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Sommario del 06/08/2015
- Francesco: mondo non assista in silenzio a persecuzioni anticristiane
- Il Movimento Eucaristico Giovanile incontra Papa Francesco
- Lettera del Papa per il centenario evangelizzazione di Timor Est
- Tweet: in famiglia impariamo ad amare senza chiedere nulla in cambio
- Don Maffeis: Papa Francesco trova grande ispirazione in Paolo VI
- P. Costa: vi racconto come è nato l’inno per il Giubileo della Misericordia
- Nomine di Papa Francesco in India e Canada
- Oggi su "L'Osservatore Romano"
- Tragedia del mare. Msf: Triton insufficiente, serve soccorso
- L’Egitto inaugura il raddoppio del Canale di Suez
- Porto Rico in default. Usa non prevede piano di salvataggio
- Escalation di violenza in Burundi. Padre Marano: 120 morti in 4 mesi
- 70 anni fa la bomba atomica su Hiroshima, 200mila le vittime
- A Festival Locarno, suggestivo documentario sul Duomo di Milano
- Cile, depenalizzazione aborto. Mons. Chomali: giorno triste
- Niger: riprendono vita parrocchie distrutte da violenze anticristiane
- Alluvioni in Myanmar. Il card. Bo: aiuti urgenti per gli sfollati
- La Chiesa argentina presenta le linee-guida contro abusi su minori
- Caraibi: colonizzazioni ideologiche minacciano famiglia
- Eurotunnel. Vescovi inglesi: riconoscere disperazione di chi cerca asilo
- Laudato si’: su Radio Vaticana adattamento radiofonico in 14 puntate
Francesco: mondo non assista in silenzio a persecuzioni anticristiane
La Chiesa non dimentica i cristiani perseguitati in Iraq e chiede alla comunità internazionale di non assistere inerte di fronte a tali crimini: è quanto afferma Papa Francesco in una lettera inviata a mons. Maroun Lahham, vescovo ausiliare di Gerusalemme dei Latini e vicario patriarcale per la Giordania, in occasione del primo anniversario dell’arrivo in Giordania degli iracheni cacciati dal loro Paese dai jihadisti del cosiddetto Stato islamico. Per questo motivo, domani arriverà in Giordania il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Nunzio Galantino: il presule visiterà alcuni centri di accoglienza per i profughi. Il servizio di Sergio Centofanti:
La lettera di Papa Francesco vuole “raggiungere con una parola di speranza quanti, oppressi dalla violenza, sono stati costretti ad abbandonare le loro case e la loro terra”. Più volte il Papa ha dato voce a quelle che definisce “atroci, disumane e inspiegabili persecuzioni di chi in tante parti del mondo – e soprattutto tra i cristiani – è vittima del fanatismo e dell’intolleranza, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti. Sono i martiri di oggi – sottolinea - umiliati e discriminati per la loro fedeltà al Vangelo”. Il Papa lancia un appello alla solidarietà che “vuol essere il segno di una Chiesa che non dimentica e non abbandona i suoi figli esiliati a motivo della loro fede” perché “sappiano che una preghiera quotidiana si innalza per loro, insieme alla riconoscenza per la testimonianza che ci offrono”.
Francesco esprime la sua profonda gratitudine alle comunità “che hanno saputo farsi carico di questi fratelli, evitando di volgere lo sguardo altrove” testimoniando “la risurrezione di Cristo con la condivisione del dolore e l’aiuto solidale” a “centinaia di migliaia di profughi”. E’ un chinarsi su sofferenze che rischiano di soffocare la speranza, è un “servizio di fraternità che rischiara anche momenti tanto bui dell’esistenza”.
Quindi, lancia un forte appello affinché l’opinione pubblica mondiale possa essere “sempre più attenta, sensibile e partecipe davanti alle persecuzioni condotte nei confronti dei cristiani e, più in generale, delle minoranze religiose”. E rinnova l’auspicio che “la Comunità Internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale inaccettabile crimine, che costituisce una preoccupante deriva dei diritti umani più essenziali e impedisce la ricchezza della convivenza tra i popoli, le culture e le fedi”.
Il Movimento Eucaristico Giovanile incontra Papa Francesco
Domani mattina 1500 ragazzi del Meg, il Movimento Eucaristico Giovanile promosso dai Gesuiti, incontreranno Papa Francesco in Aula Paolo VI. Il Meg è a Roma per il suo incontro mondiale, che si svolge fino al 10 agosto sul tema "Perché la mia gioia sia in voi": ragazzi e ragazze da 38 Paesi si ritrovano per la prima volta insieme per il centenario di fondazione di quello che è il ramo giovanile (dai 10 anni all’età universitaria) dell'Apostolato della Preghiera, nato a Lourdes dall'intuizione di un gesuita francese e oggi presente in 56 Paesi. Antonella Palermo ha chiesto a padre Loris Piorar, responsabile del Meg Italia, come sono state pensate queste giornate e ha raccolto la testimonianza di due giovani della segreteria organizzativa che spiegano il senso della proposta del movimento: diventare adulti sullo stile di Gesù.
D. - Padre Loris Piorar...
R. – I ragazzi stanno camminando in giro per Roma accompagnati dal gruppo di “Pietre Vive”, quest’altra realtà ignaziana che mette al centro l’evangelizzazione attraverso l’arte. Questi 30 ragazzi di “Pietre Vive” stanno accompagnando gruppi di 30-35 ragazzi di diversi Paesi a fare esperienza della bellezza del Signore Gesù a Roma, la gioia di camminare con Gesù. Ogni giorno sviluppiamo questo tema della gioia e venerdì sarà la gioia dell’incontro col popolo di Dio: abbiamo pensato che il popolo di Dio si forma con un riferimento, la roccia-pietra-Pietro; finiremo poi la giornata dell’udienza alle catacombe di San Callisto, dove potremo vedere e vivere la prima comunità cristiana, il popolo di Dio che segue il Signore Gesù.
D. – So che avete preparato anche una serie di domande da porre al Papa…
R. – Sei ragazzi, nella loro lingua e nella loro cultura, hanno sviluppato sei domande sui giovani e alcune dimensioni della nostra vita: la gioia, la comunità cristiana, l’incontro con Gesù, l’Eucaristia, la missione e poi la famiglia e come il giovane può contribuire alla famiglia. Vedremo come lui risponderà…
D. – Dopo la Cresima si aprano anni un po’ di vuoto: voi credo che lo andiate un po’ a colmare questo vuoto. Elisabetta da Cagliari…
R. – Sì, il Meg, nella nostra realtà, è un movimento che raccoglie molti di quei giovani che dopo la Cresima si allontanano dalla vita della Chiesa, perché trovano altri interessi oppure perché semplicemente non trovano più stimolo. Le attività che noi facciamo, il modo di vivere la fede è – secondo me – una cosa che motiva i giovani, che li spinge a cercare quel qualcosa in più che magari non trovano nella loro quotidianità.
D. – Francesco…
R. – Io vengo da Volla, un paesino di 30 mila abitanti nella periferia di Napoli. In questo momento noi facciamo in particolare gruppo a Scampia, che è una realtà abbastanza difficile. Però io posso testimoniare, avendo a che fare con questi ragazzi e dando loro degli strumenti, che questi ragazzi sono veramente preziosi, sono dei tesori, che a volte restano nascosti perché non c’è nessuno che li riesca a far fiorire, che li riesca a far uscire fuori. Noi cerchiamo di fare questo, cerchiamo di dare loro una opportunità, che a volte viene loro negata.
D. – Padre Loris, come responsabile nazionale hai modo di incontrare diverse comunità in giro per l’Italia… Cosa ti sorprende ogni volta di più?
R. – Mi sorprende il desiderio di condividere, di mettere cioè in evidenza quella dimensione del cuore, tipica della spiritualità ignaziana, che permette poi di potersi raccontare e di scoprire una gioia, quella gioia piena e profonda che ci permette poi di fare festa. Questo desiderio di profondità, di intimità, presente ma magari a volte nascosto o coperto da tante cose, è un compito anche da parte nostra come formatori di essere custodi di questa interiorità e questo non aiuta solamente nella vita cristiana…
D. – … aiuta nelle relazioni, vero Elisabetta?
R. – Certo. Io credo che il Meg dia l’opportunità ai ragazzi di capire precisamente che cos’è che devono riconoscere come una cosa buona per se stessi. Tutti i ragazzi, di tutte le età e di qualsiasi estrazione sociale hanno un desiderio e hanno una ricerca nel cuore: il problema è quando questi ragazzi non trovano, alla fine di questa ricerca, qualcosa di buono, ma trovano qualcosa di male... Allora lì continuano a perseguire le cose sbagliate, perché non hanno la giusta formazione per fare del discernimento - che è proprio una parola chiave della spiritualità ignaziana - e quindi capire veramente cos’è che devono perseguire.
