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Sommario del 15/11/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Annullate udienze del Papa a causa di un raffreddore, confermata sua presenza a ordinazione episcopale
  • Filippine. Mons. Tejado: rete enorme di aiuti unisce Chiese di tutto il mondo
  • Semplicità e concordia. Gli storici Malgeri e Giovagnoli sulla visita di Papa Francesco al Quirinale
  • Tweet del Papa: cari giovani, siate missionari del Vangelo, ogni giorno e in ogni luogo
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Filippine. Save the Children: allarme per migliaia di bambini rimasti orfani
  • Egitto. Fratelli musulmani in piazza per la "protesta del milione", massima allerta
  • Siria. Solidarietà della Chiesa di Aleppo. Mons. Jeanbart: non facciamo distinzioni di credo
  • Iraq. Mons. Sako: visti facili per espatriare, forse c'è un piano per allontanare i cristiani
  • Camerun: rapito da Boko Haram il sacerdote francese Georges Vandenbeusch
  • Cina abolisce i campi di lavoro. Modifiche a politica del figlio unico e pena di morte
  • Bologna. Bambina di 3 anni affidata a coppia gay. La psicologa: possibili rischi psicologici
  • Roberto Moncalvo nuovo presidente di Coldiretti: "Puntare sulla qualità"
  • Convegno cure palliative: legge in materia è solida ma ci sono resistenze culturali
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Varsavia: alla Conferenza Onu i cristiani digiunano per le vittime dei cambiamenti climatici
  • Vescovi europei: sulle migrazioni indicano "solidarietà e flessibilità"
  • Nord Kivu: governo pronto a firmare la pace con fazione di M23
  • Il Gambia rompe le relazioni diplomatiche con Taiwan
  • Sud Sudan. Messaggio dei vescovi: "la guerra è finita, ora guardare avanti"
  • Rapporto Aiea: con Rouhani tagli consistenti al programma nucleare iraniano
  • Brasile: forte aumento della deforestazione in Amazzonia
  • Comece: il card. Marx annuncia documento dei vescovi sulle elezioni parlamentari europee
  • Lettera del preposito padre Nicolas: i Gesuiti guardano alla missione universale
  • Un convegno ricorda il 50° dello storico pellegrinaggio di Paolo VI in Terra Santa
  • India: una “Magna Charta” per i diritti dei bambini
  • India: assolto TJ Joseph, il professore cristiano accusato di blasfemia
  • Indonesia: dai vescovi programmi per il recupero dei tossicodipendenti
  • Nepal: violenze dei maoisti radicali che non vogliono le elezioni
  • Ecuador. Il cardinale colombiano Salazar Gomez: la fede è scopo e anima del nostro cammino
  • Il Papa e la Santa Sede



    Annullate udienze del Papa a causa di un raffreddore, confermata sua presenza a ordinazione episcopale

    ◊   Papa Francesco ha annullato questa mattina le udienze previste a causa di un raffreddore. Lo ha comunicato ai giornalisti il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi. Trattandosi di udienze ad alcuni capi dicastero, il Papa ha preferito rinviarle. Il portavoce vaticano ha confermato invece la presenza del Pontefice questo pomeriggio nella Basilica di San Pietro per la consacrazione episcopale di mons. Fernando Vergéz Alzaga, segretario generale del Governatorato.

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    Filippine. Mons. Tejado: rete enorme di aiuti unisce Chiese di tutto il mondo

    ◊   Tutta la Chiesa è mobilitata per soccorrere le popolazioni delle Filippine colpite dal Tifone. Raccogliendo gli appelli del Papa, le Conferenze episcopali di tutto il mondo stanno promuovendo campagne di solidarietà: in Italia, la colletta si svolgerà nelle chiese del Paese domenica primo dicembre. Intanto, il bilancio delle vittime, secondo l'Onu, ha superato quota 4.400, ma tanti sono ancora i dispersi. Si temono ora epidemie. Sugli aiuti della Santa Sede, Roberto Piermarini ha intervistato mons. Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Pontificio Consiglio Cor Unum:

    R. – Come ben sapete, Cor Unum è il dicastero della Santa Sede che si incarica degli aiuti umanitari ma è anche un po’ il dicastero della carità del Santo Padre. Abbiamo inviato già un primo aiuto di emergenza – 150 mila dollari – che è semplicemente un segno della vicinanza del Santo Padre di cui lui ha anche parlato nel corso dell’udienza generale di mercoledì, ma anche negli Angelus. Ecco, questo aiuto vuole essere un segno della vicinanza del Santo Padre e di tutta la Chiesa universale alle persone che stanno soffrendo per questa calamità.

    D. – Come si stanno muovendo tutte le agenzie cattoliche del mondo, che stanno portando soccorsi nelle Filippine?

    R. – Questo è il contributo che la Chiesa dà in queste occasioni. Il grosso degli aiuti, invece, parte dalle Chiese locali, dalle Caritas locali; ma non soltanto dalle Caritas, anche tante altre agenzie nazionali e diocesane che fanno la raccolta di fondi e iniziano a muoversi in questo senso. Come sapete, la Cei – attraverso il comitato per gli interventi caritativi – ha già inviato 3 milioni di euro. Poi, le Caritas hanno avviato un primo stanziamento di fondi e sul posto ci sono tante persone che aiutano a gestire questi aiuti. La Caritas italiana ha mandato 100 mila euro, anche la Caritas spagnola e tante altre … E’ una rete enorme di aiuto che si coordina qui, alla Caritas internationalis a Roma, che incomincia a muoversi. Arrivano costantemente segnalazioni di programmi, di progetti e di persone, soprattutto, che è quello che in questo momento serve, per dare una mano.

    D. – Quindi, possiamo dire che i 150 mila euro di Cor Unum sono sostanzialmente una cifra simbolica …

    R. – E’ un primo segno, ad indicare che il Santo Padre è vicino a loro e che la Chiesa è vicina alle persone che soffrono. Nel caso della crisi siriana, ad esempio, abbiamo fatto una stima, nel caso della crisi siriana, e abbiamo rilevato che gli aiuti inviati da tutte le agenzie cattoliche di sostegno allo sviluppo ammontano a oltre 80 milioni di euro. Possiamo immaginare quindi come tutte queste realtà che vivono nelle diocesi e nelle parrocchie delle diverse nazioni si muovano in contemporanea, nel momento stesso in cui si manifesta un problema di questo tipo, con una grandissima potenzialità e soprattutto con una grandissima generosità da parte dei fedeli.

    D. – E’ previsto che Cor Unum, a nome del Papa, vada a visitare le zone colpite nelle Filippine?

    R. – Questo lo facciamo sempre: a nome del Santo Padre siamo stati in Giappone, dopo lo tsunami, ad Haiti, quando c’è stato il terremoto … Adesso non saprei dire i tempi, ma presto: penso che prima di Natale vorremmo portare un messaggio di speranza di vicinanza, soprattutto un messaggio spirituale. Il Santo Padre è vicino a queste popolazioni con la sua preghiera. Il cardinale Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, andrà, insieme con qualcuno di noi, a visitare le persone che già stanno lavorando lì. Sicuramente, faremo una riunione di coordinamento, come facciamo sempre, con le agenzie che già stanno operando sul posto. E’ un momento di comunione e anche di coordinamento, di incontro, per guardarci in faccia e per portare anche il ringraziamento di tutta la Chiesa al Santo Padre per il lavoro che fanno.

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    Semplicità e concordia. Gli storici Malgeri e Giovagnoli sulla visita di Papa Francesco al Quirinale

    ◊   Semplicità e concordia. E’ il binomio che ha contraddistinto la visita di Papa Francesco, ieri, al Quirinale. Forte anche il richiamo alla speranza che ha accomunato il discorso del Pontefice e del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sui tratti salienti e anche originali dell’incontro di ieri, Alessandro Gisotti ha intervistato il prof. Francesco Malgeri, storico dell’Istituto Luigi Sturzo:

    R. – Il primo elemento che salta agli occhi è la semplicità di questo incontro, al di fuori di ogni protocollo, che evidenzia anche l’amore che il Papa ha dimostrato e dimostra per l’Italia. Quel suo richiamo, quella sua indicazione, quel suo desiderio di voler "bussare alla porta di ogni italiano" mi sembra un elemento di grande significato.

