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Sommario del 08/10/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa indice il Sinodo sul tema "Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”
  • Il Papa: una preghiera fatta col cuore apre la porta a Dio e produce miracoli
  • Tweet del Papa: il segreto della vita cristiana è l'amore, solo l'amore riempie i vuoti del cuore
  • Messa alle Grotte Vaticane per le vittime del naufragio a Lampedusa
  • Il card. Maradiaga: Papa Francesco testimonia che l’autorità è un servizio d’amore
  • Celebrato il 25.mo della "Mulieris dignitatem": Dio affida l'essere umano alla donna
  • Il prof. Paolo Cherubini nominato viceprefetto dell'Archivio Segreto Vaticano
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Lampedusa, recuperati 274 corpi. Il sindaco Nicolini: a Barroso chiederò revisione diritto d'asilo
  • Portare l'amore e l'unità: una testimonianza sull'impegno dei cristiani rimasti in Siria
  • Caritas: in Pakistan è ancora emergenza umanitaria dopo il sisma di fine settembre
  • Myanmar: liberati 56 prigionieri politici, prosegue processo di pacificazione
  • Fao, sicurezza alimentare. Stamoulis: agricoltura per eliminare la fame, serve volontà politica
  • Una catastrofe prevedibile: un libro ricostruisce la tragedia del Vajont 50 anni fa
  • "In hoc signo": un'opera musicale celebra il XVII centenario dell'Editto di Milano
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Serbia: a Nis celebrazione ecumenica per il 1700° dell'Editto di Costantino
  • Iraq. Chiesa assira al Patriarca caldeo: creiamo una Comitato congiunto per il dialogo
  • Pakistan: nelle aree colpite dal sisma, accesso vietato alle Ong straniere
  • Pakistan: un santuario per le vittime cristiane di Peshawar, ancora senza indennizzo del governo
  • Centrafrica. Sedati gli scontri a Bangassou. Il vescovo: ora riconciliare gli animi
  • Gabon: i vescovi invitano i fedeli a non lasciarsi fuorviare da false dottrine
  • Terra Santa: manifestazione dei cristiani contro gli atti intimidatori dei coloni estremisti
  • Nicaragua: cifre allarmanti su minori sfruttati
  • Spagna: il 13 ottobre al via l’Incontro internazionale ebraico-cattolico a Madrid
  • Il Nobel della Fisica ai "padri" del Bosone di Higgs
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa indice il Sinodo sul tema "Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”

    ◊   Papa Francesco ha indetto la terza Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi: si svolgerà in Vaticano, dal 5 al 19 ottobre 2014, sul tema “Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Ce ne parla Sergio Centofanti:

    “Molto importante – ha detto il direttore della Sala Stampa vaticana padre Federico Lombardi - è la indizione di un Sinodo Straordinario sul tema della pastorale della famiglia. Questo è il modo in cui il Papa intende portare avanti la riflessione e il cammino della comunità della Chiesa, con la partecipazione responsabile dell’episcopato delle diverse parti del mondo”.

    “E’ giusto – ha proseguito padre Lombardi - che la Chiesa si muova comunitariamente nella riflessione e nella preghiera e prenda gli orientamenti pastorali comuni nei punti più importanti – come la pastorale della famiglia - sotto la guida del Papa e dei vescovi. L’indizione del Sinodo straordinario indica chiaramente questa via”.

    Riferendosi poi ad articoli relativi a un documento pubblicato da un ufficio pastorale della Diocesi di Friburgo sulla questione dei divorziati risposati, padre Lombardi ha precisato che “proporre particolari soluzioni pastorali da parte di persone o di uffici locali può rischiare di ingenerare confusione. E’ bene mettere in rilievo l’importanza di condurre un cammino nella piena comunione della comunità ecclesiale”.

    Papa Francesco si è soffermato più volte sull’importante tema della famiglia, e in particolare sulla delicata questione della nullità dei matrimoni e sulle seconde unioni. Un problema, aveva ricordato incontrando i sacerdoti romani il 16 settembre scorso, che già Benedetto XVI “aveva a cuore”. “Il problema – aveva detto il Papa – non si può ridurre soltanto” se si possa “fare la comunione o no, perché chi pone il problema soltanto in quei termini non capisce qual è il vero problema”. E’ un “problema grave”, aveva aggiunto, “di responsabilità della Chiesa nei riguardi delle famiglie che vivono in questa situazione”. La Chiesa, aveva affermato ancora, “in questo momento deve fare qualcosa per risolvere i problemi delle nullità” matrimoniali. “Questa - aveva osservato il Papa - è una vera periferia esistenziale”.

    Questa, dunque, sarà la terza Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi. La prima si è svolta nel 1969 sul tema delle Conferenze Episcopali e la collegialità dei vescovi, la seconda nel 1985 sull'applicazione del Concilio Vaticano II.

    La scelta di un’Assemblea straordinaria e non ordinaria del Sinodo dei Vescovi è motivata, secondo quanto afferma l'articolo 4 del Regolamento del Sinodo, dal fatto che "la materia da trattare, pur riguardando il bene della Chiesa universale, esige una rapida definizione", mentre nel caso di un'Assemblea ordinaria "la materia da trattare, per sua natura o per importanza, quanto al bene della Chiesa universale, sembra richiedere la dottrina, la prudenza e il parere dell'intero Episcopato cattolico".

    All'Assemblea generale straordinaria partecipano: i patriarchi, gli arcivescovi maggiori, i metropoliti delle Chiese Metropolitane sui iuris delle Chiese Orientali Cattoliche; i presidenti delle singole Conferenze episcopali nazionali; i presidenti delle Conferenze episcopali di più nazioni, costituite per quelle nazioni che non hanno una Conferenza propria; tre religiosi in rappresentanza degli Istituti religiosi clericali, eletti dall'Unione dei superiori generali; i capi dei Dicasteri della Curia Romana.

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    Il Papa: una preghiera fatta col cuore apre la porta a Dio e produce miracoli

    ◊   Un cuore che sa pregare e sa perdonare. Da questo si riconosce un cristiano. Lo ha spiegato questa mattina Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta in Casa Santa Marta. E proprio dal Vangelo dedicato alla Santa cui è intitolata la sua residenza, il Papa ha preso le mosse per ricordare che la “preghiera fa miracoli”, purché non sia frutto di un atto meccanico. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    Marta e il profeta Giona. Queste figure plastiche del Nuovo e dell’Antico Testamento, presentate dalla liturgia odierna, erano accomunate da una identica incapacità: non sapevano pregare. Papa Francesco ha sviluppato l’omelia su questo aspetto, partendo dalla famosa scena del Vangelo in cui Marta chiede quasi in tono di rimprovero a Gesù che la sorella l’aiuti a servire, invece di rimanere ferma ad ascoltarlo, mentre Gesù replica: “Maria ha scelto la parte migliore”. E questa “parte”, ribadisce Papa Francesco, è “quella della preghiera, quella della contemplazione di Gesù”:

    “Agli occhi della sorella era perdere tempo, anche sembrava, forse, un po’ fantasiosa: guardare il Signore come se fosse una bambina meravigliata. Ma chi la vuole? Il Signore: ‘Questa è la parte migliore’, perché Maria ascoltava il Signore e pregava col suo cuore. E il Signore un po’ ci dice: ‘Il primo compito nella vita è questo: la preghiera’. Ma non la preghiera di parole, come i pappagalli; ma la preghiera, il cuore: guardare il Signore, ascoltare il Signore, chiedere al Signore. Noi sappiamo che la preghiera fa dei miracoli”.

    E la preghiera produce un miracolo anche nell’antica città di Ninive, alla quale il profeta Giona annuncia su incarico di Dio l’imminente distruzione e che invece si salva perché gli abitanti, credendo alla profezia, si convertono dal primo all’ultimo invocando il perdono divino con tutte le forze. Tuttavia, anche in questa storia di redenzione il Papa rileva un atteggiamento sbagliato, quello di Giona, più disposto a una giustizia senza misericordia in modo analogo a Marta, incline a un servizio che esclude l’interiorità:

    “E Marta faceva questo: faceva cosa? Ma non pregava! Ci sono altri come questo testardo Giona, che sono i giustizieri. Lui andava, profetizzava, ma nel suo cuore diceva: ‘Ma se la meritano. Se la meritano. Se la sono cercata!’. Lui profetizzava, ma non pregava! Non chiedeva al Signore perdono per loro. Soltanto li bastonava. Sono i giustizieri, quelli che si credono giusti! E alla fine – continua il Libro di Giona – si vede che era un uomo egoista, perché quando il Signore ha salvato, per la preghiera del popolo, Ninive, lui si è arrabbiato col Signore: ‘Tu sempre sei così. Tu sempre perdoni!’.

    Dunque, conclude Papa Francesco, la preghiera che è solo formula senza cuore, come pure il pessimismo o la voglia di una giustizia senza perdono, sono le tentazioni dalle quali un cristiano deve sempre guardarsi per arrivare a scegliere “la parte migliore”:

    “Anche noi quando non preghiamo, quello che facciamo è chiudere la porta al Signore. E non pregare è questo: chiudere la porta al Signore, perché Lui non possa fare nulla. Invece, la preghiera, davanti a un problema, a una situazione difficile, a una calamità è aprire la porta al Signore perché venga. Perché Lui rifà le cose, Lui sa arrangiare le cose, risistemare le cose. Pregare è questo: aprire la porta al Signore, perché possa fare qualcosa. Ma se noi chiudiamo la porta, il Signore non può far nulla! Pensiamo a questa Maria che ha scelto la parte migliore e ci fa vedere la strada, come si apre la porta al Signore”.

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    Tweet del Papa: il segreto della vita cristiana è l'amore, solo l'amore riempie i vuoti del cuore

    ◊   Il Papa ha lanciato un nuovo tweet: “Il segreto della vita cristiana è l'amore – scrive - Solo l'amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nei cuori”.