Lettera del Papa per il centenario evangelizzazione di Timor Est
Grande attesa nel piccolo Stato asiatico di Timor Est per i prossimi festeggiamenti del 15 agosto, festa dell’Assunzione di Maria, quest’anno dedicati al quinto centenario dell’evangelizzazione del Paese. In questa occasione il Papa ha inviato una lettera al cardinale Pietro Parolin, segretario di Sato, nominato Legato pontificio per le celebrazioni in programma nella capitale Dili. Il servizio di Roberta Gisotti:
“E’ giusto e opportuno che questo avvenimento venga ricordato adeguatamente”, sottolinea Francesco nella Lettera, richiamando alla memoria gli “intraprendenti missionari” domenicani che con “coraggio compirono un lungo viaggio”, superando “innumerevoli difficoltà” per portare a queste genti il Vangelo, giungendo nel 1515 nella parte orientale dell’isola di Timor, colonizzata dai portoghesi. Tardivamente conquistata l’indipendenza, nel 1975, Timor Est fu nell’immediato invasa dall’Indonesia, che già occupava il resto dell’isola, sollevando nuove e sanguinose lotte per la libertà. A nulla valsero le condanne dall’Onu e della comunità internazionale ad evitare la dura repressione di Giacarta anche sulla popolazione civile in massima parte cattolica, fino all’Amministrazione controllata da parte delle Nazioni Unite, dal 1999 al 2002, quando è stata infine proclamata la Repubblica democratica del Timor Orientale.
Da allora - ricordava Francesco ai presuli giunti lo scorso anno a Roma in visita ad Limina - “dalla sospirata e felice nascita della vostra patria” “non sono mancate dolorose sorprese legate alla concertazione nazionale, con la Chiesa a ricordare le basi necessarie di una società che intende essere degna dell’uomo e del suo destino trascendente”. Da qui la raccomandazione del Papa ad essere “coscienza critica della nazione, mantenendo a tal fine la dovuta indipendenza dal potere politico in una collaborazione equidistante che lasci ad esso la responsabilità del bene comune della società e di promuoverlo”. Alla Chiesa - osservava Francesco - sia lasciata “la liberta di annunciare il Vangelo in modo integrale, anche quando va controcorrente, difendendo i valori che ha ricevuto e ai quali deve restare fedele”. Gli stessi valori che ispirarono i primi evangelizzatori di Timor Est cinque secoli fa.
Tweet: in famiglia impariamo ad amare senza chiedere nulla in cambio
Il Papa ha pubblicato un nuovo tweet sull’account @Pontifex: “In una famiglia cristiana, impariamo molte virtù. Soprattutto ad amare senza chiedere nulla in cambio”.
Don Maffeis: Papa Francesco trova grande ispirazione in Paolo VI
Ricorre oggi il 37.mo anniversario della morte del Beato Paolo VI. E’ la prima ricorrenza dalla Beatificazione del 19 ottobre scorso. Sull’attualità della figura di Papa Montini e il suo rapporto con Papa Francesco, Alessandro Gisotti ha intervistato don Angelo Maffeis, presidente dell’Istituto Paolo VI:
R. – Noi constatiamo anche nella casa natale di Paolo VI a Concesio che sono aumentati i pellegrini che visitano questo luogo e ne fanno un’occasione per riscoprire l’importanza di questa figura. Mi pare che proprio dopo la Beatificazione di Paolo VI assuma un significato particolare anche il giorno della sua morte, che coincide appunto con la festa liturgica della Trasfigurazione del Signore. Come dice nel pensiero “La morte”, Paolo VI desidera, terminando la vita, di essere nella luce. Credo che anche simbolicamente il fatto che la sua morte abbia coinciso con il mistero della Trasfigurazione diventi ancora più vero con la sua Beatificazione, che lo riconosce nella luce di Dio, ma lo indica anche come una fonte di luce che può illuminare il cammino della Chiesa.
D. – L’Istituto Paolo VI ha pubblicato recentemente un inedito di mons. Montini, probabilmente negli anni in cui era a Roma, in Segreteria di Stato, che si sofferma proprio sulla santità. Effettivamente è una riflessione proprio sulla festa dei Santi…
R. – E’ un testo molto bello, perché probabilmente è stato preparato in vista di una omelia oppure di una meditazione che l’allora sostituto Giovanni Battista Montini ha tenuto. Ed è un pensiero che parte da questa constatazione: “Temo che non diventerò mai Santo, perché la santità è un ideale molto alto, perché la pigrizia impedisce appunto di seguire questa santità”. E poi via, via la meditazione si sviluppa fino a questa conclusione: “Temo che diventerò Santo”. Lo abbiamo pubblicato anche proprio come segno di questa riflessione che ha accompagnato la vita di Montini e che ha trovato il suo suggello nella Beatificazione, ma che indica in qualche modo quel tema che la Costituzione sulla Chiesa ”Lumen Gentium” del Vaticano II, nel capitolo V, indica quando parla della vocazione universale alla santità: che questo è il cammino ed è la vocazione ed il destino di ogni credente.
D. – Papa Francesco, che ha beatificato Paolo VI, ha sempre sottolineato il suo grande amore per Papa Montini. Pensiamo ai numerosi richiami alla “Evangelii Nuntiandi”. Quali sono, secondo lei, gli aspetti che maggiormente legano questi due Pontefici?
R. – Certamente Papa Francesco ha indicato nell’Evangelii Nuntiandi il documento più importante, da un punto di vista pastorale, del post Concilio. E quindi credo che questo lo leghi in fondo al Papa che ha guidato il Concilio alla sua conclusione e ha dato le indicazioni per rinnovare la pastorale della Chiesa negli anni successivi. Mi pare che alla luce dell’ultima Enciclica di Papa Francesco, “Laudato si'”, si possa riconoscere anche un altro legame tra questi due Papi. Mi colpiva il fatto che Paolo VI nella “Populorum Progressio” parli di sviluppo integrale e questo aggettivo “integrale” ritorni anche nell’ultima Enciclica di Papa Francesco, quando parla di una necessità di un’ecologia integrale.
D. – Fra poco più di un mese Papa Francesco parlerà alle Nazioni Unite. Il primo Papa che ha parlato al Palazzo di Vetro di New York è stato proprio Paolo VI…
R. – Certamente. E non è un caso che tutti i Papi successivi abbiano ritenuto di entrare in dialogo con questo organismo, con questo luogo dove i popoli cercano di risolvere i loro conflitti in maniera pacifica. Quindi, nonostante le difficoltà, che spesso la convivenza tra i popoli incontra, mi pare che sia un segno di questa volontà della Chiesa, che continua a dare il suo contributo alla convivenza pacifica tra i popoli, a percorrere strade nuove.
P. Costa: vi racconto come è nato l’inno per il Giubileo della Misericordia
E’ stato pubblicato su YouTube l’inno ufficiale del Giubileo della Misericordia. L’inno si apre con le parole “Misericordes sicut Pater”, ovvero il motto del Giubileo, “Misericordiosi come il Padre”, tratto dal Vangelo di Luca (6,36). Gli autori della musica, Paul Inwood, e del testo, il padre gesuita Eugenio Costa, hanno donato ogni diritto di sfruttamento di questa opera al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione al fine di facilitare la diffusione dell’Inno in tutta la Chiesa. La registrazione è stata eseguita dalla Cappella Musicale Pontificia, diretta dal Maestro mons. Massimo Palombella, a cura della Radio Vaticana. Al microfono di Alessandro Gisotti, il teologo e musicista padre Eugenio Costa racconta come è nato l’inno per il Giubileo:
R. – Mons. Massimo Palombella, maestro della Cappella Sistina, con cui collaboro da molto tempo, mi ha chiesto di fare un inno sul tema della Misericordia e lo ha fatto d’accordo con l’ente pontificio, che è preposto a questo Anno della Misericordia, quindi il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione con in testa mons. Rino Fisichella. Mi hanno dato alcune “dritte”, anzitutto alcuni interventi brevissimi nel testo di lingua latina. Mi hanno detto: “Il ritornello di questo inno deve essere il motto dell’Anno della Misericordia”, che in latino è “Misericordes sicut Pater”. E’ una citazione dal capitolo sesto di San Luca, in cui Gesù dice: “Siate misericordiosi come il Padre vostro”. Poi, all’interno delle strofe, che sono quattro, mi è stato chiesto di inserire proprio come una ripetizione continua, quindi ripetibile facilmente da qualunque assemblea, una breve frase, anche questa in latino: “In aeternum misericordia eius”, la misericordia di Lui, del Padre, è in eterno. E questa è una ripresa dal Salmo 135 o 136, quel Salmo che ha questa breve acclamazione lungo tutto il suo testo, da capo a fondo. In italiano lo traduciamo: “In eterno sarà il suo amore per noi”.