    D. – Tra i temi forti, forse anche più di un tema, è la sottolineatura della "concordia" nell’incontro, presente non solo nei gesti, ma poi anche nelle parole dette sia da Napolitano sia da Francesco …

    R. – Certamente. Diciamo che si coglie una preoccupazione comune per le sorti del nostro Paese, anche la volontà di trovare una collaborazione anche tra lo Stato e la Chiesa: quel suo richiamo anche ai precedenti storici dei rapporti tra Stato e Chiesa per ribadire che ormai c’è un clima di concordia e di collaborazione, mi sembra significativo. Pure la precisazione che fa Papa Francesco sulla distinzione dei rispettivi ruoli e ambiti di azione: tutto questo, in qualche modo, chiarisce la visione di questi rapporti.

    D. – Papa Francesco, a un punto del suo discorso, ha parlato di speranza, che è proprio una cifra della sua persona e del suo Pontificato. Evidentemente, il presidente Napolitano coglie questo elemento che è così sacrificato in questo momento, in Italia, soprattutto se pensiamo alle nuove generazioni e al bisogno di lavoro…

    R. – Certamente. Diciamo che tutto l’incontro, in qualche modo, sembra sorretto da questo discorso della speranza, della necessità di moltiplicare gli sforzi per superare questo periodo di crisi, soprattutto nei confronti dell’uomo e dell’esigenza del lavoro. Anche il richiamo alla famiglia mi sembra molto significativo, in quanto Papa Francesco individua nella famiglia il nucleo della società e da qui l’esigenza di sostenerla e di collaborare anche con lo Stato in questa opera di sostegno.


    Sul richiamo di Papa Francesco alla concordia, in un tempo segnato da particolarismi specie in politica, si sofferma il prof. Agostino Giovagnoli, storico della Cattolica di Milano, intervistato da Alessandro De Carolis:

    R. – Papa Francesco ha sottolineato l’importanza della concordia, che è una reazione certamente, dal suo punto di vista, alla realtà italiana. Credo che vada anche collegata alle sue convinzioni di fondo: quando si è rivolto ai suoi connazionali argentini, negli anni Novanta e negli anni Duemila, Jorge Bergoglio ha spesso insistito sul fatto che la democrazia è pluralismo, confronto fra posizioni diverse, ma è anche e soprattutto ricerca dell’unità: deve essere convergenza verso l’unità. Quindi, in qualche modo, in questa sua raccomandazione agli italiani si sente anche l’eco di una convinzione profonda che è quella per cui la frammentazione, l’individualismo – che sono "malattie" argentine, italiane e non solo – rappresentano un problema, perché in definitiva non aiutano a cercare la soluzione dei problemi, ma la allontanano.

    D. – In un periodo dove non solo in Italia, ma anche in molte nazioni del mondo, specie d’Occidente, ci sono molte politiche che vanno in direzione contraria o diversa rispetto al modo comune di considerare, come è stato finora, la famiglia all’interno della società, ieri il Papa ha detto con molta chiarezza, com'è suo costume, la famiglia ha bisogno di stabilità e riconoscibilità...

    R. – Non sono sorpreso da queste affermazioni. Del resto, anche nella recente iniziativa promossa dal Pontificio Consiglio per la Famiglia sono già emerse queste posizioni. Quindi, io credo che siamo su una linea che continuerà anche in futuro e su cui non credo avremo delle sorprese, pur naturalmente con quell’enorme attenzione missionaria per cui il Papa è alla ricerca sempre delle vie del dialogo.

    D. – In questo senso, credo vada anche inteso quel nuovo e insistito appello che il Papa ha fatto nel segno dell'attenzione verso i più poveri, cioè quella "carne di Cristo" degli immigrati, come la chiama lui, ricordando la sua prima visita pastorale a Lampedusa...

    R. – Certamente. Il significato di quella visita è incancellabile. Che il primo gesto da lui compiuto, appunto, in Italia, sul suolo italiano, sia stato andare a Lampedusa io credo resterà una chiave interpretativa fondamentale del suo Pontificato. Io credo di capire che quest’incontro con i poveri è il cardine di quella più ampia cultura dell’incontro, di cui ha pure fatto espressione il presidente Napolitano, che è anch’essa molto tipica di Papa Francesco: la cultura dell’incontro di una Chiesa che muove incontro agli uomini e le donne del nostro tempo a partire proprio dai più deboli, a partire proprio dai più poveri.

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    Tweet del Papa: cari giovani, siate missionari del Vangelo, ogni giorno e in ogni luogo

    ◊   Papa Francesco ha lanciato un nuovo tweet sul suo account @Pontifex in nove lingue: “Cari giovani, siate sempre missionari del Vangelo, ogni giorno e in ogni luogo”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Curare gli occhi per parlare al cuore: in prima pagina, un editoriale di Cristian Martini Grimaldi su Francesco Saverio e il daimyo di Yamaguchi.

    Darfur senza pace: nel servizio internazionale, in rilievo la situazione dei profughi dopo la ripresa del conflitto.

    In cultura, stralci dal libro di Elisabetta Piqué sul conclave e la vita di Papa Francesco. Silvina Pérez intervista l’autrice.

    Scoperte e un nuovo museo nelle catacombe di Priscilla: sul tema articoli del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e di Fabrizio Bisconti.

    Dalla compassione alla comprensione: nell’informazione religiosa, Alberto Fabio Ambrosio sui cristiani d’Oriente oltre gli stereotipi.

    Eppure basterebbe un po’ di silenzio: Adriana Zarri sul mistero liturgico.

    Internet al servizio della missione cristiana: conclusa a Barcellona la riunione del Ccee su evangelizzazione e mondo digitale.

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    Oggi in Primo Piano



    Filippine. Save the Children: allarme per migliaia di bambini rimasti orfani

    ◊   I feriti gravi, le donne in attesa, i neonati e i bambini saranno le priorità di intervento per lo staff medico di "Save the Children" in arrivo nelle Filippine, colpite dal tifone Hayan. La mancanza di un posto sicuro, di cibo e di acqua potabile rende ancora più drammatica la situazione per quasi quattro milioni di bambini colpiti da questo dramma. Minori che spesso sono rimasti soli e che rischiano di finire in mano a trafficanti senza scrupoli, che potrebbero indirizzare i piccoli verso il mercato delle adozioni irregolari o peggio ancora verso il traffico di organi o il mercato della prostituzione. Salvatore Sabatino ha intervistato Marco Guadagnino, portavoce progetti internazionali di Save the Children:

    R. – Al momento, non abbiamo conferme di dati sul numero di sfollati, quindi immaginate che è impossibile capire anche quanti sono gi orfani che in questo momento hanno bisogno di protezione. La cosa certa è che, così come in tutte le situazioni di conflitto o disastri naturali, il rischio che questi bambini rientrino in un meccanismo di traffico di esseri umani è altissimo. È indispensabile iniziare - e lo stiamo già facendo con le autorità locali - un percorso di tracciamento, di riunificazione dei gruppi familiari. È necessario che i team che in questo momento lavorano in ambito di protezione si occupino di quei bambini – adesso li stiamo vedendo anche in alcuni immagini, ce lo stanno confermando i nostri team sul posto – non avendo nulla sono per strada e chiedono l’elemosina. Sono soggetti estremamente vulnerabili per i trafficanti senza scrupolo che in questi casi, purtroppo, intervengono immediatamente.

    D. – Un rischio altissimo, soprattutto in un Paese come le Filippine dove, ricordiamo, secondo l’Unicef già prima della tragedia c’erano tra i 60 mila e i 100 mila bambini vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un fenomeno davvero odioso…

    R. – È un fenomeno odioso. Immaginate che in questo momento questi bambini sono molto spesso dislocati in rifugi, senza luce, senza protezione. La minima sicurezza in alcune di queste aree non è garantita e ovviamente questi bambini sono a rischio. Bisogna immediatamente intervenire, perché sia prevenuto ogni atto di violenza su questi minori che già stanno vivendo un dramma e che sono traumatizzati da una situazione assolutamente devastante.

