alberto Fasulo, sensibile documentarista, le ha conosciute e ne è rimasto a tal punto coinvolto da voler girare un film su di loro e soltanto con loro, "Genitori", che sarà nelle sale italiane in ottobre. Il regista ne spiega le ragioni.

R. - Facendo una riflessione con la mia produttrice abbiamo sentito l’importanza di questo tema e di questo aspetto del mondo della disabilità del quale non si parla mai. Dietro ai disabili c’è un contesto che si muove.

Non è stato facile impostare il lavoro nel gruppo.

R. – Si è discusso molto, all’inizio, sul fatto che loro non volevano apparire assolutamente egocentriche. Volevano mettere in mostra la loro storia personale in qualche modo. Quindi all’inizio abbiamo riflettuto su cosa sia un film documentario, sul mezzo e sull’opportunità che si poteva avere facendo un lavoro del genere. Nell’arco di cinque anni siamo diventati molto amici. Sono in realtà della classe dei loro figli, per cui mi sento anche un po’ un figlio adottato. È stata un’esperienza, umanamente e cinematograficamente, molto importante per me.

Sembra un film statico, invece è molto dinamico nei dialoghi e nei sentimenti che queste madri fanno emergere ricordando i figli scomparsi o che sono ancora in vita, in termini però così problematici per loro.

R. – Tutti i miei film ingaggiano un po’ una sfida di linguaggio. Questa volta ho sentito, in qualche modo, quella di riuscire a fare un film dentro una stanza, cioè all’interno di un luogo che pur essendo molto fermo, fisso ovviamente, però il tempo passa, il confronto cresce e le storie in qualche modo si evolvono. Ho creduto nell’importanza di cercare un’universalità in questo tema che travalicasse anche il mondo della disabilità puntando molto sui genitori. Questo era possibile solo attraverso i volti e le caratteristiche di ognuno di loro.

Il rapporto che queste madri hanno con la malattia, il dolore e la morte è molto vario: dalla ribellione all'accettazione, dal dubbio alla fede. Ma il fatto per loro più importante è l'ascolto.

R. – Assolutamente. Questo è uno dei punti centrali del film, ovvero l’importanza dello scambio e del mutuo sostegno. Credo che queste madri, questo gruppo siano oggi un grande antidoto per la nostra società. Questo per me rappresenta la magia di questo film: riscoprire che lo scambio, così profondo, è un grande medicinale, un grande supporto.

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Il commento di don Ezechiele Pasotti al Vangelo della Domenica

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Nella 19.Domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù, tra le mormorazioni scandalizzate dei presenti, dice:

“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

Su questo brano evangelico ascoltiamo il commento di don Ezechiele Pasotti

Il segno (la moltiplicazione dei pani e dei pesci) fatto da Gesù e la sua parola: “Io sono il pane di vita” mettono in crisi la folla presente: il Signore parla di una fame diversa da quella del pane che perisce, annuncia una nuova Pasqua, un nuovo esodo: da questo mondo al Padre. Ma la gente non è disposta a mettersi in crisi: ha le sue idee, le sue pratiche religiose, i suoi schemi…, e tutto questo basta, non vuole altro, anche se proprio questo addormenta quella fame di Dio che Gesù vuole risvegliare. E’ una parola per noi oggi. Davanti a questa dimensione comoda della religione, che non si mette mai in discussione, che ha le sue abitudini, e le sue pratiche…, Gesù diventa scomodo: “Che segno ci dai perché crediamo in te”? La parola di Gesù va nuovamente al cuore del problema: “Non mormorate tra voi”. Il popolo d’Israele – tu ed io – siamo dei mormoratori. La mormorazione nasce dalla non accettazione della storia, della volontà di Dio che conduce la storia per le sue strade. Esclama S. Giovanni della Croce: Per giungere ad un luogo che non si conosce, bisogna accettare di passare per strade che non si conoscono, per dove non si sa. Se non siamo disposti a metterci in crisi, ad uscire dalle nostre piccole certezze, resteremo nei nostri schemi religiosi, ma senza quella fede che dà la vita eterna. Mangiare il pane disceso dal cielo – il pane dell’Eucaristia – significa entrare nella volontà di Dio, insieme a Cristo, il solo che compie la volontà del Padre suo, e gustare la vita che non muore.