D. – Una cosa che colpisce è che già la prima volta che si ascolta questo inno, per la sua musicalità e per il testo - questa brevità che diceva anche lei – entra immediatamente nell’orecchio, uno se lo ricorda. Ovviamente, c’è questo intento?
R. – Certamente, l’intento era questo! Dal punto di vista della musica, vorrei ricordare che il dicastero per la Nuova Evangelizzazione, nel concorso per una composizione musicale di questo testo, lo ha mandato a ben 90 compositori sparsi per il mondo. Di questi 90, 21 hanno risposto. Tra questi 21, ne è stato scelto uno, naturalmente, che è quello che è poi stato anche registrato. E’ opera di Paul Inwood, che è un compositore laico inglese - molto bravo e già molto conosciuto nell’Inghilterra cattolica - capace, che capisce cosa vuol dire comporre con un intento preciso, non “per gli Angeli e per gli Arcangeli”, ma per un’assemblea concreta, non di professionisti, per persone che cantano perché sono radunate per pregare e cantare! Ha composto quindi questa musica che è semplice, sì, ma molto ben costruita. Il ritornello, infatti, “Misericordes sicut Pater” entra, come dice lei, nell’orecchio tre secondi dopo che uno l’ha sentito. E poi, la ripresa del ritornello latino interno, nelle strofe, “In aeternum misericordia eius”, è affidata a delle piccole melodie orecchiabilissime.
D. – Il tema della misericordia come si lega, secondo lei, anche nella sua esperienza con la musica?
R. – La risposta alla sua richiesta può essere solo un atto di fiducia e di speranza che chi si approprierà, cantando, di queste parole, entri un po’ più a fondo in questo mistero della misericordia. Per questo le quattro strofe sono: la prima, indirizzata al Padre, la seconda al Figlio, la terza allo Spirito Santo e la quarta riprende un po’ tutti i temi insieme. Facendo questo testo e affidandolo al compositore uno compie un atto di speranza. Il compositore ed io ci auguriamo, che questo testo cantato contribuisca ad approfondire seriamente il tema della misericordia, tema così profondo, così ampio su cui Papa Francesco si sta impegnando a fondo. Lo scopo di un canto, un canto liturgico, è sempre quello di aiutare chi lo canta ad entrare in quello che si sta facendo. Questo canto avrebbe, dal punto di vista rituale, il senso di essere un canto processionale, ciò vuol dire che deve aiutare ad accompagnare una lunga processione, per esempio di ingresso, di inizio di una celebrazione - può essere una Messa o altro - con molte persone, spesso con molti vescovi, sacerdoti e diaconi. Che questo venga accompagnato da questa musica, che ha un suo ritmo pacato, però preciso, che aiuta a camminare nella fede e nella speranza.
Nomine di Papa Francesco in India e Canada
In India, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’Eparchia di Adilabad dei Siro-Malabaresi presentata da mons. Joseph Kunnath, C.M.I., a norma del can. 210 §§ 1-2 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Il Papa ha nominato vescovo dell’Eparchia di Adilabad dei Siro-Malabaresi il rev.do padre Antony Prince Panengaden, finora Protosincello e Parroco della medesima Eparchia.
In Canada, il Santo Padre ha eretto l’Esarcato Apostolico per i Siro-Malabaresi residenti in Canada e ha nominato primo Esarca il rev.do Jose Kalluvelil del clero dell’Eparchia di Palghat, assegnandogli la sede titolare di Tabalta.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
Il silenzio degli innocenti: lettera del Papa per i martiri cristiani del Medio Oriente.
Nella vera terra: il vescovo Marcello Semeraro nell’anniversario della morte di Paolo VI.
Le traversie di un’opera anomala: Manlio Simonetti su una nuova edizione critica del “De principiis” di Origene curata da Samuel Fernandez nelle “Fuentes patristicas”.
In difesa della zona grigia: le conclusioni del libro appena pubblicato “Terrore mediatico” di Monica Maggioni, presidente della Rai.
Tè e sentimento: Gabriele Nicolò sulla crisi di un rituale.
Dipende solo dall’uomo: Valdo Spini sulla Cop 21 di Parigi alla luce dell’Enciclica “Laudato si’”.
Tragedia del mare. Msf: Triton insufficiente, serve soccorso
Sono ancora in corso le ricerche al largo della Libia dove ieri si è capovolto un barcone con a bordo centinaia di migranti. Il bilancio, ancora provvisorio, è di 373 migranti salvati e 25 cadaveri recuperati. Sul barcone c'erano circa 600 persone. Intanto oggi un altro barcone con oltre 300 migranti è stato soccorso a poca distanza dalla zona del naufragio. Paolo Ondarza:
Arriveranno questo pomeriggio nel porto di Palermo i migranti sopravvissuti al naufragio avvenuto ieri a 22 miglia nautiche a largo di Zuwara, il porto della Libia da cui salpano centinaia di imbarcazioni della morte. Con loro giungeranno in Italia anche le 25 salme recuperate in acqua. Si teme che in fondo al mare vi siano altre centinaia di corpi. A capovolgere il barcone di legno al sopraggiungere dei soccorsi l’agitazione dei migranti che in mattinata avevano lanciato l’Sos tramite telefono satellitare, raccolto dalla Capitaneria di Catania. Sul luogo scene di orrore e disperazione racconta Juan Matías Gil, coordinatore della nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere Dignity I, intervenuta quasi subito:
R. – Quando siamo arrivati, noi non siamo stati i primi: la nave militare irlandese e la nave italiana erano già in posizione e coordinavano le operazioni. Abbiamo prima di tutto distribuito un salvagente a tutte le persone che erano ancora in acqua.
D. – Quanta gente c’era in acqua?
R. – Quando siamo arrivati non tante, perché era passata già qualche ora… C’era qualche decina di persone.
D. – In quale stato avete trovato queste persone?
R. – Erano veramente disperate! Appena ci vedevano, gridavano e ci chiamavano… Ci dicevano che c’erano ancora persone un po’ più lontano. Ci davano consigli, istruzioni, direzioni… Ma veramente scioccati!
D. – Molti gli uomini, ma anche donne e bambini?
R. – La maggior parte erano adulti uomini, ma c’erano anche abbastanza bambini. E’ difficile precisare quanti fossero…
D. – Prevalentemente di nazionalità africana?
R. – Quelli che noi abbiamo recuperato erano maggiormente arabi. Ma queste barche normalmente hanno due piani: gli africani vanno sotto, perché si paga di meno e quando dico africani intendo sub-sahariani; gli arabi normalmente pagano di più e quindi sono sul piano superiore. Sicuramente dentro la barca sono rimasti tanti, tanti africani sub-sahariani.
D. – Prevalentemente gli africani chiusi nella stiva?
R. – Non è una scelta, è una questione di soldi! Hanno quei soldi e pagano quello che possono…
D. – In mezzo a questa tragedia avete soccorso una bambina di un anno…
R. – Di meno di un anno. Una piccola bambina che era caduta in acqua e stava andando sotto l’acqua: il papà l’ha vista e ce l’ha indicata… Tutti e tre, padre, madre e bimba, stanno bene: la donna aveva però bisogno subito di un’attenzione medica e quindi la abbiamo subito portata sulla nostra barca e dopo la sua stabilizzazione è partita in elicottero verso l’Italia.
D. – Quante sono le persone che avete messo a bordo per il trasporto verso Palermo?
R. – Tutte le persone che abbiamo portato sulla nostra barca sono state trasferite nella nave irlandese. Quindi la cifra ufficiale possono darla loro.
