Logo 50Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 29/10/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa: la speranza cristiana è dinamica e dona vita, liberiamoci da comodi clericalismi
  • Tweet del Papa: se il denaro diventa il centro della vita, ci fa schiavi
  • Il card. Braz de Aviz: cultura del provvisiorio sollecita formazione cristiana continua
  • Iraq: al dicastero per il Dialogo Interreligioso, riunione con le diverse comunità religiose del Paese
  • A Papa Francesco il premio "Comunicazione semplice" dell'Istituto Europeo Terzo Millennio
  • Rinunce e nomine episcopali di Papa Francesco
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Siria: mons. Zenari sui villaggi cristiani liberati dall'assedio dei ribelli. La drammatica testimonianza di un sacerdote
  • Tragedia dell’immigrazione: 40 persone morte di sete nel deserto tra Niger e Algeria
  • Referendum non ufficiale nella regione di Abyei contesa fra Nord e Sud Sudan
  • Scontri nel Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo
  • Datagate. Pasqualetti: regole e trasparenza sugli interessi politici ed economici della Rete
  • Turchia: Erdogan inaugura primo tratto del tunnel sotto il Bosforo che collega Asia e Europa
  • Colombia: iniziativa del Cisp per la protezione dei minori contro il turismo sessuale
  • Federculture: rilanciare la cultura nel Mezzogiorno italiano, ne va dell'identità italiana
  • Slot Mob: mobilitazione per il buon gioco che premia i baristi no-slot
  • Al via il Festival di Musica Sacra dedicato a Papa Francesco
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Gran mufti di Siria: i vescovi ortodossi rapiti sono vivi e fuori dal Paese
  • Siria: i Gesuiti della regione condannano i mercanti di armi
  • Iraq. Il patriarca Sako: "Riconciliazione e cittadinanza contro la violenza"
  • Terra Santa. Il patriarca Twal: per la pace "sanare l'educazione dei giovani"
  • Burkina Faso: il card. Sarah ringrazia il presidente Compaoré per il suo sostegno alla Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel
  • Myanmar. Minoranze etniche a convegno: una strategia comune in vista di un accordo di pace
  • Cambogia: le organizzazioni umanitarie in aiuto alle popolazioni colpite da monsoni e alluvioni
  • Bangladesh: magia, giochi e qualche medicina per i bambini di strada
  • Messico. Anche la Chiesa coinvolta nell’ondata di violenza: altri sacerdoti minacciati
  • Nicaragua: preghiera per la pace a chiusura dell'Anno della fede, ma le chiese si svuotano per paura
  • India: Premio ‘Madre Teresa’ all’attivista-motociclista che lavora con i bambini soldato
  • Si è spento in Messico padre Inázio Larrañaga fondatore dei Centri di preghiera
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa: la speranza cristiana è dinamica e dona vita, liberiamoci da comodi clericalismi

    ◊   La speranza non è ottimismo, ma “un’ardente aspettativa” verso la rivelazione del Figlio di Dio. E’ quanto sottolineato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha ribadito che i cristiani devono guardarsi da clericalismi e atteggiamenti comodi, perché la speranza cristiana è dinamica e dona vita. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Cos’è la speranza per un cristiano? Papa Francesco ha preso spunto dalle parole di San Paolo, nella Prima Lettura, per sottolineare la dimensione unica della speranza cristiana. Non si tratta di ottimismo, ha avvertito, ma di “un’ardente aspettativa” protesa verso la rivelazione del Figlio di Dio. La creazione, ha detto, è “stata sottoposta alla caducità” e il cristiano vive dunque la tensione tra la speranza e la schiavitù. “La speranza – ha detto riecheggiando San Paolo – non delude, è sicura”. Tuttavia, ha riconosciuto, “non è facile capire la speranza”. Alcune volte, ha affermato, “pensiamo che essere persone di speranza sia come essere persone ottimiste”. Ma non è così:

    “La speranza non è un ottimismo, non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. No, quello è ottimismo, non è speranza. Né la speranza è un atteggiamento positivo davanti alle cose. Quelle persone luminose, positive... Ma questo è buono, eh! Ma non è la speranza. Non è facile capire cosa sia la speranza. Si dice che è la più umile delle tre virtù, perché si nasconde nella vita. La fede si vede, si sente, si sa cosa è. La carità si fa, si sa cosa è. Ma cosa è la speranza? Cosa è questo atteggiamento di speranza? Per avvicinarci un po’, possiamo dire in primo che la speranza è un rischio, è una virtù rischiosa, è una virtù, come dice San Paolo ‘di un’ardente aspettativa verso la rivelazione del Figlio di Dio’. Non è un’illusione”.

    Avere speranza, ha soggiunto, è proprio questo: “essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorrisi”. San Paolo, ha detto ancora, tiene a sottolineare che la speranza non è ottimismo, “è di più”. E’ “un’altra cosa differente”. I primi cristiani, ha rammentato il Papa, la “dipingevano come un’ancora: la speranza era un’ancora, un’ancora fissa nella riva” dell’Aldilà. E la nostra vita è proprio camminare verso quest’ancora:

    “Mi viene a me la domanda: dove siamo ancorati noi, ognuno di noi? Siamo ancorati proprio là nella riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole, i nostri comportamenti, i nostri orari, i nostri clericalismi, i nostri atteggiamenti ecclesiastici, non ecclesiali, eh? Siamo ancorati lì? Tutto comodo, tutto sicuro, eh? Quella non è speranza. Dove è ancorato il mio cuore, là in questa laguna artificiale, con comportamento ineccepibile davvero…”

    San Paolo, ha aggiunto, indica poi un’altra icona della speranza, quella del parto. “Siamo in attesa – ha osservato – questo è un parto. E la speranza è in questa dinamica”, di “dare vita”. Ma, ha aggiunto, “la primizia dello Spirito non si vede”. Eppure so che “lo Spirito lavora”. Lavora in noi “come se fosse un granello di senape piccolino, ma dentro è pieno di vita, di forza, che va avanti” fino a diventare albero. Lo Spirito lavora come il lievito. Così, ha aggiunto, “lavora lo Spirito: non si vede, ma c’è. E’ una grazia da chiedere”:

    “Una cosa è vivere nella speranza, perché nella speranza siamo salvati e un’altra cosa è vivere come buoni cristiani, non di più. Vivere in attesa della rivelazione o vivere bene con i comandamenti, essere ancorati nella riva di là o parcheggiati nella laguna artificiale. Penso a Maria, una ragazza giovane, quando, dopo che lei ha sentito che era mamma è cambiato il suo atteggiamento e va, aiuta e canta quel cantico di lode. Quando una donna rimane incinta è donna, ma non è mai (solo) donna: è mamma. E la speranza ha qualcosa di questo. Ci cambia l’atteggiamento: siamo noi, ma non siamo noi; siamo noi, cercando là, ancorati là”.

    Il Papa ha, quindi, concluso l’omelia rivolgendosi ad un gruppo di sacerdoti messicani presenti alla Messa, in occasione del 25.mo di ordinazione. Chiedete alla Madonna, Madre della speranza, ha detto, che i vostri anni “siano anni di speranza, di vivere come preti di speranza”, “donando speranza”.

    inizio pagina

    Tweet del Papa: se il denaro diventa il centro della vita, ci fa schiavi

    ◊   “Se i beni materiali e il denaro diventano il centro della vita, ci afferrano e ci fanno schiavi”: è il tweet lanciato oggi da Papa Francesco sul suo account in 9 lingue @Pontifex, seguito da oltre 10 milioni di follower.

    inizio pagina

    Il card. Braz de Aviz: cultura del provvisiorio sollecita formazione cristiana continua

    ◊   “Fedeltà e perseveranza vocazionale in una cultura del provvisorio”, questo il titolo della Giornata di studio che si tiene oggi presso la Pontificia Università Antonianum a Roma. Ad aprire i lavori, questa mattina, l’intervento del cardinale Joao Braz de Aviz, che ha sottolineato quanto sia importante il ruolo della formazione, che dura dalla nascita alla morte, per superare le crisi vocazionali. Elvira Ragosta lo ha intervistato:

    R. - Io penso alla Chiesa e anche alle istituzioni dentro la Chiesa, in questo periodo così importante che è quello della formazione basica delle varie vocazioni: non solo nel senso delle vocazioni - diciamo - di vita consacrata, ma le vocazioni intese in modo molto più ampio. C’è nella base una chiamata di Dio, c’è un’attrazione che Dio esercita col suo amore su una persona e c’è dopo la risposta di questa persona sia individuale, sia anche attraverso i mezzi che Dio fornisce, che la Chiesa fornisce e che le istituzioni nella storia della Chiesa forniscono. E lì, in questo adeguamento di queste cose, bisogna stare attenti perché il provvisorio è un po’ la caratteristica del nostro tempo, dove niente è definitivo e tutto è per un tempo: “Finché questo mi piace, finché questo mi dà felicità…”. E questo in sé non è negativo: io cerco nel momento presente una realizzazione totale. Però, noi sentiamo che c’è qualcosa che si rompe in questa posizione, in quanto non si trova più questa fedeltà che è capace di dare di ritorno a una fedeltà di Dio, perché la fedeltà è soprattutto quella di Dio, dare una risposta di fedeltà anche dell’uomo. Questo è qualcosa che noi dobbiamo approfondire: dobbiamo vedere come ritornare, stando attenti ad una fedeltà che possa continuare nel tempo in modo positivo, ma anche con la felicità del cuore. In questo senso, quindi, l’esperienza di Dio, l’esperienza di Dio amore, ma anche l’esperienza del cambiamento dei rapporti tra di noi.