    D. – Altra emergenza riguarda gli ottomila bambini nelle zone colpite dal disastro che nasceranno da qui a Natale, quindi evidentemente queste donne hanno bisogno di un supporto concreto per portare avanti la loro gravidanza …

    R. – Si, questi bambini devono nascere in un contesto di sicurezza. Le donne devono essere messe in grado di partorire questi bambini in contesti sanitari che siano accoglienti, igienici, funzionali. A questo scopo, Save the Children ha inviato un team di medici che si occuperà in particolare – insieme a tutta la struttura degli aiuti internazionali che in questo momento sta operando – di salute materna infantile, di prima infanzia, di sostenere le donne che da adesso ai prossimi mesi – pensate, in questo momento nell’area del tifone ci sono 90 mila donne incinte – partoriranno in queste situazioni in cui mancano le strutture ospedaliere. La metà di tutte le strutture ospedaliere è completamente distrutta. Quindi, bisogna intervenire immediatamente anche in questo ambito.

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    Egitto. Fratelli musulmani in piazza per la "protesta del milione", massima allerta

    ◊   Risale la tensione in Egitto. I sostenitori del presidente deposto, Mohamed Morsi, e dei Fratelli musulmani hanno organizzato per oggi una nuova imponente manifestazione Al Cairo, denominata “protesta del milione”. Si tratta, in particolare, di una manifestazione contro le condanne a 17 anni di carcere emanate ieri a 12 sostenitori dell'ex presidente che a ottobre avevano preso parte a scontri di piazza presso l'Università di Al-Azhar al Cairo, legata al mondo islamico sunnita. Sulla situazione, Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana difesa:

    R. - L’Egitto è oggi un Paese lacerato, diviso tra due poteri. Da una parte, il potere che ha un radicamento nella società, che è quello della Fratellanza musulmana, che è l’unico partito che è sempre esistito in Egitto, nonostante le repressioni e nonostante tutte le vicissitudini nella storia del Paese. Dall’altra, il potere della classe militare, che non ha una struttura di partito alle spalle, ma che ha un potere soprattutto di natura economica e che quindi ha un potere in grado di ripercuotersi su vasti strati della società, compresa l’assistenza sociale. Qui, nasce la grande frattura con la Fratellanza musulmana che è andata in collisione, una volta eletta, con la classe militare proprio sugli interessi economici.

    D. - Cosa rimane, dunque, della “primavera araba” egiziana, del dopo-Mubarak?

    R. - Credo niente. Noi in Europa e in Occidente abbiamo creduto e sperato che il mondo arabo si avviasse su una strada di apertura, di inclusione, di democratizzazione: in realtà, non c’è rimasto più niente. In diversi Paesi interessati dalla “primavera araba” si sono fermati i partiti islamici, fondamentalisti. In Siria, dopo i primi mesi di genuina protesta contro il regime di Assad, si è oggi in una guerra civile che è tra le più spaventose, per violenza, del dopoguerra mondiale: per cui, la situazione mi pare assolutamente critica, drammatica e in controtendenza rispetto a quelle che erano le aspettative e le aspirazioni della “primavera araba”.

    D. - Secondo molti osservatori internazionali, l’Egitto dovrà decidere come risolvere questa fase di stallo. Eppure, in questo momento tutti i vertici dei Fratelli musulmani sono stati rinviati a giudizio, compreso l’ex presidente Morsi. Quanta possibilità di dialogo c’è?

    R. - Ho la sensazione che in Egitto, così come in altri Paesi del Nord Africa, da questa situazione non se ne esca in tempi ragionevolmente brevi. Con tutto ciò che questo consegue per la sicurezza del Mediterraneo. L’Egitto è solo un caso di instabilità del Nord Africa. Guardiamo alla Libia, guardiamo alla Tunisia… Paradossalmente, i due Paesi che hanno retto un po’ meglio sono l’Algeria e il Marocco. E questo ha delle ovvie ripercussioni sulla sicurezza del nostro Paese e sulla sicurezza dei Paesi europei. Credo che dovremo abituarci a convivere con questa situazione per molti mesi, se non anni, ancora.

    D. - I ministri degli Esteri e della Difesa di Russia ed Egitto si sono incontrati al Cairo e hanno discusso in un vertice della crisi siriana. L’Egitto rimane, comunque, centrale per quanto riguarda lo scacchiere internazionale?

    R. - L’Egitto è uno dei Paesi chiave del Medio Oriente, il maggiore Paese arabo e quindi fondamentale. E l’incontro tra i due ministri è in un certo senso storico. Il riavvicinamento alla Russia è un esito scontato per quella che è stata ed è la politica dell’amministrazione Obama, che ha espresso nei confronti dell’attuale classe governativa egiziana delle riserve riguardo alla sua legittimità, con la decisione di sospendere e limitare gli aiuti militari. L’Egitto sembra ritornare alle vecchie forniture di armi da parte di Mosca, alla vecchia garanzia di sicurezza da parte di Mosca, visto che sta perdendo quella statunitense.

    D. - Ma a fronte di una situazione di instabilità nel Maghreb, il rinsaldarsi dei legami tra Egitto e Russia, con un conflitto aperto in Siria potrebbe comportare di nuovo delle instabilità o, al contrario, crea stabilità?

    R. - La Russia, che ha consuetudine di rapporti internazionali di un certo tipo e con una serie di Paesi anche nel Mediterraneo, è in realtà un fattore di stabilità. Un rientro della Russia nel Mediterraneo può, in qualche misura, far comodo anche agli stessi americani che - avendo spostato il proprio baricentro ormai sempre più verso il Pacifico - hanno interesse a che un’altra grande potenza, in qualche misura, subentri per togliere a loro il carico di alcune responsabilità di sicurezza.

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    Siria. Solidarietà della Chiesa di Aleppo. Mons. Jeanbart: non facciamo distinzioni di credo

    ◊   La rimozione di ogni agente chimico dagli impianti della Siria dovrà essere completata entro il 5 febbraio 2014, quella dei gas tossici entro il prossimo 31 dicembre. E' quanto previsto nella bozza del piano di distruzione dell'arsenale di Damasco, che viene sottoposta oggi all’approvazione del Consiglio esecutivo dell'Opac, l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Procedono al contempo i tentativi di mediazione internazionale per arrivare alla conferenza di pace "Ginevra 2": una delegazione del governo siriano sarà a Mosca lunedì prossimo, mentre la Coalizione nazionale siriana, principale raggruppamento delle forze di opposizione al regime di Bashar al-Assad, non ha ancora deciso se prenderà parte ai colloqui preliminari nella capitale russa. Sul terreno, però, non si fermano le armi: un bombardamento delle forze siriane ha ucciso un comandate ribelle ad Aleppo. Nella città della Siria settentrionale, più volte teatro di violenze e attentati, la Chiesa cattolica è in prima linea nell’aiuto alla popolazione colpita dalla guerra. Ce ne parla mons. Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo, intervistato da Giada Aquilino:

    R. – La situazione qui è terribile, perché siamo stati assediati da diverso tempo. Gli ultimi due mesi sono stati molto difficili, stando sotto la mira dei mortai e dei proiettili. Anche le strade, che portavano alle altre città, sono state chiuse. Non è stato possibile ricevere viveri, ma anche combustibile e altri materiali. La Chiesa è da 18 mesi che fa un grande sforzo per gli aiuti, con generi di prima necessità, assistenza finanziaria e medica, aiuti scolastici, accoglienza nelle case.

    D. – Avete deciso di destinare una parte degli aiuti ai padri di famiglia: perché?

    R. – Sono quelli più vulnerabili e più colpiti dalla situazione. Sono senza lavoro e senza risparmi. Alcuni si occupavano di piccolo artigianato, ma quest’attività non funziona più. Tanti hanno bisogno di aiuto per andare avanti con le loro piccole e grandi famiglie, con due o tre bambini. E assistiamo non solo i giovani padri, ma anche quelli di età media.

    D. – Poi, avete anche progetti a favore dei più piccoli, dei bambini, per l’educazione...

    R. – Sì, per l’educazione abbiamo preso la decisione di aprire le nostre scuole. Nella nostra chiesa greco-cattolica, melkita, abbiamo quattro scuole e due istituti aperti per accogliere tutti gli alunni. Abbiamo fatto in modo di sollevare le famiglie, aiutandole e creando delle borse di studio per 500 bambini e giovani.