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    Messa alle Grotte Vaticane per le vittime del naufragio a Lampedusa

    ◊   Domani mattina alle 8.00, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, presiederà all’altare del Sepolcro di San Pietro, nelle Grotte della Basilica Vaticana, una Messa di suffragio per le vittime del tragico naufragio avvenuto al largo dell’isola di Lampedusa. Concelebrano i vescovi di Rito Alessandrino Ge’ez provenienti dall’Etiopia e dall’Eritrea, in questi giorni a Roma per un incontro programmato da tempo con il dicastero. Tra le vittime del naufragio vi sono numerosi fedeli di questa antica Chiesa orientale. Al rito parteciperà, insieme ai superiori e agli officiali della Congregazione, anche la comunità del Pontificio Collegio Etiopico che accoglie in Vaticano i sacerdoti etiopici ed eritrei che studiano a Roma.

    Al termine – riferisce un comunicato del dicastero – “i presuli orientali prenderanno parte all’udienza generale, unendosi alla preghiera di Papa Francesco per quanti hanno perso la vita e per le famiglie che li piangono ed esprimendo la più filiale riconoscenza per il ripetuto appello di Sua Santità alla solidarietà di tutti affinché mai più accadano simili tragedie”.

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    Il card. Maradiaga: Papa Francesco testimonia che l’autorità è un servizio d’amore

    ◊   Papa Francesco vuole una Chiesa che esca nel mondo per annunciare con coraggio la Buona Novella. E’ quanto sottolineato dal cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, intervenuto ieri sera - presso la Sala Marconi della nostra emittente - alla presentazione del libro “Il Papa vicino” di don Michele Giulio Masciarelli, pubblicato dalla Tau Editrice. Nel servizio di Alessandro Gisotti, ascoltiamo alcune considerazioni del cardinale Maradiaga sulla riforma del governo della Chiesa:

    Sinodalità. E’ questa la parola chiave per comprendere la riforma che Papa Francesco vuole imprimere al governo della Chiesa. Il cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga, coordinatore del “Consiglio di Cardinali”, che si è riunito nei giorni scorsi in Vaticano con il Papa, mette l’accento su come Francesco concepisca l’autorità:

    “Per avere autorità non è necessario nessun centralismo. L’autorità è un servizio di amore per far crescere. Anche così, l’autorità del Santo Padre nella Chiesa non è la monarchia assoluta, un ‘qui comando io’. E’ un autore: un autore che ogni giorno scrive una nuova pagina di questo libro della vita e va aggiungendo, pagina dopo pagina, a una Chiesa che è viva”.

    Il porporato honduregno rammenta, dunque, che quello dei giorni scorsi è stato solo il primo incontro del “Consiglio di cardinali” a cui ne seguirà un altro a dicembre. C’è dunque molto da fare ancora. Conferma, tuttavia, il metodo di lavoro, voluto proprio dal Papa in vista della riforma della Curia:

    “Il metodo é un sondaggio il più ampio possibile, di tutti i cardinali, vescovi, sacerdoti e anche laici, ovunque, per avere il numero maggiore possibile di apporti per una nuova riforma”.

    Il cardinale Maradiaga ha ricordato quanto sia stata importante la Conferenza del Celam ad Aparecida nel 2007, dove l'allora cardinale Bergoglio aveva sottolineato l’urgenza di una Chiesa che non avesse paura di uscire da se stessa per vincere la tentazione di una stanca autoreferenzialità. Rispondendo poi alle domande dei giornalisti, il presidente di Caritas Internationalis si è, quindi, soffermato sul tema della collegialità negli anni del post Concilio:

    “Forse non c’è stata l’opportunità di svilupparla perché c’erano interessi in altri punti, come per esempio la riforma liturgica … anche tutto l’aspetto della pastorale sociale … certo, c’erano tantissime cose. Ma adesso si pensa che sia giunto il momento”.

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    Celebrato il 25.mo della "Mulieris dignitatem": Dio affida l'essere umano alla donna

    ◊   Un dialogo “nella Chiesa e come Chiesa” sulla Lettera Apostolica Mulieris dignitatem del Beato Papa Giovanni Paolo II, pubblicata il 15 agosto 1988. A 25 anni dal documento sulla dignità e la vocazione della donna, il Pontificio Consiglio per i Laici, presieduto dal cardinale Stanislaw Rylko, ne promuove in Vaticano una rinnovata riflessione con il Seminario di studio “Dio affida l’essere umano alla donna”, dal 10 al 12 ottobre a Palazzo San Calisto. All’evento partecipano esperti e rappresentanti di associazioni e movimenti ecclesiali, provenienti da 25 Paesi e da diverse aree professionali: teologi, filosofi, educatori, docenti universitari, giornalisti, storici, medici. Un’occasione, il Seminario, per “impegnarsi a fondo e dare il proprio contributo per chiarire il valore unico del ruolo della donna nella salvaguardia dell’humanum”. Ce ne parla Ana Cristina Villa Betancourt, responsabile della Sezione donna del Pontificio Consiglio per i Laici, intervistata da Giada Aquilino:

    R. – Crediamo davvero che la Mulieris dignitatem, oltre ad essere molto importante, perché è il primo documento del magistero pontificio totalmente dedicato alla questione della donna, sia ricchissima nel presentare l’antropologia cristiana in modo molto accessibile. Vediamo quindi la Lettera Apostolica come un importante faro illuminante sulle questioni che stanno sorgendo sempre più urgenti, che richiedono sempre più un intervento dei cristiani.

    D. – Quali sono stati fin qui i frutti spirituali e pastorali della Lettera apostolica? E quindi com’è cambiato in questi anni il ruolo della donna nella Chiesa?

    R. – Credo che i frutti spirituali siano stati molti e molto importanti, perché già il fatto che esista un documento di riferimento per tutte le questioni della donna nella Chiesa e nella società, nel Magistero pontificio, rappresenta veramente un fondamento. Pensiamo, però, che ci sia ancora molto da fare: da una parte in ambito sociale per via della crisi antropologica sempre più grave, sempre più seria che viviamo, e dall’altra anche nella Chiesa. Pensiamo poi ai richiami costanti che sta facendo Papa Francesco per una riflessione sul ruolo della donna nella Chiesa.

    D. – Ha citato le sollecitazioni di Papa Francesco, che sono state diverse. Per esempio, a inizio Pontificato, ha chiamato tutti - uomini e donne - a essere custodi del Creato. Cos’ha inteso dire, secondo lei, il Papa?

    R. – Per noi, sentire questa frase è stato molto interessante: stavamo già lavorando alla preparazione di questo Seminario, il cui titolo è preso dalla Mulieris dignitatem, in cui Giovanni Paolo II dice che Dio affida l’essere umano alla donna, proprio per la sua speciale capacità e forza dell’amore. Ci sembrava di vedere una sintonia in questo richiamo alla custodia dell’essere umano, che è un compito di tutti, in cui la donna però forse ha un ruolo speciale, un suo ruolo specifico da dover giocare. Vogliamo allora mettere in risalto questo aspetto.

    D. – Non a caso Papa Francesco più volte – per esempio, durante il viaggio di ritorno da Rio, ma anche recentemente alle udienze – ha parlato di Chiesa “come madre” e ha anche pregato nella Solennità dell’Assunzione affinché la Chiesa approfondisca e capisca di più l’importante ruolo della donna. Allora, come accogliere le parole del Santo Padre?

    R. – E’ vero che la donna con questa identità materna, in tutto quello che fa, può dare tanto di se stessa, se non perde contatto con questa sua maternità in tutto quello che fa, perché maternità indica in primo luogo la madre che cura, che custodisce i figli da quando sono nel suo grembo e poi sempre nella loro vita. Anche la maternità però è una dimensione femminile da esprimere in ogni campo in cui è presente la donna. Una delle analisi, per esempio, che faremo al Seminario è che di fatto in questi 25 anni la presenza delle donne nella società, in tutti gli ambiti, è aumentata. Questa è una ricchezza, è un passo avanti da salutare con gioia. Vorremmo chiedere, però, se sia presente e inserita in questi ambiti con il suo ruolo specifico di donna. Forse, tante volte, la società ci chiede di rinunciare a tale specifico femminile per essere presenti, inserite ed entrare in una certa mentalità competitiva.

    D. – Proprio perché gli spunti di Papa Francesco sono stati tanti, anche nell’intervista alla "Civiltà Cattolica", facciamo qualche esempio: cosa è mancato fino ad ora e cosa deve cambiare?

    R. – Si vede da quanta inquietudine suscitano le parole di Papa Francesco, quando lui richiama ad una maggiore presenza. C’è, infatti, il senso che ancora manchi qualcosa: mancano, forse, una maggiore presenza e un maggior dialogo in certi posti dove si prendono le decisioni. Manca il contare su un dialogo comune e reciproco tra uomini e donne, quando invece nei documenti si auspica che ci sia sempre di più nella Chiesa.

    D. – La Mulieris dignitatem afferma che l’essere umano esiste “sempre e solo come femmina e come maschio”. Che peso assume, quindi, questa affermazione nell’attuale dibattito culturale e antropologico?

    R. – Questo è uno dei temi che vorremmo affrontare quando vediamo le molte facce della crisi di oggi, per cui abbiamo inserito ad esempio il problema della famosa "ideologia del gender", che sta cercando di farci pensare che l’esistere come uomo o come donna in realtà sia una costruzione sociale e non una questione fondamentale dell’identità di ogni persona. Vogliamo allora ricordare la ricchezza dell’antropologia cristiana. Questo, senz’altro, aiuterà nel coinvolgimento delle persone che devono lavorare in tal senso.

    D. – Tra i temi del Seminario, c’è la crisi d’identità dell’uomo e della donna, ma si parla pure di aborto, contraccezione, fine vita. Che quadro ne esce, dunque, della donna?

    R. – Basta accendere la televisione per vedere tante cose che non vanno nella vocazione della donna, ma anche nella vocazione dell’uomo, essendo poi intrinsecamente legate. Si vede che abbiamo perso un certo senso di chi siamo, chi dobbiamo essere e come dobbiamo vivere insieme.