    D. - Lei faceva riferimento a due fondamenti: al fascino di Dio che chiama Francesco e Chiara di Assisi…

    R. - Sono giovani che hanno messo la centro del loro cuore questa risposta alla propria vocazione. Su di loro sicuramente Dio ha esercitato un’attrazione fortissima, come fa su coloro che sono chiamati. Lì pensiamo sempre, di nuovo, che al centro della nostra formazione, in tutti i momenti della nostra vita - ma in modo speciale nella formazione di base, che deve poi continuare - c’è la Parola di Dio. La Parola di Dio è amica dell’uomo, la Parola di Dio è vicina, non è lontana, la Parola di Dio non ci impone pesi ma ci dà condizioni di felicità. Però, se non è vissuta totalmente, se non è vissuta con impegno costante, può darsi che parte della nostra vita aspiri a un’altra condizione che non è quella della Parola di Dio. E questo crea difficoltà. Anche il magistero della Chiesa: il magistero della Chiesa esprime un dialogo costante con la storia, con le persone, che porta anche una luce sulle cose, la luce di Dio sulle cose. C’è questo magistero che va sempre crescendo e che è per noi fonte di sapienza. Queste sono due colonne che noi non possiamo perdere. Oggi, vediamo anche che bisogna come ricostituire certe cose fondamentali nel cammino. Non possiamo più perdere tutta la nostra vita - diciamo - amministrando opere delle quali non diamo più conto, non siamo più capaci… Abbiamo bisogno di stare proprio all’essenziale, che è questo rapporto con Dio, questo dialogo costante con Dio, questo essere nel Signore risposta, a quello che Lui ci chiama, con gli altri però vivendo questo in maniera adeguata anche alla felicità che Dio dà: ricomponendo cioè anche i nostri rapporti.

    inizio pagina

    Iraq: al dicastero per il Dialogo Interreligioso, riunione con le diverse comunità religiose del Paese

    ◊   E’ in corso, presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, una riunione organizzata dallo stesso dicastero con le Sovrintendenze shiita, sunnita, cristiana, yazida e sabea del Ministero per gli Affari Religiosi della Repubblica dell’Iraq. Lo scopo di tale iniziativa, informa una nota del Pontificio Consiglio, è quello di avviare una collaborazione fra il dicastero vaticano e le comunità religiose irachene nella prospettiva di istituire un Comitato permanente di dialogo. Il card. Jean-Louis Tauran, presidente, del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha aperto i lavori che prevedono una presentazione delle comunità religiose irachene nonché quella del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Si rifletterà, quindi, sull’attuale situazione delle comunità religiose nella Repubblica dell’Iraq e del dialogo fra di loro. L’importante riunione, la prima – conclude il comunicato – offre l’opportunità di approfondire la reciproca conoscenza e di valutare ulteriori prospettive di dialogo. Il 30 ottobre i partecipanti, a conclusione dei lavori, saluteranno Papa Francesco. (A.G.)

    inizio pagina

    A Papa Francesco il premio "Comunicazione semplice" dell'Istituto Europeo Terzo Millennio

    ◊   Assegnato a Papa Francesco il premio “Comunicazione semplice”. A conferirlo, indicando nel Pontefice il comunicatore dell’anno, è stato ieri l’Istituto Europeo Terzo Millennio che a Roma, da dieci anni, si occupa di consulenza e formazione proprio nel settore della comunicazione. A ritirare il riconoscimento il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. L’idea del premio al Papa è partita dal direttore dell’Istituto, Andrea Pizzicaroli. Gabriella Ceraso lo ha intervistato:

    R. - Dieci anni fa ho fondato l’Istituto europeo “Terzo millennio” con l’idea di fare formazione e consulenza in comunicazione. E’ successo poi che è stato eletto questo Papa e nessuno immaginava potesse essere una figura così forte e così comunicativa. Noi stessi ne siamo rimasti sorpresi positivamente. Da qui l’idea di assegnare il premio “Comunicazione semplice” con moltissima umiltà.

    D. - Quali sono gli elementi che avete preso in considerazione per definirlo tale?

    R. - Qui parliamo di “comunicazione semplice”: quella che cerchiamo di fare noi lavorando tanto sul semplificare i concetti che sono complessi, per renderli fruibili.

    D. - Quindi la comunicazione semplice non è quella fatta di pochi elementi…

    R. - E’ quella chiara e che cerca di arrivare il più possibile a più persone trasmettendo un messaggio autentico, proprio come lo si sente nel cuore. Il segreto è la sincerità: quando uno è sincero con se stesso e con gli altri la comunicazione fluisce in maniera coerente; nessuno può mettere in discussione quello che tu dici perché ne sei profondamente convinto. Se si è convinti si comunica in maniera semplice e la gente lo capisce.

    D. - Penso all’autenticità e alla sincerità nelle parole del Papa che spesso rientrano nel suo parlare comune. Il “buonasera”, il salutare, il congedarsi: anche questo rientra in una comunicazione semplice?

    R. - Sì. Questo Papa è riuscito in maniera deflagrante e soprattutto nuova, innovativa ad arrivare direttamente alle persone. Papa Francesco spesso stringe mani “alla pari”, in maniera diretta come se fosse un amico, un parente, una persona cara come effettivamente lui è. Quindi, questo tipo di comunicazione ha rivoluzionato tutto perché è un Papa “accessibile”.

    D. - C’è chi ha detto che questo aspetto, questa sua comunicazione semplice in qualche modo toglie addirittura sacralità alla funzione. Chi adotta una comunicazione semplice, con le caratteristiche che lei ha specificato, dunque toglie autorevolezza al suo dire?

    R. - Assolutamente no. Il messaggio che la comunicazione sia fruibile alle persone, che sia vicina non la “denobilita” anzi la rende ancor di più affascinante, più bella e vera ed anche, secondo me, più importante.

    D. - In questi giorni arrivato un altro riconoscimento per il Papa: i 10 milioni di follower che lo seguono su Twitter... Per un comunicatore questo che significa; una comunicazione semplice ci può essere anche su queste piattaforme digitali? Come la vede lei da professionista della comunicazione…

    R. - Io la vedo come un’arma a doppio taglio: sono affascinato ma non esaltato da questa comunicazione troppo legata ad Internet. Il rischio grosso che stiamo correndo adesso è che la comunicazione sia troppo sintetica; però è sicuramente efficace.

    inizio pagina

    Rinunce e nomine episcopali di Papa Francesco

    ◊   Negli Usa, Papa Francesco ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Hartford, presentata da S.E. Mons. Henry J. Mansell, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato arcivescovo di Hartford mons. Leonard P. Blair, finora vescovo di Toledo in America.

    In Nigeria, il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell’arcidiocesi di Ibadan, presentata da mons. Felix Alaba Adeosin Job, per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato arcivescovo di Ibadan mons. Gabriel ‘Leke Abegunrin, finora Vescovo della diocesi di Osogbo.

    In Ecuador, il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale del Vicariato Apostolico di Galápagos, presentata da S.E. Mons. Manuel Antonio Valarezo Luzuriaga, O.F.M., per sopraggiunti limiti d’età. Il Papa ha nominato vicario apostolico di Galápagos il rev.do padre Áureo Patricio Bonilla Bonilla, O.F.M., Vicario Provinciale dell’Ordine dei Frati Minori in Ecuador. Gli è stata assegnata la sede titolare vescovile di Bida.

    Negli Usa, il Santo Padre ha nominato il rev.do Sacerdote Kurt R. Burnette, finora rettore dei Saints Cyril and Methodius Seminary di Pittsburgh all’ufficio di vescovo Eparchiale di Passaic dei Ruteni.

    inizio pagina

    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   La speranza, questa sconosciuta: Messa del Papa a Santa Marta.

    Diplomazie concentrate sulla Siria.

    Storia e fede legate a filo doppio: il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, su contenuto teologico ed esemplarità metodologica del “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger.

    Non giochiamoci la Terra: Mario José Molina, premio Nobel 1995 per la chimica, di fronte ai cambiamenti climatici.

    Deriva intelligente e colta: Emilio Ranzato su Luigi Magni e la commedia all’italiana.

    Un sognatore al comando: Franco Ferrarotti racconta la genialità imprenditoriale e la missione sociale di Adriano Olivetti.

    Crisi delle vocazioni religiose? E’ colpa dello zapping: l’arcivescovo José Rodriguez Carballo, segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, sulla prevenzione degli abbandoni e il rafforzamento della fedeltà.

    inizio pagina

    Oggi in Primo Piano



    Siria: mons. Zenari sui villaggi cristiani liberati dall'assedio dei ribelli. La drammatica testimonianza di un sacerdote

    ◊   La diplomazia internazionale è alle prese con il tentativo di non far naufragare l’imminente conferenza di pace “Ginevra 2”, mentre dall'Oms è arrivata la conferma che nel Paese è in atto un'epidemia di poliomelite. Ulteriore dramma di una guerra che sta piagando la popolazione siriana, alle prese da più di due anni e mezzo con una terribile guerra fratricida, causa di una delle più gravi emergenze umanitarie della storia. Intanto dal terreno giunge la notizia della riconquista da parte dell’esercito del villaggio a maggioranza cristiana di Sadad, vicino alla città di Homs. Alcune migliaia di persone sarebbero state liberate dall’assedio dei ribelli. La notizia è confermata anche da mons. Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco, intervistato da Salvatore Sabatino:

    R. – Ho appena appreso anch’io che è stato rotto l’accerchiamento, così come ho avuto notizia, questa mattina, che è stato rotto anche l’accerchiamento di altri due villaggi: uno si chiama Mudamieh un altro Daraya, a sud di Damasco, con la buona volontà delle parti, aiutate da mediatori sul posto. Ci sono anche alcuni aspetti positivi, pur in questo clima di violenza e di sangue di tutti i giorni … Quindi, direi che anche queste schiarite potrebbero aiutarci, potrebbero aiutare la comunità internazionale a proseguire, a non perdere la fiducia e a riprendere con maggiore coraggio e determinazione: veramente è una scalata, più che una strada in salita …

    D. – Il volto di questa guerra sta continuamente cambiando, ed è ormai provato che nel Paese siano entrati combattenti provenienti da altri luoghi. Si parla di affiliati alla galassia di al Qaeda. Lei conferma questa presenza?

    R. – Direi che questo è sotto gli occhi di tutti. La storia di questo conflitto è veramente complicata: se lo si osserva dalle prime settimane, dai primi mesi, dal primo anno in poi, si vede che il conflitto è andato aggrovigliandosi e complicandosi. Credo che, se non si riesce a districare quanto prima questa matassa, andrà complicandosi ancora di più e a rendere sempre più difficile una soluzione che tutti ci auguriamo.

    D. – Da tre mesi non si hanno più notizie di padre Paolo Dall’Oglio, molto apprezzato in Siria per il suo impegno per il dialogo e la pace. Ha notizie al riguardo?

