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Sommario del 10/09/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa: no ad atteggiamenti trionfalistici nella Chiesa, annunciare Gesù senza timore e vergogna
  • Il Papa incontra i capi dicastero per ascoltare considerazioni sul governo della Chiesa
  • Oggi il Papa tra i rifugiati del Centro Astalli. P. La Manna: incontro che scava nelle coscienze
  • Tweet del Papa: grazie a tutti coloro che hanno aderito alla Veglia per la pace
  • Nomina episcopale di Papa Francesco in Argentina
  • Kiko Argüello: Papa Francesco, Provvidenza di Dio per la Chiesa di oggi
  • Ultima puntata della rubrica di padre Kowalczyk sul Catechismo: strumento fondamentale per la Chiesa
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Siria. Parigi presenta una risoluzione all’Onu: impegni precisi da parte di Damasco
  • Cristiani in Siria, vittime di un conflitto radicalizzato tra comunità scita e sunnita
  • Filippine. 200 in ostaggio di separatisti a Zamboanga. P. Mariani: missionari in pericolo
  • Ue: si riducono le diseguaglianze nella salute tra i Paesi del Vecchio continente
  • Roma. Firmato un appello per la riconciliazione nazionale in Centrafrica
  • Sant'Egidio presenta il Meeting interreligioso 2013: "Il coraggio della speranza"
  • A Riccione mostra fotografica “ I bambini e la guerra” con gli scatti di Raffaele Ciriello
  • Presentato il 16.mo Religion Today Filmfestival, quando il dialogo diventa cinema
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Filippine: la Chiesa a Zamboanga prega per la pace fra esercito e islamisti
  • Cile. “La riconciliazione non si impone”: i vescovi a 40 anni dal golpe di Pinochet
  • Siria: card. Schönborn e patriarchi d'Oriente pregano per la pace e la liberazione dei vescovi rapiti
  • Gerusalemme: le reliquie di Don Bosco in pellegrinaggio in Terra Santa
  • Egitto. Al Azhar: la revisione della Costituzione non sconfesserà l'identità islamica del Paese
  • Myanmar: la Caritas in aiuto dei Rohingya, musulmani birmani in fuga da violenze e persecuzioni
  • India. Condannati gli stupratori di New Delhi: rischiano la pena di morte
  • Kenya. Aperto all'Aja il processo per il vice-presidete Ruto: sterminò 1800 persone
  • Tanzania: aumentati traffico e consumo di eroina in Africa
  • Haiti: dialogo col Brasile per combattere la tratta dei migranti
  • Perù: combattere l'analfabetismo per ridurre l'isolamento delle popolazioni andine
  • Mongolia: la Chiesa cattolica alla Giornata Missionaria Mondiale 2013
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa: no ad atteggiamenti trionfalistici nella Chiesa, annunciare Gesù senza timore e vergogna

    ◊   I cristiani sono chiamati ad annunciare Gesù senza timore, senza vergogna e senza trionfalismo. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha messo l’accento sul rischio di diventare cristiani senza Risurrezione e ha ribadito che Cristo è sempre il centro e la speranza della nostra vita. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Gesù è il Vincitore, Colui che ha vinto sulla morte e sul peccato. Papa Francesco ha svolto la sua omelia prendendo spunto dalle parole su Gesù nella Lettera di San Paolo ai Colossesi. A tutti noi, ha detto il Papa, San Paolo consiglia di camminare con Gesù “perché Lui ha vinto, camminare in Lui radicati e costruiti su di Lui, su questa vittoria, saldi nella fede”. Questo è il punto chiave, ha ribadito: “Gesù è risorto!”. Ma, ha proseguito, non è sempre facile capirlo. Il Papa ricorda, per esempio, che quando San Paolo si rivolse ai greci ad Atene venne ascoltato con interesse fino a quando parlò di Risurrezione. “Questo ci fa paura, meglio lasciarla lì”. Un episodio che ci interroga anche oggi:

    “Ci sono tanti cristiani senza Risurrezione, cristiani senza il Cristo Risorto: accompagnano Gesù fino alla tomba, piangono, gli vogliono tanto bene, ma fino a lì. Pensando a questo atteggiamento dei cristiani senza il Cristo Risorto, io ne ho trovati tre, ma ce ne sono tanti: i timorosi, i cristiani timorosi; i vergognosi, quelli che hanno vergogna; e i trionfalistici. Questi tre non si sono incontrati col Cristo Risorto! I timorosi: sono quelli della mattina della Resurrezione, quelli di Emmaus che se ne vanno, hanno paura”.

    Gli Apostoli, ha rammentato il Papa, si chiudono nel Cenacolo per timore dei giudei, anche la Maddalena piange perché hanno portato via il Corpo del Signore. “I timorosi – ha ammonito – sono così: temono di pensare alla Resurrezione”. E’ come, ha osservato, se rimanessero “nella prima parte della partitura”, “abbiamo timore del Risorto”. Ci sono poi i cristiani vergognosi. “Confessare che Cristo è risorto – ha constatato – dà un po’ di vergogna in questo mondo” che “va tanto avanti nelle scienze”. A questi cristiani, ha detto, Paolo dice di fare attenzione che nessuno li faccia preda con la filosofia e con i vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana. Questi, ha detto, “hanno vergogna” di dire che “Cristo, con la sua carne, con le sue piaghe è risorto”. C’è infine il gruppo dei cristiani che “nel loro intimo non credono nel Risorto e vogliono fare loro una risurrezione più maestosa di quella” vera. Sono i cristiani “trionfalistici”:

    “Non sanno la parola ‘trionfo’, soltanto dicono ‘trionfalismo’, perché hanno come un complesso di inferiorità e vogliono fare… Quando noi guardiamo questi cristiani, con tanti atteggiamenti trionfalistici, nella loro vita, nei loro discorsi e nelle loro pastorale, nella Liturgia, tante cose così, è perché nel più intimo non credono profondamente nel Risorto. E Lui è il Vincitore, il Risorto. E poi ha vinto. Per questo, senza timore, senza paura, senza trionfalismo, semplicemente guardando il Signore Risorto, la sua bellezza, anche mettere le dita nelle piaghe e la mano nel fianco”.

    “Questo – ha soggiunto – è il messaggio che oggi Paolo ci dà”: Cristo “è tutto”, è la totalità e la speranza, “perché è lo Sposo, il Vincitore”. Il Vangelo odierno, ha detto ancora, ci mostra una folla di gente che va ad ascoltare Gesù e ci sono anche tanti malati che cercano di toccarlo, perché da Lui “usciva una forza che guariva tutti”:

    “La nostra fede, la fede nel Risorto: quello vince il mondo! Andiamo verso di Lui e lasciamoci, come questi malati, toccare da Lui, dalla sua forza, perché Lui è con le ossa e con la carne, non è un’idea spirituale che va… Lui è vivo. E’ proprio Risorto. E così ha vinto il mondo. Che il Signore ci dia la grazia di capire e vivere queste cose”.

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    Il Papa incontra i capi dicastero per ascoltare considerazioni sul governo della Chiesa

    ◊   Stamani, nella Sala Bologna del Palazzo Apostolico, ha avuto luogo una riunione a cui Papa Francesco ha invitato tutti i capi dicastero della Curia Romana, il presidente del Governatorato, il cardinale Giuseppe Bertello, e il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini. Era presente anche il cardinale Tarcisio Bertone. Il Papa, informa una nota della Sala Stampa vaticana, “ha incontrato personalmente nei mesi scorsi tutti i capi dicastero e ha avuto con ognuno di loro un ampio colloquio”. Stamani, li ha invece incontrati insieme “in una riunione da lui stesso presieduta, mentre si compie il sesto mese di Pontificato”. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Durante la riunione, informa la nota della Sala Stampa vaticana, Papa Francesco ha ascoltato “le considerazioni e i consigli" dei suoi "principali collaboratori del Papa in Roma". L’incontro, prosegue il comunicato, “si inserisce naturalmente nel contesto di attuazione dei suggerimenti presentati dai cardinali nelle Congregazioni in preparazione al Conclave e nella riflessione del Santo Padre sul governo della Chiesa, che avrà presto un altro momento importante con la riunione del Gruppo di 8 cardinali ai primi di ottobre”. L’udienza, a cui hanno preso parte una trentina di persone, è durata quasi tre ore, compresa una pausa: è iniziata alle ore 10 e si è conclusa poco prima delle 13. La riunione, ha detto padre Federico Lombardi, si è svolta in un “clima di comunione e di ascolto”. E’ stata scelta la formula degli “interventi brevi” così da permettere a tutti di parlare. All’inizio, ha riferito il direttore della Sala Stampa, il Papa ha rivolto un breve saluto ai partecipanti.

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    Oggi il Papa tra i rifugiati del Centro Astalli. P. La Manna: incontro che scava nelle coscienze

    ◊   L’ingresso dalla stessa porta dove ogni giorno dozzine di rifugiati si mettono in fila per chiedere un pasto o altro tipo di aiuto. Inizierà da qui, verso le 15.30 del pomeriggio, la visita privata di Papa Francesco al Centro Astalli di Roma, la struttura dei Gesuiti che da oltre 30 anni si prodiga per assistere chi ha lasciato il proprio Paese ed è approdato a Roma. Una visita attesa, che si collega idealmente a quella del Papa a Lampedusa. Fabio Colagrande ne ha parlato con padre Giovanni La Manna, direttore del Centro Astalli:

    R. – Siamo molto contenti di questa visita, lì dove i rifugiati vivono la loro vita quotidiana, che è fatta di mensa, è fatta di aiuto legale, di aiuto sociale, di aiuto sanitario. Siamo sicuri che sarà anche un’esperienza spirituale.