    D. - Il cosiddetto "femminicidio", le persecuzioni religiose, lo sfruttamento sessuale, ma anche l’oltraggio alla dignità delle donne, che può andare dalla violenza fisica a quella morale. Come affrontare questi temi alla luce della Mulieris dignitatem?

    R. – Ci sono sempre più esperti in ambito cattolico, ma anche fuori, che stanno analizzando con occhi molto critici la rivoluzione sessuale e il cambiamento antropologico che essa ha portato: il cambiamento dell’immagine che la donna ha di sé, dell’immagine che l’uomo ha di sé e dell’immagine del rapporto reciproco. Credo che questo sarà un altro momento importante del Seminario, quando ci chiederemo cosa è successo. La rivoluzione sessuale non è solo una rivoluzione delle abitudini esterne, ma qualcosa che cambia l’essere umano antropologicamente. Tra le persone che parteciperanno al Seminario, abbiamo poi donne che sono leader di diversi progetti per la protezione di altre donne, vittime di violenza. In situazioni di conflitto, infatti, tante volte le donne soffrono la violenza sessuale in primo luogo, ma vengono anche colpite dalla povertà e dal conflitto stesso. Sono loro, infatti, che devono cercare di tenere insieme una situazione che sta collassando. Parlavo in questi giorni con una di queste donne, che parteciperà ai lavori, e mi diceva: “Le luci che mi dà il magistero pontificio sono quelle che poi vado a trasmettere alla donna che ha sofferto, che sta cercando di rimettere insieme la propria vita, dopo una situazione di conflitto, in cui è stata vittima di violenze di tutti i tipi”. Per me, è stato molto toccante vedere come tutto questo sia vita: queste parole non sono parole morte, sono parole che diventano vita e che illuminano la strada di persone che devono rispondere a situazioni drammatiche.

    D. – C’è un caso particolare che lei ricorda?

    R. – Ho conosciuto recentemente la situazione di una fondazione in aiuto alle vittime della violenza in Colombia, che è il mio Paese, grazie ad una donna che cerca di andare in soccorso a tutte le vittime. La maggioranza di quelle che la fondazione aiuta a rimettere in sesto la propria vita è rappresentata da donne che devono portare avanti da sole le famiglie, ferite da situazioni di conflitto molti gravi. Sono vittime della violenza della guerriglia delle Farc, ma non solo. Il conflitto in Colombia, infatti, è complesso e ci sono vittime da molte parti. Normalmente, sono donne sfollate, che hanno dovuto lasciare le loro terre e che si trovano in città povere con i loro bambini, mentre i mariti sono andati a combattere o sono morti in combattimento.

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    Il prof. Paolo Cherubini nominato viceprefetto dell'Archivio Segreto Vaticano

    ◊   Il Santo Padre ha nominato viceprefetto dell'Archivio Segreto Vaticano il prof. Paolo Cherubini, docente di Paleografia latina presso l'Università di Palermo e la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Chi sceglie la parte migliore: Messa del Papa a Santa Marta.

    Nell’ottobre 2014 un Sinodo straordinario sulla famiglia.

    Una Chiesa aperta: il cardinale Fermando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha concluso la visita pastorale in Corea.

    Profughi d’Europa: un’altra notte all’addiaccio per centinaia di persone al centro di prima accoglienza di Lampedusa.

    Niente di nuovo negli ateismi moderni: in cultura, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, su quella opposizione tra empirismo e razionalismo che lascia fuori l’uomo.

    Il mistero degli elenchi scomparsi: nel libro “Portico d'Ottavia n.13” di Anna Foa l’ipotesi di un intervento diplomatico segreto del Vaticano per salvare gli ebrei dalla persecuzione nazifascista.

    Un articolo di Luigi Testa dal titolo “E Pio XII arriva sui Social Network”: il 9 ottobre 1958 moriva Papa Pacelli.

    Diario di un curato di campagna (in Sicilia): Giuseppe Costa recensisce il film di Gianni Virgadaula “La domenica del Signore”.

    L’articolo di Riccardo Bigi, pubblicato sul settimanale “L'Osservatore Toscano”, dedicato a don Ugo Corsini e Antonio Gigli dichiarati - il primo ottobre - Giusti delle Nazioni.

    La magnifica storia dell’evangelizzar cantando: Vincenzo De Gregorio sulla musica sacra popolare.

    L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, sulla Bibbia in famiglia per educare all’ascolto di Dio.

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    Oggi in Primo Piano



    Lampedusa, recuperati 274 corpi. Il sindaco Nicolini: a Barroso chiederò revisione diritto d'asilo

    ◊   A Lampedusa, continuano ormai da quasi una settimana le due azioni distinte e parallele seguite al tragico naufragio di giovedì scorso: l’aiuto ai superstiti e il recupero delle vittime. I cadaveri sottratti dai sommozzatori al relitto che giace a 40 metri di profondità sono saliti a 274, ma la triste operazione andrà ancora avanti. Uno dei tanti eritrei tratti in salvo ha detto oggi che il numero delle persone imbarcate sul peschereccio affondato era di 545. Sull’isola, intanto, è attesa per domani la visita del presidente della Commissione europea, Barroso, e del premier italiano, Enrico Letta. Anche le Caritas della Sicilia sono riunite in questi giorni sull’isola con 40 rappresentanti, dal cui primo incontro sono scaturite tre proposte concrete: la disponibilità ad accogliere fino a 200 profughi, attualmente ospiti del sovraffollato centro di Contrada Imbricola, la possibilità di ospitare in albergo almeno alle donne e ai bambini e quella di aprire, dal mese prossimo, un centro Caritas permanente a Lampedusa. Sulla solidarietà dei lampedusani e sulla situazione di emergenza ancora persistente, Elvira Ragosta ha raccolto la testimonianza del sindaco Giusi Nicolini:

    R. – Vorremmo poter fare di più. Ci sono famiglie che vorrebbero ospitare i bambini che, in questo momento, non hanno condizioni dignitose di accoglienza nel Centro. Questo però ci viene impedito, perché le nostre leggi in materia di accoglienza in realtà sono leggi che hanno un’impronta securitaria. Si perde di vista l’uomo: questo è sbagliato, questo va cambiato!

    D. – C’è stato anche il grande interessamento del vescovo di Agrigento…

    R. – Il vescovo Montenegro è una persona cui sono riconoscente in maniera veramente incommensurabile, perché anche nel passato, nel 2011 - io non ero ancora sindaco - quando veramente lo Stato ci ha abbandonanti completamente, lasciando qui settemila tunisini in mezzo alla strada, il padre vescovo era qui. Il Papa ha espresso il desiderio di fare qualcosa per i bambini e credo che prestissimo ci sarà una ludoteca per loro, per poter passare in maniera diversa queste giornate, in attesa di trovare un posto migliore dove essere accolti.

    D. – Domani, arriveranno a Lampedusa il presidente della Commissione europea Barroso e il premier italiano Letta. Che cosa chiederete?

    R. – Chiaramente, chiederemo, con un’unica voce, la riforma del diritto di asilo. Non è possibile applicare il diritto di asilo nei confronti di chi viene a chiederlo a nuoto e deve prima diventare naufrago, deve ulteriormente degradare la sua umanità. I “corridoi umanitari” è uno slogan, ma bisogna tradurlo in atti concreti e fattibili. E questo riguarda l’Europa. Quello che, invece, riguarda il governo italiano è un sistema di accoglienza dignitoso e la riforma della Bossi-Fini, che è una legge sbagliata e ingiusta, perché tra l’altro produce come risultato l’iscrizione nelle liste degli indagati di persone che in questo momento avrebbero bisogno anzitutto di non stare ammassati in un centro sovraffollato e avrebbero bisogno di tutta l’assistenza, anche psicologica… Non di essere trattati come criminali.

    D. - A proposito del Centro di accoglienza, l’Acnur ha chiesto che ritorni a poter ospitare - in condizioni umane - 250 posti, come era all’inizio, e non più di 900 come sono ora…

    R. - A parte il numero dei posti, il principio indefettibile deve essere che non si deve mai superare la ricettività del Centro: perché se i posti in questo momento fossero 800, probabilmente ce ne terrebbero duemila. Questo è il principio. Chi arriva qui come naufrago, viene soccorso, ricoverato nel Centro di accoglienza, e deve essere trattenuto non più di 72 ore, come dicono le linee guida del Ministero della Salute. Poi, deve essere trasferito in centri di seconda accoglienza, per iniziare poi il percorso dell’integrazione: perché voglio ricordare che parliamo di profughi richiedenti asilo, che non sono soggetti rimpatriabili e che rimarranno nel nostro territorio, secondo quanto prevede Dublino. Certo, vanno ricostruiti i due padiglioni distrutti dall’incendio del 2011: ci sono ritardi enormi su questi lavori. Ma intanto questo non può giustificare il fatto che a fronte di 250 posti letto, ci siano lì dentro - in questo momento - quasi mille persone, tra cui 160 minori accompagnati, famiglie di siriani con bambini piccoli, anche neonati… Questo è inaccettabile e deve essere risolto subito!