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Nella Chiesa e nel mondo



Crisi in Burundi. I vescovi: denunciare ciò che non va

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Resta alta la tensione in Burundi dopo l’omicidio, avvenuto nei giorni scorsi, del generale Adolph Nshimirimana, braccio destro del presidente burundese Pierre Nkurunziza. “Un delitto grave”, dalle conseguenze importanti, ma imprevedibili, sulla “delicata situazione in cui si trova il Paese”, commenta ad Aiuto alla Chiesa che soffre don Lambert Niciteretse, segretario generale della Conferenza episcopale locale. Ex capo dei servizi segreti, Nshimirimana era, infatti, il responsabile degli apparati di sicurezza ed il capo della milizia del presidente.

Tensioni e proteste proseguono da diversi mesi
Le tensioni in Burundi sono iniziate il 25 aprile scorso, dopo che il presidente  Nkurunziza ha annunciato la decisione di correre per un terzo mandato, nonostante la Costituzione nazionale limiti la possibilità a due soli mandati di cinque anni. Numerose le proteste in tutto il Paese; anche la Chiesa locale ha denunciato l’irregolarità della candidatura di Nkurunziza, tanto che a maggio, prima delle elezioni legislative, ha ritirato i propri rappresentanti dalla Commissione elettorale nazionale indipendente.

La Chiesa porta avanti il suo compito, secondo la Dottrina sociale
In una nota ufficiale, i presuli avevano ribadito che “la Chiesa cattolica non può rendersi parte di un processo elettorale che è visibilmente non consensuale e presenta delle lacune”. L’episcopato ha quindi mantenuto la sua ferma posizione: “La Chiesa porta avanti il suo compito – dichiara ad Acs don Niciteretse – esponendo i principi della Dottrina sociale, anche quando questi non incontrano il favore dei politici. La verità deve essere proclamata e ciò che non va deve essere denunciato”.

Allarme per l’esodo dei burundesi
Intanto non si arresta l’esodo dei burundesi che fuggono a causa dell’instabilità, degli scontri e della repressione messa in atto dal governo. In decine di migliaia si sono rifugiati in Tanzania, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. “Alle gravi sofferenze che viviamo - afferma don Niciteretse - si aggiunge il dolore per i nostri fratelli costretti a trovare rifugio all’estero”.

Appello dei vescovi per la pace ed il rispetto dei diritti umani
L’incertezza e la paura crescono anche a causa di una mancanza di informazioni: le stazioni di molte emittenti radiofoniche e televisive private, infatti, sono state infatti distrutte. Un contesto che, conclude don Niciteretse, rappresenta  “un grave limite per la Chiesa, che può veicolare il suo importante messaggio di pace soltanto attraverso le frequenze di Radio Maria Burundi”. Ma nonostante le difficoltà, conclude il segretario generale dei vescovi, “continueremo a sostenere la popolazione, a denunciare la violenza e ad invitare alla pace e al rispetto dei diritti umani”. (I.P.)

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Marcinelle. Cei: rispettare i diritti dei lavoratori migranti

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8 agosto 1956, ore 8.10, Marcinelle, Belgio. Un devastante incendio scoppia in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile del Bois du Cazier. Muoiono 262 minatori, di cui 136 italiani. Quarantacinque anni dopo, nel 2001, viene istituita la “Giornata nazionale del sacrificio e del lavoro italiano nel mondo”, che ricorre oggi. Numerose le celebrazioni in Italia e nel resto del mondo per ricordare le vittime di quella tragedia. Alle 8.10 di questa mattina, presso il Bois du Cazier, la campana denominata “Maria Mater Orphanorum” ha suonato oggi 262 rintocchi per i minatori morti a Marcinelle ed altri dieci per i caduti in tutte le miniere del mondo. Infine, ha suonato a distesa in omaggio alle vedove ed agli orfani.