    D. – Quindi, è un’accoglienza senza distinzione di religione?

    R. – Sì, senza distinzione di comunità, di appartenenza ad un rito, ma anche senza distinzione di religione. Quando si presenta un caso di un musulmano o di diversi musulmani che hanno bisogno, li aiutiamo.

    D. – Date anche ospitalità alle famiglie musulmane?

    R. – Sì, abbiamo accolto circa 35 famiglie musulmane in una delle nostre scuole, in uno dei nostri conventi, ma anche in diverse case messe a disposizione.

    D. – Come, con questo impegno, cercate di infondere speranza nella popolazione?

    R. – Questa azione è un’azione di urgenza, è un nostro dovere, è carità cristiana. Ci preme di andare avanti con questi aiuti. Allo stesso tempo, però, proviamo a mandare avanti un discorso di speranza e un discorso di responsabilità apostolica e responsabilità verso la nostra storia. Vogliamo rimanere in questo Paese, anche se alcuni pensano che non sia il caso che i cristiani rimangano. Alcuni Stati aiutano tanta gente ad andare avanti nel loro progetto di emigrazione: non ci piace affatto, perché alla fine quando verrà la pace – e la vediamo vicina – staranno meglio a casa loro, nel loro Paese. Noi inoltre abbiamo una missione, una responsabilità davanti alla Chiesa e al Signore di testimoniare in questa parte del mondo la Sua risurrezione e la Sua salvezza.

    D. – Quale può essere l’appello della Chiesa ai cristiani a rimanere in Siria, affinché non succeda quello che è successo poi recentemente anche in Iraq?

    R. – Facciamo tutto quello che possiamo. Chiamiamo tutti a ritornare alla fede profonda in Gesù Cristo e nella Sua provvidenza. Lo dico molto sinceramente: è un discorso davvero difficile in questa situazione, con le bombe che cadono su di noi e sui nostri fratelli. Qui, adesso, poco fa, una bomba è caduta vicinissima. Ieri, un mortaio è caduto davanti la cattedrale e non è esploso per provvidenza. Due giorni fa, nella mia camera da letto, è arrivato un proiettile che ha fatto molti danni, ma grazie a Dio ero nel mio ufficio. Per dire che quello che ci capita, qui nell’arcivescovado, capita anche alla gente in città. Cerco sempre di trovare motivi per sperare. Quello che il Papa è riuscito a fare per fermare l’attacco alla Siria è stato per noi come una porta aperta, per poter parlare di speranza e di una soluzione pacifica, anche in vista di "Ginevra 2": ci permette davvero di sperare in un Paese migliore di oggi e migliore di quello che era prima.

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    Iraq. Mons. Sako: visti facili per espatriare, forse c'è un piano per allontanare i cristiani

    ◊   Mentre l’Iraq conta i morti dell’ennesima strage di sciiti – oltre 40 uccisi ieri in diversi attentati, nel giorno della loro importante festa religiosa dell’Ashura – la Chiesa nel Paese è molto preoccupata per la continua emorragia di cristiani. Il patriarca caldeo, mons. Louis Sako, stigmatizza il fenomeno dei “visti facili” concessi dalle ambasciate e denuncia la possibile esistenza di un “piano” inteso a favorire il flusso delle famiglie cristiane all’estero. Le sue parole al microfono di Hélène Destombes:

    R. – Ogni giorno, ci sono famiglie che lasciano il Paese sia qui a Baghdad, ma anche nel Nord del Kurdistan. E’ un fenomeno veramente molto preoccupante. Non si capisce perché: in questo periodo non ci siano pressioni contro i cristiani. E’ vero che c’è tensione fra sunniti e sciiti, ma per quanto riguarda i cristiani finora non è successo niente. Se tutti i cristiani se ne vanno, dunque, che cosa rimane? Se rimane lì solo qualche famiglia, la loro presenza non avrà alcun impatto e sarà una presenza molto fragile. Durante tutta la nostra storia ci sono stati problemi, anche persecuzioni, ma i nostri padri non hanno lasciato il loro Paese. E c’è anche una testimonianza cristiana, c’è un dovere: se noi siamo cristiani, dobbiamo restare lì anche come missionari, riflettere i valori del Vangelo. Noi vescovi siamo preoccupati di questo fenomeno. Ci sono ambasciate che danno facilmente il visto a questi cristiani, ma anche ai non cristiani. Noi siamo contro il fenomeno, ma non se ci sono casi seri.

    D. – Come spiegate questa moltiplicazione di visti, che sono stati dati ai cristiani dalle ambasciate?

    R. – Forse c’è qualcosa, c’è un piano dietro, perché anche durante le difficoltà che abbiamo vissuto, le ambasciate non hanno dato questi visti. La gente è andata in Siria, in Libano, in Turchia, in Giordania e ci sono ancora delle persone che aspettano lì.

    D. – Quali sono le misure concrete che pensate di mettere in atto per combattere questo fenomeno?

    R. – Noi durante le omelie parliamo sempre e incoraggiamo la gente a rimanere. Facciamo ciò che possiamo per l’alloggio e per il lavoro. La settimana scorsa ho presentato più di 150 nomi di giovani al governo per un lavoro. Aiutiamo la gente povera, quando viene qui. Stiamo facendo il possibile, ma non possiamo fare miracoli. Anche nel Nord ci sono case date gratuitamente alle famiglie che hanno paura o che sono andate lì. Bisogna avere pazienza, ma anche avere fiducia nell’avvenire.

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    Camerun: rapito da Boko Haram il sacerdote francese Georges Vandenbeusch

    ◊   Il sacerdote francese Georges Vandenbeusch è stato rapito da Boko Haram ed è stato portato in Nigeria. Lo hanno ufficialmente annunciato le autorità camerunesi poche ore dopo il rapimento del prete, che attualmente aveva l’incarico di parroco a Nguetchewe, nel Nord del Paese, a soli 30 km dal confine con la Nigeria. “Abbiamo già dispiegato tutti i mezzi umani e materiali possibili per ricercare l’ostaggio, ma finora le nostre ricerche non hanno portato ad alcun risultato concreto” ha dichiarato Issa Tchiroma Bakary, portavoce del governo camerunense. Padre Georges, 42 anni, originario di Nanterre - riferisce l'agenzia Misna - aveva deciso di rimanere nell’instabile regione nonostante il Quai d’Orsay avesse decretato da tempo la zona “formalmente sconsigliata a causa del rischio terroristico e del pericolo di rapimento”. Dalla diocesi francese di Nanterre, mons. Gérard Daucourt ha confermato che “padre Georges ha appena fatto in tempo ad avvertire l’ambasciata”, ma dare l’allarme non è bastato ad evitare il peggio. Nella povera e remota parrocchia di Nguetchewe il prete francese prestava assistenza a circa 10.000 rifugiati nigeriani scappati in Camerun. Il sacerdote francese aveva denunciato “un potenziale di tensioni su base religiosa” nella regione ma anche il fatto che “la maggior parte dei rifugiati nigeriani sono cristiani, nel loro Paese di origine costretti alla conversione, alla morte o alla fuga”. Secondo alcuni testimoni locali padre Georges è stato portato via “scalzo” e “messo in sella ad una motocicletta guidata da un rapitore, partita in direzione del territorio nigeriano”. Ieri, a Nanterre, si è svolta una veglia di preghiera. Ce ne parla il vicario generale della diocesi di Nanterre, padre Hugues de Woillemont, al microfono di Xavier Sartre:

    R. – L’église était vraiment très, très, très, très pleine, avec beaucoup de jeunes. …
    La chiesa era veramente stracolma, con tanti giovani … E’ stata una bella veglia di preghiera, con un grande senso di pace. Ci siamo messi all’ascolto della Parola di Dio. C’erano, oltre ai parrocchiani, fratelli e sorelle della comunità protestante e anche rappresentanti della comunità ebraica dei dintorni di Sceaux; c’era il sindaco della cittadina e anche il vice-prefetto. E’ stata veramente una bella veglia di preghiera: dopo il tempo dell’informazione e il tempo dell’azione, c’è il tempo della preghiera, e noi siamo stati felici di fermarci per Georges, per tutte le vittime e per coloro che lavorano per la loro liberazione. Abbiamo pregato per Georges e per le altre vittime, ma io ho chiesto di pregare anche per i rapitori, perché credo che questo sia il banco di prova della nostra fede, di discepoli di Cristo: riuscire a pregare anche per coloro che ci fanno del male, affinché il loro cuore cambi e riescano ad impegnarsi in altro modo per le loro rivendicazioni.

