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Sommario del 31/10/2014

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Nella Chiesa e nel mondo

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa ai carismatici: l'unità non è uniformità ma neanche perdere identità

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La Chiesa ha bisogno dello Spirito Santo. E’ quanto affermato da Papa Francesco nel discorso ai membri dell’associazione carismatica mondiale Catholic Fraternity ricevuti in occasione della loro 16.ma Conferenza internazionale. Il Pontefice ha ribadito che l’uniformità non è cattolica ed ha messo l’accento sull’ecumenismo del sangue che unisce i tanti cristiani martiri in varie parti del mondo. A guidare i carismatici, il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa. Presente anche il pastore Giovanni Traettino, amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio. Il servizio di Alessandro Gisotti: 

Condividere la stessa casa come testimonianza di unità. Papa Francesco ha iniziato il suo intervento ringraziando Catholic Fraternity e i movimenti carismatici cattolici riuniti nell’ICCRS per aver scelto di condividere lo stesso ufficio nel Palazzo San Calisto in Vaticano. Un segno che il Pontefice aveva chiesto in occasione del grande incontro allo Stadio Olimpico con il Rinnovamento Carismatico. Francesco ha centrato il suo intervento sul tema dell’unità nella diversità. “L’uniformità – ha detto – non è cattolica, non è cristiana”. Bisogna invece cercare “l’unità nella diversità. L’unità cattolica è diversa ma è una”:

“L’unità non è uniformità, non è fare obbligatoriamente tutto insieme, né pensare allo stesso modo, neppure perdere l’identità”.

“Unità nella diversità – ha soggiunto – è precisamente il contrario, è riconoscere e accettare con gioia i diversi doni che lo Spirito Santo dà ad ognuno e metterli al servizio di tutti nella Chiesa”:

“L’unità è saper ascoltare, accettare le differenze, avere la libertà di pensare diversamente e manifestarlo! Con tutto il rispetto per l’altro che è il mio fratello. Non abbiate paura delle differenze!”.

La Chiesa, ha soggiunto, “ha bisogno dello Spirito Santo”, “ogni cristiano, nella sua vita, ha bisogno di aprire il suo cuore all’azione santificante dello Spirito Santo”. E ha esortato il mondo carismatico a condividere questa esperienza, ad “essere testimoni di questo”. Francesco si è quindi soffermato sulla lode che, ha detto, “ci dà vita, perché è l’intimità con Dio”. Il Papa ha paragonato la preghiera alla respirazione. “Quando inspiriamo, nella preghiera – ha osservato – riceviamo l’aria nuova dello Spirito e nell’espirarlo annunciamo Gesù Cristo suscitato dallo stesso" Spirito Santo:

“Nessuno può vivere senza respirare. Lo stesso è per il cristiano: senza la lode e senza la missione non vive da cristiano. E con la lode, l’adorazione. Ma, si parla di adorare, si parla poco. 'Ma cosa si fa nella preghiera?' - 'Ma chiedo cose a Dio, ringrazio, ma si fa l’intercessione…' Ma l’adorazione, adorare Dio. Ma questo è parte di questa respirazione: la lode e l’adorazione”.

Il Papa ha rammentato che è stato il Rinnovamento Carismatico che ha “ricordato alla Chiesa la necessità e l’importanza della preghiera di lode”. Insieme ad essa, ha detto ancora, “la preghiera di intercessione è oggi un grido al Padre per i nostri fratelli cristiani perseguitati e assassinati e per la pace nel nostro mondo sconvolto”:

“Questo si deve fare e non dimenticare che oggi il sangue di Gesù, versato dai suoi molti martiri cristiani in varie parti del mondo, ci interpella e ci spinge all’unità. Per i persecutori, noi non siamo divisi, non siamo luterani, ortodossi, evangelici, cattolici… No! Siamo uno! Per i persecutori siamo cristiani! Non interessa oltre. Questo è l’ecumenismo del sangue che oggi si vive”.

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Il Papa: l'amore, non l'attaccamento alla legge, apre le porte della speranza

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Cristiani così attaccati alla legge da trascurare la giustizia e cristiani legati all’amore che danno pieno compimento alla legge: ne ha parlato Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il servizio di Sergio Centofanti

Nel Vangelo del giorno, Gesù chiede ai farisei se sia lecito o no guarire di sabato, ma loro non rispondono. Lui, allora, prende per mano un malato e lo guarisce. I farisei – nota il Papa – messi di fronte alla verità, tacevano ”ma poi sparlavano dietro … e cercavano come farlo cadere”. Gesù rimprovera questa gente che “era tanto attaccata alla legge, che aveva dimenticato la giustizia” e negava perfino l’aiuto ai genitori anziani con la scusa di aver dato tutto in dono al Tempio. Ma “chi è più importante? – chiede il Papa - Il quarto Comandamento o il Tempio?“:

“Questa strada di vivere attaccati alla legge, li allontanava dall’amore e dalla giustizia. Curavano la legge, trascuravano la giustizia. Curavano la legge, trascuravano l’amore. Erano modelli: erano i modelli. E Gesù per questa gente soltanto trova una parola: ipocriti. Da una parte, vai in tutto il mondo cercando proseliti: voi cercate. E poi? Chiudete la porta. Uomini di chiusura, uomini tanto attaccati alla legge, alla lettera della legge, non alla legge, ché la legge è amore; ma alla lettera della legge, che sempre chiudevano le porte della speranza, dell’amore, della salvezza … Uomini che soltanto sapevano chiudere”.

“Il cammino per essere fedeli alla legge, senza trascurare la giustizia, senza trascurare l’amore” – ha proseguito il Papa citando la Lettera di San Paolo ai Filippesi – “è il cammino inverso: dall’amore all’integrità; dall’amore al discernimento; dall’amore alla legge”:

“Questa è la strada che ci insegna Gesù, totalmente opposta a quella dei dottori della legge. E questa strada dall’amore alla giustizia, porta a Dio. Invece, l’altra strada, di essere attaccati soltanto alla legge, alla lettera della legge, porta alla chiusura, porta all’egoismo. La strada che va dall’amore alla conoscenza e al discernimento, al pieno compimento, porta alla santità, alla salvezza, all’incontro con Gesù. Invece, questa strada porta all’egoismo, alla superbia di sentirsi giusti, a quella santità fra virgolette delle apparenze, no? Gesù dice a questa gente: ‘Ma, a voi piace farvi vedere dalla gente come uomini di preghiera, di digiuno …’: farsi vedere, no? E per questo Gesù dice alla gente: ‘Ma, fate quello che dicono, ma non quello che fanno’”.

Queste – osserva il Papa – “sono le due strade e ci sono piccoli gesti di Gesù che ci fanno capire questa strada dall’amore alla piena conoscenza e al discernimento”. Gesù ci prende per mano e ci guarisce:

“Gesù si avvicina: la vicinanza è proprio la prova che noi andiamo sulla vera strada. Perché è proprio la strada che ha scelto Dio per salvarci: la vicinanza. Si avvicinò a noi, si è fatto uomo. La carne: la carne di Dio è il segno; la carne di Dio è il segno della vera giustizia. Dio che si è fatto uomo come uno di noi, e noi che dobbiamo farci come gli altri, come i bisognosi, come quelli che hanno bisogno del nostro aiuto”.