Accrescere consapevolezza del rispetto dei diritti dei lavoratori migranti
L’incendio di Marcinelle, scrive la Fondazione Migrantes in una nota, “provocò un disastro che segnò per sempre la storia dell’emigrazione italiana. La tragedia, con il suo dolore, permise, tuttavia, di far luce sulle deplorevoli condizioni di lavoro nelle miniere, contribuendo finalmente all’introduzione delle maschere antigas”. L’8 agosto, continua la nota, “non è una ricorrenza per non dimenticare, ma rappresenta un valore inestimabile da trasmettere alle nuove generazioni perché il sacrificio dei nostri emigranti in termini di disumano lavoro, frustrazioni e umiliazioni, possa far crescere la consapevolezza del rispetto dei diritti verso le nuove generazioni di immigrati nel nostro Paese”.

La precarietà lavorativa mina la dignità umana
Poi, Migrantes ricorda un articolo giornalistico del 9 agosto 1956, intitolato “L’Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi”: “Si tratta di un titolo significativo – spiega la Fondazione - che pone una riflessione sulla nostra attualità a distanza di 59 anni. Molte cose per la tutela del lavoratore sono cambiate da allora, grazie all’impegno di diversi attori, classe politica, sindacale, Chiesa, ma ciò che conta è la centralità della persona e il suo lavoro che va difeso contro ogni forma di precarietà che mina la dignità dell’uomo”.

50 anni fa, anche la tragedia di Mattmark
Da ricordare, inoltre, che quest'anno la ricorrenza di Marcinelle è associata ad un altro terribile evento: quello di Mattmark, dove il 30 agosto di cinquant'anni fa scomparvero, sotto una montagna di ghiaccio e di fango,  88 lavoratori e tecnici, di cui 56 italiani. “Sono eventi che richiamano simbolicamente – scrive Migrantes - le tante tragedie del lavoro che si sono susseguite in un secolo e mezzo di emigrazione e che hanno mietuto centinaia di migliaia di vittime e provocato milioni di disabili”. Un ricordo da non cancellare, conclude la nota, “mentre si susseguono senza pausa le tragedie degli attraversamenti di mare e dei passaggi di frontiera di altre centinaia di migliaia di migranti in fuga dalla guerra e dalla fame”. (I.P.)

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Kenya. Chiesa avrà 20 emittenti radio per coprire tutto il Paese

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Entro il 2020, la Chiesa in Kenya avrà venti radio cattoliche che copriranno l’intero territorio nazionale. Questo l’obiettivo fissato dal piano strategico “Waumini.com 2020” per il quinquennio 2016-2020, approvato dalla Commissione episcopale per le comunicazioni sociali e dalla Waumini Communication Company, l’ente fondato dai vescovi nel 2012 con il compito di promuovere e coordinare i media cattolici nel Paese.

Una vasta rete di emittenti cattoliche per estendere l’evangelizzazione
Il piano,  elaborato sulla base dell’esperienza ormai consolidata in questi anni dalla Chiesa locale in questo settore strategico, prevede la creazione di una rete di emittenti tecnologicamente avanzate, capace di raggiungere un più vasto pubblico per estendere l’evangelizzazione. “Vogliamo una trasformazione spirituale e sociale della gente, vogliamo vedere una trasformazione integrale della persona umana”, ha affermato il presidente della Commissione episcopale per le Comunicazioni sociali, mons. Joseph Obanyi, rivolgendosi nei giorni scorsi, a Nakuru, ai responsabili delle radio cattoliche keniane con i quali si è vivamente congratulato per il loro prezioso contributo all’elaborazione del piano.

La Chiesa keniana nei media: una presenza dinamica
La comunicazione sociale è uno dei settori in cui la Conferenza episcopale keniana ha investito più risorse in questi anni. Oggi la presenza della Chiesa locale nei media è dinamica e articolata, e va dalla carta stampata, alla radio, agli audio-visivi. Alla fine del 2013 si contavano sei radio cattoliche:  Radio Waumini (Nairobi), Radio Amani (Nakuru), Radio Maria (Muranga), Radio Akicha (Lodwar) Radio Shahidi (Isiolo) e Radio Thome (Kitui), alle quali si sono aggiunte successivamente altre. La Chiesa pubblica, inoltre, un mensile a tiratura nazionale, il “National Mirror” ed ha un proprio  centro di produzione video: la “Ukweli Video Productions” al quale è stato affidato il progetto della prima stazione televisiva cattolica nazionale. (L.Z.)