D. – Ricordiamo che il vostro è un intervento di natura – potremmo dire – “privata”, rispetto a quello costituito dal dispositivo europeo “Triton”…
R. – Effettivamente, effettivamente. La nostra è una operazione indipendente. Dopo la tragedia di aprile, con questa crisi umanitaria alle porte di Europa, non potevamo certo fare finta che non accadesse niente! Quindi abbiamo deciso di intervenire: siamo fuori – e questo deve essere veramente molto chiaro! – da tutta l’operazione ufficiale europea.
D. – Quale valutazione si sente di fare rispetto a quanto sta accadendo nel Mediterraneo?
R. – Evidentemente se noi siamo qui vuol dire che tutte le risorse che hanno messo per questa operazione “Triton” non sono bastate per coprire i bisogni! E non soltanto riguardo alla quantità, ma anche riguardo alla capacità dell’azione, alla capacità dell’esperienza del salvataggio e alla capacità medica sulle barche: quelle di Triton sono tutte barche militari e fanno quello che possono… Ma questo non basta! Non è abbastanza, purtroppo!
D. – Secondo lei, che cosa dovrebbe essere fatto concretamente?
R. – Sicuramente aumentare le risorse, le risorse per i salvataggi e non secondo una prospettiva militare, ma umanitaria. Non solo controllare i confini, le frontiere, ma cercare di comprendere quale sia il problema e perché tutte queste persone sono a rischio, perché arrivano a prendere la decisione di attraversare il mare con tutto il rischio che questo comporta… Dobbiamo fare un’analisi veramente molto ampia e prendere delle misure concrete, orientando questa operazione non da un punto di vista militare, ma umanitario!
Oltre 2mila i morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2015: l’incidente più pesante resta quello dello scorso 18 aprile in cui a perdere la vita furono in 700.
L’Egitto inaugura il raddoppio del Canale di Suez
Numerosi capi di Stato e di governo hanno partecipato oggi all’inaugurazione del raddoppio del Canale di Suez. Il progetto consentirà di ridurre i tempi di percorrenza e di aumentare il numero di transiti. Il governo egiziano punta a raddoppiare le entrate economiche, raggiungendo i 10-11 miliardi di dollari l’anno. Sulla valenza dell’infrastruttura Eugenio Bonanata ha intervistato Ugo Tranvalli, inviato del Sole 24 Ore:
R. - Certamente per l’Egitto è previsto che il raddoppio del Canale di Suez moltiplicherà gli introiti e porterà alla creazione di circa un milione di posti di lavoro da qui ai prossimi dieci anni, anche grazie alle infrastrutture che dovrebbero crescere attorno al canale. Però, gli esperti sostengono che non ce ne era bisogno; l’attuale domanda dei commerci mondiali, soprattutto per la grande crisi economico-finanziaria del 2009, non è così impellente da richiedere la costruzione di un nuovo Canale di Suez.
D. - Qual è invece il significato politico di questo progetto?
R. - Dal punto di vista politico il risultato è più limpido, nel senso che sia dal punto di vista dell’Egitto che del Medio Oriente – ovviamente anche dal punto di vista dei commerci mondiali – l’iniziativa di questo nuovo canale è assolutamente vincente. Il presidente al-Sisi ridà un po’ di orgoglio, un po’ di convinzione in un Paese che esce da cinque anni di grandi incertezze politiche. In Medio Oriente, questa è la prima grande iniziativa economica che guarda al futuro in una ragione dove ci sono solamente guerre civili e Is. Dal punto di vista del commercio mondiale indubbiamente è una data storica, perché anche se la domanda al momento non è così forte, questo è un investimento sul futuro. E in economia si deve sempre investire sul futuro.
D. - Significa distogliere in qualche modo l’attenzione da alcune problematiche dell’Egitto, penso ad esempio a quello che sta succedendo nel Sinai …
R. – Sicuramente sì, più che la questione del terrorismo nei confronti del quale c’è un’unità nazionale fortissima, si tratta dell’affermazione del potere militare. Al-Sisi è l’ex ministro della Difesa, l’ex capo dei servizi segreti militari ed ex comandante delle Forze armate. Quindi c’è anche una grande operazione di propaganda. Infatti sono giorni e giorni che le televisioni e i giornali egiziani martellano il pubblico con modalità – e conosco l’Egitto da molti anni – ai limiti della Corea del Nord, nel senso che anche ai tempi di Mubarak la repressione c’era, ma non era così forte e violenta come oggi. Però indubbiamente al di là di questo non si può non notare l’aspetto positivo di questa apertura del nuovo canale: l’Egitto si sente più convinto di sé e più orgoglioso. E poi c’è il fatto che oggi il consenso nei confronti di al-Sisi è altissimo.
D. - Cosa dire delle polemiche sollevate da parte degli ambientalisti?
R. - Questo canale è stato scavato per 35 km accanto al canale esistente. Certamente è prevista una grande industrializzazione della regione, ma non si può negare all’Egitto il diritto di provarci.
D. - Ora Suez potrà essere preferita a Panama?
R. - Il nuovo canale permetterà praticamente ai vascelli da nord a sud e viceversa di viaggiare contemporaneamente, non a scartamento ridotto. Quindi questo vuol dire ridurre da 18 a 11 ore i tempi di transito del canale. Già oggi per esempio la tratta New York–Hong Kong è a favore del Canale di Panama di un giorno. Naturalmente l’accelerazione del passaggio del transito attraverso il Canale di Suez permetterà di passare da 47 a 97 navi al giorno, probabilmente renderà molto più competitivo il Canale di Suez su queste grandi rotte internazionali rispetto a Panama.
Porto Rico in default. Usa non prevede piano di salvataggio
Porto Rico è ufficialmente insolvente: l’isola caraibica, territorio degli Stati Uniti, non ha pagato la tranche da 58 milioni di dollari dei 72 miliardi ai quali ammonta complessivamente il suo debito. Un fallimento annunciato già a giugno, per “l’isola dell’incanto”, la cui unica risorsa economica è il turismo, e per la quale la Casa Bianca non prevede alcun piano di salvataggio. Quali scenari si aprono a questo punto? Roberta Barbi lo ha chiesto a Francesco Carlà, analista finanziario e presidente di "Finanza World":
R. - Porto Rico già lunedì non ha rimborsato i bond che erano stati emessi da una delle sue agenzie: si tratta di 58 milioni di dollari. Questo vuol dire che i creditori non hanno avuto i soldi che chiedevano. La situazione attuale è quella di un primo passo verso un default complessivo - se anche le prossime scadenze non verranno onorate - e quindi si va verso la possibile ristrutturazione del debito.
D. - Il governatore portoricano Padilla, già a fine giugno, aveva annunciato di non avere abbastanza fondi per rimborsare il debito da 72 miliardi di dollari. Quindi era un default atteso in qualche modo?
R. - Il tema non è il rimborso del debito complessivo, perché nessun Paese deve mai rimborsare complessivamente il suo debito; il problema è che la scelta politica del primo ministro è quella di conservare la liquidità che ha, di non usarla per onorare le scadenze che si presentano via via, ma di usarla invece per le esigenze del Paese e dei cittadini di Porto Rico. È una scelta politica esattamente come quella che ci siamo trovati di fronte qualche settimana fa con la Grecia.
D. - È pensabile una ristrutturazione del debito con un piano di salvataggio simile a quello adottato per il fallimento della città di Detroit due anni fa?
R. - La situazione rispetto a Detroit è abbastanza diversa, perché Detroit "è" una città americana, Porto Rico è un territorio che "appartiene" agli Stati Uniti e probabilmente c’è bisogno di una modifica legislativa per ottenere condizioni simili a quelle legate a Detroit. Lo scenario, quindi, si presenta molto diverso: è molto probabile che si andrà verso una ristrutturazione – probabilmente verrà presentato un piano entro la fine di agosto – che avrà delle condizioni molto diverse, perché il debito di Porto Rico è arrivato in gran parte agli investitori “retail”, cioè persone individuali che si trovano di fronte a una perdita secca probabilmente anche vicinissima al cento percento del loro investimento.