“La carne di Gesù” – afferma il Papa -  “è il ponte che ci avvicina a Dio … non è la lettera della legge: no! Nella carne di Cristo, la legge ha il pieno compimento” ed “è una carne che sa soffrire, che ha dato la sua vita per noi”. “Che questi esempi, questo esempio di vicinanza di Gesù, dall’amore alla pienezza della legge – ha concluso Papa Francesco - ci aiutino a mai scivolare nell’ipocrisia: mai. E’ tanto brutto, un cristiano ipocrita. Tanto brutto. Che il Signore ci salvi da questo!”.

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Altre udienze e nomine di Papa Francesco

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Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza: Bruno Nève de Mévergnies, ambasciatore del Belgio presso la Santa Sede, in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali; mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, arcivescovo tit. di Tibica, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede; mons. Martin Krebs, arcivescovo tit. di Taborenta, nunzio apostolico in Nuova Zelanda, Fiji, Isole Cook, Kiribati, Palau, Samoa, Stati Federati di Micronesia, Vanuatu, Tonga; delegato Apostolico nell’Oceano Pacifico; mons. Sérgio da Rocha, Arcivescovo di Brasília (Brasile).

In Camerun, Francesco ha nominato Arcivescovo di Yaoundé mons. Jean Mbarga, finora vescovo di Ebolowa e Amministratore Apostolico della medesima arcidiocesi di Yaoundé.

Il Santo Padre ha nominato Consultori della Congregazione delle Cause dei Santi il Reverendissimo P. Bernard Ardura, O. Praem., Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche; i Rev.di Mons. Alejandro Cifres Giménez, Archivista della Congregazione per la Dottrina della Fede; Don Paolo Carlotti, S.D.B., Consigliere della Penitenzieria Apostolica; P. Tomislav Mrkonjić, O.F.M. Conv., Scriptor dell'Archivio Segreto Vaticano; P. Paul Murray, O.P., Preside dell'Istituto di Spiritualità della Pontificia Università S. Tommaso d'Aquino; P. Martin McKeever, C.SS.R., Preside dell'Accademia Alfonsiana; P. Jordi-Augustí Piqué-Collado, O.S.B., Preside del Pontificio Istituto Liturgico del Pontificio Ateneo Sant'Anselmo; P. Rocco Ronzani, O.S.A., Vice Preside dell'Istituto Patristico "Augustinianum"; P. Pablo Santiago Zambruno, O.P., Docente presso la Pontificia Università S. Tommaso d'Aquino; P. Raffaele Di Muro, O.F.M. Conv., Docente alla Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"; gli Illustrissimi Prof. Gabriele Zaccagnini, già Docente all'Università di Pisa; Prof.ssa Angela Ales Bello, Membro Ordinario della Pontificia Accademia di Teologia.

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Missione di mons. Dal Toso, segretario di Cor Unum, a Damasco

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Il segretario del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, mons. Giampietro Dal Toso, ha concluso oggi una visita a Damasco, iniziata il 28 ottobre scorso, per prendere parte alla riunione dell'assemblea dei vescovi cattolici in Siria. Il presule ha incontrato anche diverse istituzioni, in particolare cattoliche, che in questo momento di crisi stanno realizzando attività di assistenza umanitaria nel paese. Nei suoi incontri si è particolarmente apprezzato l'impegno del Santo Padre e della Santa Sede per sostenere le comunità cristiane e tutta la popolazione che soffre per le conseguenze del conflitto e per invitare le diverse parti al dialogo e alla riconciliazione.

Si è anche sottolineato l'importante ruolo degli organismi cattolici di aiuto, di cui è beneficiaria tutta la popolazione siriana. Anche grazie al generoso contributo della comunità internazionale, di fronte alle crescenti necessità, tale aiuto dovrà intensificarsi in futuro.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

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In prima pagina, in apertura, “Col ritmo del respiro”; Papa Francesco invita i carismatici a non temere le diversità e a cercare l’unità che è opera dello Spirito.

Di spalla, Scongiurata in Europa l’emergenza gas; accordo tra Ucraina, Russia e Unione Europea.

A pagina 4, "Il puzzle del Beato Angelico, Una Tebaide ritrovata al Museo Condé di Chantilly" di Silvia Guidi e "Quel che i seminaristi dovrebbero sapere su arte sacra e architettura religiosa", di Duncan Stroik.

Nella pagina seguente, "I fogli di Pacelli; negli appunti del segretario di Stato di Pio XI lo specchio di una situazione difficile" di Sergio Pagano, vescovo prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano.

A pagina 8, "La legge e la carne", il riassunto dell'omelia tenuta da Papa Francesco alla Messa celebrata venerdì mattina, 31 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.

Ci sono «due strade», ha detto il Papa, ed è Gesù stesso, con i suoi «gesti di vicinanza», a darci l’indicazione giusta su quale prendere. Da una parte, infatti, c’è la strada degli «ipocriti», che chiudono le porte a causa del loro attaccamento alla «lettera della legge». Dall’altra, invece, c’è «la strada della carità», che passa «dall’amore alla vera giustizia che è dentro la legge».

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Oggi in Primo Piano



Accordo Ue-Russia-Ucraina su forniture gas

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Nuove speranze per la crisi ucraina dopo l’accordo di ieri sera tra Kiev, Mosca e l'Unione Europea sulle forniture di gas russo. Il flusso sarà garantito fino a marzo 2015 in cambio del saldo parziale dei debiti pregressi dell’Ucraina e di un anticipo sulle forniture del prossimo inverno. Il presidente russo Putin, la cancelliera tedesca Merkel, il presidente francese Hollande e quello ucraino Poroshenko, si sono reciprocamente congratulati e hanno garantito il massimo impegno per l’attuazione dell’accordo. Sullo sfondo però resta la crisi politico-militare nelle regioni orientali filo-russe dell’Ucraina: un civile è morto e un altro è rimasto ferito nei bombardamenti che si sono abbattuti nella notte sulla città di Donetsk. Per un commento sull’intesa sulle forniture di gas, Marco Guerra ha intervisto Aldo Ferrari, ricercatore dell’Ispi e docente alla Ca’ Foscari di Venezia: 

R. - Diciamo che è il primo punto di una possibile soluzione della questione ucraina, che ormai da molti mesi, sta veramente dissestando non solo il Paese stesso, ma anche i rapporti tra la Russia e l’Occidente. Da questo punto di vista l’accordo è benvenuto sia dal punto di vista della possibilità di soluzione della crisi economica ucraina - che è l’aspetto più grave, anche se normalmente viene sottaciuto rispetto a quello politico-militare - sia anche come avvio per il necessario miglioramento e del ritorno alla normalità dei rapporti tra la Russia e l’Occidente, in particolare con l’Unione Europea.