    D. – Come si svolgerà, in sintesi, la visita di Papa Francesco al Centro Astalli?

    R. – Aspettiamo che Papa Francesco arrivi alla porta del Centro e poi percorrerà il cammino che ogni richiedente asilo, quando viene al Centro Astalli, percorre: quindi troverà i volontari che stanno distribuendo il cibo, gli operatori che danno assistenza legale, i medici che accolgono, visitano, e il farmacista che dà le medicine. Si fermerà a pregare nella nostra cappella e poi si salirà su, dove incontrerà altri rifugiati che sono accolti da noi. Troverà tutte quelle persone che, a vario titolo, nel quotidiano ci consentono di realizzare un’accoglienza progettuale che consente di restituire, riconoscere la dignità di queste persone e soprattutto ci consente di accompagnarle affinché vengano riconosciuti i loro diritti.

    D. – Come si stanno preparando i rifugiati? Qualcuno ha preparato delle richieste particolari al Papa, dei doni?

    R. – Credo che in questo incontro gli elementi più importanti siano le esperienze personali e quindi che ciascuno abbia la possibilità di raccontare a Papa Francesco cosa ha vissuto nel suo arrivo a Roma, che è diverso dal primo approdo, cioè Lampedusa. A Lampedusa si arriva con la felicità e la contentezza di essere arrivati vivi, con la speranza di rimettersi in piedi. Ora, questa speranza di rimettersi in piedi nelle nostre città, a Roma, incontra un contesto che non sempre è facile. Questo deve essere il nostro impegno: facilitare il più possibile il secondo arrivo.

    D. – Padre La Manna, quanto questi primi mesi di Pontificato di Papa Francesco hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sui cosiddetti “migranti forzati”?

    R. – Sono convinto che la testimonianza di Papa Francesco aiuti a uscire dal reagire emotivamente, in modo da realizzare un cammino che ha una sua continuità. Lampedusa è stata una tappa di un cammino iniziato con Papa Francesco che ci ha visto anche insieme sabato scorso pregare e digiunare per la pace in Siria e per la pace nel mondo. E’ un cammino continuo che incide e che mira a risvegliare le coscienze di noi tutti.

    D. – Quali frutti vi attendete da questa visita del Papa al Centro Astalli?

    R. – Il primo frutto è un’esperienza che è umana, spirituale, che miri a tenere viva sempre più la speranza dei rifugiati di avere una vita di vera pace, di serenità, e insieme lo sforzo di quanti hanno la responsabilità di governare i nostri Paesi, di riportare la pace nei Paesi di provenienza di queste persone e soprattutto tenere vivo anche l’entusiasmo di essere al servizio dei poveri, dei rifugiati.

    D. – Potrebbe arrivare anche un messaggio alle istituzioni da questa visita, secondo lei?

    R. – Il Papa ci sorprende sempre. Vediamo cosa nascerà dall’incontro con queste persone. Credo che il Papa parlerà a tutti e la sua parola è una parola che non solo entra nei cuori, ma vi rimane e lavora sule nostre stesse persone: perché è trasformando le nostre persone che trasformeremo veramente il nostro mondo.

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    Tweet del Papa: grazie a tutti coloro che hanno aderito alla Veglia per la pace

    ◊   “Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno aderito alla veglia di preghiera e al digiuno per la pace”. Suona così il tweet lanciato stamattina da Papa Francesco attraverso l’account @Pontifex. Come promesso dal Papa stesso all’Angelus di due giorni fa, “l’impegno continua” per quanto riguarda l’attenzione alla Siria e al Medio Oriente.

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    Nomina episcopale di Papa Francesco in Argentina

    ◊   In Argentina, Papa Francesco ha nominato vescovo di Rafaela mons. Luis Alberto Fernández Alara, finora Vescovo titolare di Carpi ed Ausiliare di Buenos Aires.

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    Kiko Argüello: Papa Francesco, Provvidenza di Dio per la Chiesa di oggi

    ◊   Il Papa ieri ha ricevuto diversi rappresentanti di associazioni e movimenti ecclesiali. Giovedì aveva incontrato anche gli iniziatori del Cammino neocatecumenale, Kiko Argüello, Carmen Hernandez e padre Mario Pezzi. Debora Donnini ha chiesto a Kiko Argüello come è andato l’incontro con il Papa:

    R. - Molto bello! E’ stato pieno di benevolenza e di amore verso di noi. Ci ha ringraziamo per il bene grande che sta facendo il Cammino in tutta la Chiesa. E’ molto gentile… Quando io gli ho detto: “Ma, Padre, io sono un peccatore…”. Mi ha risposto: “Allora siamo in due: tu ed io”. Abbiamo parlato di tutto. Abbiamo parlato anche del fatto che noi pensiamo che sia il momento di preparare 20 mila sacerdoti per l’Asia: era molto, molto attento. Abbiamo anche parlato dell’invio di nuove famiglie in missione ad gentes.

    D. - Papa Francesco vi ha incoraggiato nell’annuncio del Vangelo che il Cammino fa anche ultimamente con la missione di annuncio nelle piazze, durante il periodo di Pasqua?

    R. - Assolutamente, assolutamente. Dice che stiamo facendo un bene immenso alla Chiesa. Gli ho parlato delle piazze: ci ha ringraziato. Ho preparato anche un dossier, che gli ho dato, su tutte le piazze del mondo. Abbiamo aiutato a rientrare nella Chiesa circa 20 mila persone lontane… Ci sono state molte conversioni. E’ stato bellissimo.

    D. - Cosa l’ha colpita di più di Papa Francesco?

    R. - E’ una provvidenza di Dio per la Chiesa di oggi. Una grande provvidenza d’amore di Dio per la Chiesa, fondamentale. Lui sente la gente, la gente che ha bisogno di trovare Gesù Cristo. E’ molto affabile, molto buono, pieno di amore. Abbiamo trovato in lui una comprensione e un amore pastorale: è un pastore, un pastore che vuole bene alle pecore e che le vuole aiutare!

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    Ultima puntata della rubrica di padre Kowalczyk sul Catechismo: strumento fondamentale per la Chiesa

    ◊   Si conclude oggi la rubrica sul Catechismo della Chiesa Cattolica, nel 20.mo della sua pubblicazione. In questa 42.ma e ultima puntata padre Dariusz Kowalczyk si sofferma sulla parola Amen nella Bibbia e nel Credo:

    Il Credo termina con la parola Amen. Nella Bibbia questa parola viene usata come un'acclamazione di consenso oppure in risposta a una dossologia o una benedizione. Il Catechismo ci fa notare che la radice ebraica dell’Amen, "esprime la solidità, l’affidabilità, la fedeltà". (CCC, 1062)

    L’Amen non è una semplice conclusione delle preghiere, ma una risposta a Dio. Con l’Amen professiamo la fedeltà di Dio verso di noi ed esprimiamo la nostra fiducia in Lui. Nel Talmud, uno dei testi sacri dell'ebraismo, alla domanda "Che cosa significa amen?", si risponde: "Dio, il re fedele".

    L’Amen finale del Credo corrisponde alle parole con cui iniziamo la professione di fede, cioè: "Io credo". Credere infatti "significa dire Amen" alle parole, alle promesse, ai comandamenti di Dio" (CCC, 1064).

    Il Cristo stesso è l’Amen come leggiamo nel Libro di Apocalisse: "Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace" (3,14). Egli come vero Dio è l’Amen definitivo dell’amore del Padre per noi, e nello stesso tempo è – come vero uomo – la pienezza della nostra risposta a Dio. Possiamo e dobbiamo perciò unire il nostro Amen imperfetto con l’Amen perfetto di Gesù.

    Durante le nostre puntate sul Credo, spiegato dal Catechismo, abbiamo riflettuto sui 12 articoli della fede da "Credo in un solo Dio" a "Credo la vita eterna". Così abbiamo cercato di rispondere all’invito del Papa Benedetto XVI espresso nella lettera Porta fidei. L'incoraggiamento a leggere il Catechismo, "un vero strumento e sostegno della fede" (Porta fidei, 12).

    Il nuovo Pontefice, Papa Francesco, ci ha dato l’Enciclica sulla fede Lumen fidei, nella quale leggiamo che il Catechismo è "strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, 'tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede'" (n. 46). Torniamo dunque al Catechismo per rimanere in dialogo con la nostra fede.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Nell'editoriale, il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, commenta l’istituzione della giornata internazionale della carità, omaggio dell’Onu a Madre Teresa.

    Mario Ponzi racconta la visita di Papa Francesco al Centro Astalli di Roma, sede italiana del Refugee Service - Jrs, il servizio dei gesuiti per i rifugiati.

    Gaetano Vallini presenta Liberi Nantes Football Club, l’unica squadra di calcio in Italia formata da rifugiati e richiedenti asilo

    In cultura, Ugo Sartorio intervista Gustavo Gutiérrez, il teologo peruviano padre della teologia della liberazione.

    Mario Delpini recensisce il film “Tutti i santi giorni”

    Vuoto istituzionale, ma carità senza limiti: Giovanni Preziosi racconta il caos dopo l’8 settembre 1943.

    Carlo Bellieni sulla giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, che si celebra l'11 settembre

    Perché il dialogo non resti solo nei documenti: Riccardo Burigana riferisce del convegno a Birmingham su come le comunità accolgono i testi ecumenici.