D. - Quale soluzione allora potrebbe essere davvero applicabile?
R. - Il processo di ristrutturazione è abbastanza complicato. È molto probabile che abbia a che fare con lo spacchettamento dei vari tipi debiti, perché Porto Rico ha 18.7 miliardi in obbligazioni teoricamente garantite dal governo, 15.2 miliardi di bond che sono garantite da un’entrata proveniente da una tassa sui consumi e altri 24.1 miliardi di dollari emessi da agenzie del territorio. Questi sono tutti debiti diversi l’uno dall’altro e probabilmente saranno inseriti nel piano di ristrutturazione in modo differente. Molti di questi bond erano in mano a istituzioni, banche di investimento, fondi che hanno - negli ultimi mesi - molto assottigliato la loro esposizione perché, appunto, il default di Porto Rico era già annunciato.
D. - Porto Rico potrebbe avere un’economia florida in virtù del suo particolare status, eppure si trova in recessione da nove anni …
R. - Io vorrei fare notare alcuni numeri secondo me piuttosto interessanti. Il debito pubblico di Porto Rico - abbiamo detto – ammontava, almeno alla fine di giugno del 2015, a 70 miliardi di dollari pari a circa il 57 percento del Pil; è un rapporto debito–Pil che, se ci fosse in Europa, sarebbe pochissimo. Quindi, apparentemente, la condizione finanziaria di Porto Rico non è così disastrosa; il problema è che la liquidità di Porto Rico è molto scadente, perché non ha la fortuna di avere una Banca Centrale Europea come quella che abbiamo noi che finanzia questo aspetto. Anche da un punto di vista economico, i dati di Porto Rico non sono così disastrosi, perché abbiamo un tasso di disoccupazione intorno al 14 percento che è vero che rappresenta il più del doppio rispetto alla media degli Stati Uniti, però è anche vero che è un tasso non terribile. Il vero problema è la crescita, perché circa l’1 per cento della popolazione di Porto Rico lascia ogni anno l’isola – stiamo parlando di circa 30 mila persone – e questo naturalmente non migliora le condizioni economiche. A questo punto penso che molto dipenderà da che tipo di intervento decideranno di fare gli Stati Uniti, dalla loro volontà più o meno forte di uscire dall’ambiguità rispetto a Porto Rico e stabilire se il Paese diventi il 51.mo Stato dell’unione oppure no.
Escalation di violenza in Burundi. Padre Marano: 120 morti in 4 mesi
Escalation di violenza in Burundi a due settimane dalla contestata ri-elezione di Pierre Nkurunziza, al terzo mandato come presidente della Repubblica. Adolphe Nshirimana, ex capo dell’intelligence e braccio destro del presidente, è stato ucciso domenica scorsa, mentre ieri è stato assassinato a Bujumbura un leader locale del parito governativo. Lunedì era stato ferito in un agguato l’attivista Pierre-Clavier Mbonimpa. Segnali preoccupanti per il piccolo Paese centrafricano, in cui sono ancora aperte le ferite della guerra civile terminata nel 2005. Giacomo Zandonini ha raccolto la testimonianza di padre Claudio Marano, appena rientrato dal Burundi dopo trent’anni di servizio missionario:
R. - Il primo attentato è stato fatto domenica mattina. Il "generale", così chiamato in Burundi, era il numero due del Paese e per lunghi anni ha diretto la polizia segreta del Burundi. Era molto amato, specialmente dalla gente, perché spesso faceva dei gesti benevoli, e allo stesso tempo molto odiato perché si trovava in mezzo a tutte le questioni tragiche del Burundi. L’attentato è avvenuto in una maniera molto strana: si parla di una camionetta di militari che hanno mitragliato quella del "generale"; volevano assolutamente ucciderlo, non c’era nessuno scampo. Questo ha suscitato un grande momento di panico in tutta la città perché il "generale" era molto conosciuto. Si diceva sempre che se lo avessero attaccato sarebbe stata la rovina per tutto il Paese. Subito è partita l’idea di dire: “Hanno ucciso lui perché non sono riusciti ad uccidere il presidente”. La prima risposta arriva il lunedì sera quando Mbonimpa, il portabandiera dei diritti dell’uomo in Burundi, è stato ferito gravemente in un attentato. Mbonimpa è anche portavoce dell’opposizione, così questo si può leggere, nell’ambito della situazione politica in Burundi, come una prima risposta.
D. - Parliamo di Hutu, di Tutsi, di comunità che sono uscite da una guerra devastante per il Paese. Sono segnali di un possibile riaccendersi di questo conflitto?
R. - No, di un possibile aumento di questo conflitto, perché questo si è riacceso cinque mesi fa, quando il presidente aveva detto: “Io mi presento per la terza volta per la rielezione”. C’era già una tensione in atto con decine di morti – si parla di oltre 120 morti in un periodo di quattro mesi –, con centinaia di feriti, con centinaia di arresti e con oltre 160 mila profughi che erano già scappati. Le persone normali, quelle che hanno già vissuto la guerra fino al 2005, vorrebbero che la guerra non ricominciasse.
D. - Il Burundi è un piccolo Paese, eppure ha un ruolo piuttosto importante in una zona dove ci sono diversi conflitti. Ci sono anche, secondo lei, pressioni di altri Paesi? C’è un gioco più grande?
R. – Anche il Rwanda ha un presidente che sta lottando per il terzo mandato; il Congo ha un presidente che sta lottando per il terzo mandato; l’Uganda si trova nella stessa situazione. Quindi c'è una pressione enorme sul Burundi perché non scoppi tutto, altrimenti saltano anche i loro giochi. Una pressione enorme anche da parte dell’Onu e da parte dell’Unione Africana, che in seguito all’uccisione del "generale" ha subito rimesso in marcia una serie di incontri per riuscire a trovare delle soluzioni per il Paese, perché si trova in una situazione molto critica, non solamente a livello politico, ma anche a livello economico.
70 anni fa la bomba atomica su Hiroshima, 200mila le vittime
Il 6 agosto 1945 alle 8.15 la bomba atomica distruggeva la città giapponese di Hiroshima uccidendo 14mila persone nell’immediato: ma furono in totale circa 200mila le vittime a causa dei suoi effetti. Oggi, alle celebrazioni per il 70.mo, per la prima volta hanno partecipato rappresentanti del governo degli Stati Uniti. Alla cerimonia – cui hanno preso parte circa 120mila persone tra cui alcuni “hibashuka”, sopravvissuti - il premier nipponico Abe ha evidenziato che il Giappone ha “l’importante missione di realizzare un mondo libero dalle armi nucleari”. Per una testimonianza da Hiroshima, Roberta Barbi ha raggiunto padre Arnaldo Negri del Pime, parroco del Cristo Re di Nihara:
R. – Le celebrazioni ufficiali vengono fatte nel parco che è stato lasciato nell’epicentro della caduta della bomba atomica, alle quali partecipano sempre il primo ministro e le autorità principali del Giappone e anche dei Paesi stranieri. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica giapponese, nella cattedrale c’è sempre una Messa all’orario dell’esplosione della bomba atomica - 8.15 - in suffragio delle vittime. La cattedrale di Hiroshima è stata distrutta dalla bomba atomica e ricostruita, poi, con gli aiuti della Germania. È stata chiamata Cattedrale Memoriale della Pace e adesso è riconosciuta come monumento nazionale anche dal governo giapponese.
D. – Come la popolazione vive questo anniversario?
R. – Più o meno, c’è interesse, anche se c’è stato un sondaggio: si è domandato quale fosse il giorno in cui erano state sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Tra il 70% e l’80% della popolazione del Giappone ha indicato una data sbagliata. Soprattutto le giovani generazioni non hanno molto presente la cosa. A Hiroshima e Nagasaki è il contrario: il 70% indica la data giusta e il 20-30% la data sbagliata.
D. – Anche quest’anno lei ha portato al Peace Memorial Park i giovani della parrocchia …
R. – Tutti gli anni c’è una specie di processione verso sera: c’è una preghiera per la pace e poi in processione si arriva alla Cattedrale, dove c’è la celebrazione. Da alcuni anni partecipano anche anglicani ed altre comunità cristiane; sono i pochi gesti pubblici della diocesi di Hiroshima in tutto l’anno, quindi mi sembra importante partecipare.
D. – L’anno scorso la decisione del premier Abe di riavviare il programma nucleare per uso civile, interrotto dopo Fukushima, fu molto criticata …
R. – La gente qui, dopo quello che è successo a Fukushima, ha paura. Per motivi economici il governo la sovvenziona, però le popolazioni – soprattutto quelle vicine alle centrali nucleari – sono contrarie. Da quando hanno fatto le centrali, non hanno mai deciso dove si possano depositare le scorie. Verrà rimessa in attività una centrale nucleare il prossimo mese: dicono che hanno fatto lo “stress test”, però la gente, soprattutto le persone che si trovano vicine, non è tranquilla.