D. - L’accordo è stato raggiunto anche grazie ai programmi di assistenza finanziaria che il Fondo monetario internazionale e l’Ue hanno messo a disposizione di Kiev. Quindi l’Ucraina è sempre più legata all’Europa?

R. - L’Ucraina è sempre più legata all’Europa, ma c’è anche il rovescio della medaglia: nel senso che l’Europa si fa carico delle speranze di risanamento economico dell’Ucraina. E’ una responsabilità seria, perché sappiamo bene come la situazione economica europea non sia delle migliori. Ci esponiamo per ragioni politiche ad un forte rischio economico: la speranza è che il calcolo sia corretto e che soprattutto si riesca a giungere a questa stabilizzazione economica dell’Ucraina, che al momento appare lontana e problematica.

D. - Grazie - diciamo - alle risorse energetiche, la Russia continuerà a esercitare un certo condizionamento sull’Europa…

R. - Bisogna sempre tener presente che è un gioco a due facce: la Russia può esercitare un influsso sull’Europa, ma la Russia ha bisogno di vendere il gas e il petrolio all’Europa. Naturalmente può rivolgersi ad altri mercati e in parte lo ha già fatto verso la Cina ma in questa situazione - per fortuna! - i legami tra l’Europa e la Russia sono tali da rendere necessaria la coesistenza e il miglioramento il più possibile immediato dei rapporti.

D. - Nelle regioni orientali ucraine proseguono i combattimenti: sul terreno può avere un risvolto positivo questo accordo?

R. - Teoricamente sì, ma qui in realtà ci si muove su un piano differente: l’esistenza stessa di questa regione orientale è come una sorta di cuneo russo all’interno della stabilità ucraina e risponde a logiche diverse: risponde al desiderio di Mosca di mantenere una propria presenza e di indebolire la nuova leadership ucraina, oltre che naturalmente controllare il territorio prevalentemente russofono. Da questo punto di vista, purtroppo, le dinamiche sul terreno sono abbastanza distinte da quelle economiche. Non sono affatto sicuro che la situazione possa rapidamente e completamente migliorare in queste regioni.

D. - Sempre in queste regioni domenica si vota per dei consigli locali, votati dai filorussi. Queste elezioni riconosciute da Mosca, ma non da Kiev, che significato hanno?

R. - E’ chiaro che sono illegittime dal punto di vista del diritto internazionale, ma sono reali! Io temo che questa regione orientale dell’Ucraina vada - attraverso queste elezioni e attraverso l’appoggio di Mosca - ad aggiungersi a quelle altre entità e quegli Stati de facto, ma non de iure che già esistono, come Transnistria e la stessa Ucraina, la Abkhazia e  … in Georgia - nei quali esiste una realtà non riconosciuta internazionalmente, che però è reale. Quindi temo che da questo punto di vista le elezioni andranno a sancire una realtà problematica… E’ una realtà, anche se non internazionalmente riconosciuta.

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Burkina Faso: il presidente Compaoré annuncia le dimissioni

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Ancora forti tensioni oggi nella capitale del Burkina Faso, dopo che nella notte il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Traorè, ha preso il potere. E’ di poco fa la notizia che il presidente Blaise Compaoré ha annunciato di volersi dimettere e di auspicare “elezioni libere e trasparenti” entro 90 giorni. Le opposizioni, in rivolta da 4 giorni, erano giunte, questa notte ad incendiare alcuni dei palazzi governativi per protestare contro la riforma costituzionale che il presidente aveva avviato per prolungare il suo mandato. Il servizio di Elvira Ragosta

Annuncia di voler lasciare il presidente del Burkina Faso, Compaorè, nel quarto giorno di proteste contro di lui. Questa mattina decine di migliaia di manifestanti, secondo fonti locali, sono scesi in piazza. La maggior parte degli oppositori si sarebbe concentrata davanti alla sede dello Stato maggiore di difesa, il cui capo, il generale Traoré, da questa notte ha preso il potere. Contro di lui, l’accusa di essere troppo vicino al presidente, mentre i manifestanti chiedono a gran voce che la fase di delicata transizione sia retta dall’ex ministro della Difesa, il generale in pensione Lougué. Sull’argomento abbiamo intervistato Gianpaolo Calchi Novati, docente di Storia dell’Africa e Direttore del Programma Africa dell’Ispi:

R. - C’è una certa ambiguità nel ruolo dei militari nel Burkina Faso, perché è stato un colpo di Stato militare, anni fa, ad aver portato addirittura alla creazione di questo nome dello Stato, che una volta si chiamava Alto Volta, e all’inaugurazione di un regime che fu molto popolare, con alla testa un militare, Thomas Sankara, che poi è stato assassinato in condizioni misteriose, probabilmente con responsabilità dell’attuale presidente. Dunque i militari non sono necessariamente dei complottisti contro le istituzioni, ma possono essere l’ossatura di un mutamento politico. Questo a livello di immagine popolare è quasi di speranza da parte della popolazione.

D. - La situazione è in evoluzione continua, che prospettive si possono aprire per il Paese?

R. - La vera prospettiva è come verrà percepito dai Paesi africani questo intervento, che non si capisce se voglia semplicemente parare l’emergenza oppure prendere il potere. Queste strade sono aperte e non solo a livello interno, ma anche sul piano continentale.

D. - A proposito, in questa crisi politica, quando possono pesare i rapporti del Burkina Faso con i Paesi confinanti, come il Mali e il Niger?

R. - Molto! Compaoré veniva percepito dalle forze politiche - diciamo - antiradicali, per non usare la parola moderate, e dagli stessi Paesi occidentali come un elemento di moderazione appunto e di mantenimento di un certo ordine in una fase di grossa destabilizzazione dell’intera regione. Compaoré fu perfino nominato mediatore nella crisi del Mali, perché di esso si fidavano sia l’Unione Africana che l’Onu, che le potenze occidentali. Siccome c’è in tutta la regione questa tensione fra elementi - diciamo - jihadisti, spesso collegati con varie forme di mafie e di criminalità generale, non politica, questo peso della situazione regionale inevitabilmente va ad influire sul Burkina Faso sia come possibile movente della crisi, sia come possibile movente di un intervento militare che risolva - attraverso l’uso della forza - la possibile destabilizzazione del Paese. 