    Sull’isola intanto si segnalano forti tensioni e proteste nel Centro di accoglienza, dove i migranti denunciano una vita in condizioni disumane. Francesca Sabatinelli:

    Oltre 900 persone in una struttura che attualmente ne potrebbe contenere 250. E’ la situazione nel centro di prima accoglienza di Lampedusa che, dall’incendio che lo distrusse nel 2011, non è mai stato ristrutturato. Le condizioni di vita sono inaccettabili, denuncia l’Acnur (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), i profughi sopravvissuti al naufragio di giovedì scorso si sono aggiunti a tutti coloro che quotidianamente arrivano in Italia alla ricerca di protezione. Per tre giorni, intere famiglie sono state costrette a vivere sotto la pioggia battente. L’Italia deve dare risposte: è l’appello che lancia Terre des Hommes, presente a Lampedusa con il progetto "Faro" di assistenza psicologica e psicosociale in favore dei minori stranieri non accompagnati e delle famiglie con bambini. La responsabile del progetto Federica Giannotta:

    R. – Ieri, c’erano 161 bambini, tutti piccoli, con famiglie. Quindi, non parliamo più di minori stranieri non accompagnati, ai quali siamo "abituati", cioè ragazzi che arrivano soli, anche in un’età diversa: si parla di bambini davvero molto piccini. Ci sono state addirittura delle nascite recentemente, nel Centro, in situazioni che non sono quelle di un’accoglienza che la stessa legge italiana prevedrebbe. Noi non intendiamo puntare il dito su nessuno, gli operatori si stanno dando un grandissimo da fare all’interno del Centro, perché la situazione è assolutamente emergenziale. Vogliamo invece dare una visione un po’ più ampia: tutto questo poteva essere prevedibile, perché il Centro non era stato adeguatamente ristrutturato già da prima, non si erano immaginate soluzioni alternative, anche sulla stessa isola, quantomeno per i bambini con le famiglie, per i ragazzi giovani, per i minori stranieri, per i quali avevamo chiesto di poter pensare a soluzioni alternative e non soltanto noi, c’è stata una pressione, in questo senso, ma ancora non si è arrivati, purtroppo, a trovare altre strade. E questa è la situazione che oggi ci troviamo di fronte, e questa non è accoglienza.

    D. – "Terre des Hommes" non punta il dito contro nessuno. Però, insomma, denunciare è giusto. A vostro giudizio, quale soluzione almeno per adesso?

    R. – Il nostro punto di vista è su tre assi: innanzitutto, non considerare più il fenomeno come un’emergenza, perché sono 20 anni e non è più possibile immaginare una politica di questo tipo. Secondo: garantire un arrivo sicuro, quindi immaginare la costruzione di un corridoio umanitario per poter fare arrivare le persone sane e salve, perché un bambino non debba più perdere la vita nel Mediterraneo e in nessun altro posto. Terzo: è ormai una richiesta chiara all’Unione Europea, che si modifichino le attuali posizioni in materia di gestione dei flussi immigratori, quindi la disciplina deve cambiare. A livello italiano la Bossi-Fini deve essere modificata e deve essere data poi una protezione ai profughi, alla gente che chiede, appunto, una tutela perché sta fuggendo da guerre, da situazioni emergenziali. A queste persone deve essere garantita una protezione immediata e la possibilità del ricongiungimento ai propri familiari e la possibilità, poi anche, di raggiungere quelle zone dell’Unione Europea per le quali loro si sono messi in cammino, perché hanno la possibilità di ritrovare un tessuto familiare, o comunque sociale, più vicino a loro. Quindi, anche lo spostamento all’interno dell’Unione Europea dev’essere più facile. E’, pertanto, una visione a tutto tondo, quella che abbiamo: dalla partenza – una partenza sicura – ad un arrivo protetto e poi una possibilità di un movimento all’interno dell’Unione Europea, per persone che devono essere riconosciute come persone vittime di violenze.

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    Portare l'amore e l'unità: una testimonianza sull'impegno dei cristiani rimasti in Siria

    ◊   Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha proposto al Consiglio di sicurezza la creazione di una "missione comune" dell'Onu e dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche per eliminare l'arsenale chimico siriano. Una missione avrebbe una base operativa a Damasco e un'altra arretrata d'appoggio a Cipro. Intanto sul terreno continuano le violenze: l'aviazione governativa ha bombardato oggi le forze dei ribelli che nella provincia nord-occidentale di Idlib hanno lanciato un'offensiva per catturare due basi militari strategiche. Sulla condizione economico–sociale che si vive oggi nel Paese, Adriana Masotti ha raccolto la testimonianza di Giovanna, un’italiana in questi giorni a Roma, ma che da anni abita in Siria:

    R. - In Siria, la vita continua a essere terribilmente difficile per tutti: per la paura, per lo stress e la povertà che comincia a toccare larghissime fasce della popolazione. I prezzi sono alle stelle, la gente pensa solo a garantirsi il cibo perché tutto il resto è diventato superfluo. In questi ultimi giorni, per esempio, in certe zone di Aleppo una bombola di gas ha raggiunto il presso di 18 mila lire siriane che corrispondono a un buon stipendio mensile e la rabta, il pacchetto di otto pezzi del buon pane arabo, adesso sfiora le 800 lire, mentre l’anno scorso lo si trovava a 45. Le scuole hanno riaperto da poco, ma un quaderno che prima costava 100 lire, adesso ne costa 600. L’insicurezza nel Paese è sovrana: in tante località o quartieri delle città si convive con il rischio, e quando si esce di casa ci si chiede: “Rientreremo?”. Poi per quanto riguarda i rapporti tra la gente, in questi due anni e mezzo di conflitto ho visto il dialogo diventare sempre più difficile e a volte diventare impossibile; ho visto calpestata la cultura di convivenza pacifica dei siriani anche se la gente, in tante parte del Paese, continua a voler vivere insieme. Bisogna poi dire che l’odio tra sunniti e alawiti diventa sempre più reale. A livello di popolo con l’inizio delle violenze, è poi cominciata a serpeggiare tra i cristiani la paura anche per l’entrata nel Paese di gruppi armati terroristici dichiaratamente ostili ai cristiani, i quali possono essere uccisi solo perché portano questo nome.

    D. - E infatti in tanti hanno lasciato il Paese. Ma tanti altri hanno deciso di restare. Che cosa li ha spinti a rimanere?

    R. - Hanno scoperto che è bene restare nel proprio Paese perché hanno preso coscienza di avere un ruolo come il lievito nella massa. Noi ci sentiamo con tanti alla scuola di Gesù, che ci ripete: “Ama! Amate! Restate uniti! Perdonate!”. E allora, ed è quasi un miracolo che ci stupisce, viviamo per così dire fuori di noi, per gli altri, non pensiamo che ad amare, ad aiutare con azioni concrete: c’è chi ha perso la casa, il lavoro. Continuiamo soprattutto a disarmarci di fronte ai risentimenti, alla rabbia che si può provare nel cuore. E questo ci fa restare in una certa “normalità”.

    D. - Anche lei, anche se appunto di origini straniere, ha deciso di restare in Siria. Qual è l'esperienza che sta vivendo in questi anni?

    R. - Direi che è una forte esperienza di Vangelo. Di fronte all'assurdità della guerra e alle domande che la morte e la distruzione suscitano, la risposta non è mai scontata: ogni volta devo pescarla in fondo al cuore, alla mente, dove risuona ben chiaro quel grido di Gesù: "Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?". E, a volte, riesco solo a ripetere: "Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito!". Un giorno, dopo l'ennesimo attentato mi sono chiesta se la mia vita non avesse forse più senso in un altro posto. Mi ha sorpreso la forza e la chiarezza della risposta che mi sono trovata dentro: "No! Perchè tu vivi per amare e qui o là è la stessa cosa!". Ed è questo che mi convince a continuare, insieme agli altri, a restare in Siria.

    D. - Come per ogni guerra, è difficile da fuori conoscere la verità di quanto sta accadendo a livello politico. Ci può aiutare a fare un po’ di chiarezza?

    R. - Io non mi sento all’altezza di fare un’analisi politica, però posso testimoniare che la crisi ha colto impreparata la stragrande maggioranza dei siriani. Di fronte al vacillare della sicurezza e della pace c’era chi voleva che questa sicurezza e questa pace rimanessero a tutti i costi. C’era chi invece in nome della libertà, delle riforme, o anche di altri interessi era pronto a metterle in gioco. Dall’inizio delle manifestazioni di protesta, gran parte della popolazione era con il presidente, poiché vedeva in lui la persona capace di procedere sulla via delle riforme e di evitare al Paese di cadere nell’anarchia. C’era poi una parte della popolazione che subito ha dichiarato la mancanza di fiducia nel regime, ma ha mantenuto il desiderio che la Siria rimanesse unita. Invece, purtroppo, poche settimane dopo l’inizio delle prime manifestazioni, abbiamo visto che forze di provenienza - anche lontana - si sono infiltrate nel Paese per dividere e frazionare il tessuto sociale che fino ad allora si appoggiava sulla laicità e armi e soldi sono stati distribuiti in grande abbondanza da Paesi vicini e lontani. Poi nel corso del conflitto, si sono manifestati altri progetti, come per esempio, quello di islamizzazione del Paese secondo modelli integralisti e quello economico legato alla produzione del gas.

    D. - Si è arrivati ad un passo dall’intervento armato dei Paesi occidentali, per fortuna l’ipotesi sembra ora che si sia allontanata. Che cosa potrebbe invece veramente portare la pace in Siria?

    R. - Mi sembra che non si uscirà da questa guerra civile se non con il cessare immediato dei combattimenti e con la volontà sincera di dialogo da entrambe le parti guardando al bene della popolazione che è la vera ricchezza del Paese.

    D. - Che cosa può fare l’opinione pubblica, ciascuno di noi, le comunità cristiane per sostenere tutto il popolo siriano?

    R. - Occorrerebbe che tutti diventassimo delle sentinelle della pace, cioè non credere assolutamente mai che la via della guerra sia quella giusta. Occorrerebbe, forse, anche uscire da una certa pigrizia intellettuale che ci lascia contenti delle informazioni ricevute, senza approfondire, e ancora promuovere sicuramente, come già si sta facendo, aiuti umanitari e pregare come a Piazza San Pietro. Io non posso descriverle che cosa abbia significato per la Siria quella giornata di digiuno e di preghiera del 7 settembre. Lì la speranza è sbocciata. Una mia collega musulmana ha commentato: “Noi abbiamo capito molto bene oggi come in tutto il mondo i cristiani fanno la loro guerra all’odio con la preghiera e come sono sicuri che arriveranno alla pace proprio attraverso la preghiera”.