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    Oggi in Primo Piano



    Siria. Parigi presenta una risoluzione all’Onu: impegni precisi da parte di Damasco

    ◊   Mosca è pronta a presentare a tutte le parti interessate il piano per mettere le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale. E Damasco ribadisce la collaborazione. Mosca precisa: l'ipotesi è stata elaborata in un incontro Putin-Obama al G20. Dopo la proposta russa di ieri, che ha aperto uno spiraglio nella crisi siriana ottenendo l’appoggio anche dell’Iran e della Lega Araba, il ministro degli Esteri russo, Lavrov, si impegna a presentare un piano concordato con l’Onu al più presto. Intanto, la Francia fa sapere che oggi stesso intende presentare richieste precise attraverso l’Onu. Il servizio di Fausta Speranza:

    La Francia presenta oggi stesso alle Nazioni Unite un progetto di risoluzione. Il ministro degli Esteri, Fabius, spiega: Non vogliamo che la proposta russa sulla Siria possa essere utilizzata come ''manovra diversiva”. Le richieste alle Nazioni Unite, per dare credito ad Assad, sono precise: condannare il massacro del 21 agosto commesso – dice Fabius - dal regime siriano, pretendere da Damasco informazioni sulle armi chimiche, avviare ispezioni e controlli con sanzioni estremamente serie; portare i responsabili del massacro davanti alla giustizia internazionale penale. Dunque, sia Mosca che Parigi in qualche modo ricorrono all’Onu: La riflessione del prof. Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

    R. – Credo che la Russia lo stia dicendo già da un po’ di tempo. La Francia meno, perché la Francia si è accodata un po’ troppo velocemente agli Stati Uniti. E mi sembra una mossa estremamente positiva che la stessa Francia invece adesso punti direttamente ad una funzione diretta, ad un impegno diretto da parte delle Nazioni Unite. Vediamo un po’ come si muoverà il segretario generale, che a questo punto credo potrà avere un ruolo centrale per una maggiore mediazione tra le parti in causa. La Russia sta mettendo in campo la propria reputazione: se fosse soltanto una manovra diversiva, sicuramente la reputazione di Mosca ne risentirebbe parecchio. C’è un impegno preciso, mi sembra, del ministro degli Esteri russo. Poi, se si chiede anche un impegno preciso e diretto da parte dell’Onu, a questo punto ancor meno potrebbe essere una manovra diversiva …

    D. – La Russia precisa: la proposta di mettere le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale non è un’iniziativa del tutto russa, ma deriva dai contatti con colleghi americani e poi da questa dichiarazione che ha fatto Kerry, dicendo: “Se poi le armi non vi fossero, non avrebbe senso il raid”. Perché queste precisazioni da parte di Mosca?

    R. – Ma, se è vero che ci sono stati incontri - come comunque penso ci siano sempre stati almeno tra funzionari – a questo punto capisco le dichiarazioni di Mosca, capisco che si stia tentando di trovare una soluzione alla questione perché questo mi fa pensare che non è tanto scontato il “sì” del Congresso all’autorizzazione al presidente Obama a portare l’attacco nei confronti della Siria, e quindi evidentemente ci sono resistenze ulteriormente forti rispetto all’ottimismo che è stato un po’ sbandierato da parte della Commissione esteri del Senato.

    Damasco ribadisce anche oggi la collaborazione al piano. Da parte sua il presidente della Siria continua a negare l’uso di armi chimiche e accusa i ribelli. A proposito di questo, il giornalista Domenico Quirico ha riferito di aver sentito ammissioni proprio da parte di ribelli ma di non poter giudicare se si trattasse di propaganda organizzata ad arte. Ancora il prof. De Luca:

    R. – E' un dubbio che io avevo da un po’ di tempo. Capisco le precauzioni del nostro giornalista finalmente liberato, però questo mi fa pensare che in un momento particolare della guerra civile siriana, cioè nel momento in cui le truppe di Assad sembravano essere non dico vincenti, ma aver riconquistato pian piano una parte del territorio, fare una mossa così azzardata e – lo dico brutalmente – stupida come quella di farsi scoprire nell’uso delle armi chimiche, mi sembrava – come dire – un po’ costruita. Ora, capisco – ripeto – le precauzioni del giornalista, ma questa è un’ipotesi che credo sia serpeggiata in molte cancellerie, soprattutto europee.

    Resta la precisazione del ministro francese: “Tutte le opzioni sono ancora sul tavolo". E la cautela di Obama: non accetteremo perdite di tempo. Ma la posizione del presidente degli Stati Uniti sarà più chiara dopo il discorso previsto in giornata alla nazione.

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    Cristiani in Siria, vittime di un conflitto radicalizzato tra comunità scita e sunnita

    ◊   I cristiani in Medio Oriente, e in altri Paesi come l’Egitto dove sono una minoranza, sono i primi a pagare il prezzo delle guerre, a soffrirne, a dover lasciare le proprie case e tutti gli averi ed emigrare. Così ha denunciato qualche giorno fa mons. Fouad Twal, patriarca di Gerusalemme dei Latini, in un incontro ad Amman dei capi delle Chiese mediorientali. E la preoccupazione sale in questi giorni per la sorte dei cristiani in Siria, come accaduto per gli abitanti del villaggio di Maalula. Roberta Gisotti ha intervistato Marina Calculli, nostra collaboratrice in Medio Oriente:

    D. - Come stanno vivendo i cristiani il conflitto? Hanno mai preso posizione sulle ragioni del governo e dei ribelli?

    R. - I cristiani in Siria vengono considerati generalmente sostenitori del regime. Questo perché c’è un’alleanza storica tra la comunità degli alawiti e la comunità dei cristiani. Ovviamente, moltissimi hanno un atteggiamento neutrale, moltissimi hanno dovuto ingoiare una pillola amara per ragioni di sicurezza. Purtroppo, la connotazione confessionale - che ad un certo punto della sua evoluzione ha assunto il conflitto siriano - ha portato anche i cristiani a doversi schierare in qualche modo. Il conflitto è divenuto uno scontro tra sunniti e sciiti, ovvero gli alawiti, che sono la comunità che appartiene alla famiglia sciita in Siria, cui appartiene anche il regime di Bashar Al Assad, lui stesso è un alawita. I cristiani, semplicemente perché considerati alleati o sostenitori del regime, diventano spesso oggetto di attacco e di persecuzioni.

    D. - Recente è l’assalto, da parte di formazioni ribelli qadeiste, al villaggio cristiano di Maalula, al nord di Damasco, che tu hai visitato. Un attacco che fa temere il peggio per i cristiani?

    R. - Un attacco abbastanza simbolico, perché Maalula è veramente il simbolo della cristianità più antica rappresentata in questa regione. Tanto è vero che a Malula non solo ci sono degli antichissimi monasteri, ma gli abitanti parlano ancora l’aramaico, quindi la lingua del Cristo. Proprio l’isolamento geografico di Maalula ha permesso che si preservasse quanto meno la tradizione, anche linguistica. Quindi, l’attacco a Maalula è un attacco simbolico. Da alcune testimonianze che ho potuto raccogliere, il trattamento è stato molto pesante. Si è cercato addirittura di convertire i residenti. La maggior parte sono riusciti a scappare, ma alcune centinaia di persone rimangono all’interno del villaggio. Purtroppo, come dicevo prima, è il riflesso di un conflitto che ha assunto - per servire interessi politici, ovviamente - una piega del tutto confessionale. Le ragioni però non sono nelle religioni e nell’appartenenza ad un credo. E questo è importante ricordarlo.

    D. - Mons. Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti gli Stati, ha evidenziato che le Chiese cristiane sono impegnate in prima linea sul piano umanitario. Quindi se dovessero emigrare tutti i cristiani - sappiamo che ne sono già emigrati 450 mila dalla Siria - ci sarebbero costi umani ulteriori per la popolazione civile…

    R. - Probabilmente sì. Ci sono moltissime comunità che danno assistenza umanitaria e non soltanto a militanti pro-Assad o agli ufficiali dell’esercito, ma anche ai ribelli. Questa è una testimonianza che ho raccolto in diverse occasioni e che è importante ricordare proprio per non dare l’immagine dei cristiani come un blocco unico associato al regime di Assad. Dall’altra parte, il timore dei cristiani - e questo non soltanto in Siria, ma è una preoccupazione che si percepisce anche in Libano - è che la radicalizzazione politica della regione porterà, prima o poi, a una impossibilità della convivenza tra le comunità cristiane e le comunità musulmane. Questa sarebbe ovviamente una tragedia per una regione che storicamente è il crogiolo di culture diverse e di religioni diverse, che ha dato origine ai tre grandi monoteismi della storia e che rischia, appunto, di essere rovinata da interessi politici.