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Elezioni in Myanmar: i militari incontrano leader opposizioni

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In Myanmar importanti consultazioni in vista delle elezioni del prossimo anno. La leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi ha partecipato alla tavola rotonda voluta dal presidente Thein Sein con i leader delle opposizioni, i vertici militari e i gruppi etnici. Si tratta del primo incontro del genere nel Paese e arriva a pochi giorni dall’annuncio che le prossime legislative si terranno tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre del 2015. Nel 2010 si sono tenute le prime elezioni generali in 20 anni ma l’opposizione le ha boicottate denunciando meccanismi non democratici di voto.  Delle prospettive che si aprono oggi per il Paese asiatico, Fausta Speranza ha parlato con Alessandro Pio, consigliere scientifico dell’Ispi, Istituto Studi di Politica Internazionale: 

R. - Diciamo che il Myanmar ci ha abituato alle buone sorprese, nel senso che quando Thein Sein è diventato Presidente, qualche anno fa, pochi si aspettavano il grado di apertura che poi è seguito. Quindi diciamo che ci sono dei precedenti che lasciano ben sperare. Chiaramente il timing di questo annuncio e di questi incontri quasi coincide con la visita del Presidente Obama in Myanmar, prevista per il 12-13 novembre. E c’è la questione del sollevamento temporaneo delle sanzioni economiche sul Myanmar che il Myanmar chiaramente vorrebbe che diventasse definitivo: è una leva molto importante per un’apertura democratica del Paese.

D. - Processo di pace, riconciliazione e riforme politiche: sono questi i nodi chiave?

R. - Direi di sì, ma non bisogna dimenticare ovviamente anche la modernizzazione dell’economia. Una delle sfide su cui bisogna vedere come si giocano non solo queste elezioni ma anche quelle future, è che al momento i militari hanno garantito un 25% dei posti nel Parlamento: il che essenzialmente blocca qualunque tentativo di riforma della Costituzione, che ha bisogno di una maggioranza qualificata. Quindi fin quando non ci sarà una riforma della costituzione, questo indubbiamente porrà dei limiti all’ampiezza delle riforme politiche. L’altra sfida è quella economica, nel senso che il Myanmar è un Paese ricco pieno di gente povera: è un Paese che di fatto ha grosse risorse naturali, ma la cui economia ancora non ha decollato.

D. - Il Presidente Obama, appunto, ha sottolineato che c’è da augurarsi che nel 2015 il voto sia “credibile e inclusivo”…

R. - Ovviamente si riferisce al fatto che ci sono state pesanti intimidazioni all’opposizione in passato: Aung San Suu Kyi è rimasta praticamente agli arresti domiciliari per decenni… Per cui evidentemente c’è una track record del passato che va un pochino cambiata per avere credibilità internazionale.

D. - E sul piano economico, invece, quali potrebbero essere i veri cambiamenti?

R. - Sul piano economico essenzialmente si tratta di continuare quel processo di liberalizzazione dell’economia che permetta alle forze di mercato di cercare un ruolo più ampio e di mantenere al tempo stesso le tutele sociali che qualunque Paese in via di sviluppo, ma anche Paesi sviluppati, tentano di mantenere. Certamente anche l’esercito ha avuto un grosso peso nell’economia e quindi una delle sfide è riuscire gradualmente a rimuovere il controllo e l’influenza militare sugli aspetti economici, soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali - legno, idrocarburi, etc - rendendola così un’economia più aperta e competitiva.

D. - Pensiamo un momento al contesto geopolitico: che dire del Myanmar in Asia?

R. - Il Myanmar è un grosso Paese, che è praticamente l’anello di congiunzione fra l’Asia del Sud - quindi, diciamo, l’India - e il Sudest Asiatico, che è l’altro blocco e che, se preso nel suo complesso,  - pensiamo ai Paesi Asean e quindi 600 milioni di persone - può essere un terzo polo di equilibro tra Cina, India e Sudest Asiatico. Quindi il Myanmar è un importante ponte terreste - se vogliamo - tra l’Asia del Sud e il Sudest Asiatico; il Myanmar è un Paese che proprio per l’isolamento internazionale si è trovato, fino a qualche anno fa, ad essere molto vicino alla Cina: tanto vicino che forse gli stessi governanti militari dell’epoca si sono sentiti un po’ troppo vicini e con l’apertura hanno voluto cercare anche di diversificare un pochino le loro relazioni internazionali, aprendo quindi al Sudest Asiatico e ai Paesi occidentali.

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Terni. Bregantini: governo capisca disagio operai, sindacato non si chiuda

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Continua a crescere in Italia la disoccupazione: secondo l’Istat, sono senza lavoro quasi il 43% dei giovani. Intanto, a Terni proseguono lo sciopero e i presìdi degli operai dell’Ast davanti alle Acciaierie. Giovedì riparte la trattativa tra le parti. Il clima è di alta tensione e nervosismo dopo gli scontri dell’altro ieri a Roma. Luca Collodi ne ha parlato con mons. Giancarlo Bregantini, presidente della Commissione Cei per le questioni sociali e il lavoro: 

R. - È molto vero. Un nervosismo che a tratti diventa rabbia, anche perché l’episodio dell’altro ieri ha creato quasi una barriera tra le esigenze legittime del mondo del lavoro, esasperato da questi numeri tremendi di licenziamenti, con la realtà governativa che non si è fatta capace di capire ed interpretare. Questo è il nodo maggiore. Al di là dei manganelli, il problema resta il cuore che deve saper capire, interpretare, leggere questo disagio e questa rabbia che c’è dentro.

D. - Di fatto, oggi, tutelare i lavoratori è sempre più difficile …

R. - Questo sì, ma non solo per la politica, ma anche perché le problematiche mondiali sono di recessione, perché l’Europa è chiusa ancora in un guscio di difesa, perché il mondo sindacale è incerto, e a tratti difensivo di sé stesso, perché anche la quotidianità è carente di speranza. Ed è questa la vera sfida relativa anche al discorso ecclesiale. Anche noi abbiamo le nostre gravissime carenze, poiché non abituiamo più i nostri fedeli a rischiare, a guardare al domani, a investire, invece che tenere i pochi soldi che abbiamo alla posta o in qualche azione bancaria. Occorre investire di più. C’è un insieme di corresponsabili, tra cui anche la nostra poca forza nella proposta cristiana.

D. - Oggi questo dialogo non facile tra il sindacato e il maggior partito della sinistra può creare maggiori problemi ai lavoratori?

R. - Moltissimi. È una delle cose che vanno assolutamente superate. E va superata con un dialogo di grande responsabilità e di forte riflessione culturale. A mio giudizio il sindacato deve avere la capacità di guardare oltre le realtà antiche, oltre l’Articolo 18, oltre tutta una serie di situazioni. È chiaro che anche il governo non può correre senza sindacato, non può far finta di ignorarlo. Quindi anche nei toni, nelle modalità, non deve essere offensivo o escludente. La logica dello scarto, in questo momento, comprende la politica, la cultura ma anche la realtà del mondo sindacale.

D. - Gli imprenditori sono disponibili a creare le condizioni per superare questa crisi e a tutelare i lavoratori?

R. - Lo sono, ma anche loro hanno bisogno di maggiore condivisione. Non si può gettare su di loro eccessiva responsabilità, però nemmeno loro non possono scaricarla sul mondo sindacale. Un invito a non delocalizzare, a mantenere collegato il legame tra industria e lavoro, lavoro e territorio. Ecco perché bisogna guardare con certa fatica anche certe scelte di grandi gruppi industriali che portano il loro desk in Belgio o in Gran Bretagna. Bisogna essere molto afferrati e rimanere fedelmente vincolati a questa nostra terra, anche perché una fedeltà al territorio non significa non mantenere lo sguardo al mondo.