D. – Recentemente ha scatenato polemiche la proposta di legge in discussione in Giappone sull’allentamento delle restrizioni delle forze armate …
R. – La Chiesa è contraria a questa legge di interpretazione della Costituzione. Anche la popolazione: per la prima volta il Governo ha più persone che lo disapprovano che quelle che lo approvano. La ragione pare che sia, appunto, questa proposta di legge che il governo, con la maggioranza in Parlamento può far passare, e che vuol far passare a tutti i costi. Non è che il Giappone va a fare la guerra agli altri Paesi; è che il Giappone, fino ad ora, non ha mai partecipato a queste operazioni di forze di pace internazionali – tipo Iraq, Afghanistan, eccetera – e neanche nei cosiddetti “peacekeeping” dell’Onu. Cioè: dove ci sono possibilità di guerra, il Giappone non manda personale. Con questa scelta, può mandare forze armate in questi posti a rischio come parte di corpi internazionali.
D. - Il sindaco della città, nella sua tradizionale dichiarazione sulla pace del 6 agosto, ha invitato i leader mondiali a promuovere la fiducia reciproca e il dialogo. Cosa può insegnare la tragedia di Hiroshima all’uomo di oggi?
R. – Che la guerra si sa com’è: si sa come si comincia, ma non si sa mai come va a finire. Quello che è successo 70 anni fa con la II Guerra Mondiale può succedere adesso in qualsiasi momento. La guerra non è mai una scorciatoia per risolvere i problemi del mondo.
A Festival Locarno, suggestivo documentario sul Duomo di Milano
Il documentario di Massimo D'Anolfi e Martina Parente "L'Infinita Fabbrica del Duomo", un suggestivo racconto per immagini sulla nascita e vita del famoso edificio sacro milanese, aprirà oggi pomeriggio la sezione "Signs of Life" del Festival del Film di Locarno. Il servizio di Luca Pellegrini:
Il Duomo di Milano nasce insieme a un antico olmo. Nel 1386. Anno in cui s'iniziava a estrarre il marmo, in Val d’Ossola, per costruirlo. Da quella prima pietra, centinaia di migliaia di blocchi presero la via per la città lombarda. Un'opera infinita. Che ha attirato la curiosità di Massimo D'Anolfi e Martina Parente. Hanno dedicato a questo edificio sacro conosciuto nel mondo un originale documentario, che ci fa anche entrare nella vita notturna del celebre monumento. Le ragioni di questo interesse le spiega il regista.
“Io e Martina Parente viviamo a Milano. Volevamo fare un film sul Duomo da qualche anno. In realtà questo film, “L’infinita Fabbrica del Duomo”, appartiene a un progetto più grande: questo film che stiamo facendo sui quattro elementi della natura, l’idea dell’immortalità che si chiama “spira mirabilis” e la fabbrica del Duomo di Milano - il Duomo - sono l’elemento della Terra. Abbiamo un po’ studiato e abbiamo capito che c’era del materiale per provare a fare un film”.
Pochissimi, nello scorrere delle immagini, sono i riferimenti alla storia. Molto è lasciato all'operosità dell'uomo, che deposita secolo dopo secolo il proprio sapere artigianale e artistico in quest'opera lunga e colossale. Qual è il motivo?
“Questo è un film su un grande monumento: un monumento che, già fin dalla sua nascita, prevede che più generazioni si debbano adoperare per tirarlo su, e poi altre generazioni per mantenerlo. Quindi in qualche modo è proprio un’epopea degli umili e dei senza nome. Non è un’opera fatta da chissà quali grandissimi artisti, ma è un’opera della collettività, sia per come è stata costruita sia per come è stata finanziata, pensata. E questa cosa per noi era motivo di fascino: questa tensione verso l’eternità, l’immortalità”.
Cambiano le persone, nei secoli, come anche le opere d'arte. Nel film le statue vanno e vengono da un loro misterioso cimitero. Immagini silenziose e bellissime.
“È chiaro: il cuore del film - come dicevo - trattandosi di un film sugli elementi, era la Terra e il marmo. Il Duomo è un libro scritto sul marmo, e quindi le statue sono in qualche modo l’espressione migliore di questo lavorio. Il cimitero delle statue è indubbiamente un luogo magico, perché è il luogo dove le statue di un tempo vanno a riposare, poi vengono ricostituite, rigenerate da nuove statue. Insomma il film è un cerchio tra una sorta di Paradiso, Inferno e Purgatorio, tra le montagne, il cimitero e le altezze vertiginose delle guglie del Duomo”.
Cile, depenalizzazione aborto. Mons. Chomali: giorno triste
“Un giorno triste per il Cile”: così mons. Fernando Chomali, arcivescovo di Concepción, commenta, in una nota, l’approvazione, da parte della Commissione Salute della Camera dei deputati cileni, del progetto di legge per la depenalizzazione dell’aborto. La proposta normativa legittima l’interruzione volontaria di gravidanza in tre casi: quando la gestazione mette in pericolo la vita della madre, quando il feto presenta malformazioni incompatibili con la vita e nel caso in cui la madre sia rimasta incinta in seguito a una violenza.
Un progetto di legge contrario alla scienza e alla Costituzione
“Questo progetto di legge – scrive il presule, citato dall’agenzia Sir - è sordo a tante esperienze meravigliose dove donne, in situazioni drammatiche e dolorose frutto della gravidanza, grazie all’accompagnamento, all’amore, all’aiuto di diversi tipi, hanno partorito e sono andate avanti”. “È sordo - prosegue mons. Chomali - all’evidenza scientifica la quale dimostra che la vita ha inizio a partire dalla fecondazione. È sordo al dettato costituzionale che sancisce la cura ed il rispetto della vita del nascituro”.
Il Cile perde la possibilità di veder nascere i suoi compatrioti
Non solo: tale normativa “è sorda alle convenzioni internazionali che stabiliscono il diritto alla vita a partire dal concepimento. È sordo all’esperienza di altri Paesi dove si è iniziato legittimando solo tre casi e si è finiti con l’aborto libero”. “Il Cile ha perso – conclude l’arcivescovo - e noi ci priveremo, per la sordità di alcuni, di molti compatrioti che non hanno avuto l’opportunità di decidere rispetto alla propria vita. Altri, adulti, hanno deciso che le loro vite non meritano di essere vissute ed hanno usato il Parlamento per permettere di eliminarli”. “In queste condizioni – è l’amara conclusione del presule - lo Stato di diritto in Cile è una mera favola”.
Università Cattolica: violata la dignità di ogni essere umano
Sulla stessa linea anche l’Istituto superiore di bioetica e quello di Scienze della famiglia, appartenenti all’Università Cattolica della Santissima Concezione (Ucsc): “L’azione deliberata e volontaria di provocare la morte di un embrione o feto - scrivono gli Istituti in una nota - è sempre, dalla prospettiva etica, un atto illecito, al di là delle circostanze, anche quando queste siano molto dolorose”. “Non è legittimo voler raggiungere un bene attraverso un male – sottolineano gli enti - L’illiceità si fonda sul fatto che un’azione orientata a porre fine intenzionalmente ad una vita di una persona umana si oppone alla giustizia e al bene comune, viola direttamente il principio di non uccidere e non riconosce la dignità che spetta a ogni essere umano”. (I.P.)
Niger: riprendono vita parrocchie distrutte da violenze anticristiane
“Stiamo ricostruendo le chiese con i nostri mezzi e grazie alla generosità di tanti”: è con il sostegno di cristiani e non che in Niger stanno risorgendo, nelle diocesi di Niamey e Zinder, i luoghi di culto incendiati all’inizio di quest’anno da gruppi di integralisti islamici. A parlarne, in una lunga intervista pubblicata da linfodrome.com, è mons. Michel Cartatéguy, arcivescovo emerito di Niamey. Descrivendo l’avanzamento dei lavori, il presule ha spiegato che nelle parrocchie distrutte i restauri stanno procedendo poco alla volta. Saranno necessari 3 milioni di euro per recuperare la chiesa di Zinder e le 6 di Niamey arse dalle fiamme, saccheggiate, derubate e profanate; fino ad ora con le donazioni è stato coperto il 30 per cento delle spese previste.