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    Filippine. 200 in ostaggio di separatisti a Zamboanga. P. Mariani: missionari in pericolo

    ◊   A Zamboanga, sull’isola filippina di Mindanao, proseguono per il secondo giorno consecutivo gli scontri tra i miliziani del Fronte nazionale di liberazione Moro (Mnlf) e le forze di sicurezza locali. Ieri un blitz dei guerriglieri ha scatenato una battaglia cittadina che ha causato almeno 8 morti e 24 feriti, con circa 200 civili presi in ostaggio dai ribelli: sei di essi, perlopiù bambini, sono stati liberati stamani. L'assalto del Mnlf - un movimento che dagli anni Settanta guida una lotta separatista responsabile di oltre 120 mila morti - rischia di compromettere il processo di pace in corso tra il governo e gli altri ribelli della zona, quelli del Fronte islamico di liberazione Moro (Milf). Sulla situazione in corso, Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente a Zamboanga padre Giulio Mariani, missionario del Pime, già direttore del locale Centro Euntes per sacerdoti, suore e catechisti di tutta l’Asia:

    R. – Continua la presenza dei ribelli nel cuore della città. La città è bloccata, tutto è chiuso, tutto è fermo: farmacie, scuole, uffici, negozi. Ciò crea un grosso problema per la gente. Ci sono già almeno settemila rifugiati che hanno bisogno di tutto e questa situazione porta ulteriori problemi alle famiglie, che dipendono dal lavoro giornaliero: non potendosi recare al lavoro, sono senza soldi. E quindi soffrono. C’è anche il coprifuoco: dalle 8.00 di sera alle 5.00 del mattino nessuno può muoversi, nessuno può uscire.

    D. – In alcune zone ci sarebbero persone bloccate dai guerriglieri…

    R. – Sì, hanno preso degli ostaggi. C’è chi parla di 200 persone – almeno ieri era così – che sarebbero in parte ancora là, nella zona di Santa Catalina, Santa Barbara e Talon Talon, vicino al centro della città.

    D. – Padre, il sindaco della città, Maria Isabelle Climaco Salazar, ha detto che queste persone sarebbero state usate come scudi umani dai guerriglieri…

    R. – Questo io non l’ho sentito, ma non mi sorprende. Il sindaco è una persona molto rispettata, è una cattolica, la conosciamo personalmente. Quindi, se ha detto una cosa del genere, vuol dire che è veramente successo.

    D. – Perché il Fronte nazionale di liberazione Moro non aderisce agli accordi di pace che invece gli altri ribelli locali – quelli del Fronte islamico di liberazione Moro – hanno siglato l’anno scorso con il governo?

    R. – I ribelli del Mnlf chiedono l’indipendenza, non l’autonomia. Nel trattato di pace, il governo parla di formare una regione autonoma musulmana, Bangsamoro, ma loro non l’accettano, puntando invece a uno Stato indipendente. Infatti, i ribelli hanno cercato di arrivare al municipio di Zamboanga per cambiare la bandiera delle Filippine con la loro bandiera, per dire che dichiaravano Zamboanga capitale dello Stato indipendente musulmano.

    D. – In questo momento di tensione, il ruolo della Chiesa qual è?

    R. – La diocesi si è organizzata per raccogliere fondi e cibo e distribuirlo ai rifugiati. Nel mio caso, e nel caso degli altri due padri del Pime che sono qui con me, è un momento molto delicato: siamo in pericolo. La polizia ci ha detto di stare lontani dalla città, di non muoverci, perché noi siamo già stati e siamo tuttora oggetto di sequestro da Abu Sayyaf. Tant’è vero che il Centro di cui io ero il direttore è stato chiuso proprio per questo motivo. Nel 1998, uno dei nostri padri qui a Zamboanga è stato sequestrato e poi la vicenda di padre Bossi, che alcuni anni fa è stato sequestrato e tenuto prigioniero per 68 giorni.

    D. – Quali sono le vostre speranze proprio in queste difficoltà?

    R. – Speriamo si possa tornare al più presto ad avere la pace, la tranquillità e la serenità. Alle 6 ora locale – a mezzogiorno in Italia – c’è stata la Messa in tutte le chiese della diocesi, pregando per la pace e per la sicurezza di tutte le persone. È stato un momento molto significativo, apprezzato dalla gente perché le chiese erano state chiuse per motivi di sicurezza, per ordine della polizia. Noi crediamo nel dialogo, siamo qui appunto per questo e vogliamo, attraverso la testimonianza del Vangelo, portare la pace a tutti i popoli, qui nelle Filippine. E’ possibile camminare insieme tra musulmani e cristiani: ci sono dei valori che sono comuni, ad esempio l’amore per il prossimo.

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    Ue: si riducono le diseguaglianze nella salute tra i Paesi del Vecchio continente

    ◊   Le disuguaglianze nella salute, in termini di aspettativa di vita e in particolare nella mortalità infantile sono stati notevolmente ridotti nell'Unione Europea negli ultimi anni. A sottolinearlo è un Rapporto pubblicato ieri dalla Commissione Europea, dal quale emergono però anche criticità che riguardano soprattutto le diseguaglianze tra i vari Paesi dell’Unione in fatto di assistenza e stili di vita. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Paola Testori Coggi, direttore generale per la salute ed i consumatori della Commissione Europea:

    R. – In Europa, c’è ancora una grossa differenza tra i Paesi per quanto riguarda quelli che sono gli indicatori della salute della popolazione. Parliamo di aspettativa di vita, di mortalità infantile. C’è anche l’altro indicatore importante, ovvero gli anni di vita che vengono spesi in salute, gli anni di vita in cui noi non siamo malati. Questa diseguaglianza c’è: per esempio, per quanto riguarda l’aspettativa di vita ci sono quasi 10 anni di differenza se prendiamo i migliori Paesi, quelli nordici, come la Svezia e i Paesi dell’Est. Perché c’è questa differenza? Perché i Paesi dell’Est – che sono entrati nell’Unione Europea dopo – hanno ancora un livello di sviluppo sociale, e anche un livello di sistemi sanitari o di inquinamento, ancora bassi.

    D. – Queste differenze però si stanno notevolmente riducendo. Come mai?

    R. – Questo indicatore positivo è importante. Se queste differenze diminuiscono, vuol dire che tutte le politiche dell’Unione Europea nei nuovi Paesi hanno avuto buoni risultati. Vuol dire che gli investimenti fatti nei campi delle politiche strutturali, che le applicazioni delle linee guida dell’Unione Europea in materia di salute e prevenzione, le nostre direttive e le nostre leggi – applicate adesso nei Paesi dell’Est – portano un miglioramento reale.

    D. – Già nel 2009, la Commissione europea aveva adottato una strategia sulle diseguaglianze sanitarie lanciando delle vere e proprie sfide. A che punto siamo?

    R. – E’ ancora un cantiere aperto e il fatto che ci siano queste differenze lo dimostra. Guardiamo alla salute: quali sono i fattori che determinano la nostra salute? Il primo è un fattore che non dipende da noi, ovvero la genetica. Gli altri fattori sono lo sviluppo economico e sociale di un Paese, che vuol dire anche il suo livello di inquinamento, gli stili di vita e il buon funzionamento del sistema sanitario. Questi tre fattori dipendono moltissimo da quanto i governi fanno per il buon funzionamento del Paese, ma anche da quanto l’individuo fa. Lo stile di vita – voglio sottolineare questo – migliora anche con la conoscenza e l’educazione: qui si parla di tabacco, di chi fa abuso di sostanze alcoliche. Questo è un miglioramento che si può fare con una migliore educazione.

    D. – Tra le voci previste dalla strategia del 2009, c’era anche quella di soddisfare le esigenze dei gruppi vulnerabili, che stanno purtroppo aumentando in seguito alla crisi economica. Su questo fronte cosa state facendo?

    R. – Uno dei principi dell’Unione Europea è che tutti i cittadini – tutti, anche le popolazioni che emigrano verso l’Unione Europea – hanno diritto ad aver accesso alle cure, hanno diritto ad avere tutti i trattamenti preventivi. Questo è un diritto che in Europa seguiamo perché venga applicato. È chiaro che poi per le popolazioni migratorie che non hanno uno statuto legale – perché si tratta di lavoratori illegali – sia più difficile applicarlo. Vorrei però ricordare che in Europa l’accesso alla salute è un diritto che dovrebbe essere per tutti.

    D. – Una distribuzione equa della salute è parte dello sviluppo sociale ed economico del vecchio continente. La crisi economica in atto si può combattere anche attraverso la salute?

    R. – Sicuramente. Noi – responsabili della salute pubblica a livello europeo – insistiamo nel dire che la salute è un fattore importantissimo della crescita economica. Noi, investendo nella salute – che vuole dire avere sistemi sanitari efficienti – quindi, non diminuendo la spesa sanitaria ma rendendola più efficiente e aumentando la prevenzione, miglioriamo la salute della popolazione e quindi la capacità di lavorare – miglioriamo e riduciamo l’assenteismo – e soprattutto permettiamo ai cittadini di lavorare per tutto il periodo della vita lavorativa. Oggi, non dimentichiamoci, che una delle riforme strutturali è anche l’aumento dell’età pensionabile, ma bisogna essere sicuri che le persone godano di buona salute per poter lavorare durante il periodo dell’età lavorativa.

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    Roma. Firmato un appello per la riconciliazione nazionale in Centrafrica

    ◊   Almeno 60 persone sono morte nella Repubblica del Centrafrica per le violenze dei seguaci del deposto presidente Bozizé, che hanno attaccato diversi villaggi nelle ultime 48 ore. Si conclude intanto a Roma un incontro, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, tra i rappresentanti di tutte le forze politiche centrafricane che hanno firmato un appello per la riconciliazione nazionale e la formazione di un nuovo governo. Davide Pagnanelli ha ascoltato sull’argomento Mauro Garofalo che, per la comuità di Sant’Egidio, ha curato l'appello:

    R. - L’appello di Roma sancisce la volontà di molte parti - la presidenza, il governo, il consiglio nazionale di transizione, la società civile e le comunità religiose - a superare un momento di grave crisi e di violenza nel Paese e a cominciare, con un codice etico preciso, la nuova vita pubblica del Paese.