“Il profitto e l’impresa - afferma il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini - hanno attivato negli ultimi anni nella società una competizione tra persone mai vista. Non è questo il modello sociale che vogliamo”. Luca Collodi lo ha intervistato, chiedendogli anzitutto se il sindacato ha capito quello che è realmente successo in piazza a Roma, durante la manifestazione degli operai dell’Ast: 

R. - Cosa è successo e perché è successo, non lo abbiamo capito! C’è stata una aggressione a freddo. Quindi vuol dire che i lavoratori della Polizia, che erano lì, hanno ricevuto ordini sbagliati: perché caricare lavoratori e persone che si stanno battendo per difendere il loro lavoro, in modo democratico, è una cosa inaccettabile e contro i principi della nostra Costituzione. Credo che sia importante che, negli incontri con il governo e con il ministro, ci sia l’impegno affinché non succedano mai più episodi del genere. Perché davvero è inaccettabile che, chi per vivere deve lavorare, quando difende il proprio lavoro e i propri diritti, si trovi bastonato e malmenato.

D. - La sensazione è che in Italia ci sia molto nervosismo, soprattutto nelle periferie del Paese. La politica non sembra più ascoltare i territori e dare risposte…

R. - Penso che ci sia proprio una lontananza grandissima! Non solo non sa ascoltare, ma in alcuni casi non c’è proprio! Non sa cosa stia succedendo e vive in mondi separati: questo è il problema vero. E la sofferenza oggi è grandissima, perché non solo chi lavora non è in grado di vivere con il lavoro che fa ed è povero pur lavorando, ma oggi siamo di fronte a disoccupazione, siamo di fronte a chiusure di aziende e quindi siamo davvero in una fase delicatissima. La cosa vera e grave è che le persone, in molti casi, si sentono da sole. E’ chiaro che per affrontare questi temi ci vogliono diverse politiche economiche e sociali. Non c’è niente da fare: la ridistribuzione della ricchezza va affrontata e bisogna far ripartire gli investimenti pubblici e privati, e - nello stesso tempo - bisogna incentivare la riduzione degli orari e la redistribuzione del lavoro che c’è; bisogna, in questo caso, anche colpire quella corruzione e quell’evasione fiscale, che ci sta creando tanti problemi e che è fonte delle grandissime disuguaglianze che si sono prodotte.

D. - La perdita di sovranità del Paese può creare un problema per il mondo del lavoro e la tutela dei lavoratori?

R. - Eh si! Ma qui c’è un tema che va affrontato: si è costruito l’euro, la moneta, ma non si è costruita l’Europa. Oggi noi siamo di fronte al fatto che c’è una logica troppo finanziaria, troppo economica che sta gestendo la politica. La crisi degli Stati, la crisi dei governi, secondo me, nasce anche da questo fatto e cioè che mentre i soldi, il capitale, possono tranquillamente circolare in giro per il mondo sena vincoli, senza freni, addirittura può andare a trovare i paradisi fiscali dove può pagare meno, siamo alla follia che le persone sono clandestine.

D. - Come ha accolto le recenti parole di Papa Francesco che ha definito il lavoro ‘un diritto’?

R. - Sono completamente d’accordo! Debbo essere molto sincero: ascolto sempre e con molta attenzione le parole di un Papa che mette sempre al centro la persona, che non ha paura di denunciare le disuguaglianze e a tentare di rimettere al centro la persona. Quindi credo che sia un messaggio molto forte! Credo questo sia assolutamente vero, perché un lavoro senza diritti, vuol dire schiavitù.

D. - Cosa significa, per il mondo del lavoro, lo scontro in atto tra il sindacato e il maggiore partito della sinistra, il Pd?

R. - Da un certo punto di vista io credo sia importante che il sindacato costruisca una propria autonomia, una propria indipendenza. Detto questo, io mi limito ad osservare che all’interno di quel partito, che è il partito maggiore del nostro Paese, c’è oggi una discussione molto forte, ci sono punti di vista diversi che si stanno confrontando. Ho massimo rispetto del dibattito interno al Pd e penso che decideranno. Ma non credo che i problemi, in una fase di questa natura, sia quella di dividersi. Penso che sia il momento dell’unità del Paese. Il lavoro, però, deve tornare ad essere un momento di rappresentanza politica. In politica oggi nessuno si pone più il problema di rappresentare gli interessi delle persone che per vivere devono lavorare. Ma il nostro problema, da sindacato, non è quello di confrontarsi con un partito. Il nostro problema è confrontarci con il governo e chiedere che il governo cambi le politiche che sta facendo. Ripeto. Quello che vedo è che nella politica nessuno si pone più il problema di rappresentare gli interessi delle persone che per vivere debbono lavorare e che sono la maggioranza del Paese e del mondo.

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Alfano: chiude "Mare Nostrum". Le associazioni, piangeremo morti

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“Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Triton; in coincidenza si conclude Mare Nostrum". Il temuto annuncio è arrivato oggi pomeriggio, dal ministro dell’Interno Angelino Alfano in conferenza stampa con il ministro della Difesa Roberta Pinotti. In mattinata un gruppo di associazioni si erano appellate ancora una volta affinché Mare Nostrum non si chiudesse. Il servizio di Francesca Sabatinelli: 

Oltre 100mila persone soccorse, l’arresto di centinaia di scafisti, sono soltanto alcuni dei dati forniti dal ministro Alfano che oggi ha dato l’annuncio ufficiale che l’era di Mare Nostrum è chiusa. L’Italia, ha proseguito il ministro, continuerà a rispettare le leggi del mare, ma il posto ora si cede a Triton, dell’agenzia Frontex. Con Triton l’Italia spenderà zero, ha spiegato Alfano, mentre per Mare Nostrum nel 2014 sono stati spesi 114milioni di euro, il che significa circa nove milioni al mese. Una cifra affrontabile, reagiscono tutte le associazioni che da mesi ormai si battono perché Mare Nostrum non chiuda e che attribuiscono la scelta italiana a ragioni di tipo non economico ma politico. L’Italia deve continuare a soccorrere e salvare vite umane nel Mediterraneo, è l’appello di Acli, Arci, Caritas, Centro Astalli, Cgil, Uil  e molte altre sigle. Con l’aumento di conflitti e di crisi nel mondo, l’Italia non può chiudere le sue frontiere a chi cerca protezione. Se Mare Nostrum termina, è la denuncia, si ritornerà a piangere la morte di centinaia di innocenti, come accaduto il 3 ottobre di un anno fa. Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci:

"La nostra è una preoccupazione che deriva dal fatto che ci sembra ancora una volta che la politica sia molto rinchiusa all’interno delle dinamiche di palazzo e che quindi, alla fine, prevalga l’interesse di tenere assieme la maggioranza e quindi, per non perdere consenso si fa la faccia cattiva rispetto a questa vicenda della solidarietà e dell’immigrazione. Noi riteniamo che l’Italia non se la possa permettere, questa cosa, a prescindere dagli interessi elettorali di qualche partito; e che se ad oggi sono stati più di 3 mila i morti accertati nel Canale di Sicilia, nonostante Mare Nostrum, senza Mare Nostrum è del tutto evidente che Renzi e il governo italiano si assumerebbero la responsabilità di migliaia di morti".

Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e xenofobe”. Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil:

"La situazione dell’Europa è complessa. C’è un processo complessivo – adesso, è diverso da Paese a Paese, naturalmente – di impoverimento, e in questo quadro è evidente che la guerra tra poveri diventa uno degli elementi che caratterizzano il panorama sociale. Allora, in questa condizione l’immigrazione è il tema che rischia di coagulare queste spinte. La domanda è: come si risponde a questa cosa? Come stanno facendo molti Paesi europei, come rischia di fare – per esempio – anche l’Italia? Si può dire che il problema non c’è, cioè alziamo i muri, impediamo alla gente di arrivare così difendiamo i lavoratori europei. Questa cosa, oltre che disumana, è inefficace, perché la gente non si ferma! Come si contrastano queste spinte populistiche? Io penso che si contrastino dicendo la verità e ritrovando anche un volto etico dell’Europa, che si è smarrito. Allora, salvare le vite è prima di tutto un dovere morale, vorrei dire: pre-politico. Il governo ha due problemi: uno, è il non assumersi questa responsabilità, di avere sulla coscienza dell’Italia altri morti; dall’altra, deve dire cosa vuole fare in Europa, perché non si tratta di andare a fare la questua in Europa: si tratta di impostare una vera politica. E questo non è marginale per l'Europa. Perché il modo con il quale l'Europa si atteggia rispetto alla protezione internazionale dovuta ai rifugiati, ci dice anche cosa sarà l'Europa".

Con Triton i morti si moltiplicheranno, perché sarà un’operazione che non svolgerà azioni di soccorso ma di controllo delle frontiere e che opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane. Berardino Guarino, direttore progetti del Centro Astalli:

"Chiudiamo gli occhi di fronte a quello che Papa Francesco definisce una vergogna assoluta, cioè il traffico sulla pelle di queste persone: perché di questo stiamo parlando. Dovremmo offrire dei canali umanitari; ancora non ci riusciamo. Almeno, manteniamo in vita la possibilità di accompagnarli nell’ultima parte, quella più pericolosa, del loro viaggio. Questo chiediamo. La cosa che più ci rattrista è come si arriva, a questa decisione. Come diceva De Andrè, ci si arriva più per contrarietà che per consapevolezza, cioè all’interno del governo è chiaro che ci sono posizioni diverse. Alla fine, sarebbe veramente triste se per motivi ideologici ed elettorali prevalesse quella della chiusura. Noi ne prenderemmo atto con tristezza".

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30 anni fa moriva Eduardo De Filippo: intervista con Italo Moscati

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Trent'anni fa moriva Eduardo De Filippo, attore, regista, poeta, commediografo. Italo Moscati ne ripercorre la vicenda umana e artistica nel volume "Eduardo De Filippo, scavalcamontagne, cattivo, genioconsapevole", edito da Ediesse. Rosario Tronnolone gli ha chiesto cosa abbia Eduardo da essere così tanto amato anche oggi: 

R. - Userò una parola di vecchio sapore: la saggezza… Se noi vediamo i suoi film, le sue opere; leggiamo le sue poesie e le sue cose teatrali, ci accorgiamo che c’è una coerenza incredibile. Ad un certo punto della sua vita gli chiesero in una intervista quale fosse la sua intenzione in tutto questo lavoro, perché ha fatto tantissime cose. E lui disse: “Io cerco di intrattenere il pubblico, di divertirlo, di ricordargli una cosa che lo interessi, ma anche e questa è una mia scelta - diceva Edoardo - con un piccolo senso profetico”. Allora, l’intervistatore chiese cosa volesse dire “profetico”, in questo senso; lui rispose: “Che lo spettacolo non finisce, che c’è sempre un domani”. Quindi questo suo domani era improntato alla fiducia, al sentimento di qualcosa che verrà. Questo è quello che dice, senza spiegare di più. Però questo, secondo me, vedendo proprio adesso gli omaggi che gli stanno facendo, ci accorgiamo che viene preso come un punto di riferimento in un grande vuoto culturale, politico, anche ideologico ed etico. E’ un personaggio credibile, che la gente considera ancora tale.

D. - Uno dei capitoli si intitola “Eduardo e gli eduardiani”. Questa sorta di eredità, nel caso di Eduardo De Filippo, si è manifestata in molti casi quasi come una sorta di imitazione pedissequa del suo stile, del suo modo di parlare, del suo modo di porgere le battute… E’ un caso abbastanza particolare…

R. - Sì ed è perché è fortissimo Eduardo nella sua forma, nella sua interpretazione. Non dimentichiamoci che nel mondo dello spettacolo c’è una semina di eduardiani che fa impressione. Ci sono non dei seguaci, ma delle persone che prendono ispirazione dalla lezione di Eduardo e aggiungono del proprio: penso che questa sia la cosa più utile per la nostra cultura teatrale e spettacolare, che soffre molto per mancanza di punti di riferimento e non solo ideali, ma di interesse vero. Stiamo un po’ girando intorno ai nostri problemi e alla crisi italiana, ma una voce che in qualche modo si stacchi, in realtà, non esiste: lui certamente è un uomo del passato, ma i suoi stimoli hanno ancora grande validità.

D. - C’è un aggettivo che mi ha colpito nel titolo, quel “consapevole”, proprio perché il genio - e spesso il genio è anche teatrale, è il genio dell’artista che recita - è spesso una sorta di inconsapevolezza. Invece Eduardo aveva questa consapevolezza…

R. - Sì! Sia negli incontri che ho avuto con lui, di cui riferisco nel libro, sia anche negli spettacoli che ho visto, lui aveva il tono del maestro e l’autorevolezza che lui sentiva dentro di sé gli dava questa consapevolezza sempre critica, perché poi non è che la sua mimica tradisse un coinvolgimento: non era un imbonitore. Parlava e diceva le sue idee sempre con un dubbio, in una battuta, in un sorriso, in una smorfia del volto: il suo volto - devo dire - irradia atteggiamenti profondi, cioè un’anima. Quindi quell’anima veniva da questa sua mimica straordinaria, dal mondo come aggrottava gli occhi… Il personaggio io l’ho chiamato “consapevole” perché aveva profondamente conoscenza di come usare questi suoi mezzi ed arrivare al suo obiettivo, che non era quello di convincere o di edificare, ma era quello di parlare di un qualcosa che lui aveva sperimentato. Le parole, per esempio, che lui scrive - anche nelle poesie sulla felicità - sulla morte sono fondamentali: mai tremende, mai esclusivamente negative. Hanno sempre qualcosa, forse quel profetico di cui abbiamo parlato all’inizio.