    R. – Beh, ogni tanto a questa nunziatura giungono delle voci, di cui è difficile controllare la consistenza; voci di ogni sorta … Io mi tengo in contatto con la sua comunità monastica di Mar Moussa, ogni tanto telefono o li incontro, li incoraggio perché sono coloro che più ne soffrono, questi suoi figli spirituali. Naturalmente, bisogna sempre conservare la speranza che possa, prima o poi, risolversi felicemente questo dramma, questa sofferenza, per tutti noi …

    Sulla situazione a Sadad ascoltiamo padre Ziad Hilal, che proprio questa mattina si è recato nella cittadina siriana, intervistato da Helene Destombes:

    R. – J’étais à Sadad, avec un autre prêtre, …
    Mi sono recato a Sadad, con un altro prete siriaco-cattolico. Ci sono molti edifici, molte case danneggiate o addirittura distrutte; tra questi, la scuola del villaggio, anch’essa invasa e distrutta, come anche gli altri edifici ufficiali. Sono andato a vedere le quattro chiese, delle quali tre siriaco-ortodosse e una chiesa siriaco-cattolica: sono danneggiate tutte e quattro, sono state utilizzate come ricovero da integralisti che erano venuti nel villaggio. Ci sono dentro materassi, coperte … Hanno anche scritto degli slogan sui muri delle chiese, all’interno, sull’altare, ovunque … Hanno spaccato il santissimo sacramento in tutti gli altari delle quattro chiese; i danni sono grandi nelle chiese, ma anche nelle strade. Ho potuto incontrare il prete che mi ha detto che fino a ieri sono stati sepolti 29 cristiani del villaggio; ce ne sono ancora due da lui … Ecco, questo è quello che ho visto, finora.

    D. – Quanti cristiani erano stati assediati in questa cittadina?

    R. – J’ai vu pas mal: il y avait à peux près 1.500 personnes là-bas, ils n’ont pas …
    Ce n’erano parecchi: c’erano circa 1.500 persone che non sono potute uscire. Questa mattina ho visto alcune vetture piene di bambini, uomini e donne che hanno vissuto questi giorni terribili e che hanno preferito andare via per qualche giorno, venire a Homs o in altre località, ma non so se vorranno tornare …

    D. – In questo momento, chi si prende cura di queste famiglie? Ci sono delle organizzazioni umanitarie, delle associazioni che se ne occupano?

    R. – En fait, jusqu’à maintenant, ce sont les églises qui organisent les aides humanitaires …
    A tutt’oggi, sono le Chiese che organizzano gli aiuti umanitari. Stiamo contattando le diverse organizzazioni per far fronte all’urgenza ed aiutare le persone. Non bisogna nemmeno dimenticare che è compito dello Stato, lavorare per risistemare le strade, le scuole, gli edifici ufficiali.

    D. – I ribelli che si trovavano nel villaggio di Sadad, sono fuggiti o sono stati uccisi dall’esercito?

    R. – Il y avait un combat; la plupart, ils ont fui, les autres je pense ils ont été abattu. …
    C’è stato un combattimento; la maggior parte di loro è fuggita, e penso che gli altri siano stati uccisi.

    inizio pagina

    Tragedia dell’immigrazione: 40 persone morte di sete nel deserto tra Niger e Algeria

    ◊   Almeno 40 migranti, tra cui donne e bambini, sono morti di sete al confine tra Niger e Algeria. Lo hanno reso noto fonti locali precisando che il veicolo sul quale viaggiavano è rimasto bloccato nel deserto, a decine di chilometri di distanza dall’oasi più vicina, a causa di un guasto meccanico. Diciannove i superstiti. Il loro obiettivo era raggiungere le coste del Mediterraneo per approdare in Europa. Amedeo Lomonaco ne ha parlato con Enrico Casale, africanista della rivista “Popoli”.

    R. – Il tragitto per arrivare dall’Africa all’Europa meridionale è, per questi ragazzi che lo compiono, molto duro. Noi siamo abituati a vedere le immagini di questi giovani che attraversano il Mediterraneo per raggiungere Lampedusa. Ma questa è solo l’ultima tappa di un viaggio che è iniziato mesi se non anni prima. Mi raccontavano testimoni che la tratta tra Khartoum e l’oasi di Koufra, in Libia, è disseminata di tombe di giovani che sono morti nel tentativo di venire in Europa. Questi ragazzi partono dall’Africa subsahariana e compiono viaggi terribili.

    D. – Un’ennesima tragedia che ci ricorda ancora una volta la priorità di un’efficace cooperazione internazionale …

    R. – Gli immigrati eritrei, ma anche somali, hanno chiesto che si creino dei corridoi umanitari che godano della protezione internazionale. Questi corridoi umanitari dovrebbero risalire il deserto dall’Africa subsahariana e arrivare fino all’Europa. Questo sarebbe auspicabile per evitare tragedie di proporzioni bibliche. Però, vedo anche molte difficoltà sia nell’organizzazione, dal punto di vista logistico, di una struttura del genere, sia dal punto di vista dei costi, perché richiederebbe un impegno economico sostanzioso da parte dei Paesi europei.

    D. – Lo sguardo dell’Unione Europea si concentra soprattutto sul Mediterraneo. L’Europa sembra invece trascurare quanto accade oltre questo tratto di mare …

    R. – Sì, il dramma è che l’Unione Europea e i singoli Paesi che la compongono continuano a pensare solo al contenimento, a livello del Mediterraneo, di questi flussi. Ma anche se noi portiamo il contenimento più a Sud, non ha alcun senso. L’Unione Europea e i Paesi che la compongono dovrebbero guardare anche alle cause scatenanti questi flussi migratori. Troppo spesso l’Europa si è disinteressata di queste tragedie che avvengono nell’Africa subsahariana: pensiamo alla tragedia somala, dove da 20 anni è in corso una guerra civile che sta decimando la popolazione; pensiamo ai regimi come quello eritreo, oppure al traffico di stupefacenti che dall’Africa occidentale attraversa tutto il Continente e che sta portando la criminalità organizzata anche in Africa, con conseguenze devastanti per la popolazione.

    inizio pagina

    Referendum non ufficiale nella regione di Abyei contesa fra Nord e Sud Sudan

    ◊   “Inaccettabile e irresponsabile”: così l’Unione africana condanna il referendum organizzato dalla società civile nella regione petrolifera di Abyei, contesa fra Sudan e Sud Sudan, per decidere da che parte stare. Per capire il significato di questa vicenda nel processo di normalizzazione dei rapporti tra Nord e Sud Sudan dalla separazione del 2009, Fausta Speranza ha parlato con Aldo Pigoli, docente di storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

    R. – Sicuramente va interpretato sotto due profili, di cui uno più locale, nei rapporti di tipo politico-sociale ma anche economico, che da sempre ci sono tra le varie popolazioni, che abitano l’area, caratterizzate anche da dispute e contese di lunga data; e l’altro è un livello più macro: quello dei rapporti tra Sudan e Sud Sudan, che proprio sulla questione su come gestire il territorio conteso appunto, quello di Abyei, da sempre sono in disputa e in contrapposizione. E per “da sempre” intendo da quando, nel 2005, si è iniziato a parlare di sviluppo di due Sudan, che poi si è manifestato con l’indipendenza del Sud Sudan e la secessione nel 2011. I livelli, quindi, a questo punto, sono duplici: locale e internazionale di gestione di un territorio conteso da due Paesi.

    D. – Non si tratta soltanto di questo territorio, ma anche della gestione del petrolio e di altri fattori che stanno accompagnando faticosamente questo processo di normalizzazione tra Nord e Sud Sudan...

    R. – Certamente la questione del petrolio è quella più evidente, ma anche dal più alto impatto strategico. La regione contesa, oggetto di questo referendum, è una regione ricca di risorse petrolifere, sfruttate da diversi anni. Con la secessione del Sud Sudan, il Sudan, con capitale Karthoum, ha perso gran parte delle sue ricchezze. I proventi dell’estrazione petrolifera e delle relative esportazioni erano il fondamento dell’economia sudanese. Aver perso l’accesso diretto, il controllo diretto, a gran parte dei giacimenti petroliferi e delle rendite collegate ad esso è sicuramente un fattore di svantaggio, che ha caratterizzato l’evoluzione politico-economica interna del Sudan, di Karthoum, negli ultimi anni. Ci sono poi le questioni della definizione dei confini, con tutte le dinamiche appunto socio-politiche locali. Il problema che da sempre si è posto dal 2011 in poi è che ogni passo può determinare un precedente, che potrebbe venire utilizzato o meno anche per altri Stati africani, che condividono con il Sud la storia dei rapporti tra Sud Sudan e Sudan e tutta la serie di analogie. Ricordiamoci che molti Paesi africani devono il loro territorio, i loro confini, alla definizione in epoca coloniale delle varie colonie da parte delle potenze europee, che poi è rimasta quasi intonsa una volta che i Paesi africani hanno ottenuto l’indipendenza. Con tutte le problematiche, quindi, ad esso collegate.

    D. – Dal punto di vista geopolitico, questo territorio così grande che comprende Nord e Sud Sudan, che sfida rappresenta?

    R. – Se consideriamo il Sudan nel suo insieme, era fino al 2011 lo Stato più vasto a livello territoriale dell’intero continente africano, e strategico, perché posto in posizione appunto centrale, ma collegata anche a diverse aree. Quindi, sicuramente di grande impatto strategico. Ora bisogna considerare due Paesi, con le loro problematiche differenti. Non a caso il Sud Sudan è sempre più integrato con Paesi dell’area dell’Africa orientale, in primis il Kenya, ma anche l’Etiopia. Strategicamente, quindi, geopoliticamente, questo territorio andrà incontro a notevoli evoluzioni.

    inizio pagina

    Scontri nel Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo

    ◊   In Repubblica Democratica del Congo da diversi giorni le truppe governative combattono contro i ribelli dell’M23 per il controllo della regione orientale del Nord Kivu. Negli scontri ha perso la vita un soldato tanzaniano della missione Onu. L’M23 ha tuttavia detto di voler tornare a sedersi ai negoziati di pace – interrotti lo scorso 21 ottobre – ma solo se ci sarà un cessate il fuoco immediato. Sulla difficile situazione nella zona, che è tra le più ricche del Paese, Elvira Ragosta ha intervistato Massimo Alberizzi, storico corrispondente del Corriere della Sera dall’Africa e direttore del sito “africa-express.info”:

    R. - La situazione sul campo muta di minuto in minuto. Però c’è un fatto nuovo: l’intervento di un nuovo gruppo ribelle, che combatte contro i governativi. Si chiama “Milizia patriottica di resistenza dell’Ituri. Non si sa bene né la consistenza numerica né la forza; si sa solo che stanno combattendo, anche loro, contro i governativi.