    D. - Qual è oggi il più grande problema del Centrafrica?

    R. - Una parte di Seleka, questo assembramento di forze ribelli, è uscito dal controllo. Questo ha voluto dire che, specialmente nelle regioni periferiche, lo Stato ha perso parzialmente - e in alcuni casi ha completamente perso - quello che è il suo ruolo, ovvero vegliare all’ordine costituito.

    D. - Cos’è Seleka?

    R. - Seleka rappresenta un’unione di oppositori di Bozizé e di guerriglie che erano già sul luogo da tempo. Purtroppo, anche prima - e a questo speriamo di porvi rimedio nel prossimo periodo - molte zone della Repubblica Centrafricana venivano sottratte al controllo. Oggi, non ve lo nascondo dato che ci sono stato, uno dei pochi luoghi sicuri della città è proprio l’aeroporto perché c’è l’esercito francese. Ma andare in Centrafrica, non è sicuro.

    D. - Come sono le relazioni tra le varie comunità religiose del Paese?

    R. - C’è una certa tensione, perché si tende a definire questo nuovo regime come un regime che vuole islamizzare un Paese, che in realtà è a maggioranza cristiana. Il ministro che ha guidato la delegazione è cristiano. Il fatto che abbiano scelto, anche con l’assenso della presidenza, di venire qui a Sant’Egidio, a Roma, la città del Papa, la città della Chiesa, a lavorare sulla conciliazione, è un buon segno.

    D. - I partecipanti al convegno hanno anche preso parte alla veglia del Papa per la Siria. Quali, i frutti scaturiti da questa veglia?

    R. - Vedere da vicino quello che è il grande "simbolo" dei cristiani, il Santo Padre, ha commosso tutti. In particolare, ci si aspettava un discorso molto focalizzato sulla Siria e sul fatto di evitare gi interventi armati. Invece, il Papa, ha parlato a tutto il mondo. Poi, ha soprattutto parlato di riconciliazione e di pace. Il banner del nostro incontro si chiama “Per la pace e la riconciliazione”. Tutti, cristiani, cattolici e protestanti, musulmani si sono sentiti chiamati in causa da questo. La sera stessa è stato chiesto da tutti i delegati di modificare il testo dell’appello per mostrare chiaramente che questo appello è anche una risposta alla preghiera del Santo Padre.

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    Sant'Egidio presenta il Meeting interreligioso 2013: "Il coraggio della speranza"

    ◊   Sarà con lo sguardo rivolto alla Siria il XXVII incontro internazionale per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, quest’anno a Roma dal 29 settembre al primo ottobre. “Il coraggio della speranza”: questo il titolo dell’appuntamento 2013 presentato oggi a Roma, prevede tra l’altro incontri tra leader religiosi, uomini di cultura e della politica, che – ha anticipato il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo – saranno ricevuti in udienza dal Papa lunedì 30 settembre. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

    Negli anni, gli incontri di pace e preghiera della Comunità di Sant’Egidio non di rado si sono incrociati con eventi epocali, spesso drammatici, per la storia dei rapporti tra Paesi. Dall’11 settembre, dal rischio del conflitto tra civiltà, alla strage di Beslan, nell’Ossezia del Nord, alla "Primavera araba". A Roma, quest’anno, l’attenzione si concentra sulla Siria, sul conflitto in quel Paese, e in generale sulla situazione nel Medio Oriente. Il titolo: “Il coraggio della speranza”, che prende spunto dagli appelli di Papa Francesco, soprattutto vuole contrastare la convinzione che oggi manchino sia la speranza sia la visione di un mondo nuovo, come ha precisato il presidente Marco Impagliazzo. Nei tre giorni del Meeting, oltre 400 rappresentanti delle grandi religioni ed esponenti della vita politica e culturale europea e mondiale alzeranno la voce in favore della convivenza pacifica tra culture e fedi diverse. La Veglia di Papa Francesco sabato scorso in Piazza San Pietro, ha aggiunto Impagliazzo, "ha dimostrato che la preghiera può spostare il mondo". Tra i temi trattati dai panel, oltre alla crisi in Siria e in Medio Oriente, l'America Latina di Papa Francesco, il terrorismo religioso, le religioni e la violenza sulle donne, l'immigrazione dall'accoglienza all'integrazione. Ascoltiamo Marco Impagliazzo:

    R. – Se c’è un significato oggi di questa preghiera per la pace, “Il coraggio della speranza”, è proprio pregare per la Siria, che sarà il cuore di uno dei momenti fondamentali, che è quello della preghiera. Poi, ci saranno personalità che verranno dal mondo del Medio Oriente e anche dalla Siria – speriamo nel Patriarca della Chiesa greco-ortodossa siriana, nella presenza di vescovi siro-ortodossi e di personalità politiche del Libano – perché occore riflettere anche sul dopo questo conflitto, cioè su come il tema della coabitazione e della difesa delle minoranze – e ribadisco: la difesa delle minoranze cristiane in Siria – debbano diventare capitale in una futura trattativa di pace.

    D. – La Comunità di Sant’Egidio ha preso una posizione molto chiara sulla Siria: aprire al dialogo, non ad un’azione di forza, in linea con quello che è il pensiero di Papa Francesco. Ci sono timori, però, che questi appelli non vengano accolti dai leader mondiali…

    R. – Fino ad oggi, le diplomazie hanno mostrato un grande limite nel conflitto siriano e c’è voluto l’appello di Papa Francesco per smuovere le coscienze e soprattutto per liberarci da questa empasse che vedeva la violenza e la risposta militare come inevitabili. Il Papa ci ha insegnato che la violenza non è mai inevitabile, può essere evitata, che la guerra porta soltanto altra guerra, ciò che è confermato pienamente dall’esperienza di Sant’Egidio in tante situazioni di conflitto in cui abbiamo mediato e siamo stati facilitatori. E dunque è vero che oggi la situazione è molto drammatica, ma è vero anche che si stanno aprendo degli spiragli importanti, perché la preghiera e il coraggio della speranza sono delle forze che agiscono molto più di quello che noi crediamo.

    D. – Le tavole rotonde che animeranno questi giorni attraverseranno molte tematiche, come d’abitudine per gli incontri di Sant’Egidio. Ci si concentrerà molto sulla povertà, sulla fragilità, si parlerà di migrazioni, di anziani e si affronteranno argomenti mai toccati finora, come la violenza sulle donne…

    R. – Sì, questo è un tema di cui si è tanto parlato in Italia quest’anno e giustamente, ma che abbiamo visto e riscontrato anche in tante altre società, come quella indiana per esempio e poi anche nelle società musulmane. Noi dobbiamo riflettere e quindi abbiamo interpellato le religioni a prendere una posizione chiara su questo discorso: non solo a prendere una posizione, ma anche a guidare i loro fedeli per un nuovo rispetto e una nuova attenzione verso la parte femminile dei loro popoli.

    D. – Scorrendo la lista dei partecipanti, si vedono i nomi di esponenti politici italiani, a cominciare dal premier Letta che sarà presente alla seduta d’inaugurazione. Quale può essere un messaggio per l’Italia oggi?

    R. – Il messaggio per l’Italia è proprio il titolo del Convegno “Il coraggio della speranza”. Il nostro è un Paese in cui la speranza si è molto affievolita, la crisi economica ha portato tanta disperazione da una parte e mancanza di speranza dall’altra. Oggi, la nostra gente, soprattutto i più giovani, devono avere il coraggio di sperare perché soltanto la speranza aprirà dei nuovi fattori positivi nella società. Noi non possiamo guardare soltanto al passato: il coraggio della speranza ci aiuta a guardare al futuro con fiducia. E’ vero che c’è la crisi, ma è vero anche che c’è la possibilità di uscire da questa crisi se saremo tutti più uniti e se smetteremo di litigare – troppo si sta litigando in Italia da tanti anni – superando così questo periodo di contrapposizione, anche politica, che ha portato ad un indebolimento della speranza. Il nostro è anche un appello ai leader politici, perché ritornino a far sperare i cittadini italiani.

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    A Riccione mostra fotografica “ I bambini e la guerra” con gli scatti di Raffaele Ciriello

    ◊   Allestita a Riccione, in occasione del Premio Ilaria Alpi, la mostra fotografica “ I bambini e la guerra”. Si tratta degli scatti di Raffaele Ciriello, il fotoreporter ucciso 11 anni fa da una raffica di proiettili a Ramallah. Elvira Ragosta ne ha parlato con il curatore della mostra, Adolfo Morganti, dell’Associazione "Identità Europea":

    D. - Il sottotitolo della mostra è “Cartoline dall’inferno”: perché avete scelto un’espressione così forte?

    R. – L’inferno, ovviamente, è l’inferno della guerra, del conflitto. E’ il titolo del blog su cui Raffaele Ciriello, primo fra i fotografi di guerra italiani, cominciò a postare – rendendoli gratuitamente disponibili a tutti – i suoi scatti nei vari scenari, e lo abbiamo conservato anche in questa mostra.

    D. – I bambini sono in assoluto le vittime più deboli di tutte le guerre: quali sono i pericoli maggiori che corrono durante e dopo un conflitto?