Turbati dalle violenze, ma cristiani continuano a partecipare alle celebrazioni
Mons. Cartatéguy racconta che gli avvenimenti del gennaio scorso hanno turbato molto i cristiani, soprattutto perché le buone relazioni instaurate nel corso di questi anni con la comunità musulmana non facevano temere tensioni o minacce alla pacifica convivenza interreligiosa. Per questo, secondo il presule, le violenze dei mesi scorsi sono frutto di un integralismo islamico che non nasce in Niger, ma altrove. Per mons. Cartatéguy si tratterebbe di correnti integraliste provenienti da altri Paesi, anche attraverso predicatori stranieri, che avrebbero cambiato la mentalità della gente. E nonostante le violenze anticristiane abbiano seminato tanta paura, aggiunge l’arcivescovo, i fedeli hanno continuato a radunarsi ed a prendere parte alle celebrazioni organizzate sulle ceneri delle chiese bruciate. Anzi: alcuni cristiani che si erano allontanati sono tornati a partecipare alla vita della comunità cattolica.
Nella giovane Chiesa del Niger si contano oggi circa 25mila fedeli
Nell’intervista, mons. Cartatéguy spiega, poi, che oggi nelle diocesi di Niamey e Zinder si contano circa 25mila cristiani cattolici battezzati e che di questi quasi 6 mila sono nativi del Niger, mentre gli altri sono originari del Benin, Burkina Faso, Togo e Costa d’Avorio. I primi missionari sono giunti nel 1929. I sacerdoti diocesani sono una ventina - non tutti autoctoni - mentre sono una dozzina i seminaristi in formazione nel Burkina Faso; il Niger non ha infatti ancora un seminario così come la Costa d’Avorio, sicché la Chiesa locale è sostenuta da quella burkinabè.
Le violenze in Niger esplose anche per l’influenza di Boko Haram
Secondo mons. Cartatéguy le violenze esplose in Niger scaturirebbero anche dall’influenza esercitata da Boko Haram e sarebbero anche una forma di rifiuto delle ingerenze dell’Occidente “nelle questioni africane”. “Ci sono forme di democrazia occidentale che si vogliono imporre ovunque – afferma il presule – Ciò provoca in Africa una certa ostilità verso l’Occidente. È questo odio contro i Paesi occidentali che giustifica questa complicità o, piuttosto, per non usare una parola troppo forte, questa tolleranza verso Boko Haram”. Ora le due diocesi di Zinder e Niamey stanno tornando alla normalità; l’attuale arcivescovo di Niamey, mons. Laurent Lompo – per 13 anni stretto collaboratore di mons. Cartatéguy – sta proseguendo il lavoro cominciato dal suo predecessore, parla diverse lingue ed è molto vicino alla gente. (T.C.)
Alluvioni in Myanmar. Il card. Bo: aiuti urgenti per gli sfollati
Sono almeno 46 le vittime ed oltre 200mila i feriti delle alluvioni che hanno colpito in questi giorni il Myanmar. Migliaia le abitazioni, le strade ed i terreni agricoli inondati e distrutti dalle forti piogge monsoniche. Nello stato di Chin, in particolare, le inondazioni hanno provocato il cedimento della diga e nella città di Haka l’acqua ha travolto oltre 700 abitazioni. La pioggia non ha risparmiato neanche il campo profughi nello Stato di Rakhine, che ospitava circa 140mila musulmani Rohingya.
Altissimo il livello di devastazione. Urgono cibo e medicine
Di fronte a tale drammatica situazione, il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha lanciato un forte appello alla solidarietà, affinché si possano portare aiuti alle vittime ed agli sfollati. “Urgono medicine e generi di prima necessità – ha sottolineato il porporato – Il livello di devastazione è altissimo: in regioni del Paese in cui la povertà è cronica, gli indigenti hanno perso davvero tutto e sono diventati rifugiati”. In molti villaggi, inoltre, “c’è bisogno dei principali mezzi di sussistenza ed è per questo che facciamo appello a tutti gli uomini di buona volontà, affinché si facciano avanti per portare aiuto ai loro fratelli e sorelle” in difficoltà.
Colpiti anche Pakistan, Nepal e Vietnam
“Il bilancio delle vittime è in aumento – ha concluso il card. Bo – e cresce il pericolo della carestia e del propagarsi di epidemie tra gli sfollati”. Il Myanmar non è l’unico Paese colpito dalle alluvioni: inondazioni si registrano anche in Pakistan, dove le piogge hanno causato 109 morti e 700mila sfollati; in Nepal, dove 36 persone sono morte a causa delle frane, ed in Vietnam, dove 17 abitanti, incluse due famiglie, sono stati inghiottiti da un fiume di fango tossico. (I.P.)
La Chiesa argentina presenta le linee-guida contro abusi su minori
I delitti sessuali contro i bambini sono “un peccato grave che grida al cielo”: così la Conferenza episcopale argentina scrive nelle Linee-guida per i casi di abusi sessuali sui minori, perpetrati da alcuni sacerdoti. Il documento, approvato nell’aprile 2015 dalla 105.ma Assemblea plenaria argentina e poi inviato alla Santa Sede per la revisione finale, è stato presentato ufficialmente il 5 agosto a Buenos Aires, nell’ambito del corso “Aggiornamento della Curia nei delitti commessi da sacerdoti e religiosi”, organizzato dall’Università cattolica nazionale. Ad introdurre il testo, mons. Carlos Malfa, segretario generale dei vescovi.
Adesione ai criteri di trasparenza stabiliti dalla Santa Sede
Nelle Linee-guida, i presuli ribadiscono che l’abuso sessuale sui minori è un delitto, tanto nell’ordinamento giuridico canonico, tanto in quello dello Stato. Non solo: “Quando l’abuso sessuale su un minore viene commesso da un sacerdote – si legge nel documento – tale delitto assume una particolare gravità perché, oltre a ledere la dignità e l’integrità della vittima, implica la profanazione del ministero sacerdotale conferito tramite il sacramento dell’ordinazione”. Di qui, la volontà dei vescovi argentini di voler condividere la preoccupazione del Papa per questo tema, con il desiderio esplicito di “aderire senza riserve ai criteri di trasparenza e responsabilità stabiliti, in numerose occasioni, dalla Santa Sede” riguardo a casi simili.
Massima collaborazione tra Chiesa, Stato e società
Allo stesso tempo, la Chiesa di Buenos Aires esprime “la sua massima disponibilità a collaborare con la società e con le autorità competenti a livello nazionale e provinciale” per affrontare tale questione. L’episcopato argentino spiega, poi, che l’obiettivo delle Linee-guida è “quello di orientare i vescovi nel caso in cui debbano intervenire nelle loro rispettive giurisdizioni, dopo aver ricevuto notizie verosimili riguardanti i delitti di abuso sessuale sui minori, commessi da sacerdoti”.
Documento diviso in due parti. La prima è a carattere giuridico
Il documento è suddiviso in due parti: la prima è “focalizzata sugli aspetti pratici, esclusivamente giuridici. Per questo, essa fa riferimento alla legislazione canonica vigente, contenuta nel Motu proprio “Sacramentorum Sanctitatis Tutela”. Promulgato da Giovanni Paolo II nel 2001, tale Motu proprio attribuiva alla Congregazione per la Dottrina della Fede la competenza per trattare e giudicare, nell’ambito dell’ordinamento canonico, una serie di delitti particolarmente gravi. Il documento pontificio era poi accompagnato da una serie di Norme applicative e procedurali note come "Normae de gravioribus delictis".
Seconda parte è a carattere pastorale
Nel corso dei nove anni successivi tali Norme sono state aggiornate, in modo da poter sveltire o semplificare le procedure per renderle più efficaci, o tener conto di nuove problematiche. I delitti gravissimi a cui si riferiva questa normativa riguardano i sacramenti dell’Eucarestia e della Penitenza, e gli abusi sessuali commessi da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età. La seconda parte delle Linee-guida, invece, presenta alcuni orientamenti pastorali che si raccomanda di tenere in conto, “sommati alle esperienze acquisite dai vescovi e dai loro collaboratori, insieme alla Dottrina della Chiesa”.