    D. – Qual è lo stato d’animo nella parrocchia e nella diocesi?

    R. – C’est en même temps un esprit de mobilisation et d’espérance aussi …
    C’è al tempo stesso uno spirito di mobilitazione ma anche di speranza, perché Georges conta su di noi. Penso: in questo momento, Georges non avrà un Vangelo e nemmeno il suo breviario, ma probabilmente starà ugualmente recitando le sue “Ave Maria”, come usavamo fare. Ecco, direi che c’è un atteggiamento di preghiera, di discrezione, anche, di fiducia: questo forse è lo stato d’animo, insieme alla preoccupazione per questa situazione, perché non sappiamo quanto possa durare, com’è accaduto per un’altra famiglia francese, rapita qualche mese fa.

    D. – Avevate avuto notizie di padre Georges recentemente?

    R. – Oui: d’abord, on avait des nouvelles régulières, …
    Sì: all’inizio, avevamo sue notizie regolarmente quando la posta elettronica o il cellulare riuscivano a passare, perché ovviamente lì non ci sono le stesse condizioni che conosciamo in Europa, per quanto riguarda i collegamenti telefonici e internet. Ma comunque avevamo regolarmente sue notizie per posta, come anche regolarmente avevamo sue notizie dal vescovo di Maroua, mons. Stevens. Ci ha detto che ancora recentemente aveva incontrato padre Georges, e di come egli fosse cosciente del pericolo; nessuno lo aveva costretto a partire ed egli era molto contento di essere là. Possiamo ricordare che padre Georges aveva ricevuto tre anni fa l’incarico in una situazione diversa da quella odierna e come egli stesso avesse scelto di rimanere nonostante la situazione fosse diventata precaria. E’ l’immagine del pastore che rimane con il suo popolo, il suo gregge quando questo si trova in pericolo. Padre Georges non era andato in vacanza quando la situazione era diventata pericolosa; era stato nominato ed inviato ad una comunità che lo aveva ricevuto e con la quale era alla ricerca di Cristo per il servizio ai più poveri, ai cristiani, dei più fragili. Penso che lui abbia inteso dire: sì, certo, la situazione è cambiata, diventa più complessa. Non sono un incosciente e non corro rischi inutili perché, ad esempio, non giro di notte; ma resto con questo popolo che in questi giorni sta vivendo una prova difficile.

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    Cina abolisce i campi di lavoro. Modifiche a politica del figlio unico e pena di morte

    ◊   Mantenendo fede agli annunci dei giorni scorsi, il Partito comunista cinese, durante la riunione del Comitato centrale che si è chiuso lo scorso 12 novembre a Pechino, ha varato una serie di importanti riforme nell'ambito dei diritti umani e del sistema giudiziario. Annunciata oggi l’abolizione del sistema di rieducazione attraverso il lavoro e della politica del figlio unico, oltre alla riduzione del numero dei crimini soggetti alla pena di morte. Per un commento su queste aperture, Salvatore Sabatino ha intervistato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International:

    R. – La consideriamo una importante dichiarazione sulla carta. Non è neanche la prima volta che vengono fatte promesse di questo tipo. E’ importante che sia stato detto in maniera forte e chiara che occorrono cambiamenti profondi nell’amministrazione della giustizia in Cina e staremo a vedere se saranno portati a termine. Se così sarà, sarà stata una svolta veramente importante.

    D. – C’è un altro annuncio molto importante, che è quello della riduzione del numero dei crimini soggetti alla pena di morte. Che cosa vuol dire?

    R. – Non è la prima volta che viene annunciata una riduzione del numero dei reati capitali. Il grosso problema in Cina è che tutto questo non è riscontrabile, giacché l’amministrazione della pena di morte è un segreto di Stato. Quindi, non sappiamo ancora quante condanne vengono emesse, quante vengono eseguite e per quali reati. Da questo punto di vista, è un annuncio che considero ancora vuoto.

    D. – C’è stato un ulteriore annuncio che riguarda la politica del figlio unico, che da decenni obbliga le famiglie cinesi ad avere un solo figlio. Questa politica verrà allentata e corretta per promuovere - si legge - uno sviluppo equilibrato a lungo termine della popolazione cinese. Anche questo è un messaggio che va interpretato?

    R. – Sì. Bisogna cercare di capire come verrà attuata questa riforma. Quello che possiamo dire è che questa normativa penalizzante ha significato sacrifici da parte delle famiglie e ha anche significato finire in carcere per chi provava a contraddirla. Quindi, attiviste e attivisti per i diritti umani che contestavano la politica del figlio unico hanno subito conseguenze molto dure.

    D. – La Cina da anni è sotto osservazione per il miglioramento della situazione dei diritti umani. Quanto queste decisioni possono essere legate all’esigenza di un Paese, che sta diventando sempre più influente economicamente, di affacciarsi nell’agone dei Paesi più importanti al mondo?

    R. – La Cina ormai è un attore globale di suprema importanza. In passato, questa sua ascesa nel gruppo di Paesi che hanno un grande potere decisionale non è stata segnata da un miglioramento dei diritti umani, anche perché nessun Paese poi glielo chiedeva per timore di rovinare i propri rapporti con Pechino. Se ora la Cina fa un primo passo è importante, ma naturalmente rimangono due problemi. Il primo, attuare veramente quello che dicono. Il secondo, risolvere tutta un’altra serie di questioni legate, ad esempio, agli sgomberi forzati, alle minoranze, al Tibet, al Xingjang e anche alla politica estera della Cina, che è una politica spesso di depredamento di risorse di Paesi, in Africa in particolare, in cambio della fornitura di armamenti.

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    Bologna. Bambina di 3 anni affidata a coppia gay. La psicologa: possibili rischi psicologici

    ◊   Il Tribunale minorile di Bologna ha dato in affidamento temporaneo una bambina di tre anni a una coppia di omosessuali. Il giudice ha accolto il parere favorevole dei Servizi sociali, ritenendo che ci siano tutte le condizioni di “benessere e serenità” richieste dalla legge. La Procura minorile del capoluogo emiliano, che aveva già espresso parere contrario all’affidamento, potrebbe decidere di impugnare il provvedimento. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

    Due uomini di mezza età che convivono da tempo, lavorano e hanno un buon reddito. A loro, il Tribunale di Bologna ha concesso l’affido temporaneo di una bambina di tre anni che vive in un problematico contesto familiare. La piccola, secondo i Servizi sociali, è molto affezionata ai due uomini tanto da chiamarli “zii”, anche se non ci sono legami di parentela fra la bambina e gli adulti. La coppia non era stata considerata all’altezza del compito dalla Procura minorile del capoluogo emiliano, che si era opposta all’affidamento temporaneo. Per il giudice del Tribunale minorile di Bologna, ci sono invece tutte le condizioni richieste dalla legge. In particolare, l'affido temporaneo, a differenza dell’adozione, non recide il legame con i genitori naturali. La legge prevede che, se vengono garantiti al bambino benessere e serenità, possano essere genitori affidatari coppie tradizionali sposate ma anche single o una “comunità di tipo familiare”, formata cioè da due persone che assolvono la funzione di genitori. Una decisione, quella del Tribunale di Bologna, che segue il pronunciamento, lo scorso mese di gennaio, della Corte di cassazione, in riferimento a un caso di affido di un bambino alla madre convivente con un’altra donna. La Corte, in quell’occasione, ha definito un “mero pregiudizio” il ritenere “che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”. Ma quali sono i rischi, in ambito psicologico, in caso di affidamento o di adozione da parte di una coppia omosessuale? Risponde Rosa Rosnati, docente di Psicologia dell’adozione e dell’affido, presso l’Università Cattolica di Milano:

    R. – I bambini che vengono affidati arrivano già da situazioni particolarmente problematiche e per questo un giudice decide che quella situazione familiare di origine non sia adeguata alla loro crescita. Subiscono, quindi, comunque un allontanamento dalla loro famiglia, che ha già di per sé degli effetti traumatici, che si vedono successivamente ed emergono nel lungo periodo. Per questo, per tali minori sarebbero auspicabili delle situazioni familiari molto protettive, senza aggiungere altri elementi di complessità. Sicuramente, ci sono molte ricerche che testimoniano e che evidenziano come coppie di persone - si chiamano coppie "omogenitoriali" - siano capaci di far crescere i bambini. Però altre ricerche, soprattutto recenti ricerche, hanno evidenziato come nel lungo periodo possano emergere alcuni problemi di tipo psicologico e anche problemi proprio di ordine psichiatrico.