    R. – Da questo punto di vista, i bambini soffrono di una sorte a volte addirittura peggiore di quella che ha tratteggiato, perché i bambini - in numerosi contesti - sono semplicemente arruolati in massa: gli mettono un’arma in mano, li ubriacano, li drogano e li mandano avanti a farsi ammazzare. Quindi, il bambino è vittima della guerra in prima persona: nelle sue relazioni familiari, nel suo tessuto comunitario e, infine, nella sua possibilità di sviluppo. Tant’è che la riabilitazione di questi bambini soldato nelle guerre africane è oggi un problema drammatico che coinvolge decine di migliaia di minori. Le forme in cui l’inferno coinvolge i bambini sono veramente molte.

    D. – Dalla guerra in Somalia alla strage di Srebrenica, fino al genocidio in Rwanda: in quali altre guerre Raffaele Ciriello ha fotografo le piccole vittime?

    R. – Aggiungiamoci anche l’Afghanistan e abbiamo una mappa completa dei grandi conflitti e delle grandi ipocrisie della fine della modernità. Ciriello ha avuto il fegato, ha avuto il coraggio e ha avuto il cuore di non perdersene una… Ed essendo un freelance, essendo un medico che aveva scelto di cambiare vita, di cambiare mestiere e di dedicarsi a questa forma di testimonianza, l’ha fatto fino in fondo e con tutta la sincerità di chi sapeva quale fosse il senso della sua missione e i rischi che questa missione potesse comportare. Di fatto, ci ha perso la vita. Ci ha lasciato degli scatti che non sono solo delle foto, perché sono testimonianze di una realtà rimossa.

    D. – Sui minori vittime di guerra non ci sono mai cifre attendibili: secondo lei, in questo particolare momento di crisi siriana, come si può capire quanti siano i bambini in pericolo all’interno del Paese e nei campi profughi?

    R. – Lei ha toccato un punto cruciale che è l’attendibilità delle fonti. Credo che questi grandi reporter di guerra – e tanti ne sono morti sul terreno – avessero invece in mente l’idea che la verità esiste e esistendo la si possa fotografare, la si possa trovare e se ne possa parlare. In concreto, la difficoltà di definire quanti bambini, ma anche quante donne e quanti uomini, sono coinvolti, sono stati uccisi o sono stati feriti durante un episodio bellico è enorme. Basti pensare al caso siriano, dove le cifre si rincorrono, i balletti si fanno veramente incomprensibili tra le esigenze di chi gonfia i dati delle vittime e chi invece li assorbe…

    D. – L’Associazione "Identità Europea" ha aderito all’appello di Papa Francesco per la giornata di preghiera e di digiuno?

    R. – Ovviamente sì. Così come abbiamo prima aderito a tutte le altre iniziative che i Pontefici hanno fatto per la pace in Terra Santa e per il disinnesco di tutti gli scenari di tensioni, soprattutto interreligiosi: sto pensando alla questione dei Balcani. Il nostro lavoro fin dall’inizio è stato questo. La nostra è una Associazione europeista cattolica. E' stata ricevuta in udienza dal Santo Padre Benedetto XVI nel 2006, e da allora abbiamo ricevuto questo lascito da parte del Santo Padre: “Continuate a lottare per la difesa delle radici cristiane dell’Europa”.

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    Presentato il 16.mo Religion Today Filmfestival, quando il dialogo diventa cinema

    ◊   Presentata nella Sala Marconi della nostra emittente la 16.ma edizione del "Religion Today Filmfestival" che si svolgerà dall’11 al 22 ottobre. Una manifestazione nata per indagare, attraverso il cinema, le differenze tra le grandi religioni del mondo e, nei diversi contesti politici e sociali, renderle strumento di dialogo, incontro e pacificazione. Il servizio di Luca Pellegrini:

    Per sedici anni il "Religion Today Filmfestival" ha perseguito il dialogo attraverso il cinema: itinerante – Trento, Bolzano, Merano, Roma, Teggiano, Bassano e Nomadelfia, le località interessate – curioso, coraggioso. Diverse sezioni accolgono i 52 film selezionati per l’edizione 2013 per esplorare ancora una volta le differenze, cercando ciò che unisce, non ciò che divide. Quest’anno, lo fa attraverso il confronto, grazie al tema prescelto, tra realtà e utopia. Tra documentario e immaginazione. La direttrice della manifestazione, Katia Malatesta, spiega i motivi che sorreggono il suo lavoro.

    R. – Da sempre, uno degli scopi principali del Festival è questo: esplorare le differenze per trovare da un lato ciò che ci unisce, e dall’altro imparare da ciò che ci è estraneo. Credo che questa sia una delle dimensioni più importanti del dialogo interreligioso per come è concepita da tante persone a tutte le latitudini; capire che dall’altro, anche dalla diversità dell’altro, posso guadagnare un frammento di verità e la mia comprensione del mondo - se sono credente anche di Dio - può accrescere la mia spiritualità e la mia fede attraverso il confronto con l’altro. Per cui è in questo senso che noi mettiamo insieme film che vengono e rappresentano un po’ tutte le grandi tradizioni religiose come, prima di tutto, occasione di conoscenza, per superare quei pregiudizi che nascono dall’ignoranza. Dall’altra parte, siamo davvero convinti che questo processo di conoscenza possa produrre anche un frutto in più, una vera e propria crescita personale e spirituale.

    D. – Che cosa l’ha soprattutto colpita dei tanti film che avete visto nel momento della selezione?

    R. – Prima di tutto, va detto che ogni anno ci stupiamo veramente della complessità e della pluralità di stanze che vengono dal cinema contemporaneo. Per cui, è veramente difficile fare delle generalizzazioni. Ad esempio, a volte ci chiedono: “Esiste il film religioso? Possiamo presentarlo?”. Direi di no, perché i film che riceviamo sono diversissimi! Quello che però è emerso come filo rosso, come costante nella diversità, è che alla fine ogni film ha al suo interno questa dialettica. Quindi, da un lato la realtà intesa anche come denuncia o critica dell’esistente; sappiamo che il cinema - e in particolare quello documentario - ha una lunghissima tradizione e può veramente dare un contributo importante. Dall’altro lato, troviamo questa capacità di reinventare la realtà che poi è tipica di tutti i fenomeni artistici. Inoltre, abbiamo alcuni film che veramente possiamo chiamare “visionari”. Per cui, abbiamo film che ci presentano degli scenari possibili o auspicabili, oppure anche terribili, che però ci aiutano di nuovo a leggere la nostra realtà, il nostro presente.

    Nibras Breigheche, consulente siriana del Festival, ha lavorato pensando naturalmente alle terribili prove e alla tragedia della guerra cui è sottoposto il suo Paese. E valuta così il suo lavoro.

    R. – Sicuramente, il "Religion Today Filmfestival" è per me un’occasione di speranza perché è momento di incontro, di dialogo, di dibattito, di confronto e di amicizia tra registi che vengono da tutte le parti del mondo: registi appartenenti a fedi diverse, registi tra i quali all’inizio può esserci una certa diffidenza, ma che alla fine del Festival si ritrovano ad essere veri amici.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Filippine: la Chiesa a Zamboanga prega per la pace fra esercito e islamisti

    ◊   I vertici della Chiesa cattolica a Zamboanga, nel sud delle Filippine, teatro ieri di violentissimi scontri fra esercito governativo e gruppi islamici ribelli del Moro National Liberation Front (Mnlf), lanciano appelli alla pace e alla riconciliazione. Prendendo esempio dalle parole di Papa Francesco su un possibile attacco alla Siria, mons. Guillermo Afable - vescovo di Digos - invita alla preghiera per scongiurare un'escalation del conflitto. E aggiunge che uno scontro armato "non è foriero di pace, ma serve solo a originare ulteriore violenza". "Come ha detto Papa Francesco - ha aggiunto il prelato - continuiamo a pregare per la pace nel mondo, perché tutti questi conflitti sono collegati fra loro e frutto dell'opera del maligno". È di almeno sei morti, fra cui un poliziotto, un addetto della marina e quattro civili il bilancio degli scontri. Un appello per la pace viene lanciato anche da mons. Crisologo Manongas, amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zamboanga, secondo cui "dialogo e negoziati" sono la sola via per mettere la parola fine ai conflitti a Mindanao. Scuole e attività lavorative, testimonia il prelato, sono state interrotte a causa delle violenze; la città e l'intera provincia sono ai massimi livelli di allerta. Anche la cattedrale è a rischio infiltrazione di elementi estremisti. "Non si tratta di un conflitto di natura religiosa - conclude il prelato - ma di uno scontro di natura prettamente politica" e il governo non deve cedere ai ricatti, ma intavolare un negoziato. I vertici della Chiesa filippina condannano senza mezze misure le violenze di questi giorni nel sud dell'arcipelago, che finiscono per colpire anche innocenti fra cui bambini. Ci rivolgiamo alla leadership del Mnlf, ha aggiunto il prelato, perché "deponga le armi". Infine, mons. Manongas ricorda che le chiese dell'arcidiocesi "sono aperte sia per i cristiani che per i musulmani" colpiti nell'attacco. I ribelli islamisti del Mnlf, fronte separatista islamico nato alla fine degli anni '60, reclamano l'indipendenza da Manila e la creazione di un Paese musulmano nell'arcipelago meridionale di Mindanao, ricco di risorse sotterranee. A dispetto di un trattato di pace firmato nel 1996, le ostilità tra ribelli e autorità centrale hanno continuato a segnare il sud del Paese a fasi alterne, portando anche alla scissione del fronte indipendentista in gruppi minori. Tra questi, il Moro Islamic Liberation Front (Milf) ha firmato con Manila una bozza di pace a Kuala Lumpur nei mesi scorsi; tale tregua, accolta con scetticismo da entrambe le parti, rischia di sfumare a seguito di attacchi come quello di ieri. (R.P.)