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Nella Chiesa e nel mondo



Burkina Faso: i vescovi su protesta giovanile e corruzione

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Una società giovane e arrabbiata per la mancanza di prospettive a causa di una politica corrotta, ma anche più consapevole e informata grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Era questo il quadro delineato dai vescovi del Burkina Faso in una Lettera pastorale pubblicato il 15 luglio 2013. Un quadro - riferisce l'agenzia Fides - che può fornire una chiave di lettura per quanto sta accadendo in queste ore nel Paese.

“Il 46,4% della popolazione burkinabé ha meno di 15 anni, il 59,1% ha meno di 20 anni” ricordavano i vescovi. “Questa gioventù è insoddisfatta e smarrita a causa dell’assenza di modelli sociali. L’immagine di chi esercita il potere è alquanto negativa, perché è offuscata dalla corruzione e dal clientelismo. Da qui la tentazione di una parte dei giovani di covare sotto la cenere la violenza basata sul risentimento o di impegnarsi in affari poco trasparenti, se non in vere e proprie relazioni di stampo mafioso, al fine di procurarsi rapidamente del denaro”.

Il Messaggio notava peraltro una crescita consistente del tasso di alfabetizzazione, raddoppiato dal 1985 (16,17% della popolazione) al 2012 (32%). “Si nota inoltre un migliore accesso, su una base sociale sempre più larga, all’informazione grazie alle nuove tecnologie (cellulari, radio comunitarie, radio e televisioni private, Internet). Si può anche notare un risveglio della coscienza delle donne, sempre più alfabetizzate”, anche se il tasso di scolarizzazione delle ragazze dai 15 ai 24 anni era nel 2012, del 33% contro il 47% dei ragazzi.

I vescovi denunciavano inoltre le forti disparità sociali tra una povertà di massa “lancinante” che fa sì che il 43,9% della popolazione viva al di sotto della soglia di povertà, e la ricchezza detenuta da un piccolo gruppo, che si spartisce il potere politico e finanziario, attraverso la corruzione e l’uso a fini personali dei beni dello Stato. (R.P.)

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Congo: nuovo massacro a Beni

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Almeno 14 persone sono state uccise a colpi di machete nella località di Kampi ya Chui, 70 km a nord-est di Beni, in Nord Kivu, nel corso di un attacco compiuto nella notte tra mercoledì e giovedì. A denunciare l’ennesima violenza sui civili della zona è stato il presidente della società civile di Beni, Teddy Kataliko, attribuendo l’incursione ai ribelli ugandesi dell’Alleanza delle forze democratiche (Adf-Nalu), già responsabili della morte di circa 100 civili nelle ultime due settimane. L’esercito regolare congolese (Fardc), che ha una sua posizione a 12 km da Kampi ya Chui, non avrebbe fatto in tempo ad intervenire.

Ma su quest’ultimo episodio - riferisce l'agenzia Misna - la denuncia della società civile è stata contestata dal governatore della provincia del Nord Kivu. “Non è un piacere dare l’annuncio di nuovi morti. Ci sono molte informazioni contraddittorie in provenienza della zona attaccata. La società civile si è espressa troppo velocemente” ha detto Julien Paluku. “Effettivamente c’è stato un attacco concluso con vittime e l’arresto di un ribelle” ha soltanto dichiarato il ministro dell’Interno Richard Muyej.

L’incursione contro il villaggio di Lampi ya Chui si è verificato nonostante la presenza a Beni del presidente Joseph Kabila, accompagnato nella sua visita da una folta delegazione governativa. Al Capo dello Stato la società civile è tornata a chiedere “una soluzione urgente per rilanciare le operazioni militari” contro le Adf/Nalu. Sulla carta la sicurezza del territorio di Beni dovrebbe essere garantita dall’esercito congolese e dalla locale missione Onu (Monusco), che nei giorni scorsi si è impegnata ad “intensificare le pattuglie”.

Inoltre mercoledì altri nove corpi senza vita sono stati rinvenuti in diverse località dello stesso territorio: a Mavivi, 15 km da Beni, a Kokola e lungo la strada tra Oicha-Eringeti e Kaynama. Secondo la società civile locale, i residenti – di cui almeno una donna – sono state uccisi a colpi di machete o con altre modalità brutali, forse due giorni prima.

Se Kabila ha già incontrato rappresentanti della società civile, esponenti politici di maggioranza e opposizione, operatori economici di Beni e Butembo così come leader religiosi, non si è espresso in pubblico, deludendo le aspettative della popolazione che si sente “abbandonata al proprio destino”. (V.V.)

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Vietnam: cattolici chiedono restituzione di un terreno della Chiesa

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I cattolici vietnamiti della comunità di Thai Ha ad Hanoi, affidata al servizio pastorale dei Redentoristi, hanno protestato pubblicamente nei giorni scorsi chiedendo la restituzione di un terreno che sostengono appartenga alla parrocchia. Come riferisce una nota di “Redemptorist International” ripresa dall’agenzia Fides, le autorità hanno avviato lavori di riempimento di un lago presente su quel terreno. Secondo sacerdoti, religiosi Redentoristi e fedeli laici, la decisione delle autorità di prosciugare il laghetto è una violazione dei diritti della Chiesa. I manifestanti, che portavano striscioni e intonavano slogan, sono stati dispersi dalla polizia.

Il 16 ottobre la comunità di Thai Ha aveva inoltrato al governo la richiesta di fermare i lavori e di risolvere il contenzioso, senza ricevere alcuna risposta. La parrocchia di Thai Ha, affermano i Redentoristi, possedeva quel terreno di sei ettari, nel distretto di Dong Da, fin dal 1928, come risulta dai documenti ufficiali. In seguito la proprietà fu requisita dalla autorità comuniste.

Oggi, visto il grande afflusso di fedeli (15mila ogni domenica) e le nuove esigenze pastorali, la Chiesa locale chiede la restituzione immediata dell’appezzamento. La pratica per ottenerla, si ricorda, è stata avviata nel 1996. (R.P.)

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Siria: religiosi si preparano all'Anno della Vita Consacrata

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Circa cinquanta religiosi e religiose cattolici provenienti dalla regione di Damasco e appartenenti a 16 diverse congregazioni e istituti di vita consacrata hanno preso parte nella mattinata di oggi a un incontro con il vescovo Georges Abou Khazen e con l'arcivescovo Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria.

La riunione, ospitata dal convento francescano nel quartiere damasceno di Bab Tuma, nella Città Vecchia, è servita a confrontarsi sulle urgenze poste alla vita religiosa dal tempo presente, segnato dal conflitto e dalla miseria crescente che tormentano la popolazione siriana da più di tre anni.

All'incontro ha partecipato anche mons. Dal Toso, segretario del Pontificio Consiglio Cor Unum, che ha potuto ascoltare i racconti e le testimonianze sull'opera apostolica condotta dai religiosi e dalle religiose in contesti segnati dal dolore e dalla paura.

“L'incontro - riferisce all'agenzia Fides il vicario apostolico di Aleppo, Abou Khazen - è stato un'occasione preziosa di consolazione per tutti: un conforto che ci siamo offerti l'un l'altro, reciprocamente. In situazioni come quelle che ci troviamo a vivere, l'amore di Dio può essere sperimentato concretamente solo se gli altri lo vedono riflesso nell'amore che noi stessi, con i nostri limiti e le nostre fragilità, offriamo ai nostri fratelli”.

La riunione ha fornito l'occasione per programmare anche in Siria l'avvio dell'Anno dedicato alla Vita consacrata, che i religiosi e le religiose cattolici presenti in Siria hanno intenzione di vivere come momento di comunione e di riscoperta della propria vocazione. A tale scopo è stata creata una apposita commissione, incaricata di mettere in cantiere le iniziative che scandiranno l'intero Anno, a partire dalla giornata inaugurale, fissata per il prossimo 29 novembre. (R.P.)

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Dichiarazione finale dei Movimenti Popolari

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"L’enorme potere delle multinazionali che pretendono di divorare e privatizzare merci, servizi e pensieri, sono il primo violino della sinfonia della distruzione” fatta di violenza, mafie narcoterroriste, traffico di armi, tratta di persone, affarismo agroindustriale, sfruttamento indiscriminato delle risorse minerarie che reprimono contadini e popoli indigeni, creando povertà e cultura dello scarto. E' quanto si legge nella Dichiarazione finale dell’Incontro dei Movimenti Popolari che invitano a cercare le cause strutturali della disuguaglianza e della esclusione “nella natura iniqua e depredatrice" del sistema economico attuale "che mette il profitto al disopra dell’essere umano”.

Gli oltre 100 dirigenti sociali di tutti i continenti, invitati dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e che hanno incontrato Papa Francesco, hanno avuto come linee guida "la terra, il lavoro e la casa", per aprire il dibattito sui grandi problemi e le sfide che affronta la famiglia umana.

“La chiarezza e la risolutezza delle parole di Papa Francesco non ammettono doppie interpretazioni e riaffermano che la preoccupazione per i poveri è al centro del Vangelo” si legge nella Dichiarazione che mette in risalto la fraterna e calorosa accoglienza del Pontefice. Il documento ribadisce che la terra, il lavoro e la casa costituiscono diritti umani inalienabili, inerenti alle persone e alla loro dignità e devono essere garantiti e rispettati. Una rivendicazione - si dice - che trova un sostegno “imprescindibile nella dottrina sociale della Chiesa”.

Nel documento, i delegati dei Movimenti Popolari solidarizzano con la situazione dei palestinesi e dei curdi in Medio Oriente, criticano l’interventismo delle potenze mondiali, riconoscono l'emarginazione e lo sfruttamento delle donne e dei migranti, denunciano l’abbandono dei bambini e dei giovani. “Se i bambini non hanno una infanzia, se i giovani non hanno progetti, la Terra non ha futuro” si legge nella Dichiarazione che sostiene che gli esclusi, gli oppressi e i poveri non rassegnati, se ben organizzati, possono affrontare l'attuale situazione caotica del mondo. 

“I dati recenti sull’inquinamento e il cambiamento climatico, le predizioni di disastri naturali – si legge - sono la prova che il consumismo insaziabile e la pratica dell’industrialismo irresponsabile" sono alla base di una possibile catastrofe ecologica. Ma non bisogna fermarsi all'autocompassione – affermano i dirigenti popolari, che concludono il messaggio con l’invito a far conoscere il messaggio di Papa Francesco. “Terra, tetto e lavoro sono diritti sacri. Nessun lavoratore senza diritti. Nessuna famiglia senza casa. Nessun contadino senza terra, nessun popolo senza territorio. Viva i poveri che si organizzano e lottano per una alternativa umana alla globalizzazione che esclude. Lunga vita al Papa e alla sua Chiesa povera per i poveri!". (A cura di Alina Tufani)

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Appello del card. Sepe per la partita Napoli-Roma

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“Napoli-Roma è stata sempre una gara classica del calcio italiano, tanto da essere considerata un derby. Una competizione giocata con tecnica e bravura, nella quale il cuore ha sempre rappresentato una componente fondamentale, un valore aggiunto per le due compagini in campo, ma anche per i tifosi e gli spettatori presenti allo stadio San Paolo”. Lo ricorda il card. Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, che rivolge un appello in vista della partita di domani Napoli-Roma.

“Anche questa volta, in ciascuno di noi che sta a Fuorigrotta o in casa davanti al televisore, non mancheranno questi parametri, che sono autentici sentimenti e valori - sottolinea il porporato ripreso dall'agenzia Sir -. Pur nel ricordo triste di una tragica vicenda vissuta alcuni mesi fa a Roma, in occasione di altra gara, diversa dalla Napoli-Roma, tutti siamo chiamati a vivere e testimoniare questi sentimenti che sono propri della sportività vera, del rispetto reciproco, della correttezza estrema, della civiltà dei rapporti”.

Per l’arcivescovo, “niente potrebbe giustificare comportamenti assurdi che offenderebbero noi tutti, la nostra Città, lo sport autentico che è fatto non di violenza ma di passione e di forte senso di comunità, affidando esclusivamente ai piedi e alla testa dei giocatori in campo i nostri sogni, le nostre speranze, la bellezza di vivere nella spensieratezza e nella gioia il tempo libero che ci è dato”. 

“I problemi veri sono ben altri e ben più gravi del destino di una squadra di calcio, di un risultato più o meno favorevole, di una rete in più o in meno, di un errore che si può commettere”, ha avvertito il card. Sepe.

“Non scontiamo nel calcio e nello sport la nostra rabbia, la nostra sofferenza, le nostre attese, che magari sono dentro ciascuno di noi per altre ragioni. Diamo testimonianza della grande correttezza e compostezza che i tifosi del Napoli hanno espresso in questi ultimi anni, in casa e in trasferta”, è stato l’invito. Napoli, ha aggiunto, “già viene continuamente offesa e danneggiata nella sua immagine, a causa di una sparuta minoranza di delinquenti abituali e organizzati. Facciamo in modo da isolare e annullare ogni possibile forma di violenza, ignorando anche le provocazioni, per dire che Napoli è ben altro e non è affatto una carta sporca, ma una signora città sempre e in ogni manifestazione”.

Così “aiuteremo Napoli a risorgere e a imporsi come sempre, per quello che di positivo e di eccellente sa esprimere in ogni campo e in ogni luogo del mondo. Il sano comportamento di noi tutti, sabato prossimo, in seguito e sempre, sia di esempio in Italia e all’estero e sia il migliore ricordo che vogliamo e dobbiamo fare del nostro caro e compianto Ciro Esposito, un giovane napoletano vittima di una violenza bieca che nulla ha da vedere con lo sport”. (R.P.)

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 304

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.