    D. – Si parla, in particolare, di possibili problemi comportamentali, maggiori probabilità di depressione, anche instabilità affettiva. Sono questi, forse, i rischi maggiori?

    R. – Sì, esattamente. Perché la costruzione dell’identità, che è il processo fondamentale anche dal punto di vista psicologico, necessita proprio di una relazione con la figura maschile e la figura femminile, perché all’origine ciascuno di noi è frutto dell’incontro di un maschile e di un femminile. Quindi, non c’è identità se non c’è origine, se non c’è conoscenza, se non c’è accesso all’origine.

    Intanto, a Roma, il sindaco Ignazio Marino, ribadisce il proprio parere favorevole su matrimoni e adozioni omosessuali e indica il Registro delle unioni civili come una realtà ormai prossima. Le dichiarazioni del sindaco sono arrivate poche ore dopo la visita di Papa Francesco al Quirinale e l’appello rivolto a tutti, singoli e istituzioni, davanti alla massima autorità dello Stato, per un sostegno alla famiglia, che “chiede di essere apprezzata, valorizzata e tutelata”. Il settimanale della diocesi di Roma “RomaSette” sottolinea come “l'iter della proposta per un Registro delle unioni civili in Campidoglio" sia "la cronaca di uno sbandamento annunciato”. “Un deragliamento dai principi costituzionali e dalle normative nazionali preparato con cura, nella piena consapevolezza dell'inutilità di un eventuale varo del registro e della sua irrilevanza giuridica”. “Il registro delle unioni civili – si legge infine nell’articolo pubblicato da RomaSette - sarebbe solo una bandierina da collocare sulla sommità del burrone – per il futuro della famiglia, luogo primario della trasmissione dei valori della convivenza civile – verso cui conducono scelte simili”.

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    Roberto Moncalvo nuovo presidente di Coldiretti: "Puntare sulla qualità"

    ◊   Sempre più stranieri decidono di investire nell’agricoltura italiana. E’ l'analisi che emerge dall’odierna assemblea di Coldiretti a Roma, che ha eletto il suo nuovo presidente. Si tratta di Roberto Moncalvo, 33 anni, titolare di un'azienda agricola nel piemontese. Alessandro Guarasci:

    Agli stranieri piace la campagna italiana. Sono oltre le 17 mila le aziende agricole detenute da stranieri, con un aumento dell'11% rispetto al 2007. In prima fila, i personaggi famosi: è il caso del calciatore svedese, Nils Erik Liedholm, ora scomparso, ma che a suo tempo avviò una casa vinicola nel Monferrato ora gestita dai figli. Oppure di Carole Bouquet, che produce passito a Pantelleria. Insomma, un settore in assoluta controtendenza. Ma comunque ritenuto fondamentale dagli italiani. Il 54% dei cittadini, infatti, pensa che la produzione di cibo sia la più importante dell'economia italiana seguita dalla moda. E i giovani vedono nell’agricoltura una possibilità di sviluppo. Il nuovo presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo, ha infatti 33 anni ed è titolare di un'azienda di cereali a Settimo Torinese. Ed convinto che la produzione italiana vada maggiormente tutelata:

    “Muovere dalle distintività e dalle qualità dei nostri territori, dei nostri prodotti, del nostro paesaggio e del nostro ambiente. Proseguiremo, quindi, per poter rafforzare la nostra presenza come organizzazione di categoria, dando risposte concrete ai nostri soci, avendo come primo obiettivo quello di fare in modo che le risorse della nuova politica agricola comunitaria siano rivolte esclusivamente a chi vive di agricoltura”.

    Moncalvo vede nell’Expo 2015 una possibilità per far conoscere al mondo le produzioni italiane.

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    Convegno cure palliative: legge in materia è solida ma ci sono resistenze culturali

    ◊   Prendere in carico il malato globalmente, avviando processi assistenziali integrati. Sono le sfide ribadite al convegno, nazionale, sulle cure palliative che si è tenuto ieri presso la Pontificia Università Lateranense. L’iniziativa è stata organizzata dal "Centro Cure Palliative Fondazione Roma", che quest’anno festeggia il 15.mo di attività. Nel 1998, rappresentava il solo punto Hospice per tutto il Centro-Sud Italia. Oggi, la struttura si occupa anche di SLA e Alzheimer. Ieri, dopo il saluto del Rettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Enrico Dal Covolo, hanno partecipato al Convegno rappresentanti delle strutture impegnate in prima linea nelle cure palliative, medici, esperti e studiosi. Al microfono di Massimiliano Menichetti, la prof.ssa Adriana Turriziani, presidente della Società Italiana Cure Palliative, spiega il significato del tema scelto per l’incontro di ieri: “L’Ora delle cure":

    R. – Significa un’attenzione a come garantire al malato la continuità della cura, difficile in questo percorso dell’inguaribilità. Vuol dire farsi carico di un malato oncologico e non, identificare precocemente i pazienti che si avvicinano alla fine della vita e quindi come dare anche cure di qualità.

    D. – Lo ribadiamo, quando si usa la parola “cura” in questo caso non vuol dire risoluzione della malattia, ma vuol dire farsi carico della persona per accompagnarla verso il percorso del fine vita…

    R. – La presa in carico globale della persona: la globalità vuol dire problematiche fisiche, psicologiche, sociali e spirituali.

    D. – Il paziente che soffre di demenza o di Alzheimer è un paziente complesso e che cosa vuol dire, in questo caso, applicare le cure palliative?

    R. – Vuol dire avere attenzione precoce, sicuramente introdurre l’approccio palliativo e quindi un’attenzione profonda ai problemi non solo fisici del paziente, ma anche generali: dare quindi il supporto anche alla famiglia lungo il percorso della malattia stessa. Essere presenti come servizio, come modello organizzativo, ma anche come competenza professionale in questi ambiti, appunto, anche per patologie non oncologiche.

    D. – La Legge 38 del 2010 di fatto ha sancito il diritto per i malati inguaribili ad accedere alle cure palliative. Qual è la situazione oggi in Italia?

    R. – Abbiamo un impianto normativo forte. Questa legge ha come rivoluzione dentro di sé che gli altri operatori sanitari, che le altre discipline devono saper orientare il malato. Intendo dire che se il malato ha già una diagnosi di una patologia evolutiva, è lì che chi ci precede come terapeuta deve anche saper guidare e orientare il paziente e la famiglia ai servizi di cure palliative. E qui, ci sono barriere culturali organizzative da abbattere. Le cure palliative non sono le cure degli ultimi giorni, ma le cure lungo la traiettoria della patologia. L’altro concetto forte, presente nella legge, è quello di lavorare in rete: sviluppare i servizi, ma creando omogeneità e qualità in tutto il territorio, in tutto il Paese, per tutte le patologie, per tutte le età e per ogni ambito.

    D. – L’accesso alle cure palliative si attiva automaticamente o bisogna chiederlo e come si fa?

    R. – Si attiva attraverso il primary systems: il medico che ha in cura il paziente, che può essere il medico di medicina generale o il medico dell’ospedale. Il medico individuando il bisogno, segnala il paziente o all’hospice o all’Unità di cure palliative domiciliare (Ucp).

    D. – Possiamo dire che è un modo per riscoprire la persona nel paziente, piuttosto che il paziente numero?

    R. – Il paziente dovrebbe già esserci, nel Sistema sanitario nazionale, perché il paziente è già al centro del Sistema sanitario nazionale. Con la Legge 38, il paziente è anche persona. Perché se parliamo di carico globale, non ho più solo il paziente, la patologia, ho la persona tutta.