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    Cile. “La riconciliazione non si impone”: i vescovi a 40 anni dal golpe di Pinochet

    ◊   In occasione del 40.mo anniversario del golpe militare del generale Augusto Pinochet, che ricorre il 13 settembre, il Comitato permanente della Conferenza episcopale cilena, presieduto dall’arcivescovo di Santiago, mons. Ricardo Ezzati Andrello, ha pubblicato un Messaggio per ricordare i tragici eventi di quegli anni e per esortare a perseverare sulla via della verità, della giustizia e della riconciliazione. “Al di là delle diverse e legittime letture dei fatti, come Pastori della Chiesa vogliamo ricordare questa data riflettendo sulla dignità della persona umana – è scritto nel documento pervenuto all’agenzia Fides -. Motivata proprio da questo valore fondamentale, la Chiesa cattolica insieme ad altre chiese cristiane dovettero assumere, in un momento in cui si abbandonò il dialogo, un ruolo preponderante nella difesa dei diritti umani e nella protezione dei compatrioti perseguitati. Nulla giustifica la violazione della dignità delle persone perpetrata a partire dell'11 settembre 1973”. Il testo prosegue: “Verità, giustizia e riconciliazione: è la via che abbiamo proposto per avere una vita dignitosa e una convivenza umana. Più che mai oggi continuiamo a credere in questa via, nonostante le difficoltà che si presentano. E' il cammino che Gesù ci offre per raggiungere la grande Patria. La riconciliazione non si impone con un decreto, ma nasce da un cuore misericordioso. La nostra convinzione è che proprio i piccoli gesti personali e istituzionali possono essere vitali per aiutare a guarire le ferite e contribuire ad una vera riconciliazione.” Il documento conclude ricordando le recenti parole di Papa Francesco all'Angelus del 1° settembre: “non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo; questa è l’unica strada per la pace”. (R.P.)

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    Siria: card. Schönborn e patriarchi d'Oriente pregano per la pace e la liberazione dei vescovi rapiti

    ◊   L’arcivescovo di Vienna e presidente della fondazione “Pro Oriente”, il card. Christoph Schönborn, ha firmato insieme ai patriarchi di tutta le chiese orientali, un appello per la difficile situazione dei cristiani in Medio Oriente e, in particolare, riguardo il rapimento dei due vescovi ortodossi oggi ancora in mano ai ribelli. Nel documento, riportato dall'agenzia Sir, oltre ad un appello per la liberazione dei due vescovi, si legge: “Chiediamo che si faccia ogni sforzo per assicurare la possibilità a sfollati e rifugiati di tornare nei loro paesi di origine, per mettere fine allo spargimento di sangue in Siria e per mantenere un ordine politico in Medio Oriente che garantisca il pieno rispetto dei diritti dell’uomo, della libertà religiosa e di espressione”. La nota si conclude con un riferimento più specifico verso i cristiani: “I cristiani mediorientali - conclude la nota - sono un elemento fondamentale e indispensabile della società. Siamo certi che contribuiranno alla costruzione di una società caratterizzata dalla pace, dal rispetto e dalla tolleranza reciproca”. Firmatari del documento insieme al card. Schönborn, sono i patriarchi: ortodosso antiocheno Youhanna X Siro-Ortodosso Ignatius Zakka I Iwas, greco melchita Gregorios III Laham, caldeo Louis Raphael I Sako, assiro Mar Dinkha IV e armeno cattolico Nerses Bedros XIX. (D.P.)

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    Gerusalemme: le reliquie di Don Bosco in pellegrinaggio in Terra Santa

    ◊   Le reliquie di San Giovanni Bosco percorreranno, ad oggi fino al 19 settembre, un lungo pellegrinaggio per la Terra Santa. Le reliquie, riporta l'agenzia Fides, verranno accolte oggi alle 18 al porto di Jaffa, nei pressi di Tel Aviv, dal patriarca latino Fouad Twal che ha invitato i fedeli a partecipare ai vespri solenni in onore del Santo. Alcune delle tappe che le reliquie percorreranno sono: Betlemme, Beit Jala, sede del seminario patriarcale, Nazareth, Haifa, Beit-Jemal e Jaffa. Il vicario patriarcale mons. William Shomali ha dichiarato: “Don Bosco, alla fine della sua vita, voleva compiere un viaggio in Terra santa. Ma non gli fu possibile realizzare il suo desiderio, a causa delle condizioni di salute. Ora arriva in maniera diversa, tramite le sue reliquie e così mantiene la sua promessa. Noi proprio in questo tempo abbiamo più bisogno di lui. Adesso che in tutto il Medio Oriente si vive una situazione drammatica mai vista prima, abbiamo bisogno di lui e di tutti i santi. A tutti chiediamo la loro forte intercessione. Più sono forti, come Don Bosco, e più ricorriamo a loro”. Le reliquie di San Giovanni Bosco sono in viaggio in giro per il mondo dal 2009 e, dopo il pellegrinaggio in Terra Santa, saranno riportate in Italia. (D.P.)

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    Egitto. Al Azhar: la revisione della Costituzione non sconfesserà l'identità islamica del Paese

    ◊   L'identità islamica dell'Egitto rimarrà confermata nella Costituzione che uscirà dalla attuale fase di revisione, con il consenso delle Chiese cristiane. Lo ha dichiarato l'Università di Al-Azhar, in un comunicato diramato sabato scorso con cui la più alta istituzione culturale e religiosa dell'Islam sunnita ha dato assicurazione che la revisione in atto del testo costituzionale attualmente in vigore – a forte impronta islamista - non abolirà i riferimenti all'Islam come matrice dell'identità nazionale. In questa fase di emendamento – spiega il comunicato - Al-Azhar concorda con le tre Chiese egiziane sulla necessità di “ottenere una Costituzione che sottolinei l'identità islamica dell'Egitto e dia la priorità alla riconciliazione nazionale, superando considerazioni politiche e di parte”. Quindi, su queste linee orientative generali, i rappresentanti cristiani nel Comitato di revisione costituzionale - chiamato a terminare i lavori entro la fine di ottobre - non faranno opposizione. Nel Comitato di revisione della Costituzione, presieduto dall'ex Segretario generale della Lega Araba Amr Mussa e formato da 50 membri, i rappresentanti cristiani sono tre: il vescovo copto ortodosso Paula (eparchia di Tanta), il vescovo copto cattolico Antonios Aziz Mina e Safwat al-Bayyady, presidente delle comunità evangeliche in Egitto. Al Comitato ha deciso di aderire il partito islamista salafita di Al Nour, mentre sono rimasti fuori i Fratelli Musulmani. (R.P.)

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    Myanmar: la Caritas in aiuto dei Rohingya, musulmani birmani in fuga da violenze e persecuzioni

    ◊   Con la fine della stagione dei monsoni e il miglioramento delle condizioni del mare, potrebbe riprendere l'esodo in massa dei profughi della minoranza musulmana birmana Rohingya. È l'allarme lanciato dai volontari di Caritas Thailandia, che preparano ad una nuova ondata di arrivi sulle coste del Paese. E se Bangkok ha più volte bollato come "immigrati irregolari" i Rohingya, abbandonandoli in mare aperto o rimpatriandoli in Myanmar - col rischio di nuove persecuzioni -, i volontari cattolici - riferisce l'agenzia AsiaNews - hanno avviato una serie di programmi di assistenza e recupero. Padre Sriparasert, segretario generale di Caritas Thailandia, conferma che il problema dei Rohingya è un "problema scottante" per il governo di Bangkok e per "tutte le nazioni del Sud est asiatico". Molti dei rifugiati cercano accoglienza in Malaysia, Paese a larga maggioranza musulmano, dove sperano di subire un trattamento migliore di quanto non avvenga in Bangladesh o la stessa Thailandia. Ad oggi, racconta padre Sriparaset a Catholic News Agency (Cna), "oltre 2mila Rohingya sono rinchiusi in diversi Centri" sparsi per la Thailandia, in molti casi privi di diritti di base sanciti dalla Convenzione internazionale sui rifugiati. Le donne e i bambini sono inviati nei Centri al nord, mentre gli uomini nei Campi del sud. "Vivono nel timore costante di attacchi - aggiunge il sacerdote - di restare vittima del traffico di vite umane, di violazioni e omicidi". In particolare, donne e bambini sono oggetto "della tratta" di trafficanti senza scrupoli e vivono in condizioni "degradanti, disumane e pericolose". Per questo Caritas Thailandia, in collaborazione con il Catholic Office for Emergency Relief and Services (Coerr), ha predisposto una serie di iniziative fra cui un sostegno sanitario, alimentare e sociale nei vari centri di accoglienza a livello diocesano. "I volontari della Caritas fanno un lavoro encomiabile - conclude padre Sriparaset - di sostegno psicologico e medico e nei centri di accoglienza cerchiamo di restituire una dignità ai rifugiati. Sono gesti che rafforzano la nostra fede, che ci invitano ad amare i più poveri, a costruire la pace e facilitare il dialogo interreligioso". Negli ultimi due anni le violenze fra buddisti e musulmani hanno acuito il clima di tensione fra le diverse etnie e confessioni religiose che caratterizzano il Myanmar, teatro lo scorso anno di una lotta sanguinaria nello Stato occidentale di Rakhine fra Arakanesi e Rohingya musulmani. Lo stupro e l'uccisione di una giovane buddista ha scatenato una spirale di terrore, che ha causato centinaia di morti e di case distrutte, almeno 160mila sfollati molti dei quali hanno cercato riparo all'estero, per sfuggire agli attacchi degli estremisti buddisti del gruppo 969. Secondo le stime delle Nazioni Unite in Myanmar vi sono almeno 800mila musulmani Rohingya, che il governo considera immigrati irregolari e per questo sono vittime di abusi e persecuzioni. (R.P.)