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    Caritas: in Pakistan è ancora emergenza umanitaria dopo il sisma di fine settembre

    ◊   Difficile la situazione in Pakistan a distanza di due settimane dal terremoto che ha colpito il Baluchistan sud occidentale. I dati ufficiali parlando di circa 500 vittime. Diverse centinaia i feriti. Ricordiamo che lo scontro tra le faglie nel Mar Arabico ha fatto emergere un isolotto a circa mezzo miglio dal porto di Gwadar. Massimiliano Menichetti ha intervistato Fabrizio Cavalletti, dell’ufficio Asia di Caritas Italiana che sta seguendo l'emergenza:

    R. – La situazione sul territorio rimane molto grave per l’entità del disastro, anche perché i terremoti sono stati due. Ce stata una prima scossa – la più forte, di magnitudo 7.8 – il 24 settembre. Poi c'è stato un secondo movimento, il 28 settembre, di magnitudo 6.8. Il numero dei morti è salito a oltre 500. Si stimano circa 35 mila abitazioni cadute e una popolazione di circa 150-200 mila unità direttamente o indirettamente colpite dal sisma.

    D. – In che condizioni si cerca di aiutare queste persone?

    R. – In un territorio in cui le difficoltà di azione sono molto forti, perché è un territorio molto instabile e dove è presente il terrorismo. E’ un territorio molto insicuro.

    D. – La Caritas è stata tra le prime ad intervenire. Che cosa state facendo?

    R. – Caritas Pakistan, in particolare, in collaborazione con altre Caritas di tutto il mondo che la supportano e in coordinamento con le altre agenzie umanitarie e ovviamente con il governo locale, ha iniziato un lavoro per rispondere ai bisogni primari della popolazione, soprattutto tende, fornitura di kit igienici, cibo. Quindi, diamo una risposta alle persone che si trovano sfollate, senza casa e hanno necessità di tutto.

    D. – Siamo ancora in una fase emergenziale, oppure le cose stanno andando meglio?

    R. - Totalmente emergenziale! E come dicevo c’è una difficoltà anche di azione e di risposta, perché è un territorio molto insicuro. Anche l’aiuto portato da Caritas Pakistan sconta un po’ questo, subendo quindi una difficoltà di accesso e di movimento. Questo amplifica i bisogni della popolazione e rende la situazione difficile, con la necessità di rispondere ancora ai bisogni primari.

    D. - Che cosa serve?

    R. - Al momento, ciò che si può fare è quello di stare accanto il più possibile alle organizzazioni locali che stanno cercando di operare e, in particolare, per quanto ci riguarda la Caritas Pakistan, cercando di sostenerla da un punto di vista finanziario, per poter fare in modo che almeno abbia la possibilità di provvedere all’aiuto di cui c’è necessità, senza troppe difficoltà e senza troppi ritardi.

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    Myanmar: liberati 56 prigionieri politici, prosegue processo di pacificazione

    ◊   In Myanmar, prosegue il processo di pacificazione interna. Sono stati, infatti, liberati 56 prigionieri politici. Si tratta di un ulteriore passo verso la scarcerazione di tutti i dissidenti entro la fine dell'anno, così come annunciato dal presidente Thein Sein. Tuttavia diverse sono ancora le proteste negli ambienti dell’opposizione, guidata da Aung San Suu Kyi, e delle minoranze etniche, che lamentano come le autorità continuino a perseguire le opposizioni. Sulla situazione nell’ex Birmania, Giancarlo La Vella ha intervistato il prof. Giuseppe Gabusi, docente di Relazioni Internazionali dell’Asia orientale all’Università Cattolica di Milano:

    R. – Non parlerei di un processo sicuramente irreversibile. Siamo certamente in presenza di un grande fermento democratico, di un’apertura del Paese che soltanto due-tre anni fa sarebbe stata assolutamente inimmaginabile: e va aiutata, la Birmania, a perseguire questo processo, ricordando però che un possibile colpo di Stato da parte di qualche fazione all’interno dell’esercito, contraria a questo tipo di riforme, è sempre possibile.

    D. – Attualmente, l’opposizione è entrata in Parlamento. Da questo confronto tra l’opposizione, che vorrebbe un processo più veloce, e il governo, possono sorgere problemi?

    R. – Certamente c’è un ruolo di Aung San Suu Kyi che dev’essere svolto nel migliore dei modi; Aung San Suu Kyi è chiaramente un’icona per la Birmania e tuttavia Aung San Suu Kyi oggi è in una posizione più debole, perché oggi è criticata spesso all’interno del proprio movimento perché è scesa a patti con il regime, ma è anche criticata dalle altre etnie che compongono il composito panorama delle popolazioni della Birmania, che l’accusano di essere fondamentalmente una birmana che quindi non conosce la realtà di queste etnie che popolano anche i confini montagnosi della Birmania. Questi prigionieri sembra che appartengano in realtà alle milizie dello Stato Shan e dell’etnia Kachin. Quindi, anche il rilascio di questi dissidenti ci mostra come la questione etnica e la questione democratica siano tra loro correlate.

    D. – Quali potenze estere guardano a questo processo in corso in Myanmar?

    R. – Un po’ tutte. Certamente la Cina, che ha investito pesantemente negli ultimi anni: è di fatto l’unico grande Paese che avrebbe potuto investire nel Myanmar. Ma l’investimento cinese è crollato dai 12 miliardi di dollari dal 2008 al 2011, ai 407 milioni di dollari nell’anno 2012-2013. C’è un interesse, ovviamente, degli europei, degli Stati Uniti; c’è "il ritorno" dei giapponesi e anche del Sudest asiatico: ci sono investimenti thailandesi, malesi nel turismo, nel tessile – c’è un interesse, chiaramente, verso la manodopera a basso costo. Ma non dobbiamo dimenticare il grande legame di Aung San Suu Kyi e di una parte dell’élite birmana con l’Occidente, in particolare con il Regno Unito. Quindi, anche l’Occidente avrà un suo ruolo da svolgere, permettendo che il Myanmar eviti grandi problemi che invece altri Paesi dell’Asia hanno incontrato durante lo sviluppo, ad incominciare dall’inquinamento e dallo sfruttamento delle risorse. E magari, il Myanmar potrebbe essere un nuovo esempio di uno sviluppo più attento della dimensione umana nell’area.

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    Fao, sicurezza alimentare. Stamoulis: agricoltura per eliminare la fame, serve volontà politica

    ◊   “Vedo molte sfide davanti a noi, ma progressi e successi su cui possiamo costruire”. Cosi José Graziano da Silva, direttore generale della Fao, siè espresso in apertura ieri a Roma del Comitato per la sicurezza alimentare mondiale (CFS). Ancora oggi, 842 milioni di soffrono la fame in ogni angolo del pianeta, 30 milioni in meno rispetto lo scorso anno. Una buona notizia, ma cosa di può fare di più per garantire il diritto al cibo per tutti. Roberta Gisotti lo chiesto al segretario del Comitato, Kostas Stamoulis, economista della Fao:

    R. – Prima di tutto, mettere il problema della fame al centro degli sforzi per lo sviluppo sia a livello internazionale che regionale, che a livello di Paese. Esprimere cioè la volontà politica di eliminare la fame nel mondo, mettendo in piedi politiche e risorse per farlo. Poi, promuovere lo sviluppo dell’agricoltura, specialmente dei contadini più poveri, e i sistemi di protezione sociale, che sono - anch'essi - elementi indispensabili per una lotta contro la fame.

    D. – Dottor Stamoulis, il 75% delle persone più povere sappiamo che abita nelle zone rurali e già da molti anni le agenzie dell’Onu - Fao e Ifad, in particolare - raccomandano di investire nell’agricoltura e nei progetti su piccola scala. Ma i Paesi sembra che abbiano puntato piuttosto sulla finanza "creativa" per incrementare il loro Pil e massima parte dei più poveri - va detto - sono rimasti i più poveri. Forse, il Comitato dovrebbe avere una voce più forte ed efficace?

    R. – Sì, ha ragione. Ci sono tanti organismi internazionali, donatori bilaterali e varie altre organizzazioni che cercano di promuovere l’agricoltura piccola. Però, il fatto che il Comitato della sicurezza alimentare mondiale, che è una piattaforma globale dove partecipano tutti quelliche possono contribuire allo sviluppo delle strategie per la sicurezza alimentare – governi, organizzazioni della società civile, settore privato, e organizzazioni internazionali – abbia ora messo il problema dei piccoli agricoltori come oggetto di discussione e raccomandazione, questo avrà un grande peso sulle decisioni del futuro.

    D. – Forse, i lavori di questo Comitato dovrebbero avere maggiore eco sui media, perché i popoli sappiano quando la politica disattende i loro bisogni…

    R. – Sicuramente, il Comitato non ha i mezzi per forzare le sue raccomandazioni e applicazioni e sta poi ai governi dei vari Paesi implementarle. Però, com’è successo già con altre decisioni che ha preso il Comitato, credo che la volontà politica di avere più attenzione sui problemi dei piccoli agricoltori sarà rafforzata come risultato di decisioni prese da questo Comitato.

    D. – Quali punti di contatto tra i lavori del Comitato e la riunione ministeriale, in corso pure a Roma, sui prezzi alimentari internazionali?

    R. – Sono due eventi indipendenti nella stessa settimana. Il segnale significativo è che i ministri hanno focalizzato la loro discussione sul legame tra la volatilità dei prezzi e la sicurezza alimentare. E’ importante che questi eventi esprimano una certa volontà politica di fare qualcosa per diminuire l’impatto negativo della volatilità dei prezzi sulla sicurezza alimentare. Questo è molto significativo.