    D. – Cura palliativa vuol dire sì assistenza ospedaliera, ma spesso anche domiciliare. Questo aiuta molto…

    R. – Soprattutto la Unit del futuro sono le cure palliative domiciliari. Lì dove il paziente ha sempre vissuto e lì dove magari ha diritto di rimanere, è lì che l’équipe andrà, è lì che l’équipe l’aiuterà.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Varsavia: alla Conferenza Onu i cristiani digiunano per le vittime dei cambiamenti climatici

    ◊   Un digiuno per esprimere solidarietà alle vittime dei cambiamenti climatici e, in special modo, a quelle del tifone Hayian nelle Filippine, che ne è effetto evidente: è l’iniziativa vissuta oggi, dai cristiani riuniti alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici in corso a Varsavia dall’11 al 22 novembre. Come comunicato all'agenzia Fides, l’iniziativa è stata lanciata dalla delegazione della “Federazione Luterana Mondiale” presente all’Assemblea, che è stata particolarmente toccata dall’evento del tifone Hayian nelle Filippine. Al digiuno si sono uniti i cristiani membri del Consiglio Mondiale del Chiese ma anche tanti delegati non cristiani, che hanno condiviso il gesto di solidarietà verso popolazioni povere e vulnerabili, colpite da eventi meteorologici estremi. Tutti hanno lanciato un appello perché la comunità internazionale non resti indifferente e trovi soluzioni immediate per contrastare in modo significativo i cambiamenti climatici, a partire dalle emissioni di Co2. Alla conferenza sono presenti delegati da oltre 190 Paesi che si interrogano sulle soluzioni rispetto alla sfida dei cambiamenti climatici globali. Il rappresentante filippino, Yeb Sano, ha aperto la sessione dell’11 novembre con un appassionato appello “perché il business non calpesti la vita di popolazioni innocenti” promettendo di digiunare “finché la Conferenza non raggiunga un risultato significativo”. Le delegazioni delle Chiese cristiane hanno portato esempi diversi sugli effetti devastanti dei cambiamenti climatici: la siccità in Angola e Namibia , le inondazioni in India , gli uragani negli Stati Uniti e nel Sudest asiatico. Il Consiglio Mondiale delle Chiese ha espresso solidarietà alle vittime del tifone, impegnandosi negli aiuti e nella preghiera. In una nota del Consiglio si legge: “Urge riconoscere che i cataclismi hanno gravi conseguenze soprattutto sulle popolazioni più povere. Chiediamo ai governi e alle agenzie di aiuto in tutto il mondo di non dimenticare i più poveri. Riconosciamo il costante aumento di intensità delle tempeste. Preghiamo perché ognuno facci la sua parte per invertire questo trend negativo”. (R.P.)

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    Vescovi europei: sulle migrazioni indicano "solidarietà e flessibilità"

    ◊   Un approccio “più umano” alle migrazioni, una maggiore “flessibilità” e “apertura” nell’affrontare il fenomeno, maggior cooperazione allo sviluppo con i Paesi d’origine dei flussi migratori, maggior accoglienza nelle comunità parrocchiali, lotta aperta alla tratta di esseri umani: sono alcuni degli elementi distintivi che vengono sottolineati dai vescovi europei al termine dell’Assemblea plenaria Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), che si è conclusa oggi a Bruxelles. I lavori si sono concentrati sulle migrazioni; sono stati ricordati i recenti accadimenti nel Mediterraneo, che sollecitano la comunità ecclesiale oltre che quella civile. In un messaggio finale, la Comece sottolinea che è bene “distinguere tra migrazione regolare e irregolare”; i vescovi ritengono “che il quadro legale debba sempre essere rispettato”, ma è necessaria “una maggior flessibilità e apertura alle situazioni umane particolari”. L’Assemblea ha ascoltato la relazione di un funzionario della Commissione Ue sulle regole relative all’asilo. D’altro canto, sottolineano i vescovi, “gli Stati membri mediterranei sentono di portare una parte troppo grande del problema”. Comece rende noto che “i vescovi hanno ricevuto una lettera dai loro confratelli maltesi che chiede maggiore solidarietà verso il loro Paese”. In questo senso “è essenziale che tutti i Paesi Ue siano solidali tra loro”. Aprendo martedì i lavori dell'Assemblea, il card. Reinhard Marx, presidente della Comece, aveva affermato che “abbiamo bisogno di più Europa, per arrivare ad una Europa migliore”. La relazione del card. Marx si è sviluppata in diversi capitoli, a partire dall’elezione di Papa Francesco e dall’incontro con il Pontefice da parte del presidium Comece, nel maggio scorso; un ulteriore capitolo si è soffermato sulla “voce della Chiesa in Europa nel momento presente”. (R.P.)

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    Nord Kivu: governo pronto a firmare la pace con fazione di M23

    ◊   Il governo congolese si è detto pronto a concludere “in tempi ragionevoli” i colloqui di pace in corso a Kampala con la firma di un “documento” che metta un punto finale a 18 mesi di conflitto con la ribellione del Movimento del 23 marzo (M23). Le parole di apertura delle autorità di Kinshasa - riferisce l'agenzia Misna - giungono all’indomani della scissione dell’M23 e della disponibilità data da un’ala presentatosi come “realista” – guidata da Serge Kambasu Ngeve – disposta a siglare un documento conclusivo in cambio di “amnistia, accantonamento o reinserimento delle nostre truppe alla vita civile”. In conferenza stampa, il portavoce dell’esecutivo Lambert Mende ha accolto positivamente “la presa di coscienza dell’ala dell’M23 che ha accettato con realismo le posizioni del governo”, auspicando che anche i mediatori dell’Uganda “possano avvicinarsi alla linea più ragionevole”, riconoscendo finalmente la “sconfitta militare” dei ribelli. L’ala ‘dura’ dell’M23, guidata da Bertrand Bisimwa, capo politico dell’M23, e da René Abandi, capo negoziatore della ribellione, non intende invece rinunciare alla firma di un accordo di pace. Kinshasa non vuole sentire parlare di tale documento che “darebbe uno statuto legittimo a una forza negativa e già sconfitta sul terreno”. Pur dando un segnale di apertura nei confronti dell’ala più moderata della ribellione, Mende ha precisato che “in alcun modo verranno integrati automaticamente nell’esercito regolare tutti gli ex combattenti dell’M23 che lo auspicano”. Solo quelli che otterranno l’amnistia individuale, che il governo concederà a quei ribelli che non si sono macchiati di crimini gravi, potranno presentarsi agli uffici di reclutamento dell’esercito ma “dopo aver recuperato i propri diritti civici”. Nonostante le pressioni della comunità internazionale a concludere il conflitto in Nord Kivu, riapertosi con la nascita dell’M23 nel maggio 2012, lunedì scorso a Kampala il governo congolese ha rifiutato di firmare un accordo di pace con il gruppo ribelle, sostenuto dall’Uganda e dal Rwanda. Arrivato al tavolo negoziale da vincitore, dopo la pesante sconfitta militare inflitta all’M23, Kinshasa vuole far accettare le proprie condizioni politiche. Nell’est del Congo sono ancora attivi almeno sette gruppi armati, tra cui i ribelli hutu ruandesi delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr), prossimo bersaglio dell’esercito e della brigata di intervento dell’Onu. (R.P.)

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    Il Gambia rompe le relazioni diplomatiche con Taiwan

    ◊   A nome di un non meglio precisato “interesse nazionale strategico”, il governo di Banjul ha annunciato la rottura “con effetto immediato” delle sue relazioni diplomatiche con Taiwan, stabilite 18 anni fa. Dopo essere giunto alla conclusione che “il governo gambiano deve riconsiderare le relazioni diplomatiche e disimpegnarsi con Taiwan”, un comunicato diffuso dalla presidenza sottolinea che “siamo fieri di essere stati un partner solido e affidabile, con risultati sotto gli occhi di ogni taiwanese”. La nota aggiunge che nonostante la fine delle relazioni stabilite nel luglio 1995, “rimarremo sempre amici del popolo taiwanese”. Taiwan collaborava con il Gambia nel settore della cultura del riso, della fornitura di equipaggiamenti medici, della formazione medico-sanitaria e della costruzione di strade. Di fronte all’assenza di motivazione dettagliata da parte delle autorità gambiane - riferisce l'agenzia Misna - alcuni osservatori hanno ricollegato la decisione diplomatica inattesa alla prospettiva per Banjul di allacciare a breve rapporti diretti con la Cina, che ha un’influenza sempre crescente in Africa, non solo sul piano economico. Pechino cerca apertamente di convincere i potenziali partner alleati di Taiwan a voltare le spalle al governo di Taipei, considerando l’isola parte integrante del territorio cinese. Così nel corso degli anni, man mano che i legami si sono rafforzati tra la Cina e il continente, un numero sempre maggiore di paesi africani ha rotto le relazioni diplomatiche con Taipei, pur avendo riconosciuto da tempo la sovranità di Taiwan. Dopo la defezione di Banjul, in Africa sono ormai pochi i Paesi alleati con Taiwan: Swaziland, Sao Tome e Principe e Burkina Faso. (R.P.)