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    India. Condannati gli stupratori di New Delhi: rischiano la pena di morte

    ◊   Questa mattina un tribunale di New Delhi ha condannato quattro dei sei uomini responsabili del tragico stupro di gruppo avvenuto nella città il 16 dicembre 2012, culminato con la morte della vittima. Domani i giudici leggeranno la sentenza ed emetteranno la pena, che potrebbe anche essere quella capitale per impiccagione. La Corte - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha riconosciuto Mukesh Singh, Akshay Thakur, Vinay Sharma e Pawan Gupta colpevoli di stupro, omicidio, tentato omicidio, reati contro natura, distruzione di prove e associazione a delinquere. Degli altri due aggressori, uno si è suicidato in cella qualche mese fa; l'altro - minorenne all'epoca dei fatti - è stato condannato a tre anni di riformatorio il 31 agosto scorso. La vittima era una studentessa di fisioterapia di 23 anni, deceduta per le gravi ferite riportate. La violenza da lei subita ha scatenato un'ondata di indignazione in India, che ha spinto il governo centrale a rivedere la legislazione relativa allo stupro. Il risultato è stato l'introduzione di pene più severe - soprattutto nei casi di violenza sessuale di gruppo -, inclusa la pena capitale. Sempre oggi è stato presentato su Lancet, autorevole rivista medica britannica, uno studio commissionato dall'Onu sugli stupri commessi nella regione dell'Asia-Pacifico. Condotta su un campione di oltre 10mila uomini, la ricerca rivela che più di 1 uomo su 10 ha compiuto violenza sessuale su una donna che non è sua partner. Se si contano anche i casi di stupro su fidanzate e mogli, la percentuale sale a 1 uomo su 4. Gli uomini intervistati provengono da Bangladesh, Cambogia, Cina, Indonesia, Papua Nuova Guinea e Sri Lanka. Il Paese peggiore è la Papua Nuova Guinea, dove il 62% degli uomini - ovvero 6 su 10 - ammette di aver compiuto almeno uno stupro nella sua vita. Seguono Indonesia (provincia di Papua, 48,6%; zone urbane, 26,2%), Cina (26,2%), Cambogia (20,4%), le zone rurali dell'Indonesia (19,5%), Sri Lanka (14,5%) e Bangladesh (rurale, 14,1%; urbano, 9,5%). Interrogati sul perché dello stupro, il 73% ha risposto "per il diritto di avere rapporti sessuali"; il 59% "per divertimento o noia"; il 38% "per punire la donna". Il 58% degli uomini che ha violentato donne non-partner ha commesso tale reato da adolescente. Tra quelli che hanno ammesso la violenza sessuale, il 45% ha rivelato di aver stuprato più di una donna. (R.P.)

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    Kenya. Aperto all'Aja il processo per il vice-presidete Ruto: sterminò 1800 persone

    ◊   Si è aperto questa mattina presso il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, il processo contro William Ruto, vice-presidente keniota accusato di essere stato la mente dei massacri che nel 2008 causarono, in Kenya, oltre 1.300 vittime e più di mezzo milione di sfollati. Insieme a Ruto, riporta l'agenzia Misna, sono imputati il presentatore radiofonico Joshua Arap Sang e diversi esponenti politici legati a Ruto, anch’essi incriminati per i massacri e le deportazioni dei civili. Gravi le reazioni del governo keniota che non riconosce l’Aja come un tribunale competente per le questioni africane, soprattutto per le vicende legate al vicepresidente Ruto, e minaccia di abbandonare il tribunale, revocando l’adesione allo statuto di Roma, con cui il Tribunale internazionale è stato istituito e che il Kenya ha ratificato nel 2005. I massacri di cui il vice-presidente Ruto è imputato sono relativi agli scontri scaturiti nel 2008 dopo la rielezione, nel 2007, del presidente Kibaki, che ha fomentato l’odio tra le varie tribù del Paese scatenando una guerra civile. (D.P.)

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    Tanzania: aumentati traffico e consumo di eroina in Africa

    ◊   L’ufficio dell’Onu per il contrasto alla droga e al crimine organizzato ha lanciato un allarme riguardo al traffico di eroina nell’Africa orientale. Le stime dell’Onu, riportate dall'agenzia Misna, parlano di un incremento esponenziale del traffico: nel periodo dal 2010 al 2012 sono stati fatti più sequestri di eroina e sostanze stupefacenti che negli ultimi vent’anni e, solamente nei primi 5 mesi del 2013, i sequestri hanno superato, in numero e quantitativi di sostanza confiscati, quelli dei due anni precedenti. Ma l’Africa orientale è solamente un Paese di transito per l’eroina: su un totale stimato di 22 tonnellate contrabbandate ogni anno, solo 2 tonnellate sono consumate localmente, il resto è indirizzato a mercati più ricchi, come l’Europa o i Paesi oltre l’Atlantico. A produrre eroina e derivati dell’oppio, sono soprattutto Paesi come Iran, Pakistan e Afghanistan e, in questi ultimi, il commercio dell’eroina è l’attività più redditizia dei talebani che usano i proventi della droga per pagare gli armamenti e continuare le violenze. (D.P.)

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    Haiti: dialogo col Brasile per combattere la tratta dei migranti

    ◊   Una delegazione del Consiglio nazionale dell’immigrazione del Brasile ha incontrato la scorsa settimana a Port at au Prince i rappresentanti del governo haitiano. Sono i primi passi di un progetto di ricerca sull’emigrazione haitiana in Brasile che mira a una migliore gestione del fenomeno migratorio. Lo scambio di informazioni ed esperienze tra i due Paesi servirà a garantire il rispetto dei diritti dei migranti, considerando gli interessi dei Paesi di origine e di destinazione. In una nota dell’agenzia Fides si apprende che i rappresentanti brasiliani hanno anche denunciato le reti di trafficanti che approfittano della situazione per derubare e sfruttare gli emigranti, esponendoli a tutti i tipi di rischi durante il viaggio. I migranti seguono spesso le rotte del contrabbando, passando attraverso il Perù e la Bolivia, e giungono in Brasile malati, privi di tutto e senza conoscere i requisiti per necessari all’emigrazione. (E.R.)

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    Perù: combattere l'analfabetismo per ridurre l'isolamento delle popolazioni andine

    ◊   In Perù continuano le attività governative e non governative a sostegno delle comunità andine, spesso isolate e senza possibilità di accesso all’educazione. L’emergenza, riporta l’agenzia Fides, è legata soprattutto all’alto tasso di analfabetismo che grava su queste comunità. Per rispondere al fenomeno la Escuela Campesina de Educación y Salud, scuola rurale di educazione e salute, del governo peruviano, opera dal 1989 per migliorare le condizioni di vita delle comunità andine e dei contadini della regione del Piura. Nella provincia di Ayabaca, l’Ong cattolica Manos Unidas, sta portando avanti programmi di sviluppo per la popolazione rurale con già 780 famiglie che traggono benefici da questi corsi di formazione. Nel mondo ancora 774 milioni di adulti sono analfabeti e il fenomeno colpisce soprattutto le donne con 493 milioni di analfabeti nel mondo, i corsi di formazione in Perù sono per questo rivolti in maniera specifica alle donne, per valorizzare la figura femminile e dare alle donne peruviane conoscenze anche pratiche di gestione delle risorse e della famiglia. (D.P.)

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    Mongolia: la Chiesa cattolica alla Giornata Missionaria Mondiale 2013

    ◊   L’appello della Catholic Mission Australia per la Giornata Missionaria Mondiale, prevista per il prossimo 20 Ottobre, si concentrerà sulla Chiesa Cattolica in Mongolia, la più giovane Chiesa al mondo. Istituita solo 20 anni fa, dopo la caduta del comunismo, la chiesa Cattolica in Mongolia ha ricevuto dalla Catholic Mission un importante contributo per la costruzione della prima chiesa nel Paese. Quando giunse in Mongolia, mons. Wens Padilla, Prefetto apostolico e primo vescovo della Chiesa in Mongolia, trovò un Paese abitato da pastori, senza alcuna conoscenza del cristianesimo e con gravi problemi sociali, dalla povertà all’alcolismo, e soprattutto l’assenza di adeguati servizi sociali. Da allora molti passi in avanti sono stati fatti e attualmente nel Paese, che conta circa 3 milioni di abitanti, ci sono 6 chiese cattoliche. In un comunicato inviato all’agenzia Fides Martin Teulan, direttore nazionale di Catholic Mission, ha sottolineato che la maggior parte degli adepti non proviene da famiglie cattoliche, né aveva mai sentito parlare di Gesù. Altra sfida è rappresentata dal fatto che non ci sono preti e suore locali. I primi due seminaristi del Paese studiano in Corea, e la Chiesa fa affidamento sui catechisti locali per materiali didattici e modalità per diffondere la cultura del Vangelo nella vita quotidiana dei mongoli. Importante è il contributo di Catholic Mission sia nella formazione dei catechisti - di recente è stato prodotto un dvd dal titolo “Edificherò la mia Chiesa”- sia nei progetti di sviluppo per la popolazione. (E.R.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 252

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.