    D. - L’M23 pone il cessate-il-fuoco come condizione per tornare ai colloqui di pace. Secondo lei, questa è un’apertura?

    R. - Io credo che loro non abbiano intenzione di opporsi fino in fondo, perché i governativi sono più forti, sono appoggiati dalle Nazioni Unite, che hanno elicotteri, aerei… Quindi, ovviamente, sanno di perdere e, in qualche modo, cercano di negoziare.

    D. - A proposito della missione Onu, che in questi giorni ha perso sul campo un soldato tanzaniano, secondo lei è una missione che può velocizzare la pace?

    R. - Di solito, le truppe delle missioni di pace non combattono con una certa - diciamo - serietà: nel senso che non è roba loro, non hanno interessi… Quindi è anche probabile che questa morte rafforzi la paura nei soldati della missione di pace e che comprometta anche la loro forza militare. Qualche settimana fa avevano preso loro le redini dell’attacco all’M23; adesso, invece, le redini ce le hanno i governativi, i quali - anche loro - non brillano certo per coraggio!

    D. - Nella città di Kibumga, 25 chilometri a nord di Goma, sarebbero state scoperte due fosse comuni…

    R. - Lì sono in guerra dal ’94 e quindi bisogna vedere a chi appartengono, quanto sono vecchie e chi soprattutto le ha provocate. E’ un territorio che è passato di mano diverse volte, da parecchi gruppi militari.

    D. - Gli scontri di questi giorni si svolgono nella regione del Nord Kivu. Siamo al confine con il Rwanda e l’Uganda e ci sono state le accuse dell’Onu nei confronti di questi due Paesi di sostenere l’M23. Potrebbe cambiare lo scenario nei prossimi giorni o nei prossimi mesi?

    R. - Io non credo perché le accuse sono state sempre respinte. Io stesso ho visto che i confini sono permeabili ai ribelli che vanno e vengono. Questo per quanto riguarda l’Uganda. Per quanto riguarda il Rwanda, è vero che c’è un appoggio rwandese ai ribelli: loro lo giustificano dicendo che i tutsi, gli stessi abitanti di quelle zone di origine rwandese, sono minacciati di genocidio e quindi, in qualche modo, devono essere difesi, anche se negano un appoggio attivo ai ribelli, in questo caso agli M23. Gli interessi sono vari: ci sono interessi minerari fortissimi. Ma attenzione però: non ci sono solo il Congo, il Rwanda e l’Uganda. Dietro al Congo, al Rwanda e all’Uganda ci sono i veri burattinai, quelli che muovono le redini, quelli che poi sfruttano i minerali e comunque se l’importano nei loro Paesi. Stati che non sono solamente quelli che noi conosciamo - l’Europa, l’America - ma ci sono anche i Paesi dell’ex Unione Sovietica, che sono fortissimi da quelle parti. Il Kazakhstan, per esempio, ha degli interessi fortissimi anche sull’uranio. Il Congo così non può andare avanti! Deve essere spartito almeno in tre o quattro sezioni, se vogliamo tentare una pacificazione. Credo che sia - io lo chiamo - il cinismo della diplomazia, che si ostina ad avere un Paese unico, dove la gente dell’est e dell’ovest non parla la stessa lingua, non ha la stessa religione, non mangia le stesse cose… Sono completamente diversi! Anche il governo congolese che manda le truppe da quelle parta, mande delle truppe che non sono assolutamente autoctone: gente che non parla la stessa lingua, che è lo swahili, ma parla l’Ingala, che è lingua che si parla ad ovest. Molto spesso sono vissute quindi come truppe di occupazione, più che come truppe nazionali.

    inizio pagina

    Datagate. Pasqualetti: regole e trasparenza sugli interessi politici ed economici della Rete

    ◊   Si allargano i confini del Datagate all’intero pianeta. Non solo Stati Uniti ma anche Gran Bretagna e Russia - per quanto finora emerso - hanno operato spionaggio di massa. Mosca avrebbe perfino regalato gadget truccati nell’ultimo G20. 35 i leader mondiali controllati e centinaia di milioni i cittadini intercettati in Germania, Francia, Spagna, Italia e chissà in quanti altri Paesi. E mentre le diplomazie cercano una via d’uscita, emergono con evidenza contaminazioni tra poteri politici, economici e mediali, questi in mano ad una decina di ‘supergrandi’ della Rete. Democrazie in pericolo titolano alcuni giornali. Roberta Gisotti ha intervistato Fabio Pasqualetti, esperto di nuove tecnologie, docente alla Pontificia Università Salesiana:

    D. - Prof. Pasqualetti, forse è un bene che questo scandalo sia scoppiato?

    R. - Certamente sì! E’ importante, proprio perché grazie a Snowden, in fin dei conti, si è avuta la prova di ciò che si sapeva già, ma come capita sempre il potere tende a coprire i retroscena fin quando non vengono scoperti e dove è evidente che gli interessi non erano solo contro il terrorismo, ma sono interessi di natura economica, politica, sociale. Quindi questo mette in allarme! Grazie proprio all’azione di questi chiamiamoli hacker, chiamiamoli comunque persone che hanno voluto far conoscere questi retroscena, oggi abbiamo una maggiore e meno naïf visione di quello che è tutta la rete e il potere che ci sta dietro.

    D. - Quali sono gli interessi specifici da parte del potere politico e anche da parte del potere economico dietro questi spionaggi di massa?

    R. - C’è stato un periodo che erano prettamente e più marcatamente politici, oggi sappiamo che sono interessi soprattutto di spionaggio industriale, quindi economico: sull’alimentazione, sui trend, sul tipo di orientamento che i Paesi prendono a vari livelli. Per cui c’è ovviamente dietro un interesse di che cosa? Del controllo! Noi sappiamo che il potere si base sul controllo e avere certe informazioni e anche tutti questi metadati è importante per decidere magari in anticipo. L’America, ad esempio, ha giocato molto sul concetto di liberà dell’informazione e questo ha affascinato tantissimo: in realtà sappiamo che questa libertà di informazione, che è giusto che ci sia, ha un prezzo che a livello di internet si chiamano metadati, che vengono poi venduti a vari soggetti sia di tipo commerciale oppure di tipo più oscuro, come i servizi segreti.

    D. - Lo stesso presidente americano Obama ha ammesso: ‘sì è rotto il patto cittadini-istituzioni’. E’ dunque venuto il momento di dare regole e limiti ai controlli di massa, più in generale alla Rete?

    R. - Certamente ci sarà bisogno di regolamento. Però oltre ad essere in ritardo su una regolamentazione, il problema è un altro: la pervasività degli oggetti che saranno usati, già adesso ma anche in futuro, permetterà sempre a qualcuno di controllare e di raccogliere queste tracce. Adesso abbiamo in mano gli smartphone, ma supponiamo che ci siano - e ci sono già - dispositivi sulle auto per cui le assicurazioni iniziassero a pensare che chi è prudente può avere certi sconti oppure agevolazioni; mentre invece chi va veloce o ha una guida azzardata, verrà penalizzato. In futuro avremo scarpe e vestiti intelligenti, cosiddetti smart. Tutti strumenti che, in pratica, vendono informazioni di noi stessi. Ora a questo punto è immaginabile o è pensabile una legislazione che riuscirà a coprire tutto questo oppure bisogna andare su ciò che è la trasparenza? Diciamo che lo Stato o i funzionari pubblici sono proprio pubblici, perché dovrebbero dirci cosa fanno con i nostri dati; invece il cittadino è privato, proprio perché dovrebbe essere protetto nella sua privacy. Qui c’è in gioco la questione della privacy ed è una questione molto delicata.

    D. - Proprio per la complessità del tema, perché nessuno si occupa di definire allora diritti e doveri comunicativi nell’era digitale? Negli altri campi delle scienze umane questa ricerca e questa riflessione c’è stata…

    R. - Sì, c’è stata! Il problema un po’ parte dalla natura stessa di Internet, che già simbolicamente rappresentiamo come una nuvola e quindi una nuvola è difficilmente marginabile, definibile, controllabile: nel senso che è poi in continua espansione e movimento. Sappiamo però, ad esempio, che tutti i metadati poi girano attraverso un certo numero di gestori che hanno queste grandi sedi e megacomputer dove queste infromazioni vengono trattate. Allora si può agire con regolamentazioni, ma credo che poi alla fine ci debba essere anche coscienza politica di che tipo di mondo vogliamo costruire. C’è anche in questo momento una fase in cui il cittadino è disposto a vendere e ad offrire i propri dati in cambio di servizi. Bisogna vedere se questa è la strada da proseguire oppure prendere coscienza che forse converrebbe pagare magari un servizio ed avere maggiore protezione.

    D. - Il realtà ai cittadini vengono in genere propinate una serie di prescrizioni per tutelare la propria privacy, ma queste prescrizioni sono assolutamente di facciata…

    R. - Lo sono nel momento in cui, ad esempio, usi gmail o altri servizi sulla Rete, o anche Facebook: di per sé ci sono algoritmi che potrebbero criptare tutto ciò che noi mettiamo e impedire che sia quindi decifrato da altri. Il problema è che noi possiamo avere tutti questi servizi proprio grazie al fatto che non vengono criptati e quindi poi vengono venduti a terze parti, altrimenti non avremmo questi servizi oppure dovremmo pagarli.

    D. - Comunque da cittadini dovremmo sapere chi gestisce e controlla tutti questi metadati…

    R. - Assolutamente sì. La maggiore informazione e quello che dicevo prima la trasparenza: ci dovrebbe essere un obbligo da parte di tutti i gestori di dire chiaramente dove finiscono i nostri dati. Noi dovremmo essere educati anche a leggere i famosi contratti di accettazione di licenza, che purtroppo sono scritti spesso in maniera molto verbosa per tutelare tutte le possibili rivendicazioni, in caratteri piccolissimi, e sono lunghissimi e quindi di solito scoraggiano l’utente, il quale dice: “accetto”, “accetto”, “accetto”…. senza troppo pensarci su.

    D. - Forse i governi, invece di fare anche loro spionaggio di massa, dovrebbero dare regole e controllare che non si eludano queste regole da parte, appunto, di questi pochi gestori che hanno in mano tutti questi dati…

    R. - Mi chiedo se avendo coscienza di essere ormai su un pianeta, che è in fase critica per molti aspetti, non si debba pensare ad una collaborazione maggiore - anziché ad uno spionaggio - e quindi ad una condivisione della Rete, come struttura di collaborazione e scambio. Se noi anziché usarla - diciamo così - per sottrazione, con gente che va a prendere e gestire dati, la usassimo invece come condivisione forse sarebbe anche più interessante. Quindi anche una cultura dell’accoglienza dell’altro… Ovviamente questo implica anche una redistribuzione delle ricchezze, del potere: nel senso che bisogna uscire da una avidità economica che sta esasperando tutti!

    inizio pagina

    Turchia: Erdogan inaugura primo tratto del tunnel sotto il Bosforo che collega Asia e Europa

    ◊   La Turchia festeggia i novant’anni della sua Repubblica inaugurando la prima parte del tunnel ferroviario più profondo al mondo, che era nei sogni dei sultani ottomani sin dal 1800, e che collega la zona europea di Istanbul con la parte asiatica. 14 km sotterranei su 76 totali in superficie, e 37 stazioni in tutto in cui saranno esposti migliaia di reperti archeologici emersi dagli scavi. Non mancano le polemiche, ma l’opera, frutto della partnership col Giappone, resta un grande traguardo non solo economico. Il servizio di Gabriella Ceraso:

    Si chiama Marmaray, ma per la stampa turca è la “Via della seta 2.0”, per il premier Erdogan è il sogno di secoli che si realizza: sicuramente una buona operazione di marketing in vista delle municipali e delle presidenziali, ma ciò nulla toglie alla suggestione intorno ad un’opera faraonica, che gli ottomani ipotizzarono, l’esplosione demografica degli anni ’90 rese necessaria ma non possibile come spiega Valentina Scotti, assegnista di ricerca e esperta di Turchia per l'Università Luiss di Roma :

    “Nel tunnel c’è una valenza simbolica, c’è una grande capacità ingegneristica, c’è una grande capacità geostrategica … sicuramente, il tunnel rappresenta tutto questo. E forse rappresenta anche un po’ il ricongiungimento ottimale con il passato ottomano che per troppo tempo la Turchia ha voluto negare a se stessa”.

    A lavori finiti, grazie ad un consorzio turco giapponese e soprattutto ai fondi della Banca di Tokyo, il tunnel condurrà a 60 metri di profondità, 75 mila passeggeri per ora e per direzione, il 20% in meno del traffico attuale, per un totale di 4,5 miliardi di dollari e 76 chilometri complessivi. Una volta ultimato, il progetto sarà anche uno snodo dell’alta velocità tra Istanbul e Ankara e, più ad ampio raggio, tra le linee ferroviarie che dall’Asia portano verso l’Europa. Un’accelerazione nella già buona fase di crescita economica che sta vivendo la Turchia:

    “E’ un segnale chiarissimo del fatto che la Turchia è e continua ad essere un Paese in espansione economica, che non è stata minimamente contagiata dalla crisi. In più, è sicuramente un segnale che la Turchia si conferma come ponte – che sia sotterraneo o meno – tra due continenti che hanno molto da dirsi, ancora, e che forse si conoscono troppo poco. La scelta della partnership con il Giappone dimostra saggezza, da parte della classe imprenditoriale: il Paese sa come muoversi sullo scenario internazionale ed è solido e consapevole delle proprie possibilità”.

    Negli ultimi giorni, voci critiche si sono elevate per denunciare i rischi per la sicurezza della megagalleria, realizzata in un’area sismica e inaugurata, affermano, molto frettolosamente dal premier. Secondo la Camera degli Architetti e degli Ingegneri di Istanbul il tunnel, fra l’altro, non avrebbe un sistema elettronico di sicurezza e rischierebbe l’allagamento in caso di rottura di una sua porzione. Le critiche sono comunque state respinte dal ministro dei trasporti, Binali Yildirim, secondo il quale il tunnel sarà “il posto più sicuro di Istanbul”.

    inizio pagina

    Colombia: iniziativa del Cisp per la protezione dei minori contro il turismo sessuale

    ◊   “Apri gli occhi Colombia”, con questo titolo il Cisp-Sviluppo dei Popoli e l’Agenzia presidenziale per la cooperazione internazionale colombiana (Apc) hanno dato il via alla campagna di sensibilizzazione sulla prevenzione e la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. L’iniziativa mira a informare il pubblico sulla pesante realtà degli abusi sui diritti di bambine, bambini e adolescenti e su come salvaguardarli dai rischi di sfruttamento. La Colombia è una delle mete del “turismo sessuale”, che coinvolge almeno 80 mila italiani ogni anno. A spiegarci la gravità della situazione è Luigi Grando, direttore del Cisp-Sviluppo dei Popoli intervistato da Stefano Leszczynski:

    R. – Purtroppo, è molto grave: parliamo di 35 mila minori vincolati all’attività di sfruttamento sessuale, molti dei quali hanno anche meno di 10 anni, e purtroppo vede un coinvolgimento dei turisti italiani: siamo i primi della lista, tanto in Colombia come in altri Paesi e anche in Kenya dove siamo impegnati, allo stesso modo, in attività di contrasto a questo fenomeno.

    D. – L’Italia aveva anche adottato dei protocolli per la sensibilizzazione di chi si recava all’estero. In effetti, cosa avviene invece, oggi?

    R. – Quello che avviene è quello che avviene da tanto tempo: la presenza di un turismo alla ricerca di attività sessuali con i minori, che purtroppo trova nella povertà, ma anche nell’emarginazione di certe zone del mondo, tra queste anche la Colombia, un facile ambiente di proliferazione di questa attività. Noi siamo presenti da 12 anni in Colombia con vari progetti e da quasi 10 anni anche in Kenya, dove abbiamo sviluppato varie iniziative con il finanziamento della cooperazione italiana, della Commissione europea, cercando di lavorare a stretto contatto con le istituzioni dei Paesi lo Stato colombiano in particolare, in questo caso; e questa iniziativa è un po’ il frutto di questa storia. L’Agenzia presidenziale per la cooperazione colombiana sta co-finanziando con noi questa iniziativa, questa attività che prevede sia attività di sensibilizzazione ma anche formazione per funzionari pubblici come anche azioni di attenzione e di contrasto diretto al fenomeno.

    D. – Il titolo dell’iniziativa colpisce: “Apri gli occhi, Colombia”. Un’esortazione quasi di tipo sociale, come se il Paese avesse finora rifiutato di vedere un problema reale che c’era al suo interno …

    R. – Certo, un po’ era così. Il primo punto è quello di ammettere che esiste il problema: tutti devono riconoscere il problema. Noi diciamo che non solo gli sfruttatori hanno delle responsabilità, ma anche chi gira lo sguardo dall’altra parte e non fa la sua parte per contrastare il fenomeno. Quindi siamo tutti maggiorenni, siamo responsabili e dobbiamo essere sempre più responsabili per garantire il benessere e i diritti dei bambini.

    inizio pagina

    Federculture: rilanciare la cultura nel Mezzogiorno italiano, ne va dell'identità italiana

    ◊   Cresce il numero dei visitatori di musei e siti archeologici italiani, ma non al Sud, dove invece diminuisce, seppur di poco. Il Mezzogiorno, inoltre, è in testa per dispersione scolastica, nonostante la spesa pubblica per istruzione e formazione sia superiore alla media italiana. Sono alcuni dati forniti da uno studio di Federculture, presentati oggi nell’Università di Bari nel corso di un convegno "Cultura e Mezzogiorno", alla presenza del capo dello Stato, Napolitano. Le rilevazioni, che però non tengono conto della Sicilia, stabiliscono che nel Sud Italia, che al netto della Sicilia possiede il 34% dei siti culturali statali, i fruitori dei beni storici sono calati dello 0,3%. “Il Sud deve recuperare un ruolo, che sta perdendo, nello sviluppo generale del Paese”: è stato il richiamo del presidente Napolitano. Francesca Sabatinelli ha intervistato Roberto Grossi, presidente di Federculture:

    R. – La cultura è qualcosa di vivo, che sta vicino alla gente; è senso di appartenenza, di legalità, se vogliamo anche il senso della vita. E’ l’identità delle persone, della famiglia in una collettività. In questo, l’Italia e il Mezzogiorno sono arretrati perché i monumenti ce li avevamo e li abbiamo oggi, allora cosa è cambiato? E’ cambiata la partecipazione culturale. Le famiglie del Mezzogiorno investono sempre di meno, pur avendo un’enormità di biblioteche, palazzi storici, monumenti, aree archeologiche, il numero dei visitatori è bassissimo. E soprattutto, al di là del turismo, la partecipazione dei cittadini alla cultura – parliamo della lettura di libri, di frequentazione di teatri, di musei – è assolutamente ridotta. Quindi, le famiglie nel 2012 nel Mezzogiorno investono molto meno della media nazionale e molto meno dell’Europa.

    D. – Questo dipende dalla crisi? E se sì, che cosa differenzia il Nord dal Sud?

    R. – Innanzitutto, un sistema di offerta di servizi culturali e di politiche pubbliche verso i cittadini, perché la cultura è un diritto per i cittadini ma è anche un dovere dello Stato garantirla. E quindi, la rete di organizzazione e gestione delle attività, anche educative per i bimbi nelle nostre scuole, è assolutamente inadeguata, inferiore. Questo si vede chiaramente dall’assenza della rete di imprese culturali nel Mezzogiorno. Abbiamo i musei, ma ci vanno mille persone all’anno; pensiamo che i turisti stranieri nella regione calabrese sono stati solamente 200 mila, nel 2012, e in Lombardia, 20 milioni! L’1 per cento! Perché nel Mezzogiorno, per l’assenza di politiche e di lungimiranza, c’è una rete di promozioni, di offerta culturale decisamente meno avanzata e più scarsa.

    D. – Questo in qualche modo, dunque, avvalora l’equazione “aree arretrate-culture arretrate”?

    R. – Sicuramente sì! Ma per questo noi abbiamo organizzato questa iniziativa dentro l’università. Il punto è superare la visione e la retorica dei beni culturali del Paese e, invece, affermare una visione della cultura che è viva, noi dobbiamo portarla nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, partendo dall’educazione. E’ drammatico, per esempio, il fatto che negli ultimi anni abbiamo quasi tolto l’insegnamento di Storia dell’arte nei licei e l’insegnamento della Musica, ma questa è una questione di scelte, come ci ha richiamato il presidente Napolitano. Quindi, il punto qual è? E’ che la cultura va ricentrata sui cittadini, sulla qualità della vita, sul benessere sociale e collettivo e sull’identità. Qui non si tratta di fare niente di straordinario, ma di riprendere la vocazione naturale dell’Italia e del Mezzogiorno. Dobbiamo tornare a centrare l’attenzione sul cittadino e sulle famiglie.

    D. – E’ stato in qualche modo individuato il periodo esatto in cui è incominciata la fase di declino; e oggi, noi a cosa assistiamo? Ad un peggioramento o ci sono segnali di recupero?

    R. – La fase di declino è arrivata grazie alla brutta politica ormai da una decina d’anni, basti pensare che l’investimento dello Stato in cultura nel 2012 è stato poco più dello 0,20% di tutta la spesa dello Stato quando in Grecia, in pieno default, nello stesso anno, è stato dello 0,50%. Quindi, abbiamo subito scelte miopi che hanno visto la cultura quasi come un pericolo: questo è accaduto negli ultimi anni! Non c’è dubbio che anche la crisi economica abbia fatto la differenza, nel senso che l’assenza di politiche di tariffazione, l’offerta a favore dei cittadini, per esempio l’assenza di politiche di defiscalizzazione della spesa nel settore, hanno allontanato e depotenziato la produzione culturale. Quindi noi adesso dobbiamo decisamente invertire la rotta e tornare ad essere un Paese che produce bellezza e cultura, non un Paese che si crogiola in un grande patrimonio che gli viene dal passato. E questo, con una convinzione: la cultura ci avvicina a noi stessi e ci rende individui che poi fanno parte di una comunità. Perché la cultura crea identità e crea confronto, crea accoglienza. E per questo, l’antidoto anche ai problemi della illegalità, della mancanza di senso della vita può essere risolto investendo sulla conoscenza e sulla diffusione dei saperi.

    inizio pagina

    Slot Mob: mobilitazione per il buon gioco che premia i baristi no-slot

    ◊   "Un bar senza slot ha più spazio per le persone". Con questo slogan sta raccogliendo adesioni in varie città italiane "Slot Mob", la mobilitazione di cittadini per il buon gioco, contro le povertà e la dipendenza dall’azzardo. L’iniziativa premia gli esercizi commerciali che hanno rinunciato all'uso delle “macchinette” e prevede in questi locali dibattiti, momenti di festa e tornei di calcio balilla. “Una realtà di cittadinanza attiva responsabile che non aspetta i tempi della politica”, spiega al microfono di Paolo Ondarza uno dei promotori, Carlo Cefaloni:

    R. – Purtroppo, ultimamente abbiamo avuto una forte incentivazione da parte delle leggi dello Stato, votate in maniera trasversale, nei confronti della diffusione del gioco d’azzardo legalizzato, e quindi bisogna ricreare una cultura che vada a premiare i gesti che vanno in controtendenza; come – appunto – l’attività che può svolgere un barista, un esercente commerciale che nonostante tutti gli incentivi che arrivano per l’immissione nel proprio locale di una slot machine, compie un gesto di responsabilità. Magari, il più delle volte vive questo gesto anche in maniera solitaria, come una questione di coscienza personale. Chiaramente, se non è sostenuto dai consumatori, dai clienti che magari per 10 centesimi vanno in un bar dove si svolge un altro tipo di attività, tutto viene meno. C’è bisogno, quindi, di una responsabilità collettiva.

    D. – L’atto di coraggio del barista che rinuncia alla slot, da singolo si sta trasformando in un fenomeno più diffuso; e voi state girando varie città italiane proprio per andare in questi locali virtuosi ….

    R. – Certo! E’ successo a Biella, dove è nata spontaneamente una rete sociale: c’è stato un evento che è durato una giornata intera ed ha coinvolto circa 800 persone, con testimonianze di giocatori d’azzardo che sono entrati in questa patologia e ne sono usciti. C’è stato non solo un convegno, ma la possibilità di avere momenti di festa …

    D. – Voi infatti proponete di curare il cattivo gioco con il buon gioco: in che senso?

    R. – Nel momento in cui si organizza questa festa, si mettono insieme le esperienze storiche come i giochi di strada: il biliardino, ad esempio, è un gioco relazionale, è un gioco che aiuta. Ma questo l’abbiamo visto in tanti luoghi, in tanti bar dove le persone, i baristi stessi dicono: “Non ne possiamo più”, e quindi hanno tolto spontaneamente le "macchinette mangiasoldi" e altri giochi d’azzardo e volentieri hanno introdotto quello che è un luogo classico di convivialità, di rapporto positivo. Gli introiti chiaramente non sono gli stessi, però in questo modo questi baristi indicano un modo diverso di stare che magari costa ma vale la pena favorire.

    D. – Qual è la reazione delle persone che partecipano ad uno "Slot Mob"?

    R. – Si tratta di rompere un meccanismo profondamente iniquo; il più delle volte viene accettato. Accade, per esempio, come è accaduto a Cagliari: lì è stato un evento bello, costruito sempre con questa rete di tante associazioni che in maniera spontanea si mettono insieme, si è fatto un gesto pubblico: un bar, di fronte a quello premiato, ha pensato di chiudere per partecipare. Il proprietario non ha voluto rappresentare un’alternativa ad una proposta che ha ritenuto giusta come essere umano e come esercente di un’attività commerciale. Il fatto che a novembre ci sarà una tre-giorni a Palermo, è emblematico, perché lì andiamo a parlare di un rapporto forte che si è costituito con i circoli di “Addio pizzo”, con tutte le reti contro la mafia …

    D. – Avete incontrato difficoltà oggettive nell’andare avanti con questa vostra iniziativa?

    R. – Quando abbiamo lanciato l’iniziativa abbiamo avuto un paio di giorni di difficoltà sui siti …

    D. - … a livello di attacchi di hacker?

    R. – Di hacker, sì. Il sito è stato oscurato per due giorni, ma non abbiamo dato troppa importanza alla cosa.

    D. – La mobilitazione sta partendo dal basso, la palla dev’essere raccolta dai politici di buona volontà …

    R. – Sì. C’è un inter-gruppo a livello di Parlamento che sta lavorando su questo fronte; dev’essere molto più incisivo, però. Devono essere i parlamentari che prendono atto di questo fenomeno per essere poi capaci di vederlo e di gestirlo con urgenza.

    inizio pagina

    Al via il Festival di Musica Sacra dedicato a Papa Francesco

    ◊   Le note del tango sul testo della Messa. È l’originale fusione della partitura che questa sera alle 21, nella Basilica romana di Sant’Ignazio di Loyola, aprirà la 12.ma edizione del Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra, dedicato a Papa Francesco. Il concerto inaugurale sarà seguito da altri otto appuntamenti che vedranno prestigiose orchestre – tra cui i celebri Wiener Philharmoniker – esibirsi nelle Basiliche papali e nelle chiese romane, come da tradizione del Festival. Patricia Ynestroza ha intervistato il compositore argentino, Martín Palmeri, autore della “Misa Tango”, che verrà eseguita dal Coro del Duomo di Colonia e dalla Gürzenich-Orchester Köln, diretti da Eberhard Metternich:

    R. - Esta es una obra...
    Questa è un’opera in primis scritta in latino. Mantiene assolutamente tutta la struttura delle Messe classiche: il testo è lo stesso testo che utilizzano le grandi Messe di Mozart, di Haydn. L’unica differenza è che è stata composta con una base orchestrale, che ha a che vedere con la musica Porteña, con la musica del tango, la musica di Buenos Aires.

    D. – Come hai affrontato ciascuna di queste opere?

    R. – Como director del Coro...
    Ho avuto il problema che ho sempre come direttore di Coro e come amante della musica del tango, il problema cioè che non ci siano repertori scritti, dove siano unite le cose. Quindi la mia idea è stata quella di creare un nuovo repertorio di opere corali, che abbiano a che vedere con il tango, nella misura in cui vengono accompagnate da un’orchestra di tango. Nel caso della “Misa Tango” si tratta di un’orchestra tipica del tango, un’orchestra tradizionale del tango con una corda ampliata, diciamo. Di base, però, si tratta di una formazione comprendente corda, piano e bandoneones.

    D. – Le sue impressioni su ciò che il Festival rappresenta per chi vi partecipa…

    R. – Indudablemente es para el compositor de musica religiosa...
    Indubbiamente, per un compositore di musica religiosa è come arrivare al massimo livello, per l’importanza che ha in sé il Festival, stando già alla sua 12.ma edizione, e per quello che significa anche vista la quantità di corsi, concerti e apprendistati corali, che organizza il signor Curtial, con tutte le istituzioni che dirige.

    D. – Inoltre, l’importanza di questo Festival è data anche dalla dedica in onore del Papa...

    R. – Està dedicado al Papa, exactamente...
    E’ dedicato al Papa, esattamente. E l’idea di introdurre la “Misa Tango”, che è un’opera argentina, all’inizio di tutto il programma dei concerti è in parte per rendere omaggio al Papa.

    inizio pagina

    Nella Chiesa e nel mondo



    Gran mufti di Siria: i vescovi ortodossi rapiti sono vivi e fuori dal Paese

    ◊   Il Gran mufti di Siria, Ahmad Badreddin Hassoun, leader spirituale dell'islam sunnita, ha detto di avere informazioni sul fatto che i due vescovi ortodossi di Aleppo, rapiti in aprile, sono vivi e fuori dal Paese. A riferirlo è l'agenzia Interfax-Religion ripresa da AsiaNews. "Secondo le informazioni del mufti - ha detto Elena Agapova, vice presidente della Società imperiale ortodossa di Palestina, organizzazione ortodossa russa che svolge un ruolo attivo in Medio Oriente e si occupa della consegna aiuti alla popolazione siriana - sono in Turchia". A quanto riportato dalla Agapova, dopo che il 28 ottobre Hassoun ha incontrato a Mosca alcuni rappresentanti della Società imperiale ortodossa di Palestina, il Gran mufti ritiene che "dietro il duplice sequestro vi è la mano dei militanti ceceni". Durante la sua visita all'Università islamica di Mosca, lo stesso Hassoun ha denunciato che almeno 2mila russi, per lo più provenienti dal Caucaso settentrionale, stanno combattendo nelle fila dell'opposizione armata siriana. Il metropolita Boulos Yazigi (della Chiesa ortodossa di Antiochia) e il metropolita Mar Gregorios Youhanna Ibrahim (della Chiesa siro-ortodossa) sono stati sequestrati da un gruppo di militanti, che hanno ucciso il loro autista. I due leader ortodossi erano impegnati in lavori di tipo umanitario nel villaggio di Kafr Dael, vicino al confine turco-siriano. La Chiesa ortodossa russa ha espresso "profonda preoccupazione" per la loro sorte, "In tutto questo tempo non abbiamo avuto alcuna notizia su dove si trovino e come stiano. Ci sono diverse informazioni, ma nessuna di esse è mai stata confermata ufficialmente", aveva dichiarato a fine agosto ad AsiaNews, il metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del patrioarcato di Mosca. (R.P.)

    inizio pagina

    Siria: i Gesuiti della regione condannano i mercanti di armi

    ◊   Per comprendere e fermare il conflitto in atto in Siria “occorre riconoscere e chiamare per nome i reali interessi in gioco, a livello locale, regionale e internazionale, che non corrispondono agli interessi del popolo siriano”. Questa è la pista suggerita come chiave interpretativa della crisi siriana dai Superiori Provinciali dei Gesuiti del Medio Oriente e dell'Europa, riunitisi a Roma venerdì scorso per un confronto sulle convulsioni che agitano la regione mediorientale. Nel comunicato finale, pervenuto all'agenzia Fides, i provinciali Gesuiti si soffermano in particolare sul traffico di armi come fattore di scatenamento e alimentazione delle guerre e delle azioni terroristiche sofferte dai popoli mediorientali: “Noi” scrivono i religiosi in riferimento alla situazione siriana “facciamo appello che cessi il rifornimento e la vendita di armi a tutte le parti in conflitto”. Il messaggio finale dell'incontro si sofferma anche sulla condizione delle comunità cristiane autoctone, presenti in Siria fin dai primi tempi del cristianesimo. Secondo i Gesuiti non sono tollerabili “le soluzioni che prevedono l'esilio di queste comunità”. (R.P.)

    inizio pagina

    Iraq. Il patriarca Sako: "Riconciliazione e cittadinanza contro la violenza"

    ◊   “Un fatto davvero triste. A perdere la vita sono tutte persone innocenti. Questo conflitto settario non fa altro che aggravare una situazione già molto difficile ed allontana la possibilità di una soluzione che garantisca stabilità e sicurezza”. Così il patriarca caldeo di Baghdad Louis Raphael I Sako commenta, in un’intervista all'agenzia Sir, l’ondata di attacchi dinamitardi che domenica hanno colpito l’Iraq provocando oltre 65 morti e decine di feriti. “Il Governo è incapace di controllare il territorio e di proteggere la popolazione. Per fare ciò serve un esercito professionale e forze di polizia preparate” spiega il patriarca per il quale si sta assistendo “ad una lotta di potere tra sciiti e sunniti che non riguarda solo l’Iraq ma ha una valenza regionale, interessando la Siria innanzitutto, e l’Egitto. Ci sono, poi - aggiunge - alcuni Paesi del mondo arabo che hanno interesse a che queste crisi non cessino. Hanno paura che da questi conflitti possano uscire poteri democratici che li costringerebbero a cambiare per venire incontro alle naturali richieste di diritti dei loro popoli”. Uno scenario che accomuna la Siria all’Iraq. “Le riforme - è la convinzione di Sako - si fanno con il dialogo e non con le armi. La soluzione è e deve restare politica, non militare. La democrazia non si esporta con la guerra”. Da qui la necessità di parlare di “laicità positiva, che non si pone contro la religione, e di cittadinanza: siamo tutti cittadini, con eguali diritti e doveri, senza distinzioni di classe, di religione, di etnia. Non ci sarà così più maggioranza e minoranza”. Un fattore che faciliterebbe anche la permanenza dei cristiani, la cui fuga, conclude il patriarca, “sarebbe una grave perdita anche per l’Islam”. (R.P.)

    inizio pagina

    Terra Santa. Il patriarca Twal: per la pace "sanare l'educazione dei giovani"

    ◊   Ripartire dal rispetto della persona e dalla fiducia reciproca che rappresentano il cuore del problema del dialogo tra musulmani, ebrei e cristiani e sanare l’educazione dei giovani per arrivare alla pace. L’esortazione è arrivata dal patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, che domenica scorsa ad Assisi ha rinnovato, insieme a rappresentanti ebrei e musulmani, l’impegno per la pace in Medio Oriente. “In molti Paesi ci sono tensioni, il terrorismo internazionale e i movimenti fondamentalisti sono sempre più all’opera - ha detto mons. Twal - ma la Chiesa va contro corrente e continua a dire: la pace è possibile”. Il patriarca ha ricordato la situazione dei cristiani in Terra Santa: “siamo e rimaniamo la Chiesa del Calvario, a causa dell’occupazione militare israeliana, dell’emigrazione dei cristiani, di un terrorismo che non risparmia nessuno, di un conflitto che non trova soluzione”. Non sono mancati cenni ai sempre più frequenti atti “di vandalismo a danno di chiese, cimiteri, luoghi religiosi delle diverse comunità, operati da estremisti, di fanatici che non hanno nulla a che fare con la vera religione”. A riguardo - riferisce l'agenzia Sir - mons. Twal ha sottolineato che “non bastano le espressioni di condanna da parte delle autorità civili o militari, ma siamo chiamati ad agire, a sradicare le cause di tali fenomeni, a sanare l’educazione delle nuove generazioni. Come rappresentanti delle tre religioni monoteiste - ha concluso - abbiamo una responsabilità grande per la pace. La preghiera è educazione alla pace. La guerra, le tensioni, gli squilibri cominciano dentro di noi. Anche i muri che vediamo a Betlemme e a Gerusalemme sono la traduzione di altri muri nel cuore e nella testa dell’uomo: muro di odio, di paura e di sfiducia. Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile, che è possibile un mondo diverso”. (R.P.)

    inizio pagina

    Burkina Faso: il card. Sarah ringrazia il presidente Compaoré per il suo sostegno alla Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel

    ◊   Una delegazione della Santa Sede guidata dal presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, il cardinale Robert Sarah, in questi giorni nel Burkina Faso per celebrare i 30 anni della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, è stata ricevuta domenica scorsa a Ouagadougou dal presidente Blaise Compaoré. “Abbiamo chiesto un incontro con il presidente del Burkina Faso per salutarlo e dirgli grazie per il suo sostegno alla Chiesa” ha detto il porporato al termine dell’incontro. Il cardinale Sarah, si legge sul portale www.sidwaya.bf, ha ricordato inoltre che il Capo dello stato ha offerto un grande terreno per la costruzione della nunziatura apostolica e che è grazie alla generosità del governo che la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel ha sede ad Ouagadougou. Il porporato ha aggiunto che il presidente Compaoré ha manifestato la propria disponibilità ad appoggiare la fondazione voluta da Giovanni Paolo II nel 1983 per esprimere la sua solidarietà ai popoli del Sahel che soffrono la siccità. Tracciando un bilancio dell’operato della fondazione, il cardinale Sarah ha affermato che in trent’anni di attività i risultati sono soddisfacenti ma che la lotta contro la lotta contro la desertificazione è una lotta continua. “Ci sono ancora molti sforzi da fare – ha concluso il porporato – ciò richiederà la solidarietà di tutti, dei nostri fratelli dell’occidente ma anche la stessa solidarietà del Sahel”. (T.C.)

    inizio pagina

    Myanmar. Minoranze etniche a convegno: una strategia comune in vista di un accordo di pace

    ◊   E’ iniziata oggi nello stato Kachin, nel Nord del Myanmar, una sessione di colloqui fra i rappresentanti da 19 gruppi etnici minoritari birmani che mira a elaborare una posizione e una strategia comune, in vista di un possibile accordo di pace, da siglare con il governo del Paese. Come appreso dall'agenzia Fides, l’obiettivo è porre fine a decenni di conflitto armato e restituire una situazione di pace sociale al Myanmar, travagliato dai conflitti civili. L’incontro è propedeutico ad una conferenza che si terrà il 3 e 4 novembre a Myitkyina, capitale dello stato Kachin, che vedrà la partecipazione di osservatori internazionali come l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Vijay Nambiar. Fra i principali gruppi etnici riuniti oggi, vi sono i Kachin, i Karen e gli oltre a membri di altri gruppi minori come Karenni, Chin, Mon, Rakhine, Wa , Pa-O, Palaung. I gruppi propongono un cessate-il-fuoco a livello nazionale, in preparazione alla conferenza di Myitkyina e a un successivo incontro con i negoziatori del governo, da tenersi nella capitale del Paese, Naypyidaw. Come riferito a Fides, le Chiese e le organizzazioni della società civile in tutto il Paese hanno accolto con favore la conferenza dei gruppi etnici come un passo “per la creazione di stabilità e pace in Myanmar” e “per costruire una nazione che rispetta uno standard di diritti umani e di democrazia”. La Chiesa cattolica, in particolare ha sempre ribadito che “la pace con le minoranze etniche” è una priorità per la nazione ed è il presupposto per costruire una nazione realmente libera, che garantisca benessere e sviluppo a tutti i cittadini. (R.P.)

    inizio pagina

    Cambogia: le organizzazioni umanitarie in aiuto alle popolazioni colpite da monsoni e alluvioni

    ◊   Un mese di piogge monsoniche e inondazioni in Cambogia è costato la vita a 168 persone oltre ad un centinaio di migliaia rimaste senza casa in 20 delle 24 province del Paese, comprese alcune zone della capitale, Phnom Penh. Più di 1 milione e mezzo di persone in totale sono state gravemente danneggiate, distrutte case, scuole, Centri sanitari, strade, ponti e terreni agricoli. L’organizzazione umanitaria Christian Aid and Dan Church Aid partner Development and Partnership in Action (Dpa) ha distribuito generi alimentari, kit per l’igiene e teloni dove fare riparare 3 mila persone nella Provincia di Ratanakiri, al nord est del Paese. Circa l’80% dei 13 milioni e 800 mila abitanti della Cambogia - riferisce l'agenzia Fides - vivono in zone rurali, e la sopravvivenza della maggior parte di loro dipende completamente dall’agricoltura. Le alluvioni hanno distrutto 244 mila ettari di risaie suscitando preoccupazione nella popolazione per la scarsità di generi alimentari. I cambogiani sono molto vulnerabili alle calamità, un quarto di loro vive sotto la soglia di povertà e può contare solo su un unico raccolto all’anno. Quando questo va perduto le conseguenze sono molto gravi. Le aree più gravemente colpite sono anche minacciate dalle malattie trasmesse dall'acqua, come dengue e diarrea. In un Paese con un alto tasso di malnutrizione, dove circa il 40% dei bambini soffrono della forma cronica della patologia, queste malattie prevenibili e curabili possono essere letali, soprattutto per i più anziani e i più piccoli. Gli aiuti umanitari verranno utilizzati per le persone più vulnerabili, le famiglie estremamente povere, tra le quali quelle gestite dalle donne, le vedove, i contadini migranti senza terra, le persone sieropositive e gli anziani. Le organizzazioni continuano nel loro impegno verso queste comunità con l’obiettivo di renderle più resistenti alle catastrofi naturali, lavorando insieme alle autorità locali e alle comunità per migliorare i sistemi di allarme e di evacuazione, costruire case più stabili e silos in grado di salvagardare vite e mezzi di sussistenza. (R.P.)