Condotta immorale di pochi non sminuisce impegno di tanti
Infine, i presuli argentini esprimono riconoscenza ed apprezzamento per “i sacerdoti che servono con zelo apostolico il Popolo di Dio”. “La condotta immorale di pochi – concludono i vescovi – non squalifica, né sminuisce l’abnegazione con cui la maggioranza dei sacerdoti porta avanti tale servizio”. Di qui l’auspicio affinché tali Linee-guida contribuiscano ad “un migliore esercizio del ministero sacerdotale nella missione della Chiesa”. (I.P.)
Caraibi: colonizzazioni ideologiche minacciano famiglia
Resistere alle pressioni sociali e culturali che minano la dignità umana ed i valori tradizionali cristiani nelle società caraibiche. Con questo invito si è conclusa recentemente, sull’isola di Antigua, l’assemblea annuale dei giovani dei Caraibi. Al centro dell’incontro, che ha visto riuniti per nove giorni ragazzi da tutti i Paesi della regione, una riflessione sulla Sesta Beatitudine: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8) — tema scelto da Papa Francesco per la XXX Giornata mondiale della Gioventù 2015 — con uno sguardo alla famiglia in vista del Sinodo del prossimo ottobre.
I valori della famiglia minacciati anche nei Caraibi da nuove ideologie
Un tema di particolare attualità anche nei Caraibi, dove i valori della famiglia sono oggi minacciati da ideologie estranee alle culture locali che ne vogliono snaturare il fondamento e la struttura. Lo ha sottolineato, nella Messa conclusiva, mons. Kenneth David Oswin Richards, vescovo di Saint John's Basseterre e presidente della Commissione per la Gioventù della Conferenza episcopale delle Antille (Aec). Alludendo alla recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha legalizzato i matrimoni omosessuali, il presule ha messo in guardia i partecipanti dalle insidie e dalla pervasività dei mutamenti socio-culturali in atto in diversi Paesi nel mondo: “Dobbiamo riconoscere che le nuove leggi che stanno ridefinendo il matrimonio e la famiglia – ha detto il presule nella sua omelia - non vengono imposte con la forza, ma attraverso pressioni culturali favorite da un’involuzione dei comportamenti sociali”.
I giovani esortati a resistere alla colonizzazione ideologica sulla famiglia
Anche nella regione caraibica – ha ammonito mons. Richards - non mancano leader politici che “flirtano con queste idee, spesso condizionati dai requisiti imposti dalla comunità internazionale per accedere ad aiuti economici”. Di qui l’esortazione ai giovani dei Caraibi ad impegnarsi per contrastare questa pericolosa deriva: “Insieme dobbiamo fare in modo che i nostri leader resistano a tali pressioni ed alla tentazione di sostituire i valori tradizionali cristiani su cui si fondano le nostre nazioni, imitando modelli sociali di comportamento che si stanno affermando in altri Paesi”.
Al centro dell’assemblea, la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia
L’assemblea di Antigua è stata preceduta da una lunga preparazione iniziata lo scorso gennaio in cui i giovani delle diocesi caraibiche sono stati invitati a studiare importanti documenti ecclesiali sul matrimonio e la famiglia e in particolare sull’Enciclica “Casti Connubii” Pio XI. Durante i nove giorni di incontri, i partecipanti hanno svolto esposizioni sul documento pontificio e si sono quindi confrontati sulle sfide della famiglia oggi nelle realtà locali, alla luce degli insegnamenti della Chiesa. (L.Z.)
Eurotunnel. Vescovi inglesi: riconoscere disperazione di chi cerca asilo
Riconoscere “la disperazione di chi cerca asilo”: questo l’appello lanciato da mons. Patrick Lynch, responsabile dei migranti per la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles. In una lettera pubblicata sul “Daily Telegraph”, il presule interviene, così, sulla situazione dei migranti a Calais che in questi giorni hanno tentato di attraversare l’Eurotunnel sotto la Manica per arrivare nel Regno Unito. Rivolgendosi a Francia ed Inghilterra, mons. Lynch esorta, quindi, a mettere in atto, soprattutto in Francia, “procedure più efficienti per valutare in modo equo e rapido i richiedenti asilo”.
Servono procedure più efficienti per valutare i richiedenti asilo
“Mi ha rincuorato - scrive il vescovo, citato dall’agenzia Sir - leggere l’impegno congiunto di Theresa May, il ministro degli Interni, e di Bernard Cazeneuve, il suo omologo francese, per fornire protezione a chi fugge da un conflitto e perseguire, invece, i criminali spietati che incoraggiano così tante persone a intraprendere un viaggio pericoloso”. “Dobbiamo rispondere alla situazione a Calais – sottolinea mons. Lynch - riconoscendo la disperazione di coloro che chiedono asilo, e contribuendo a mettere in atto, soprattutto in Francia, procedure più efficienti per valutare in modo equo e rapido i richiedenti asilo”. Di qui, l’invito ad una maggiore collaborazione con Parigi “per migliorare le misure di sicurezza, e sostenere chi, come in Italia, Grecia, Spagna e Malta, è impegnato in missioni di soccorso per le migliaia di migranti che attraversano il Mediterraneo”.
Collaborare con governi, agenzie umanitarie e comunità di fede
“A livello globale - prosegue il presule - vorrei incoraggiare il nostro governo a lavorare a stretto contatto con gli altri governi, agenzie umanitarie e comunità di fede dei Paesi da cui provengono i migranti e dei Paesi che li accolgono”, anche perché “le cause di questa migrazione di massa sono complesse: conflitti armati, guerre civili, l’ascesa del così detto Stato Islamico, il fallimento di alcuni Paesi e la loro incapacità a funzionare adeguatamente, la depressione sociale e la povertà”. “Tutti questi fattori – evidenzia il vescovo inglese - acuiscono la disperazione” ed è per questo che “le Chiese e le comunità di fede in alcune di queste nazioni agiscono unicamente per offrire assistenza a coloro che fuggono dal conflitto, ma anche per aiutare le persone, soprattutto i più vulnerabili, a non cadere nelle false promesse dei trafficanti di esseri umani”.
La Commissione Europea stanzia fondi per gestire l’emergenza
Intanto, la Commissione europea ha reso noto di aver stanziato una prima somma, pari a 20 milioni di euro, per assistere Parigi nella gestione della situazione sul versante francese della Manica. Quanto a Londra, Bruxelles ha già erogato 27 milioni di euro. (I.P.)
Laudato si’: su Radio Vaticana adattamento radiofonico in 14 puntate
“Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio”: per chi resta in città o si trova in vacanza al mare e in montagna, l’occasione per riflettere sul valore del Creato e sul rispetto che l’uomo deve alla natura, nel contesto dell’ecologia “integrale” promossa da Papa Francesco. Tutti i giorni, da lunedì 10 agosto a domenica 23 agosto, alle ore 18.30, la Radio Vaticana trasmette l'adattamento radiofonico della Enciclica del Papa Laudato si' sulla cura della casa comune.
Trasmissione su Laudato si’ rivolta soprattutto ai non vedenti
L'iniziativa si rivolge inoltre alle persone non vedenti, ipovedenti e con difficoltà visiva che possono "leggere" l'Enciclica ascoltando la radio. Si tratta di 14 puntate che ripropongono in forma integrale la lettura del testo arricchito da voci, suoni e suggestioni tipiche dell’ambiente naturale. L'adattamento radiofonico e la regia sono di Mara Miceli, con il contributo di Daniela Pagliara. Le voci di Francesca Rossiello e Gaetano Lizio. E' una produzione Radio Vaticana, in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana.
L'adattamento radiofonico dell’Enciclica anche su DAB+ e sulle App
La trasmissione dell’Enciclica Laudato sì di Papa Francesco avviene in tecnica digitale, grazie alle nuove frequenze della radio digitale, il DAB+, che in collaborazione con il circuito Eurodab Italia e Rtl 102.5, permettono al canale italiano della Radio Vaticana di coprire oltre il 65% del territorio italiano, in attesa di completare la copertura nazionale entro i prossimi mesi (www.digitalradio.it). A Roma, in provincia, sul litorale laziale si può ascoltare la versione radiofonica della Laudato sì su 105FM e 585OM, nel Lazio sul canale tv 882, in streaming su it.radiovaticana.va oltre alle App per Android e iPad scaricabili dal sito www.radiovaticana.va. La trasmissione sarà riproposta settimanalmente dalla Radio Vaticana a partire dal 2 settembre fino al 2 dicembre 2015, tutti i martedì alle ore 21.00, in preparazione all’apertura della Porta Santa del Giubileo straordinario della Misericordia promosso da Papa Francesco.
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 218