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Stati Uniti: 54 giorni di preghiera per matrimonio e famiglia

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Cinquantaquattro giorni di preghiera, con un’intenzione specifica: il matrimonio e la famiglia. Questa l’iniziativa che avrà luogo negli Stati Uniti dal 15 agosto, Solennità dell’Assunzione di Maria, al 7 ottobre, Festa della Vergine del Rosario. A promuovere l’evento è l’Apostolato del Rosario per l’Evangelizzazione guidato dal suo consigliere spirituale, mons. Jerome Listecki, arcivescovo di Milwaukee.

Intercessione di Maria, antidoto alla crisi spirituale contemporanea
In una lettera inviata a tutti i presuli statunitensi, mons. Listecki sottolinea che “di fronte alla crisi spirituale della cultura contemporanea, abbiamo tutti bisogno dell’intercessione di Maria”. E non è un caso che l’intenzione di preghiera sia focalizzata sulla famiglia ed il matrimonio, in quanto si tratta – continua il presule – di “temi-chiave ai nostri giorni”, specialmente in vista dell’Incontro mondiale delle famiglie, in programma a Filadelfia dal 22 al 27 settembre, alla presenza del Papa, e del Sinodo generale ordinario sulla famiglia, che si terrà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre prossimi.

Pregare anche per la pace, la vita e la libertà religiosa
Di qui, l’auspicio dell’arcivescovo di Milwaukee affinché le giornate di preghiera possano “contribuire a portare un rinnovamento spirituale nel Paese”. Giunta alla sua seconda edizione, questa iniziativa – spiegano gli organizzatori – vuole rappresentare “un messaggio di speranza” per la società odierna. Il Rosario potrà essere recitato individualmente, in gruppo, in famiglia, in parrocchia o in comunità. In particolare, per i primi 24 giorni - dal 15 agosto al 10 settembre - si pregherà a mo’ di petizione; nei restanti 24 giorni, invece, verranno recitate preghiere di ringraziamento. Ulteriori intenzioni potranno essere focalizzate sui temi della pace, della difesa della vita umana ed a favore della tutela della libertà religiosa. (I.P.)

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Filippine. Parrocchia di Atimonan inaugura impianto ad energia solare

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Pannelli solari che garantiscono il 50 per cento del fabbisogno energetico giornaliero, con un notevole risparmio economico ed un incremento della tutela ambientale: questo il progetto realizzato dalla Parrocchia di Atimonan, nelle diocesi filippina di Lucena, che in questi giorni ha installato, sul tetto dell’edificio, un impianto ad energia solare.

Una risposta concreta agli appelli del Papa per la salvaguardia del Creato
Il sistema energetico rinnovabile è stato inaugurato, simbolicamente, al termine di una Santa Messa in onore della Madonna degli Angeli. Contestualmente, i parrocchiani hanno potuto prendere parte ad un incontro sul tema: “La dottrina sociale della Chiesa riguardo alla salvaguardia del Creato”. “Compiendo questi piccoli passi avanti verso una ‘Chiesa verde’ – ha detto il parroco, padre Emmanuel Villareal – trasmettiamo ai nostri fedeli un messaggio forte, cioè che passare a forme di energia rinnovabili è possibile anche subito, a partire dalle nostre stesse comunità”. “Questo impianto solare – ha  concluso il parroco – è la nostra risposta concreta all’appello lanciato da Papa Francesco nella sua Enciclica Laudato si’, sulla cura della casa comune”.

Riutilizzare, invece di gettare via, è un atto di dignità
Infatti, in particolare al n. 211, il Pontefice sottolinea che “è molto nobile assumere il compito di avere cura del Creato con piccole azioni quotidiane”, come “evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via”. “Riutilizzare qualcosa invece di disfarsene rapidamente, partendo da motivazioni profonde – conclude il Papa - può essere un atto di amore che esprime la nostra dignità”. (I.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 220

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti.