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Sommario del 10/01/2014

Il Papa e la Santa Sede

  • Papa Francesco: la fede può tutto, i cristiani convinti a metà sono cristiani sconfitti
  • Il Papa a gentiluomini e sediari: servite la Chiesa senza atteggiamenti mondani
  • Altre udienze di Papa Francesco
  • Tweet del Papa: fermiamoci davanti a Gesù Bambino. La tenerezza di Dio ci riscaldi il cuore
  • Il card. Sandri in Libano per consacrare il vicario di Aleppo e portare aiuti ai profughi siriani
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Centrafrica. Si dimettono Djotodia e Tiangaye. Don Bondobo: speriamo sia l'inizio della pace
  • Tunisia. Governo provvisorio dopo le dimissioni del premier Ali Laarayedh
  • Obama: dalla guerra contro la povertà alla guerra alle diseguaglianze
  • Yemen in stallo. Camille Eid: "La via della pacificazione è ancora lontana"
  • Sud Sudan: ricchezze naturali e interessi economici causa delle violenze
  • Approvato ddl sul doppio cognome. Mons. Sigalini: passo indietro dare solo cognome della madre
  • Cyberbullismo. Borgomeo: bozza del Codice da migliorare nelle sanzioni
  • Economia solidale per superare la crisi nel nuovo libro di padre Piero Sapienza
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Siria: nella lotta intestina fra i ribelli, Assad tenta la riconquista di Homs
  • Terra Santa: da domani la visita dei vescovi di Usa, Europa, Canada e Sudafrica
  • Settimana per l'unità dei cristiani: appello della Kek alle Chiese europee
  • Usa. Lettera dei vescovi al Senato: promuovere lavoro dignitoso e salario equo
  • Indonesia: cristiani in crescita ad Aceh, ma niente permessi per costruire chiese
  • Panama: l’Assemblea dei vescovi invita al voto per le elezioni del 4 maggio
  • Zambia: appello delle Chiese per una nuova Costituzione più democratica
  • Il Papa e la Santa Sede



    Papa Francesco: la fede può tutto, i cristiani convinti a metà sono cristiani sconfitti

    ◊   “La Chiesa è piena di cristiani sconfitti”, cristiani “convinti a metà”. Invece “la fede può tutto” e “vince il mondo”, ma occorre il coraggio di affidarsi a Dio: è quanto ha affermato Papa Francesco presiedendo stamani la Messa a Santa Marta. Ce ne parla Sergio Centofanti:

    Al centro dell’omelia del Papa, il brano della prima Lettera di San Giovanni in cui l’apostolo “insiste” su “quella parola che per lui è come l’espressione della vita cristiana”: “rimanere nel Signore”, per amare Dio e il prossimo. Questo “rimanere nell’amore” di Dio è opera dello Spirito Santo e della nostra fede e produce un effetto concreto:

    “Chiunque rimane in Dio, chiunque è stato generato da Dio, chiunque rimane nell’amore vince il mondo e la vittoria è la nostra fede. Da parte nostra, la fede. Da parte di Dio - per questo ‘rimanere’ - lo Spirito Santo, che fa questa opera di grazia. Da parte nostra, la fede. E’ forte! E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede! La nostra fede può tutto! E’ vittoria! E questo sarebbe bello che lo ripetessimo, anche a noi, perché tante volte siamo cristiani sconfitti. Ma la Chiesa è piena di cristiani sconfitti, che non credono in questo, che la fede è vittoria; che non vivono questa fede, perché se non si vive questa fede, c’è la sconfitta e vince il mondo, il principe del mondo”.

    Gesù – ricorda il Papa – ha lodato molto la fede dell’emorroissa, della cananea o del cieco nato e diceva che chi ha fede come un granello di senape può muovere le montagne. “Questa fede – afferma - chiede a noi due atteggiamenti: confessare e affidarci”. Innanzitutto “confessare”:

    “La fede è confessare Dio, ma il Dio che si è rivelato a noi, dal tempo dei nostri padri fino ad ora; il Dio della storia. E questo è quello che tutti i giorni noi recitiamo nel Credo. E una cosa è recitare il Credo dal cuore e un’altra come pappagalli, no? Credo, credo in Dio, credo in Gesù Cristo, credo… Io credo in quello che dico? Questa confessione di fede è vera o io la dico un po’ a memoria, perché si deve dire? O credo a metà? Confessare la fede! Tutta, non una parte! Tutta! E questa fede custodirla tutta, come è arrivata a noi, per la strada della tradizione: tutta la fede! E’ come posso sapere se io confesso bene la fede? C’è un segno: chi confessa bene la fede, e tutta la fede, ha capacità di adorare, adorare Dio”.

    “Noi sappiamo come chiedere a Dio, come ringraziare Dio – ha proseguito il Papa - ma adorare Dio, lodare Dio è di più! Soltanto chi ha questa fede forte è capace dell’adorazione”. E Papa Francesco aggiunge: “Io oso dire che il termometro della vita della Chiesa è un po’ basso in questo”: c’è poca capacità di adorare, “non ne abbiamo tanta, alcuni sì…”. E questo “perché nella confessione della fede noi non siamo convinti o siamo convinti a metà”. Dunque – sottolinea il Papa – il primo atteggiamento è confessare la fede e custodirla. L’altro atteggiamento è “affidarsi”:

    “L’uomo o la donna che ha fede si affida a Dio: si affida! Paolo, in un momento buio della sua vita, diceva: ‘Io so bene a chi mi sono affidato’. A Dio! Al Signore Gesù! Affidarsi: e questo ci porta alla speranza. Così come la confessione della fede ci porta all’adorazione e alla lode di Dio, l’affidarsi a Dio ci porta ad un atteggiamento di speranza. Ci sono tanti cristiani con una speranza con troppa acqua, non forte: una speranza debole. Perché? Perché non hanno la forza e il coraggio di affidarsi al Signore. Ma se noi cristiani crediamo confessando la fede, anche facendo la custodia della fede, e affidandoci a Dio, al Signore, saremo cristiani vincitori. E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede!”.

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    Il Papa a gentiluomini e sediari: servite la Chiesa senza atteggiamenti mondani

    ◊   Papa Francesco ha ricevuto stamani, in due udienze ravvicinate, i gentiluomini di Sua Santità e i sediari pontifici, accompagnati dai loro familiari. Ad entrambi, il Pontefice ha espresso gratitudine per il servizio reso alla Chiesa e alla Santa Sede e li ha esortati a continuare il loro lavoro, senza macchiarlo “con alcun atteggiamento di mondanità”. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Gratitudine e servizio. E’ il binomio che ha contraddistinto le udienze di Papa Francesco ai gentiluomini e ai sediari. Ai primi, che accompagnano le personalità in visita alla Sede di Pietro, il Papa ha ricordato con quale spirito va svolto il loro servizio:

    “Come dice il vostro nome, servono a questo scopo doti di gentilezza e cordialità utili a mettere a proprio agio le persone. Queste qualità umane trovano la loro più autentica radice in una vita animata dalla fede, che dà testimonianza di coerenza evangelica senza macchiarla con alcun atteggiamento di mondanità”.

    Siamo ormai al termine del tempo di Natale, ha proseguito, siamo tutti toccati “dalla meraviglia del Dio fatto bambino nella grotta di Betlemme”. Questo stupore, ha esortato, deve rimanere sempre con noi, non solo a Natale:

    “Stiamo attenti e preghiamo perché questa luce interiore non si dissolva e possiamo portare nella nostra vita quotidiana, familiare e professionale, la gioia della fede, che si esprime nella carità, nella benevolenza, nella tenerezza”.

    Anche parlando ai sediari pontifici, il Papa ha sottolineato che il mistero della nascita di Gesù “ci chiama a testimoniare nella nostra vita l’umiltà, la semplicità e lo spirito di servizio” che il Signore ci ha insegnato. Se il lavoro viene vissuto “con questo atteggiamento interiore” allora “può diventare apostolato” e trasmettere “la gioia di essere cristiani”. Questo, ha sottolineato, “è possibile se teniamo vivo il dialogo con il Signore”. “In questi mesi - ha confidato - mi sono reso conto degli ideali che animano il vostro lavoro". L’amore alla Chiesa, "la cordialità accogliente, la pazienza, la pacatezza e la serenità del comportamento - ha osservato - costituiscono un bel biglietto da visita per quanti accedono al Palazzo Apostolico per incontrare il Successore di Pietro":

    "Di tutto questo vi ringrazio cordialmente, davvero! Vi ringrazio cordialmente e mi sento in debito verso di voi. Anche ringrazio la tenerezza con la quale prendete i bambini per portarmeli alle udienze pubbliche. Io ho chiesto ad uno di voi: 'Ma tu, quanti bambini hai? Perché tu li sai portare, eh? Si vede!'".

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    Altre udienze di Papa Francesco

    ◊   Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in Udienza: mons. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; il card. Willem Jacobus Eijk, arcivescovo di Utrecht (Paesi Bassi).

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    Tweet del Papa: fermiamoci davanti a Gesù Bambino. La tenerezza di Dio ci riscaldi il cuore

    ◊   Papa Francesco ha lanciato questa mattina un tweet dal suo account @Pontifex: “Fermiamoci davanti al Bambino di Betlemme. Lasciamo che la tenerezza di Dio riscaldi il nostro cuore”.

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    Il card. Sandri in Libano per consacrare il vicario di Aleppo e portare aiuti ai profughi siriani

    ◊   In visita in Libano con il dramma della Siria nel cuore. Il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali vola oggi a Beirut, dove domani alle 15, nella Chiesa di San Luigi a Beirut, presiederà la liturgia di consacrazione episcopale di mons. Georges Abou Khazen come nuovo vicario apostolico della città siriana di Aleppo, una delle più colpite dal conflitto in corso. Alla celebrazione prenderanno parte anche i rappresentanti pontifici in Libano e Siria, gli arcivescovi Gabriele Caccia e Mario Zenari, oltre a una decina di altri vescovi e al Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa.

    La presenza del Cardinale Sandri, si legge in un comunicato ufficiale, “intende esprimere al vescovo eletto tutta la vicinanza e il sostegno della Sede Apostolica alla comunità cristiana provata dal conflitto siriano”. Un sostegno che il prefetto delle Chiese Orientali renderà visibile in particolare domenica prossima, quando presiederà l’Eucarestia nel Centro dei Padri Redentoristi a Zahle, nella valle della Bekaa, per poi proseguire fino al rassemblement di profughi siriani di Mari el Khokh a Marjayoun, gestito dall’Associazione AVSI, dove porterà un contributo per le opere di assistenza ai rifugiati. Sulla strada del rientro, informa ancora la nota, il cardinale Sandri farà a tappa nel villaggio di Maghdouché, nei pressi di Saïda, per una visita in forma privata al Santuario mariano di Sayidat Al-Mantara, Nostra Signora dell’Attesa. Lì, rinnoverà l’atto di affidamento alla Madre di Dio, invocando la protezione della Regina della pace sul Libano, la Siria e tutto il Medio Oriente. Il viaggio sarà poi concluso, lunedì 13 gennaio, dall’incontro con alcuni docenti e studenti dell’Università gestita dall’Ordine Antoniano Maronita. (A cura di Alessandro De Carolis)

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Con gentilezza e cordialità: l'udienza ai gentiluomini di Sua Santità.

    Il credo dei pappagalli: Messa del Papa a Santa Marta.

    Una crisi diventata globale: nell'informazione internazionale, sulle minacce alla libertà religiosa un articolo della baronessa Sayyeda Warsi, ministro britannico per la Fede e le Comunità.

    Che confusione! In cultura, Mario Liverani ripercorre la storia della torre di Babele, da simbolo d'incomprensione alle discoteche.

    Oddone Camerana sui ponti del diavolo e altri luoghi misteriosi e infernali.

    Agostino Paravicini Bagliani su Aristotele visto dai latini nel repertorio del gesuita Charles Lohr.

    Camus e il futuro dell'Europa: Silvia Guida a proposito di un dibattito ad Atene nel 1955.

    C'era una volta in America: battesimi per immersione di fine Ottocento.

    Jean-Pierre De Rycke su Hugo van der Goes, primo pittore democratico, e il suo Trittico "Portinari.

    Nel 2013 circa cinque e milioni e mezzo i visitatori dei Musei Vaticani.

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    Oggi in Primo Piano



    Centrafrica. Si dimettono Djotodia e Tiangaye. Don Bondobo: speriamo sia l'inizio della pace

    ◊   Crisi in Crentrafrica. Il presidente ad interim, Michel Djotodia, e il suo primo ministro, Nicolas Tiangaye, hanno rassegnato le dimissioni. Decisione giunta dopo le pressioni dei Paesi dell’Africa centrale, per fermare il conflitto che sta dilaniando il Paese. Il servizio di Antonella Pilia:

    Rassegnate le dimissioni del presidente centrafricano, Djotodia, e del primo ministro, Tiangaye. A chiedere a gran voce la loro uscita di scena – arrivata in tarda mattinata – sono stati i membri dei Paesi dell’Africa centrale, riuniti da ieri a N’Djamena in Ciad, per discutere della crisi centrafricana. Non si placano infatti, nel Paese, le violenze tra i ribelli islamisti Seleka e gruppi di autodifesa cristiani anti-Balaka, che vanno avanti dal marzo 2013, quando i Seleka portarono al potere il loro ex leader Djotodia con un colpo di Stato, destituendo il presidente, Francois Bozizè. Secondo l’Onu, sarebbero oltre un milione gli sfollati dall’inizio della crisi. Don Mathieu Bondobo, sacerdote centrafricano:

    R. – Questo annuncio, per noi, è l’inizio del cammino verso questa pace tanto attesa e tanto voluta da questo popolo. Se siamo arrivati a questo punto significa che è necessario, perché la situazione che il popolo del Centrafrica sta vivendo è davvero drammatica. Una cosa mai vista, una sofferenza terribile! Una cosa drammatica nella storia di questo popolo.

    D. – Cosa sta accadendo nel Paese?

    R. - I viveri che stanno arrivando non bastano, ovviamente, per coprire i bisogni di tutte queste persone che sono scappate di casa e che vivono difficoltà molto forti… Quindi, c’è un allarme in questo senso. Ci sono persone che non mangiano da 3-4 giorni, anche da una settimana, e soffrono veramente la fame. Oltre alla fame, poi, c’è anche la difficoltà di curarsi, non soltanto perché gli ospedali sono pieni, ma perché è anche complicato ricevere una cura: ad esempio, è difficile che una persona ferita vada all’ospedale o che comunque riceva una cura buona. Ripeto, la situazione è terribile, catastrofica!

    D. – Ora, con queste dimissioni, quali scenari si aprono, secondo lei?

    R. – Il lavoro grande è ancora da fare, perché uno si è dimesso ma non è detto che siamo già arrivati alla pace. Ci vuole l’impegno di tutti quanti per arrivare a questo e ciascuno di noi ha la consapevolezza della drammaticità della situazione. Io sono ottimista di poter arrivare a questa pace che stiamo cercando da molto tempo. Certo è che chiunque verrà, chiunque avrà questo posto di responsabilità, avrà anche addosso il futuro di questo popolo, perché ha visto la sua sofferenza e ha ascoltato il suo grido. Quindi, ciascuno di noi, ogni figlio e ogni figlia di questo Paese, credo sappia cosa significhi arrivare alla pace, cosa significhi parlare dello sviluppo, di dialogo, cosa significhi darsi da fare per questo Paese che ha tanto sofferto. Quindi, io sono ottimista – ripeto – da questo punto di vista.

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    Tunisia. Governo provvisorio dopo le dimissioni del premier Ali Laarayedh

    ◊   Il primo ministro tunisino, Ali Laarayedh, ha rassegnato le dimissioni. Ha lasciato l'incarico nell'ambito degli accordi per il passaggio di poteri a un'amministrazione transitoria. Adesso, un governo ad interim guiderà il Paese verso nuove elezioni. Massimiliano Menichetti:

    “Spero che la Tunisia possa diventare un esempio di transizione”. Così il premier Ali Larayedh nel suo discorso alla Tv nazionale dopo aver rassegnato le dimissioni. A tre anni dalla rivoluzione dei gelsomini che rovesciò il regime di Ben Alì, la Tunisia cerca di costruirsi un futuro diverso. La decisione di Larayedh giunge dopo l'accordo di metà dicembre tra maggioranza e opposizione, ora sarà un governo ad interim, presieduto da Mehdi Jomaa", ex ministro dell'Industria, a guidare il Paese verso nuove elezioni, mentre si attende il varo della nuova Costituzione previsto per il 14 gennaio prossimo. E proprio la Costituente ha introdotto il concetto della parità tra uomo e donna nelle assemblee elette. Lunedì scorso era già stato approvato un articolo che introduceva, per la prima volta nel Paese, l'uguaglianza "senza alcuna discriminazione" di cittadini e cittadine di fronte alla legge. Decisioni frutto di compromesso tra gli islamici di Ennahda, finora al governo e l'opposizione laica. In questo contesto però i conflitti sociali e gli scontri di piazza continuano ad infiammare la Tunisia, anche oggi, a Kasserine, manifestanti si sono scagliati contro le forze dell'ordine, per protestare contro le politiche economiche e sociali adottate dall’esecutivo. E rimane ancora vivo l’orrore dell’assassinio a metà febbraio dell'oppositore laico Chokri Belaid, attribuito alla corrente jihadista e quello di Mohamed Brahmi, ex segretario generale del Movimento del Popolo e deputato dell'Assemblea costituente, ucciso presso la sua abitazione il 25 luglio scorso.

    Della situazione tunisina abbiamo parlato con il prof. Roberto Aliboni, consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali ed esperto di rapporti tra Paesi mediorientali ed Europa:

    R. – Credo che nel caso della Tunisia si arriverà ad uno sbocco positivo, al contrario di quello che sta accadendo in altri Paesi arabi e mediterranei. Il processo che ha portato all’accordo per le dimissioni di questo governo e lo stabilimento di un governo di coalizione fra Hennada e i partiti cosiddetti “laici”, è stato molto tormentato, lungo e incerto; però, ha avuto un esito positivo.

    D. – Di fatto si continua a lavorare alla Costituzione: una serie di articoli che sono stati introdotti affermano la parità tra uomo e donna …

    R. – Veramente, bisogna dire che la Tunisia ha incorporato, ha introiettato una tradizione nazionale che è sostanzialmente diversa da quella di tutti i Paesi arabi, compreso il Marocco, compresa l’Algeria …

    D. – Rimane comunque in vigore la pena di morte …

    R. – Certamente, non è positivo che sia rimasta la pena di morte, ma credo che allo stato dei fatti sia per ora importante che questa Costituzione nasca con dei passi avanti significativi e un avvicinamento agli standard internazionali, che è del tutto apprezzabile. Ci sarà tempo per i tunisini, se la transizione di cui parlava il primo ministro avrà luogo, per migliorare.

    D. – Adesso il nuovo esecutivo di transizione guiderà il Paese verso nuove elezioni. Però, rimangono le proteste di piazza: insomma, la Tunisia ha una serie di questioni ancora da risolvere …

    R. – Sì, c’è una situazione economica e sociale molto difficile, che Hennada non ha affrontato. Però, a mio avviso, è qui che è mancata una vera e propria cooperazione internazionale: bisognava scommettere sulla Tunisia e provvedere molti più aiuti di quelli che sono stati forniti. Secondo me, è abbastanza straordinario che il dibattito politico nel mezzo di queste condizioni sociali ed economiche che sappiamo, sia riuscito a trovare una soluzione.

    D. – Quindi potremmo dire che questo è anche il momento in cui la comunità internazionale deve aiutare o quanto meno affiancarsi alla Tunisia?

    R. – Secondo me, sì. Tutti si occupano dell’Egitto e della Siria; della Tunisia se n’è occupata un po’ la Francia, ma gli altri non se ne sono molto occupati. E l’Italia, secondo me, è chiamata ad un ruolo attivo. Avere di fronte un Paese che è in marcia verso la modernizzazione e la democratizzazione, credo non sia da sottovalutare.

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    Obama: dalla guerra contro la povertà alla guerra alle diseguaglianze

    ◊   Cinque Promise Zones, cinque distretti tra i più arretrati degli Stati Uniti da aiutare a crescere, dove sarà possibile godere di sgravi, benefici e aiuti federali che contribuiscano a promuovere lo sviluppo e il benessere di tante famiglie disagiate. È in sintesi la dichiarazione di “guerra alla diseguaglianza”, lanciata ieri dal presidente Barack Obama, nell’anno delle elezioni di midterm. Le aree interessate si trovano nelle zone di San Antonio, Filadelfia, Los Angeles, nel Sudest del Kentucky e nella regione dell'Oklahoma in cui c’è la Chotcaw Nation dell’omonima tribù di nativi. La promessa del presidente statunitense, per il quale la “diseguaglianza è la sfida del nostro tempo”, è di portare le Promise Zones a venti in tre anni. Ce ne parla John Harper, docente di Storia Americana alla "John Hopkins University" di Bologna, intervistato da Giada Aquilino:

    R. - Ci sono due o tre motivi per cui Obama ha scelto questo momento per lanciare la campagna: anzitutto siamo nel 50.mo anniversario dell’annuncio della famosa “guerra alla povertà” di Lyndon Johnson. E questo è un tema molto caro ad Obama, anche se in questi ultimi tempi non ha potuto dedicare l’energia e il capitale politico che avrebbe voluto. Naturalmente siamo anche in un anno in cui - a novembre - ci saranno le elezioni di midterm e quello della diseguaglianza crescente e della povertà che persiste, soprattutto in certe zone del Paese, diventa un tema centrale della politica americana.

    D. - Dalla “guerra alla povertà” del presidente Johnson, che lei ha ricordato, alla “guerra alla disuguaglianza” di Obama, gli Stati Uniti come si sono trasformati, da un punto di vista sociale?

    R. - C’è un articolo interessante sul New York Times di questa mattina, in cui Paul Krugman spiega che la “guerra alla povertà” non ha fallito: il livello assoluto di povertà è più basso adesso rispetto a cinquant’anni fa. Ma il problema emergente, negli ultimi due decenni, direi che è proprio la disuguaglianza più generalizzata, che incide sulla middle class - sui ceti medi - e non solo sulle zone tradizionalmente arretrate.

    D. - Cosa si intende per diseguaglianza generalizzata?

    R. - Che i ricchi stanno diventano più ricchi e che il reddito del ceto medio rimane stagnante. Questo è dovuto ad una serie di fattori: alla globalizzazione; all’innovazione tecnologica, che elimina lavori ben pagati, a Detroit per esempio; e infine alla politica fiscale degli ultimi decenni. Naturalmente la “guerra alla povertà” al giorno d’oggi si dovrà svolgere in un contesto fiscale totalmente diverso rispetto a cinquant’anni fa. Quindi bisogna cercare il modo di non spendere soldi, che non ci sono, ma di rafforzare i programmi esistenti. Tutti sanno che con la situazione fiscale che c’è, è impossibile attaccare il problema con i soldi come invece ebbe la possibilità di fare 50 anni or sono Lyndon Johnson. Il contesto è completamente diverso adesso.

    D. - In questi giorni anche i vescovi americani hanno scritto una lettera al Senato per chiedere condizioni di lavoro dignitose e salari giusti ed equi per i lavoratori. Allora, in concreto, cosa c’è da fare nell’immediato?

    R. - La cosa da fare subito è l’estensione dei benefici della - chiamiamola così - cassa integrazione americana federale, al momento scaduti; alzare il salario minimo generale, che adesso è a 7 dollari e 50 centesimi - è una cifra ridicola, se ci si pensa - e portarlo almeno a 10-11 dollari; e poi sperare di rilanciare la crescita americana: anche su questo fronte, c’è qualche segno positivo.

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    Yemen in stallo. Camille Eid: "La via della pacificazione è ancora lontana"

    ◊   Dallo Yemen, si susseguono notizie di attentati e scontri tra esercito e miliziani di al Qaeda e altri movimenti separatisti e tra gruppi sciiti e sunniti. Una crisi quasi dimenticata dopo i giorni della "primavera araba", che hanno evidenziato le contraddizioni di questo Paese, il più povero dell’area mediorientale, che – unificato solo nel 1990 – oggi è alla ricerca di una identità federale. Roberta Gisotti ha intervistato Camille Eid, giornalista e scrittore, esperto del mondo arabo:

    D. - A quasi tre anni dalla caduta del governo dell’ex presidente Saleh, a che punto sono i lavori della Conferenza per il dialogo nazionale?

    R. – Siamo un po’ in ritardo rispetto al programma prestabilito. Questa Conferenza, tenuta sotto l’egida dell’Onu, avrebbe dovuto già concludersi da tempo. In effetti, adesso sono arrivati alla risoluzione di uno dei nove o dieci punti sul tavolo. E’ un punto importante, quello dell’unità del Paese, della "questione meridionale", come viene definita. Però, rimangono aperti altri problemi importanti, tra cui il conflitto in atto nella provincia di Saada, nel nord, tra la ribellione Houthi – come viene definita – e alcuni gruppi salafiti. Oppure, la minaccia di al Qaeda. Come sappiamo, gli americani combattono una guerra "invisibile" nello Yemen, già da anni, con gli aerei droni, causando anche diverse vittime tra i civili yemeniti. Quindi, ci sono diversi altri punti in sospeso e si spera che questa Conferenza di dialogo nazionale, dopo aver risolto il primo punto essenziale, vada avanti a risolvere gli altri problemi.

    D. – In questa situazione di empasse, a soffrire di più è la popolazione. Metà dei cittadini soffre la fame e la sete…

    R. – Questo è vero. In effetti, fa anche eccezione, lo Yemen, nel quadro della penisola arabica, perché vediamo che tutti gli altri Paesi – le monarchie, che sono sei – sono riuniti nel Consiglio di cooperazione del Golfo, da cui è stato escluso proprio lo Yemen, essendo in primo luogo un Paese non petrolifero, in secondo un Paese povero e in terzo una Repubblica, a differenza degli altri, che sono monarchie.

    D. – Questo, naturalmente, rende più difficile risolvere la crisi perché forse ci sono meno interessi in gioco…

    R. – Rende più difficile più che altro perché le istituzioni statali nello Yemen storicamente non sono mai state forti: prevalgono gli interessi tribali, del clan… E’ vero che ci sono dei partiti, talvolta anche partiti storici: basti pensare al Partito del Congresso popolare, nel nord dello Yemen, o al Partito socialista nel sud. Però, questi partiti alla fine hanno interessi molto ristretti, personali: è difficile, quindi, vedere dove finiscano gli interessi personali e dove inizino, invece, gli interessi dello Stato e questo rende molto più complicata la soluzione dei problemi. E, vediamo che lo Stato – laddove interviene – fa o svolge il ruolo di mediatore. Ma lo Stato non può fare da mediatore tra i suoi cittadini, dev’essere casomai l’arbitro della situazione: non intervenire per portare le diverse parti, che giocano al di fuori dello Stato, alla tregua.

    D. – Un Paese, lo Yemen, che meriterebbe più attenzione da parte della comunità internazionale?

    R. – Sì. Merita di più, però sappiamo che adesso la comunità internazionale è presa in particolare dalla Siria o da problemi più gravi o più sentiti a livello mediatico. Lo Yemen interessa relativamente, soprattutto per la sua posizione strategica. Gli interessi riguardano la presenza di al Qaeda sul suo territorio e lì c’è già un intervento militare, quello americano. Ma a livello di comunità internazionale e Onu, interessa relativamente poco, pur sapendo che questa Conferenza si gioca sotto l’egida dell’Onu in base a due risoluzioni che intendono accompagnare il popolo yemenita a costituire uno Stato di diritto. Ma siamo ancora all’inizio della strada, purtroppo.

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    Sud Sudan: ricchezze naturali e interessi economici causa delle violenze

    ◊   “La crisi deve terminare rapidamente con un negoziato per prevenire una pericolosa escalation del conflitto che né il popolo del Sud Sudan, né la regione o la comunità internazionale possono permettersi”. E’ quanto ha dichiarato il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Usa, Susan Rice, richiamando le parti – il presidente Salva Kiir e il leader dei ribelli, l'ex vicepresidente Riek Machar - a trovare immediatamente un accordo per cessare le ostilità. Nel Paese, intanto, cercano di portare aiuto alla popolazione le ong internazionali, come "Plan International", presente in Sud Sudan da diversi anni e impegnata soprattutto nell’assistenza ai bambini. Francesca Sabatinelli ha intervistato Tiziana Fattori, direttore di Plan Italia:

    R. – Quello che a noi interessa in questo momento è portare i primi soccorsi nella zona di Auerial, dove sono già arrivati 85 mila profughi e ne stanno arrivando molti altri. Lì ci stiamo concentrando, offrendo protezione per i bambini. Ovviamente, in queste situazioni i bambini vengono reclutati come soldati e noi cerchiamo soprattutto di evitare questo. Poi, ci sono interventi in ambito sanitario: non ci dimentichiamo che il Sud Sudan, pur essendo il terzo bacino mondiale di ricchezza di petrolio, è anche il Paese che ha l’80% della popolazione senza servizi igienici. Solo il 17% dei bambini in Sud Sudan viene vaccinato. Cerchiamo di creare per i bambini delle condizioni di accesso ai servizi educativi. Purtroppo, il Sud Sudan ha un panorama, per quanto riguarda l’istruzione, veramente pessimo: solo il 16% delle donne sa leggere e scrivere e anche l’alfabetizzazione maschile è molto bassa, solo il 40% della popolazione. In Sud Sudan, circolano tre milioni di armi, la popolazione non crede nello Stato e quindi non vuole consegnare le armi, perché considera questo l’unico modo per garantire la propria sicurezza.

    D. – Si parla di scontri tribali, di scontri interetnici. Perché il 15 dicembre è esplosa questa violenza?

    R. – Il vicepresidente e la sua squadra accusano il presidente di essere diventato negli anni un dittatore. Soprattutto, accusa la sua fazione di essere altamente corrotta. Si parla di quattro miliardi di dollari derivanti proprio dal petrolio, che sono stati intascati dai funzionari. Dall’altra parte, il presidente accusa il suo vice di aver tentato un golpe. Infatti, l’etnia Nuer – conducibile al vicepresidente Machar – dal 15 dicembre ha pian piano cercato di conquistare quelle zone che sono più ricche di giacimenti di petrolio: nei fatti, ha conquistato lo Stato di Unity, la città di Bor, strategica per poter arrivare ad attaccare e conquistare la capitale Juba. Quindi, probabilmente ci sono interessi economici e il petrolio, oltre alle altre ricchezze naturali che caratterizzano il Sud Sudan – oro, argento, rame e ferro – sono le cause vere di questo scontro.

    D. – Uno scontro di Paesi terzi…

    R. – Forse, sì. Ci sono Paesi che, ovviamente, sono interessati ad aver accesso alle enormi ricchezze, ai giacimenti petroliferi del Sud Sudan, attraverso un governo amico. Quindi, aiutare una fazione piuttosto che un’altra ad avere in questo momento il controllo del Paese, in previsione anche delle elezioni che si terranno nel 2015, è sicuramente molto utile per i loro obiettivi.

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    Approvato ddl sul doppio cognome. Mons. Sigalini: passo indietro dare solo cognome della madre

    ◊   Dopo il recente pronunciamento della Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia per aver negato ad una coppia la possibilità di dare alla figlia il cognome della madre, il Consiglio dei ministri ha approvato stamani il disegno di legge bipartisan, presentato dal Partito Democratico e da Forza Italia, sull’attribuzione del cognome ai figli. Previsto l'obbligo, per l'ufficiale di stato civile dell’iscrizione all'atto di nascita, del cognome materno in caso di accordo tra entrambi genitori. In una nota di Palazzo Chigi si precisa che la materia verrà comunque approfondita. Lo scopo del provvedimento è di garantire piena libertà ai genitori nel decidere quale cognome – uno solo o entrambi e in quale ordine – attribuire ai figli. Il servizio di Amedeo Lomonaco

    “In nomen omen”: nel nome – diceva lo scrittore latino Plauto – è racchiuso il destino. Ancora oggi, in diversi contesti, è rilevante il significato che la società e l’individuo attribuiscono al fatto di discendere da una certa famiglia. Il cognome, inoltre - soprattutto nei secoli passati - era legato spesso alla trasmissione ereditaria della proprietà e di attività produttive. Ma non è solo una questione legata all’identità. Ci possono essere motivazioni affettive per sigillare ad esempio, anche formalmente, l’amore di una figlia verso il padre. Dietro la scelta di attribuire - solo o anche - il cognome materno c’è, secondo alcuni, anche la volontà di superare lo strascico di quella che viene considerata una “cultura patriarcale”. E al contrario di vari Paesi europei o dell’America Latina, in Italia resta una norma consuetudinaria, saldamente radicata, quella di trasmettere al figlio solo il cognome del padre.

    In base alle disposizioni in vigore prima dell’approvazione, stamani, del disegno di legge da parte del Consiglio dei ministri, era possibile aggiungere il cognome della madre, ma non dopo la nascita di un figlio nel momento della registrazione all’anagrafe. La domanda doveva essere inoltrata alla Prefettura di competenza e, nell’apposito modulo, i genitori dovevano anche spiegare le motivazioni della loro richiesta, solitamente legata al desiderio di trasmettere ai figli i cognomi di entrambi. Più complesso l’iter per sostituire il cognome paterno con quello materno, ad eccezione dei casi in cui il cognome del padre è ritenuto “ridicolo o vergognoso”.

    Nel presentare la proposta di legge, è stato ricordato come sia “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. “Il figlio naturale – si legge nel testo approvato oggi – assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto”. “Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume i cognomi di entrambi i genitori”. Su questo disegno di legge si sofferma mons. Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e assistente generale dell’Azione Cattolica:

    R. – A me pare che questa proposta di legge, evidentemente, affronti uno dei problemi che riguardano il concetto di famiglia; credo che però i valori da ricercare oggi siano altri e le leggi dovrebbero preoccuparsi di altre cose, molto più gravi e molto più urgenti, anche se questa non è da scartare. E’ bene che ci siano tutte e due le possibilità: un riferimento alla famiglia del padre e alla famiglia della madre.

    D. – Anche perché il focus della questione riguarda proprio l’implicazione legata all’identità, sia quella del padre, sia quella della madre …

    R. – Certo. Per quello che io sarei contrario ad ammettere soltanto quello della mamma, adesso, perché saremmo ancora al punto di prima. Se facciamo una legge, facciamola proprio perché ci siano tutte e due queste identità, che questo figlio si porta come nuova sintesi di un mondo che tiene conto delle sue radici. E le radici sono due.

    D. – Una sintesi di cui troviamo traccia anche nella natura, nella biologia: ogni nascituro possiede 46 cromosomi, 23 di origine paterna e 23 di origine materna …

    R. – Ma è chiaro questo: il Creatore questo lo aveva già fatto! Quindi siamo noi che siamo complicati con i nostri registri. Se oggi questo viene anche tradotto concretamente, può essere una bella innovazione. L’importante è che ambedue i genitori vengano considerati come fondamentali nella costituzione di questa nuova vita, di questo figlio che ha dei riferimenti molto precisi.

    D. – A proposito di registri, di certificati, non mancano possibilità di scelta che possano, poi, generare confusione. Si può, ad esempio, verificare il caso di due fratelli che abbiano cognomi diversi, creando anche possibili problemi di tipo burocratico, giuridico …

    R. – Sì, ma poi le nostre casistiche sono specializzate in questo: li metteranno a posto, non ci saranno problemi. Gli strumenti da usare devono essere intelligentissimi!

    D. – La famiglia fondata sul matrimonio è sempre più bersaglio di attacchi. Si può riscontrare, in questo caso, anche il rischio che si indebolisca la figura del padre, decidendo come lei ha ricordato, ad esempio, di non dare ai figli il suo cognome?

    R. – Potrebbe essere anche un attacco; però, mi pare una soluzione vecchia! Stiamo cercando di innovare: andiamo a finire dall’altra parte, da quella parte che stiamo cercando di superare. Quindi, non è un superamento: questo è un ritorno indietro! Non farei la legge del “solo”: se stiamo cercando di cambiare in qualcosa che coinvolga tutti e due, vediamoli tutti e due. Altrimenti, riportiamo ancora il discorso del maschio soltanto. E’ bene che invece ci siano tutte e due queste possibilità.

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    Cyberbullismo. Borgomeo: bozza del Codice da migliorare nelle sanzioni

    ◊   Da due giorni, è aperta sul sito del Ministero dello Sviluppo economico la consultazione pubblica della bozza del primo Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del "cyberbullismo", elaborata dal governo con istituzioni e operatori del web. Fino al 24 febbraio, soprattutto gli utenti, esclusi dal tavolo ministeriale, potranno intervenire sul testo per modifiche e osservazioni. Ma le Associazioni restano critiche. Il servizio di Gabriella Ceraso:

    Eccessivo "cyberbullismo" e aggressività online tra minori e dunque necessità di rafforzare la tutela di questi ultimi. Queste, in sintesi, le premesse della bozza del Codice di autoregolamentazione, per ora composto di soli cinque articoli. Gli operatori aderenti, si legge, si impegnano ad adottare meccanismi di segnalazione di episodi pericolosi che siano nella pagina web visibili, semplici e diretti, affinché i bambini e gli adolescenti li possano utilizzare. L’intenzione è buona, anche se il danno al momento della segnalazione – osserva Luca Borgomeo del Consiglio nazionale utenti – è ovviamente già avvenuto:

    “Se ne riduce la portata, perché una cosa è che rimanga sul sito due ore, cinque ore, sei ore, e una cosa è che rimanga invece per sempre. Questo è evidente”.

    La bozza del Codice prevede, infatti, anche risposte efficaci, come la rimozione entro due ore del materiale lesivo segnalato o il suo immediato oscuramento. Fatto positivo anche questo, ma rischia di essere inefficace data l’assenza totale nella bozza di vere sanzioni, in caso di mancato rispetto delle regole. Ancora Luca Borgomeo:

    “Multe, sanzioni economiche, limitazione delle licenze… E’ possibile pensare che un regolamento abbia come 'sanzione' il richiamo? Lei si immagina che Google o un altro provider sia richiamato? Questo è il dato. Anche l’utente si sentirebbe maggiormente tutelato. E poi vai a vedere: non fanno neanche più la denuncia, come sta avvenendo in televisione”.

    Unico correttivo il coinvolgimento effettivo degli utenti: oggi, forse, attraverso la consultazione pubblica aperta per 45 giorni, per evitare che questo Codice rimanga uno tra i tanti, senza rapporto con la realtà:

    “Hanno chiamato solo gli operatori e non gli utenti: non coloro cioè che rappresentano le persone che denunciano i fatti di cyberbullismo. Non c’è, nel Paese, una cultura dell’utenza”.

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    Economia solidale per superare la crisi nel nuovo libro di padre Piero Sapienza

    ◊   Costruire un nuovo modello di società basato sulla solidarietà, per contrastare la disoccupazione e la crisi economica. Un’esigenza sostenuta da padre Piero Sapienza nel suo nuovo libro dal titolo “Il cammello e la cruna dell’ago”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e presentato nel pomeriggio di oggi. Il docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo studio teologico San Paolo di Catania ribadisce anche l’importanza del lavoro per la dignità della persona. Lo ha intervistato Filippo Passantino:

    R. – Con le cifre della disoccupazione sempre più elevate, lo stesso lavoro deve essere visto sia come realizzazione della persona umana, sia come il bene che si deve fare nella vita sociale. Anche le istituzioni politiche ed economiche devono fare in modo che ci sia davvero un lavoro per tutti. Giovanni Paolo II, nel Giubileo del 2000, parlando all’organizzazione internazionale del lavoro, chiedeva un lavoro “decente” e non un lavoro qualunque, come alle volte purtroppo succede oggi. Tutto questo implica, per esempio, l’impegno da parte dei sindacati che devono cominciare a rivedere quali sono i loro impegni oggi a favore dei lavoratori, non solo per chi lo ha e non lavora ma anche per quelli che non ce l’hanno.

    D. – In più occasioni, sia Benedetto XVI che Papa Francesco hanno fatto riferimento all’esigenza di un’economia “umana”, un’economia etica…

    R. – Soprattutto un’economia che deve essere improntata anche sul valore della fraternità e della solidarietà. La parola fraternità può sembrare una cosa fuori luogo, però assicura anche una migliore economia. In fondo, questo lo ha chiarito fortemente Benedetto XVI nella Caritas in Veritate. In economia, c’è quasi vergogna a parlare di solidarietà. Invece no, perché è questa che può assicurare uno sviluppo che coinvolge tutti gli uomini. Diversamente, non si può avere sviluppo, uno sviluppo che coinvolga l’uomo in tutte le sue dimensioni materiali, spirituali, religiose, morali…

    D. – Dunque, un’economia solidale per non lasciare nessuno indietro…

    R. – Esattamente. Lo sviluppo o è di tutti, o è soltanto di una élite e di fatto prima o poi si ritorcerà contro la stessa élite. Comunque, in ogni caso non dovrebbe essere davvero uno sviluppo, ma questo l’aveva già detto anche Paolo VI, nel 1967 nella Populorum progressio, dove già aveva toccato questi temi dello sviluppo, inteso come sviluppo di tutti.

    D. – Perché ha intitolato il suo libro “Il cammello e la cruna dell’ago”?

    R. – Chiaramente, partendo dalla parabola del Vangelo. Il cammello sta ad indicare quelle che sono state tutte le nostre esigenze, sovradimensionate, dal consumismo. Per cui, non si può fare a meno di nulla. La cruna dell’ago è perché chiaramente ormai le risorse cominciano a essere sempre meno. Quindi, o questo cammello dimagrisce o altrimenti resta fuori.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Siria: nella lotta intestina fra i ribelli, Assad tenta la riconquista di Homs

    ◊   L'esercito siriano sfrutta lo scontro fra ribelli siriani e jihadisti e lancia una pesante offensiva per riconquistare Homs, da oltre un anno nelle mani dell'opposizione armata. Nei bombardamenti sono morti almeno 37 terroristi secondo l'agenzia di Stato Sana, mentre per l'Osservatorio siriano per i diritti umani sarebbero oltre 50. In questa situazione migliaia di civili sono intrappolati sui due fronti e per gli attivisti vi è un nuovo rischio di carestia dopo quella che ha colpito la città lo scorso ottobre 2013. Dopo Raqqa e la provincia di Aleppo - riferisce l'agenzia AsiaNews - lo scontro fra la coalizione dei ribelli siriani e gli estremisti dello Stato islamico dell'Iraq e del levante (Isil) giunge anche ad Hama, provincia da cui partì nel 2011 la rivolta contro Bashar al-Assad. Questa mattina un'autobomba è esplosa vicino a una scuola nel villaggio di al-Kaffat, uccidendo almeno 18 persone, quasi tutti civili. Ieri i gruppi ribelli "moderati" hanno messo sotto assedio la città di al-Dana, una delle roccaforti dell'Isil nella provincia di Idlib. Il nuovo fronte di guerra interno all'opposizione anti-Assad sta facendo il gioco del regime che ha allargato la sua controffensiva da Aleppo ad Hama fino ai sobborghi di Damasco. Dopo i bombardamenti con missili Scud e "bombe barile" lanciati sulla seconda città della Siria, costati la vita a oltre 700 persone, ieri l'esercito ha ripreso i raid aerei lanciando bombe e missili contro il quartiere di Sheikh Maqsud (Aleppo) controllato dai ribelli. Per evitare una dissoluzione dell'opposizione, che segnerebbe una vittoria di Assad, gli Stati Uniti stanno valutando se riavviare gli aiuti militari non letali congelati lo scorso 11 dicembre per evitare di rafforzare i miliziani di al-Qaeda. Il New York Times riporta il parere di un funzionario del governo, anonimo, che ammette che i ribelli stanno dimostrando di essere più moderati e le paure e i dubbi dei mesi scorsi sono in parte rientrati con l'offensiva lanciata contro l'Isil. Il destinatario finale degli aiuti sarà comunque il Consiglio supremo militare (Smc), che insieme Consiglio nazionale siriano, è l'unico organo realmente moderato dell'opposizione, ma in questi giorni sta agendo insieme al Fronte islamico per cacciare al-Qaeda dalla Siria. (R.P.)

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    Terra Santa: da domani la visita dei vescovi di Usa, Europa, Canada e Sudafrica

    ◊   “Comprendere la realtà sociale, politica ed ecclesiale della Terra Santa per sostenere con più efficacia la giustizia e la pace e supportare gli sforzi della Chiesa locale”: è quanto si propone l’Holy Land Coordination (Hlc), Coordinamento dei vescovi di Nord America, Canada, Sud Africa e Ue per la Terra Santa, che si ritroverà a Gerusalemme da domani, fino al 16 gennaio, per il tradizionale incontro. L’iniziativa, infatti - riferisce l'agenzia Sir - si svolge dal 1998 ogni anno in gennaio, su mandato della Santa Sede, e con l’organizzazione della Conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles. Le giornate saranno scandite da numerosi momenti di preghiera, da incontri con le comunità locali di Gaza, Betlemme e Beit Sahour, con i presuli cattolici di diversi riti, con gli studenti di scuole e università cristiane e con autorità locali. In agenda anche visite nella valle di Cremisan dove il muro israeliano minaccia la sussistenza di oltre 50 famiglie cristiane e a progetti finanziati dalle diverse conferenze episcopali. Di particolare interesse sarà il meeting con l’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa e con il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, previsto per il 15 gennaio. (R.P.)

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    Settimana per l'unità dei cristiani: appello della Kek alle Chiese europee

    ◊   Un appello perché tutte le 115 Chiese che aderiscono alla Conferenza delle Chiese europee (Kek) si uniscano alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che come ogni anno si celebra dal 18 al 25 gennaio. A lanciarlo è la Kek che in un comunicato ripreso dall'agenzia Sir, rilancia a questo proposito una dichiarazione del suo segretario generale Guy Liagre. “Pregare insieme per l’unità della Chiesa è il modo più forte che le nostre 115 Chiese membro hanno per mostrare il loro spirito ecumenico. Ecco perché noi le invitiamo a partecipare alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”. “Cristo non può essere diviso!”: è questa affermazione tratta dalle lettere dell’apostolo Paolo ai Corinzi ad essere stata scelta quest’anno come tema di meditazione e riflessione per la Settimana di preghiera. E a redigere quest’anno il testo di preparazione alla Settimana - congiuntamente pubblicato poi dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e del Consiglio ecumenico delle Chiese attraverso la sua Commissione fede e costituzione - è stato un gruppo di rappresentanti di diverse regioni del Canada. “Consideriamo l’affermazione categorica di Paolo ‘Cristo non può essere diviso!’ come un pressante invito alla preghiera e a un esame di coscienza come cristiani singoli e in comunità”. (R.P.)

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    Usa. Lettera dei vescovi al Senato: promuovere lavoro dignitoso e salario equo

    ◊   “Considerare attentamente qualsiasi legislazione che possa dare il via al risanamento dell’economia, promuovendo condizioni di lavoro dignitose ed assicurando salari giusti ed equi ai lavoratori”: è l’appello lanciato mons. Thomas Wenski, presidente della Commissione per la giustizia e lo sviluppo umano della Conferenza episcopale statunitense. In questi giorni, il presule ha inviato una lettera al Senato esprimendo la sua preoccupazione per la crisi occupazionale che sta attraversando il Paese. “Non scrivo da economista o da esperto del mercato del lavoro – sottolinea mons. Wenski – ma piuttosto come un pastore che ogni giorno, in Chiesa, vede le pene e le sofferenze provocate da un’economia che non produce abbastanza lavoro per tutti”. In questa situazione, continua il presule, molte famiglie non riescono a “soddisfare i bisogni primari”, sono costrette a “praticare più lavori oppure, nei casi più disperati, a cercare prestiti dagli usurai”. Ricordando poi quanto scritto da Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Laborem Execerns”, cioè che “il lavoro è la chiave fondamentale di tutta la questione sociale”, mons. Wenski ribadisce che “il lavoro dell’uomo ha una sua dignità intrinseca e il giusto salario onora tale dignità”. E guardando, inoltre, alla dottrina della Chiesa cattolica, mons. Wenski spiega di non voler parlare di “politiche specifiche”, bensì di voler “offrire i principi per costruire un’economia giusta e progredire nel bene comune”. In quest’ottica, “un salario equo permetterà ai singoli individui, alle famiglie, alle comunità, alle parrocchie e, in sostanza, a tutta la società di svilupparsi sempre più pienamente”. Di qui, l’appello ad elevare il salario minimo federale, anche in relazione al fatto che esso, ormai, è destinato non solo ai giovani, ma persino ai loro genitori. Infine, il presule cita il discorso di Papa Francesco a Cagliari il 22 settembre 2013, durante l’incontro con il mondo del lavoro: “Un fattore molto importante per la dignità della persona è proprio il lavoro; perché ci sia un’autentica promozione della persona va garantito il lavoro. Questo è un compito che appartiene alla società intera”. E sulla scia di queste parole mons. Wenski insiste che si ritorni a porre la persona umana “al centro della vita economica”. (A cura di Isabella Piro)

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    Indonesia: cristiani in crescita ad Aceh, ma niente permessi per costruire chiese

    ◊   La piccola comunità cristiana nella provincia indonesiana di Aceh, nel Nord dell’isola di Sumatra, prospera ed è in crescita ma ottenere permessi per costruire chiese risulta impossibile, riferiscono a Fides le Chiese locali. Nella provincia, nota perché ha approvato parti della sharia (la legge islamica) nella legge civile, i cristiani, secondo i dati del censimento 2010, sono l’1,2 % della popolazione che in totale conta circa 4,5 milioni di abitanti. Esistono solo tre chiese nel capoluogo Banda Aceh (una cattolica e due protestanti) e, anche se la popolazione cristiana di Aceh risulta in crescita, gli stretti requisiti per ottenere autorizzazioni e le pressioni dei gruppi radicali islamici sulle autorità civili hanno reso oltremodo difficile per i non musulmani costruire nuovi luoghi di culto. Inoltre l’attuale governatore della provincia, Zaini Abdullah, eletto nel 2012, promuove un dichiarato programma di islamizzatone della società. Le regole per concedere permessi di costruzione variano da provincia a provincia, in Indonesia. Secondo Zulfikar Muhammad, coordinatore della “Aceh Human Rights Coalition”, che accoglie circa 30 organizzazioni, “ queste regole limitano di fatto minoranze nel libertà di praticare la loro fede e non sono coerenti con la Costituzione indonesiana”. Un’ordinanza del Ministero degli Interni indonesiano stabiliva nel 2006, come requisiti necessari, la richiesta firmata da almeno 90 membri di una comunità e, in più, una lettera di sostegno firmata da almeno 60 residenti locali, non appartenenti alla comunità. Ad Aceh, nel 2007, la normativa è stata modificata in senso restrittivo dal governatore locale: per la provincia sono necessarie le firme di almeno 150 fedeli e, inoltre, le firme di sostegno di 120 residenti. Con tali requisiti, non solo i cristiani non riescono a ottenere nuovi permessi ma alcune sale di preghiera esistenti sono state chiuse: a ottobre 2012, l'amministrazione di Banda Aceh ha ordinato la chiusura di nove luoghi di culto appartenenti a cristiani e buddisti, citando il mancato rispetto delle leggi vigenti. In sei casi, sono risultate decisive le rumorose proteste dei militati dell’Islamic Defenders Front (FPI). Sei mesi prima, nel sud della provincia di Aceh le autorità hanno ordinato la chiusura di altri 17 luoghi di culto cristiani. (R.P.)

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    Panama: l’Assemblea dei vescovi invita al voto per le elezioni del 4 maggio

    ◊   "Nell'ambito del 500.mo anniversario della Chiesa a Panama e della commemorazione del 50.mo anniversario della "Gesta Patriotica" del 9 gennaio, eventi storici che hanno plasmato l'identità della nostra nazione, vogliamo presentare la verità del Vangelo per illuminare la coscienza dei cittadini e dei candidati alle elezioni, mentre si avvicinano le elezioni del 4 maggio": così inizia il comunicato pubblicato alla conclusione dell’Assemblea plenaria della Conferenza episcopale del Panama. Questa assemblea, la numero 199, si è conclusa ieri a Panama ed è stata molto seguita per l’approssimarsi delle elezioni generali. "La Chiesa non cerca alcuna influenza politica. Mira semplicemente, come sottolineato da Benedetto XVI, a presentare la verità con tutta la sua forza morale e la sua esperienza in umanità. Il nostro compito è quello di formare le coscienze, difendere la giustizia e la verità, per educare alla dignità individuale e collettiva; costruire il Panama che tutti noi vogliamo e riaffermare una democrazia più partecipativa e inclusiva", si legge nel documento dei Vescovi inviato all’agenzia Fides. “Esortiamo i cattolici, gli uomini di buona volontà, soprattutto i giovani, a partecipare alle prossime elezioni e, guidati dal Vangelo e dai criteri etici, ad eleggere candidati di provata onestà, sincerità e responsabilità. In 24 anni di democrazia, la Chiesa ha promosso l'adozione di criteri e impegni etici per eleggere i candidati che formeranno il nuovo governo, attraverso il Patto Etico Elettorale ‘Santa María La Antigua’ - continua il testo -. Con questo si intende che la cittadinanza deve esercitare, da un lato un voto informato e consapevole, conoscendo le proposte e i piani dei candidati, tenendo conto dell'etica e del bene comune che dovrebbe guidare i criteri dell'azione politica, e, dall'altro, una sana vigilanza cittadina”. Il testo conclude: “Esortiamo le autorità a garantire che i cittadini possano eleggere nuovi leader in tutta trasparenza, lontani dalle pratiche demagogiche e di pressioni indebite, come la compra-vendita di voti e l'uso illegale dei beni e dei fondi dello Stato”. Il documento, firmato da tutti i vescovi, è datato 9 gennaio 2014. (R.P.)

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    Zambia: appello delle Chiese per una nuova Costituzione più democratica

    ◊   “La richiesta della popolazione per una nuova costituzione più democratica deve essere accolta. Soluzioni mediocri non saranno accettate”: scrivono così le Chiese cristiane in Zambia, in una dichiarazione pubblicata in occasione dell’inizio del 2014, anno in cui il Paese celebra i cinquant’anni di indipendenza dalla Gran Bretagna. Oltre alla Conferenza episcopale locale, tra i firmatari del documento ci sono l’Associazione delle Chiese cristiane del Paese, la Federazione nazionale evangelica e diverse Ong. Una questione, quella della Costituzione zambiana, davvero annosa: la Carta fondamentale, infatti, è stata rivista già quattro volte dal 1964 perché i successivi governi l’hanno rimodellata di volta in volta per ostacolare l’opposizione e restare in carica più a lungo possibile. “Il 2014 è l’anno della purificazione – si legge ora nella dichiarazione congiunta – Prima di tutto, quindi, i politici devono avere chiaro che la popolazione è perfettamente consapevole di avere la possibilità di cambiare il destino del Paese” e che “si aspetta un risultato positivo”. In secondo luogo, nel momento in cui ci si appresta a celebrare il Giubileo d’Oro della nazione, gli esponenti cristiani mettono in guardia i politici da soluzioni “meramente retoriche” che potrebbero suscitare “una dura reazione da parte degli zambiani”, considerato il fatto che “i governi succedutisi negli anni hanno avuto un atteggiamento antidemocratico, progettando la revisione della Costituzione sempre in modo fallimentare, non incentrata sul popolo”. Inoltre, i vescovi cattolici e gli altri esponenti cristiani puntano il dito contro gli abusi di potere, la tutela degli interessi personali a scapito del bene comune, la mancanza di credibilità portata avanti dalla leadership politica del Paese ed esortano gli zambiani a “non accettare mai più una governance di basso calibro”, ad “insistere per avere una Carta fondamentale più democratica”. “Non lasciamoci intimidire – si legge nella dichiarazione – perché la legge è dalla nostra parte ed il nostro potere, attualmente, è il diritto di parlare liberamente e continuamente”. Infine, i firmatari della nota esortano tutte le Chiese e le parrocchie del Paese a dedicare alcuni minuti, ogni domenica, a riflettere sulla Costituzione per sensibilizzare i fedeli sull’argomento. (I.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVIII no. 10

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.