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    Una catastrofe prevedibile: un libro ricostruisce la tragedia del Vajont 50 anni fa

    ◊   Era il 9 ottobre quando, 50 anni fa, avvenne la tragedia della diga del Vajont. Alle 22.40 circa, una frana precipitava dal monte Toc sul sottostante bacino. La tracimazione violenta di una grande massa d’acqua, scavalcando la diga, provocava 1917 vittime e la distruzione di interi paesi tra cui Longarone, in provincia di Belluno. Le Nazioni Unite lo definirono un caso esemplare di disastro evitabile. Per ricordare quell’evento, alla vigilia dell’anniversario, oltre mille geologi si sono incontrati a Longarone per una Conferenza internazionale in cui, tra l’altro, è stato presentato un volume di Alvaro Valducci e di Riccardo Massimiliano Menotti dal titolo: “ 9 ottobre 1963. Che Iddio ce la mandi buona. La frana del Vajont” e un sottotitolo che ancora ferisce le popolazioni della zona: “Memoria storica di una catastrofe prevedibile”. Una prevedibilità ormai accertata? Adriana Masotti lo ha chiesto a Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio Nazionale geologi:

    R. – Fu accertata anche in sede giudiziaria, in secondo grado di giudizio però, quello definitivo. A una prevedibilità della frana, e probabilmente a tutto l’aspetto del territorio, non fu dato forse il peso meritato. Noi, con questo libro, con un altro punto di vista – quello di due geologi che vennero qui all’indomani della catastrofe – abbiamo un po’ ricostruito quello che realmente è stato e – attraverso la ricerca delle fonti – siamo arrivati alla conclusione che questa tragedia poteva essere evitata. Il titolo che abbiamo voluto dare “Che Dio ce la mandi buona!”, è un post scriptum del direttore dei lavori: la mattina del 9 ottobre del ’63, quando ricevette una telefonata dalla diga che lo informava che stava crollando tutto, il direttore scrisse immediatamente al suo collaboratore tecnico chiedendo di avviare determinate operazioni di svaso dell’acqua e conclude scrivendo proprio “Che Dio ce la mandi buona”, perché in quel momento percepì che le cose stavano veramente precipitando. Troppi errori: da quando si è iniziata la progettazione, fino all’ultimo giorno quando si poteva far evacuare la gente ed invece non si fece.

    D. – In poche parole, ci può sintetizzare le conclusioni dello studio che è stato fatto dai geologi?

    R. – Sostanzialmente, lo studio dice: la diga non andava fatta lì, ma – come da prime ipotesi – il corpo diga, quindi lo sbarramento, doveva essere costruito più a monte, in una zona esente da frane. Non ci si è accorti subito, ma solo in corso d’opera, che lì in realtà c’era una frana, anche di notevoli dimensioni. Da una parte ci sono stati geologi che hanno sbagliato perché hanno sottovalutato la situazione, dall’altra geologi che invece videro bene e che allertarono chi però non volle sentire. Soprattutto, ritengo che negli ultimi mesi prima della catastrofe ci siano stati comportamenti contraddittori di chi doveva controllare. Coloro che facevano parte di quegli organismi statali che avrebbero dovuto vigilare e che invece non l’hanno fatto.

    D. – In una lapide presso la diga è scritto: “Per negligenza e per sete d’oro”…

    R. – Sì, se non si viene qui non si ha realmente la consapevolezza né di quello che è successo, né del fatto che il Vajont è una ferita ancora aperta. Per la gente del luogo quella è stata una strage – un eccidio di Stato, come lo si vuol chiamare – e soprattutto si sentono oltraggiati anche da quello che è stato il comportamento degli apparati burocratici che non hanno mai difeso questa gente, ma in realtà hanno continuato a oltraggiarla. Vivono le sentenze come un ulteriore oltraggio ai sopravvissuti ed alla memoria di chi non c’è più.

    D. – Dopo 50 anni, quale insegnamento resta per l’oggi e per il futuro da questo evento?

    R. – Rimane moltissimo, perché il Vajont si studia molto, si studia in tutte le università italiane. È un monito da cui è nata la geologia applicata. In qualche modo, la gente rimasta coinvolta ha lasciato ai geologi un’eredità: quella di fare bene, di usare l’etica e non piegarsi spesso ad interessi di tipo finanziario ed economico.

    D. – Al di là della vostra buona volontà, quanto in Italia oggi si fa attenzione alla questione della sicurezza legata al territorio prima di dare il via ad opere e costruzioni?

    R. – Se guardo alla normativa, perfettibile quanto vogliamo, comunque garantisce che l’opera venga costruita in sicurezza. Se guardo alla reale consapevolezza da parte di chi realizza un’opera, da parte di chi l’approva, devo dire che ancora oggi l’inserimento di un’opera in un contesto territoriale è vista come una parte marginale. Si privilegia molto l’aspetto ingegneristico, tecnicistico, a discapito invece di quello che è appunto l’inserimento nel contesto e quindi la sicurezza. Questo è un fatto più culturale che normativo e ce ne dovremmo render conto tutti. Occorre soprattutto che siano i cittadini a pretendere che questo avvenga.

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    "In hoc signo": un'opera musicale celebra il XVII centenario dell'Editto di Milano

    ◊   Con un nuovo importante evento proseguono a Belgrado, in Serbia, le celebrazioni per il XVII centenario dell’Editto di Milano, con il quale nel 313 l’imperatore Costantino metteva fine alla persecuzione dei cristiani garantendo a tutti la libertà di coscienza in materia religiosa. Questa sera presso il Teatro Nazionale, verrà eseguita la Prima dell’Opera “In hoc Signo”, scritta dal regista serbo Dejan Miladinovic e musicata da mons. Marco Frisina. All’evento saranno presenti il presidente della Repubblica di Serbia, Tomislav Nikolić, e altre autorità civili e religiose. Sul significato di quest’opera nel contesto del Giubileo Costantiniano, Stefano Leszczynski, ha intervistato mons. Marco Frisina, maestro direttore della Pontificia Cappella Musicale Lateranense:

    R. - In 15 quadri si tratteggia la vita di Costantino, soprattutto per la straordinaria importanza che ha avuto – sia storica che culturale – nell’indicare nel cristianesimo il rinnovamento, la speranza dell’impero e anche del mondo antico.

    D. - Quali sono state le difficoltà nel musicare un’opera di questo tipo e dare – forse - anche un carattere ecumenico in musica?

    R. - L’opera assomiglia molto a queste grandi opere orientali, slave... Quindi si tratta di un’opera monumentale: grandi scene corali e drammatiche perché è anche una storia drammatica. Io ho voluto anche dare un sapore, da una parte vicino al mondo balcanico e ortodosso - quindi con la tradizione della musica liturgica della Chiesa ortodossa - e dall’altra degli elementi presi dal canto gregoriano, la musica occidentale. Più che delle difficoltà io parlerei dello sforzo di poter trovare questo incontro. Penso soprattutto ad alcune scene. Ad esempio, c’è una grande scena sul Consiglio di Nicea, in cui si sentirà il Credo cantato in greco e in latino, sovrapposti, quasi intrecciati con il pisteuo greco, il Credo latino. Alla fine questi canti vengono cantati insieme da tutta la massa corale, proprio perché è un momento in cui si incontrano le due anime del cristianesimo antico che poi hanno dato origine alla nostra fede cristiana.

    D. - Importante simbolo costantiniano, per l’ortodossia e per il cattolicesimo, è la Croce …

    R. - E infatti il titolo “In hoc signo” è proprio “Nel Segno della Croce”. La scena madre che si trova verso la fine del primo atto - ovvero la Battaglia di Ponte Milvio, la visione della Croce di Costantino - sarà costruita molto bene. Questa non è la partenza della visione Costantino, ma potremmo definirla un po’ "un arrivo"; la prima parte dell’opera descrive la maturazione lenta, con la quale Costantino capisce che il ruolo dei cristiani nell’impero è importante, fondamentale.

    D. - Costantino è un po’ l’imperatore del periodo della “Chiesa indivisa”. Oggi che si parla molto di unità tra cristiani, si parla molto di dialogo ecumenico, di dialogo interreligioso … come può l’arte aiutare questo dialogo?

    R. - L’arte supera le barriere e dà la possibilità di esprimere le grandi cose dell’uomo, le grandi cose della fede - come in questo caso - facendo incontrare gli artisti, degli uomini nell’incontro ecumenico. Anche in questo caso, ci siamo incontrati come due esploratori che hanno visto cose simili e complementari; ci siamo scambiati delle idee, delle intuizioni, delle emozioni, e ci siamo incontrati sull’unica fede: la fede nella Croce, nella Grazia di Dio, nella speranza, nella Chiesa … Tutti elementi comuni. Quindi questa cosa, spero, possa essere il primo di tanti appuntamenti in cui poter dialogare attraverso la musica e l’arte su questi grandi argomenti; penso alla pace, alla fraternità e a tante cose che l’arte potrebbe aiutare veramente a sensibilizzare e, con l’aiuto degli artisti, a far diventare proposta convincente.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Serbia: a Nis celebrazione ecumenica per il 1700° dell'Editto di Costantino

    ◊   Otto capi di Chiese ortodosse, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, il patriarca russo Kirill, il patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III e il patriarca serbo Irinej, insieme ai capi delle Chiese ortodosse di Grecia, Cipro, Albania e Polonia, hanno partecipato domenica scorsa alle celebrazioni a Nis, in Serbia, per il 1700° anniversario dell’Editto di Milano. Presenti rappresentanti della Chiesa ortodossa serba e di quella cattolica, dei protestanti e delle altre confessioni, molti politici e circa 15.000 fedeli. Alle celebrazioni ha assistito il cardinale Jozef Tomko, prefetto emerito della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in rappresentanza della Santa Sede e l’arcivescovo cattolico di Belgrado, mons. Stanislav Hocevar. “Portare alle celebrazioni della Chiesa ortodossa serba a Nis il saluto e la benedizione di Papa Francesco è stato un grande onore e motivo di gioia” - ha detto all'agenzia Sir il cardinale Jozef Tomko, il quale ha elogiato la Chiesa ortodossa serba “per aver messo in risalto i valori civili, religiosi e umani di questo evento storico” che “ci ricorda i tempi in cui la Chiesa di Cristo era ancora unita”. Il cardinale ha sottolineato anche l’importanza della libertà religiosa promulgata dall’Editto di Milano, definendola “valore primario e fondamentale per l’uomo” che però anche oggi a volte “non viene rispettato”. Nella sua omelia il patriarca Bartolomeo ha auspicato maggiore libertà religiosa e riconciliazione. “Purtroppo anche oggi, come accadeva prima dell’Editto di Milano - ha detto - molti cristiani sono perseguitati per la loro fede, soprattutto nel Medio Oriente, in Siria, Egitto e Iraq”. Il patriarca di Costantinopoli ha fatto anche un appello “per la liberazione dei due vescovi rapiti in Siria” e ha condannato il fanatismo religioso indicando che “ci sono modi pacifici per superare le differenze”. Anche il patriarca serbo Irinej ha sottolineato che queste celebrazioni “ci hanno fatto sentire più uniti con tutti gli ortodossi”. Lui però ha voluto tendere “una mano fraterna anche a quelli che sono più vicini a noi, cioè alla Chiesa cattolica”. “Dobbiamo trovare modi - ha aggiunto il capo della Chiesa ortodossa serba - per superare ciò che ci divide e l’incontro a Nis è stato un primo passo per raggiungere un’unità evangelica e apostolica”. Anche l’arcivescovo di Belgrado, mons. Stanislav Hocevar, ha detto - sempre all'agenzia Sir - che “si è avuta una nuova occasione di avvicinamento e di conoscenza reciproca con gli ortodossi”. A suo avviso, però, “il Signore aspetta da noi un incontro ancora più aperto, più fraterno, con maggiore sensibilità verso le grandi sfide del nostro tempo”. (R.P.)

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    Iraq. Chiesa assira al Patriarca caldeo: creiamo una Comitato congiunto per il dialogo

    ◊   Soddisfazione per il rinnovato invito "al dialogo nel solco di una rinnovata unità", condivisione e sostegno "nel raggiungimento dell'obiettivo" e una maggiore "vicinanza" umana e spirituale da "fratelli in Cristo" e "figli e figlie di un'unica nazione". Sono i punti salienti della lettera inviata da Mar Dinkha IV, primate della Chiesa assira d'Oriente, a sua beatitudine Mar Louis Sako, patriarca della Chiesa caldea. A metà settembre - riporta l'agenzia AsiaNews - Mar Sako aveva inviato un messaggio di auguri per il 78mo compleanno della guida della Chiesa assira, manifestando al contempo il "desiderio" della ripresa del "dialogo per l'unità". Una "necessità urgente", ha aggiunto nell'occasione Mar Sako, di fronte "alle grandi sfide" che "minacciano la sopravvivenza" dei cristiani in Medio oriente. Un invito raccolto con prontezza da Mar Dinkha IV e rilanciato nella risposta inviata il 3 ottobre scorso, pubblicata sul sito del patriarcato caldeo. Mar Dinkha IV sottolinea che l'unità è un "obiettivo" da perseguire e per questo è necessaria una "azione comune" con la Chiesa caldea e le "Chiese sorelle". In un futuro incontro con il patriarca caldeo, egli auspica una "discussione approfondita" dei problemi e delle difficoltà dei cristiani in Medio oriente e nel mondo. E propone di creare un "Comitato congiunto" per delineare i passi da intraprendere. Il primate della Chiesa assira d'Oriente assicura infine "preghiere speciali" per i cristiani d'Iraq e la pace a tutti i "figli e figlie" della Chiesa irakena, vittime delle "tempeste politiche e dei rivolgimenti" che attraversano il Medio oriente. Fra gli obiettivi che si celano dietro lo scambio epistolare, la volontà di rinnovare il dialogo fra la Chiesa caldea e la Chiesa assira d'Oriente, per giungere a una piena comunione ecclesiale fra i cristiani caldei - uniti al vescovo di Roma - e quella assira. In passato si è avuto un confronto a livello teologico fra le due Chiese, che è sfociato nella "Comune dichiarazione cristologica" del 1994; in essa Giovanni Paolo II e il patriarca Mar Dinkha IV hanno riconosciuto la condivisione di una medesima fede in Gesù e il mistero dell'Incarnazione, sancendo così di fatto la ripresa dei contatti fra i due fronti. Ad oggi manca però ancora un vero e proprio dialogo ecumenico ed ecclesiologico fra Chiesa caldea e Chiesa assira d'Oriente, pur condividendo lo stesso patrimonio per liturgia e spirituaità. Come ha sottolineato Mar Sako nel suo messaggio di auguri, alla base del dialogo vi deve essere un progetto di "unità" senza il quale "non c'è futuro". L'unità è la base della "nostra presenza", della difesa "dei nostri diritti e del nostro ruolo" in un Medio Oriente tormentato da conflitti e divisioni. (R.P.)

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    Pakistan: nelle aree colpite dal sisma, accesso vietato alle Ong straniere

    ◊   Nessuna Ong straniera è stata finora autorizzata ad operare nelle aree terremotate, nonostante le evidenti difficoltà delle autorità a gestire la situazione. A comunicarlo è Medici senza Frontiere che ha chiesto, vedendoselo respingere, il permesso di portare “le squadre di medici nelle aree colpite”, senza riuscire ancora “ad avere un’autorizzazione formale dal governo”. Le ragioni delle autorità sono state chiarite al quotidiano pachistano Dawn dal portavoce dell’Agenzia nazionale per la gestione delle calamità, Adrees Mehsood, secondo il quale non ci sarebbe necessità di alcuna assistenza diretta da parte di Ong, in quanto l’agenzia ha già fornito cibo, tende, medicinali e altri generi di prima necessità a 125.000 terremotati del sisma del 24 settembre. Inoltre, ha aggiunto Mehsood, alle organizzazioni internazionali non è permesso di operare perché il governo non ha chiesto il loro aiuto e una richiesta di soccorso internazionale in tal senso è obbligatoria per consentire l’accesso nelle aree disastrate. “Il governo locale – ha aggiunto – non vuole stranieri impegnati nei soccorsi a causa della cattiva situazione dell’ordine pubblico nella regione”. Una elaborazione singolare, che collide con la richiesta di soccorso alla comunità internazionale avanzata nei giorni scorsi dal governo provinciale. Una situazione evidenziata da Medici senza Frontiere (Msf) sul suo sito web, che segnala, insieme al rifiuto delle autorità di consentire ai suoi operatori di partecipare ai soccorsi, nonostante siano già presenti nella regione – che già abitualmente vede la peggiore situazione medico-sanitaria del Paese - anche la necessità di diverse aree terremotate non ancora raggiunte dai soccorsi. A confermare l’ipotesi di una collusione tra autorità e guerriglia indipendentista per un accordo che non consenta a iniziative straniere di operare nell’area, un leader nazionalista dell’etnia Balochi ha confermato in modo confidenziale a Dawn che “i militanti balochi non vogliono stranieri travestiti da soccorritori presso le loro basi”. Come sottolineano anche altre fonti, la situazione di Msf e altri si può spiegare con le condizioni di scarso controllo territoriale, evidenziate per il distretto di Awaran da agguati ai convogli umanitari e agli elicotteri dei soccorsi, ma che il governo non vuole far apparire all’esterno. (R.P.)

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    Pakistan: un santuario per le vittime cristiane di Peshawar, ancora senza indennizzo del governo

    ◊   “Sono tuttora scioccato per le tante perdite umane: è il peggiore incidente che colpisce una chiesa della nostra diocesi”. Sono parole ancora piene di sconcerto quelle del vescovo anglicano di Peshawar, mons. Peter Humphrey Sarfraz, sull’attentato di due kamikaze islamisti, avvenuto lo scorso 22 settembre alla chiesa di ‘Tutti i Santi’, nel cui cortile ora un piccolo santuario commemorativo ricorda le decine di fedeli cristiani rimasti uccisi. Secondo la lista definitiva fornita da mons. Sarfraz all’agenzia Fides, 126 fedeli cristiani sono morti e altre 166 persone sono rimaste ferite nell’attacco islamista, rivelatosi “un atto di violenza contro cristiani innocenti, che sono veri martiri”. “Il mio cuore gronda di dolore. I cristiani si ritengono veri pakistani: abbiamo sacrificato molto per questa patria”, ha detto mons. Sarfraz, mentre il risarcimento promesso dal governo provinciale, di 500.000 rupie (4.700 dollari) per le famiglie delle vittime e 200.000 rupie (circa 1.900 dollari) per i superstiti rimasti gravemente invalidi, tarda ad arrivare. La strage, riferisce a Fides il pastore anglicano Ijaz che guidava la liturgia in chiesa il giorno dell'esplosione, ha colpito una zona dove risiedono circa 500 famiglie cristiane. I residenti sono perlopiù cittadini poveri ed emarginati. Molti di loro lavorano come operatori sanitari o sono operai sfruttati e sottopagati. Sulla strage, notano fonti locali di Fides, vi sono tuttora polemiche. Molti feriti, lamentano i fedeli locali, avrebbero potuto essere salvati. Numerosi sono morti per mancanza di un trattamento di emergenza e per le carenze del personale ospedaliero. Le vittime sono state collocate in bare senza alcuna identificazione e le famiglie dei feriti gravi non sono state avvisate, per cattiva amministrazione. Le famiglie hanno così perso l'occasione di dare un ultimo saluto ai loro cari, poi deceduti. Un incidente, che ha causato ira e rabbia e testimoniato l’inadeguatezza dei servizi ospedalieri: due feriti sono stati considerati erroneamente morti e posti nelle bare; solo dopo i lamenti di dolore sono stati liberati. (C.S.)

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    Centrafrica. Sedati gli scontri a Bangassou. Il vescovo: ora riconciliare gli animi

    ◊   Torna la calma a Bangassou, la città nel sud-est della Repubblica Centrafricana, dove dal 1° ottobre una parte della popolazione si era ribellata ai continui soprusi perpetrati dai miliziani Seleka. Secondo quanto riferito dal vescovo di Bangassou, mons. Juan José Aguirre Muños, all’agenzia di notizie Fides, in molti ieri “hanno visto Abdallah, il “signore della guerra” che aveva seminato il terrore nella città, mentre insieme ai suoi 5 principali accoliti, venivano ammanettati e imbarcati da una sessantina di militari su un aereo per essere trasportato a Bangui, dove verrà giudicato per i crimini commessi”. Forte era stato il timore, prima dell’intervento dei militari, che la situazione sfociasse in uno scontro interreligioso, soprattutto dopo che Seleka aveva armato i commercianti musulmani schieratisi al fianco dei miliziani e dopo che 12 persone avevano perso la vita negli scontri. Una situazione descritta da mons. Aguirre, come al culmine della tensione: “ormai giunta alle stelle, al punto che il governo di Bangui è stato costretto ad inviare una delegazione composta da due ministri e un contingente militare per riportare l’ordine”.“I militari hanno disarmato gli uomini di Seleka e i civili, sia cristiani sia musulmani, che si sono affrontati negli ultimi giorni. Ora aspettiamo l’arrivo dei soldati della forza di pace dei Paesi dell’Africa centrale che dovranno garantire la sicurezza in città”, ha spiegato il vescovo, aggiungendo che ora “il lavoro importante da svolgere sarà quello di riconciliare gli animi”. A tal fine “da Bangui è giunta una delegazione della piattaforma interreligiosa: ci stiamo organizzando per inviare dei comitati di dialogo nei diversi quartieri di Bangassou (a maggioranza cattolica, musulmana o misti) per tentare di promuovere il perdono e la tolleranza dopo i tragici momenti vissuti”, ha infine concluso mons. Aguirre. Nel frattempo le chiese cattolica e protestante del Paese hanno firmato “l’Appello di Bangui” con il quale si invitano i fedeli cristiani alla pace e alla riconciliazione con i musulmani e si chiede alla comunità internazionale di intervenire per far uscire il Centrafrica dalla crisi. (C.S.)

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    Gabon: i vescovi invitano i fedeli a non lasciarsi fuorviare da false dottrine

    ◊   Restate vigilanti di fronte alla proliferazione di diverse correnti mistico-religiose: è l’invito che la Conferenza episcopale del Gabon ha rivolto ai fedeli al termine della sessione straordinaria svoltasi a Librevillle dal 2 al 5 ottobre. Riuniti per tracciare un bilancio dell’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI e per prepararsi al congresso dell’Associazione delle Conferenze episcopali della Regione dell’Africa Centrale-Famiglia che si svolgerà a Libreville dal 13 al 17 novembre, i vescovi hanno esortato il popolo di Dio a riprendere coscienza della loro fede, a ravvivarla, purificarla confermarla e proclamarla con gioia. I presuli, si legge sul portale www.eglisecatholique.ga, hanno voluto ribadire anzitutto quanto detto da Benedetto XVI all’apertura dell’Anno della Fede, esortando i fedeli a riscoprire la forza e la bellezza della fede e a ridonare vigore a coloro che attraversano difficoltà o crisi nella loro vita di fede. Nell’appello lanciato ai fedeli per una buona preparazione spirituale alla chiusura dell’Anno della Fede prevista il 24 novembre – solennità di Cristo Re dell’Universo –, i vescovi hanno inoltre richiamato l’attenzione sulla diffusione di false dottrine nel Gabon. “L’ora è cruciale e anche grave – hanno scritto i presuli – perché nei nostri ambienti oggi molti, mentendo, dicono che il Cristo non è risorto; venditori di illusioni di talune sette … affermano che la resurrezione di Cristo non è che un’invenzione umana. Avendo a cuore il nostro dovere di far risplendere la verità di fronte al relativismo ‘religioso’ veicolato – hanno concluso i vescovi – come pastori e successori degli apostoli, vi chiediamo, nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, di non lasciarvi ingannare, fuorviare da ogni sorta di strana dottrina”. Infine la Conferenza episcopale ha richiamato i fedeli a mobilitarsi per il Congresso dell’Acerac-Famiglia e a pregare perché la famiglia sia sempre al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società. (T.C.)

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    Terra Santa: manifestazione dei cristiani contro gli atti intimidatori dei coloni estremisti

    ◊   Una marcia spontanea dei cristiani di Gerusalemme ha attraversato lunedì 7 ottobre le vie della Città Santa per denunciare le ricorrenti profanazioni perpetrate da gruppi di coloni ebrei estremisti a danno di luoghi di culto cristiani. Un gruppo di più di cento cristiani si è ritrovato alla Basilica del Santo Sepolcro per poi dirigersi verso il cimitero cattolico latino e quello anglicano, profanati nelle scorse settimane con scritte razziste tracciate sui muri e con il danneggiamento di tombe. I partecipanti al piccolo corteo, seguendo una croce di legno, hanno cantato e recitato preghiere lungo il cammino, diffondendo anche un comunicato in cui si denunciano gli atti intimidatori contro monasteri, cimiteri, chiese e moschee come espressione di impulsi razzisti. “Si è trattato di una manifestazione spontanea per denunciare i ripetuti attacchi contro i Luoghi Santi realizzati da una minoranza irresponsabile, che mette a rischio la pacifica convivenza tra i popoli e tra le persone” riferisce all'agenzia Fides il vescovo William Shomali, vicario patriarcale del patriarcato latino di Gerusalemme. La serie di atti intimidatori compiuti a danno di monasteri, chiese e cimiteri cristiani è iniziata nel febbraio 2012. Da allora, siglandosi spesso con la formula “il prezzo da pagare”, militanti oltranzisti di gruppi vicini al movimento dei coloni hanno portato attacchi anche contro moschee frequentate dagli arabi palestinesi di religione islamica. (R.P.)

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    Nicaragua: cifre allarmanti su minori sfruttati

    ◊   Negli ultimi 5 anni il tasso di crescita dei minori sfruttati lavorativamente è aumentato tra il 25 e il 30% all’anno. Attualmente in Nicaragua ci sono 238 mila piccoli lavoratori. E’ quanto emerge dai dati diffusi dalla Federazione delle Organizzazioni per lo Sviluppo Locale (Fodel). Si tratta di cifre allarmanti - riferisce l'agenzia Fides - minori sovrasfruttati che invece di andare a scuola lavorano fino a 18 ore al giorno nei campi, nelle fabbriche, nelle abitazioni private, e persino vittime di abusi sessuali. Questi piccoli non hanno alcuna assistenza sociale nè medica, non hanno vacanze nè pause. I dipartimenti che fanno maggior uso di minori lavoratori sono quelli di Jinotega e Matagalpa, in particolare per la raccolta del caffè, mentre nel dipartimento di León vengono sfruttati nei campi. Il fenomeno è aggravato dalla disoccupazione dei genitori che obbliga i bambini a dover contribuire all’economia familiare. (R.P.)

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    Spagna: il 13 ottobre al via l’Incontro internazionale ebraico-cattolico a Madrid

    ◊   “Le sfide per la fede nelle società contemporanee”: su questo tema si terrà a Madrid, dal 13 al 17 ottobre, la 22.ma riunione del Comitato internazionale di collegamento ebraico-cattolico. Obiettivo dell’organismo, informa una nota, è “incrementare il lavoro congiunto tra cattolici ed ebrei nell’ambito del sociale e dell’antisemitismo, con particolare attenzione per temi come la famiglia, l’educazione, i diritti umani, l’ecologia, la giustizia, la carità e la libertà religiosa”. A rappresentare la Chiesa cattolica saranno, tra gli altri, il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, il card. Antonio Maria Rouco Varela, arcivescovo di Madrid, e il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, mentre per parte ebraica saranno presenti numerosi rabbini, tra cui David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele e direttore dell'Istituto Heilbrunn per la comprensione religiosa internazionale. La seduta inaugurale dell’incontro si terrà domenica 13 ottobre, alle ore 20.30, presso l’Hotel Intercontinental della capitale spagnola, alla presenza di numerose autorità religiose, politiche e civili. Creato nel 1970, sulla scia della dichiarazione conciliare Nostra aetate, dedicata alle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, il Comitato internazionale di collegamento ebraico-cattolico tiene incontri periodici. L’ultimo risale al marzo 2011 e si è svolto a Parigi, sul tema “Quarant’anni di dialogo: riflessioni e prospettive future”. Nella dichiarazione congiunta rilasciata al termine di quei lavori, veniva evidenziato il rapporto positivo iniziato con il Concilio Vaticano II e con la promulgazione della Nostra aetate nel 1965. I partecipanti si soffermavano, poi, sulla così detta “primavera araba”, riconoscendola segno di un’esigenza di libertà da parte delle nuovi generazioni di quelle aree. Rifiutando, inoltre, ogni atto di violenza o di terrorismo perpetrato “in nome di Dio”, il Comitato si impegnava a proseguire il lavoro per un futuro di pace nella regione del Medio Oriente, ribadendo l’importanza delle buone relazioni tra cristiani ed ebrei ad ogni livello e in ogni situazione. (A cura di Isabella Piro)

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    Il Nobel della Fisica ai "padri" del Bosone di Higgs

    ◊   Il mondo scientifico se lo aspettava e la commissione di Stoccolma non ha tradito le attese: il Nobel per la Fisica 2013 è andato ai “padri” del Bosone di Higgs, il belga Francois Englert, della Libera Università di Bruxelles, e il britannico Peter W. Higgs, dell'Università di Edinburgo, che avevano previsto entrambi, ciascuno per suo conto, l'esistenza della particella grazie alla quale esiste la massa. In realtà, il resto del mondo non scientifico aveva acquisito una rudimentale conoscenza del Bosone di Higgs grazie all’esperimento del Cern di Ginevra, che lo scorso anno aveva accertato l’esistenza “fisica” della particella teorizzata dai due scienziati insigniti del Nobel nel 1964. E al Cern si è festeggiato comunque con grande entusiasmo. “È un gran giorno per la fisica delle particelle”, ha affermato Rolf Heuer, direttore generale del Cern di Ginevra. “Non c'e' nessuna delusione, questo premio è la dimostrazione che la parte teorica e quella sperimentale della scienza vanno a braccetto, come confermato dalle motivazioni del premio". Il Bosone di Higgs è una particella elementare, ossia non è composta da altre particelle più piccole. Per questa sua natura basilare nel campo della fisica è stata ribattezzata "la particella di Dio", la cui presenza viene fatta risalire agli sconvolgimenti che seguirono il “Big Bang”, quando l’universo acquistò massa cominciando a espandersi. (A.D.C.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 281

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.