    inizio pagina

    Bangladesh: magia, giochi e qualche medicina per i bambini di strada

    ◊   Una giornata di festa, giochi, piccoli spettacoli di magia e workshop, tutta dedicata ai bambini che in Bangladesh vivono per la strada, per regalare loro un momento di gioia e poterli seguire - almeno per qualche ora - più da vicino. È con questo spirito che il festival dei bambini di strada di Dhaka è giunto quest'anno alla sua ottava edizione. L'iniziativa - riporta l'agenzia AsiaNews - nasce da un'idea di fratel Lucio Beninati, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), che qualche anno fa ha creato un'associazione di soli volontari che si occupa - 6 giorni su 7 - di bambini e ragazzi di strada. Quest'anno il festival si è svolto il 25 ottobre. A causa della pioggia hanno partecipato circa 90-95 bambini, che i volontari hanno intrattenuto con giochi e altre attività ludiche. I piccoli hanno assistito allo spettacolo di un prestigiatore e poi sono stati divisi in sei gruppi, a seconda della zona della città in cui vivono. Così distribuiti hanno partecipato a un workshop, e i lavoretti sono stati poi mostrati agli altri compagni. Nel frattempo, due medici hanno fatto il giro di tutti i bambini e ragazzi, per eseguire alcune visite e curare chi di loro stava male. A mezzogiorno il pranzo tutti insieme. Ogni cosa e momento di questa giornata è "volontario": dalle persone che vi partecipano intrattenendo i bambini, ai medici, al cibo offerto. Alcuni hanno donato farina, altri il riso, o le uova: da ciò che si raccoglie si mette insieme il pasto. Al termine della giornata, bambini e ragazzi sono tornati nelle loro strade con qualche regalo, ma soprattutto portando con sé la gioia dei momenti vissuti insieme a tutti gli altri. I volontari - che provengono da ogni fascia sociale e sono musulmani, cristiani e indù - raccontano che i piccoli "sono un po' indisciplinati", ma "sentono di essere amati e quindi si lasciano guidare in questa giornata di festa". (R.P.)

    inizio pagina

    Messico. Anche la Chiesa coinvolta nell’ondata di violenza: altri sacerdoti minacciati

    ◊   Non si ferma l'ondata di violenza in Messico e anche i sacerdoti sono stati vittime di tentativi di estorsioni telefoniche da parte delle bande criminali. Almeno tre sacerdoti sono stati contattati dai malviventi, i quali hanno detto loro di aver rapito un parente o li hanno minacciati di aggressioni se non avessero consegnato somme di denaro. Tali episodi sono stati riferiti dal vescovo di Aguascalientes, mons. José María de la Torre Martin. Non sono comunque episodi isolati, dal momento che in molte regioni del Paese si sono verificati casi simili, come negli Stati di Jalisco, Colima, Puebla, Veracruz, Chihuahua, Zacatecas, Sonora, Mexico e altri ancora. Nella nota inviata all’agenzia Fides, mons. De la Torre Martin informa che i sacerdoti coinvolti hanno comunque ignorato le minacce e si sono rivolti alle autorità per avere protezione. Il vescovo sottolinea inoltre che la Chiesa vive in prima persona i problemi del Paese ed è coinvolta nella travolgente ondata di violenza e insicurezza che ha imperversato per diversi anni e ha fatto molte vittime, molte delle quali innocenti. Mons. De la Torre Martin critica inoltre l'impunità, che provoca la sfiducia nelle istituzioni, e ritiene che la lotta intrapresa dal governo contro la criminalità organizzata "non sarà facile e neanche di breve durata", ma dovrà comunque essere portata avanti fino alla fine. (R.P.)

    inizio pagina

    Nicaragua: preghiera per la pace a chiusura dell'Anno della fede, ma le chiese si svuotano per paura

    ◊   "Il dialogo sincero tra il governo e i gruppi riarmati deve prevalere sulle armi, perché la guerra non lascia nulla di buono" ha detto mons. Carlos Enrique Herrera Gutiérrez, vescovo di Jinotega, parlando alla stampa domenica scorsa. Secondo la nota pervenuta all’agenzia Fides, l’incontro si è svolto nella sagrestia della cattedrale di San Juan, dopo la Messa di chiusura del pellegrinaggio dei cattolici che erano partiti da Los Robles (20 chilometri a nord) per giungere al centro della città di Jinotega. Tre i motivi della celebrazione: invocare dal Signore la pace in Nicaragua, la chiusura dell'Anno della Fede e il Giubileo per il centenario della Provincia ecclesiastica. Le parole del vescovo sono state motivate dalla terribile tensione che sta vivendo la popolazione della zona. “La situazione esistente nelle comunità di confine dei comuni di Pantasma e Wiwili influisce perfino sulle celebrazioni religiose delle parrocchie” ha sottolineato mons. Herrera Gutiérrez, riferendo che negli ultimi 15 giorni si è visto un calo sensibile dei fedeli nelle parrocchie di queste comunità contadine, in quanto “soprattutto i giovani hanno paura di finire in mezzo a qualche scontro che si potrebbe scatenare nella zona”. Il vescovo è disposto a fungere da mediatore tra il governo e i gruppi riarmati "se ci fosse un dialogo sincero, un accordo per deporre le armi", e ha aggiunto: "Stiamo invitando i fedeli a pregare, a confidare nel Signore perché ci aiuti. Le armi, la violenza, la guerra, portano situazioni di tristezza e morte, e questo è ciò che non vogliamo". I gruppi armati sono apparsi nel nord del Paese dal 2009, e da luglio 2013 si sono scontrati più volte con l'esercito. Nel mese scorso, due membri dei Cpc (Consigli del Potere Cittadino, una sorta di commissione che affianca il sindaco per le necessità più urgenti della comunità) sono stati uccisi a Wiwili e Pantasma, presumibilmente dai gruppi riarmati. Ciò ha provocato la maggiore presenza dell'esercito e della polizia nella zona. Le forze dell'ordine preferiscono etichettare questi gruppi come "bande", mentre loro stessi si autodenominano "ribelli contro il governo di Daniel Ortega". (R.P.)

    inizio pagina

    India: Premio ‘Madre Teresa’ all’attivista-motociclista che lavora con i bambini soldato

    ◊   Un riconoscimento che "appartiene alle migliaia di bambini soldato in Sudan e nel resto del mondo, che vivono con la paura costante e con la minaccia di attacchi". Così Sam Childers, motociclista americano, ha ringraziato la Harmony Foundation che l'ha insignito del Premio internazionale Madre Teresa per la giustizia sociale. Originario della Pennsylvania, l'uomo ha abbandonato una vita di droga e violenza per abbracciare il cristianesimo. Da 13 anni si batte per liberare dallo schiavismo della guerra i bambini dell'Uganda e del Sudan. La cerimonia di premiazione è avvenuta domenica scorsa al Leela di Mumbai. "Non bisogna mai porre limiti - ha dichiarato Childers all'agenzia AsiaNews - a quello che ognuno di noi può fare per salvare la vita di un bambino. Non posso accettare, né credere, che un bambino innocente debba essere smembrato. Non posso accettare che i bambini debbano perdere orecchie, naso, braccia e gambe. Quando si parla di giustizia sociale è essenziale impegnarsi per ottenerla". Anche sister Prema, superiora delle Missionarie della Carità, ha mandato un messaggio per congratularsi del premio. Noto come Machine Gun Preacher ("predicatore della mitragliatrice"), l'uomo afferma: "La beata Madre Teresa era una donna incredibile, ammiro il suo coraggio. Nonostante gli ostacoli non ha mai fatto un passo indietro dalla sua missione, e io la seguo come esempio. Non limitiamo ciò che possiamo fare per Dio, ed egli non porrà limita a ciò che può fare per noi". Fondata nell'ottobre 2005, la Harmony Foundation lavora per garantire che l'eredità di Madre Teresa sia onorata e che la giustizia sociale prevalga. Abraham Mathai, fondatore e presidente dell'associazione, spiega: "La Harmony Foundation si batte per ridare fiducia alla compassione. Dando un riconoscimento a quelle persone e quelle organizzazioni che lavorano per la società, speriamo di dare risalto a tolleranza, uguaglianza sociale e pace". (R.P.)

    inizio pagina

    Si è spento in Messico padre Inázio Larrañaga fondatore dei Centri di preghiera

    ◊   Mentre stava predicando in Messico, si è spento ieri il cappuccino spagnolo padre Inázio Larrañaga, conosciuto in tutto il mondo per aver fondato nel 1984 i Talleres de Oración y Vida (centri di preghiera), diffusi in 40 Paesi e con oltre 18 mila responsabili dei gruppi sparsi nei vari continenti. Nato a Loyola nel 1928, all’indomani dell’ordinazione sacerdotale fu inviato in Cile, dove ha svolto un’immensa mole di lavoro come predicatore, scrittore e organizzatore di ritiri, corsi di esercizi spirituali e animatore di gruppi ecclesiali. Nel 1965 fondò il Centro di Studi Francescani per l’America Latina, che diresse per un decennio, inserendo la diffusione dello spirito francescano nel clima del rinnovamento conciliare sia nel continente sudamericano che in Spagna. Nel 1974 iniziò in Brasile un originale metodo di evangelizzazione, preparando incontri di preghiera della durata di sei giorni “per avvicinarsi meglio alla conoscenza di Dio”, alla cui direzione, dopo 23 anni, chiamò un gruppo di laici cristianamente impegnati. Nel 1984, dopo 10 anni di preparazione, fondò i Talleres, che nel 1997 furono approvati dal Pontificio Consiglio per i Laici come Associazione Internazionale privata, confermata con Decreto Pontificio nel 2002. Autore apprezzato e stimato di una ventina di libri di alta spiritualità, padre Inazio è conosciutissimo nel mondo latino-americano e in Europa, dove veniva spesso per assistere i Talleres e per incontri di studio e di animazione dei “suoi” gruppi di preghiera. (A cura di Padre Egidio Picucci)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 302

    inizio pagina
    E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.