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    Sud Sudan. Messaggio dei vescovi: "la guerra è finita, ora guardare avanti"

    ◊   Porre fine a corruzione e nepotismo, favorire la trasparenza negli affari pubblici e la riconciliazione tra i cittadini: sono alcuni delle priorità indicate alle autorità di Juba dai vescovi del Sud Sudan, riunitisi nella capitale in vista della conclusione dell’Anno della fede, dichiarato dal Papa emerito Benedetto XVI nell’ottobre 2012. Dopo aver ricordato che “c’è molto da celebrare e per cui essere grati, nella Repubblica del Sud Sudan”, i prelati - riferisce l'agenzia Misna - sottolineano che “la costruzione di una nazione non è un compito semplice” e che “pur essendo coscienti delle urgenze diverse con cui i leader si trovano a fare i conti” i vescovi consigliano di fissare “un numero limitato di obiettivi da raggiungere, assicurandosi che vengano perseguiti, piuttosto che disperdere le proprie forze cercando di fare tutto, correndo il rischio di non ottenere niente. È tempo di riconoscere che il Sud Sudan non è più una nazione in guerra – ammettono – e che se anche ci sono ancora numerose emergenze che che necessitano una risposta umanitaria, il grosso degli sforzi, anche economici, dovrebbero concentrarsi verso lo sviluppo a lungo termine e la sostenibilità, che include l’istruzione delle nuove generazioni”. Tra le sfide che il Paese si trova ad affrontare e che destano ancora “preoccupazione” tra i religiosi, quella delle ribellioni armate, in particolare nella regione di Jonglei: “Invitiamo i cittadini ad essere orgogliosi delle loro origini e culture tribali ma a non lasciarsi trascinare nel tribalismo che contrappone un gruppo ad un altro” affermano i vescovi, chiedendo “di resistere alla “tentazione della violenza”. Riguardo ai rapporti col vicino Sudan, i vescovi si congratulano dell’accordo che ha consentito di recente, di riprendere le esportazioni di petrolio “portando sollievo economico alle popolazioni di entrambi i Paesi”, ma si dicono rattristati dalla “mancanza di progressi in altre aree, come quella relativa alla demarcazione dei confini”. Su Abyei, quindi, i vescovi dicono di “capire la frustrazione della comunità Dinka Ngok” che ha organizzato un referendum per l’autodeterminazione non riconosciuto a livello politico e internazionale “e pregano perché le loro aspirazioni vengano riconosciute” e la pace “torni in quell’area problematica”. Nel completare il quadro del Paese, a due anni e mezzo dall’indipendenza, i vescovi del Sud Sudan ricordano che la minaccia dei ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) esiste ancora, e si sicono “costernati” dalla notizia di un nuovo attacco a Ezo, nella regione medidionale dell’Eastern Equatoria “dopo un periodo in cui i cittadini avevano cominciato a riprendersi dalle loro devastazioni”. Le conclusioni del lungo messaggio sono per la “riconciliazione nazionale e la cura delle ferite”. Entrambe, osservano i vescovi – incoraggiati dalle tante iniziative e dalla nasciata del Comintato per la pace e la riconciliazione creato dal presidente Salva Kiir – “devono essere assoluta priorità per il governo sud sudanese”. (R.P.)

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    Rapporto Aiea: con Rouhani tagli consistenti al programma nucleare iraniano

    ◊   L'elezione del presidente Hassan Rouhani ha prodotto un taglio dello sviluppo nucleare iraniano. È quanto emerge dal recente rapporto trimestrale presentato dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) e pubblicato dopo l'incontro fra Yukiya Amano, direttore generale dell'Aiea, e Ali Akbar Salehi, responsabile dell'Agenzia nucleare iraniana, avvenuto lo scorso 11 novembre a Teheran. Le rivelazioni dell'Agenzia Onu - riferisce l'agenzia AsiaNews - giungono dopo il parziale fallimento dei colloqui di Ginevra fra Iran e membri del Consiglio di sicurezza Onu più la Germania sul nucleare. Nonostante il cauto ottimismo, gli incontri sono terminati ancora una volta con un nulla di fatto per il no secco della Francia alla definizione di un accordo di base. La prossima settimana vi sarà un nuovo incontro fra Iran e membri del 5+1. Secondo la relazione dell'Aiea, fra agosto e settembre Teheran ha aggiunto quattro centrifughe rudimentali al suo stabilimento principale di arricchimento dell'uranio a Natanz, per un totale di 15.240 centrifughe di cui circa 10mila sono in funzione. Nel precedente periodo di riferimento (maggio - agosto) erano state installati ben 1800 nuovi macchinari per l'arricchimento. Gli esperti dell'agenzia Onu sottolineano che gli iraniani hanno una riserva di oltre 7mila chilogrammi di uranio arricchito al 5 % (U - 235) e 196 chilogrammi al 20%. La quantità è troppo bassa per consentire la fabbricazione di ordigni nucleari ed è al di sotto della linea rossa stabilita nel 2012 da Israele pari a 240 chilogrammi. Inoltre Teheran non avrebbe la capacità tecnologica per arricchire in modo ulteriore le scorte di U-235. A gettare ombra sul rapporto dell'Aiea è il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Durante un discorso ad alcuni giovani ebrei della diaspora tenutosi a Gerusalemme, egli ha affermato "che l'Iran non sta espandendo il suo programma nucleare, perché ha già le basi necessarie per le armi nucleari". "Il problema - ha aggiunto - non è se frenare il programma di Teheran, ma interromperlo". Le aperture dell'Iran a una riduzione del programma nucleare in cambio di un parziale ridimensionamento delle sanzioni economiche hanno invece cambiato l'atteggiamento di Stati Uniti e altri membri del Consiglio di sicurezza Onu. Ieri il presidente Barack Obama ha fatto un nuovo appello al Congresso per fermare una nuova tornata di sanzioni contro la Repubblica islamica appoggiata dal partito Repubblicano. "Se vogliamo seriamente perseguire la via della diplomazia - ha dichiarato il presidente Usa - non vi è alcuna necessità di aggiungere nuove sanzioni a quelle già attive che sono già molto efficaci e hanno fatto sedere l'Iran al tavolo dei negoziati". (R.P.)

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    Brasile: forte aumento della deforestazione in Amazzonia

    ◊   Nell’arco dell’ultimo anno la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana ha raggiunto i 5843 km2, il 28% in più rispetto all’anno precedente, registrato come il più ‘virtuoso’ della storia: lo ha annunciato il ministro dell’Ambiente, Izabella Teixeira, precisando che si tratta di un bilancio ancora provvisorio relativo all’anno del calendario del governo, che va da agosto 2012 a luglio 2013. Texeira - riferisce l'agenzia Misna - ha convocato una riunione d’emergenza con i suoi omologhi di tutti gli Stati dell’Amazzonia per “chiedere spiegazioni” e disegnare misure per ottenere un’inversione di tendenza. La riunione si terrà venerdì della settimana prossima, quando il ministro anticiperà il suo rientro in Brasile dalla Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici in corso a Varsavia. “Il governo del Brasile considera inaccettabile qualsiasi aumento del disboscamento illegale e non lo tollererà. Il nostro impegno è invertire qualsiasi incremento della deforestazione fino ad eliminarla” ha insistito Texeira, respingendo le accuse di mancata attenzione da parte delle autorità. “Il governo aveva mostrato una riduzione consistente della deforestazione, quasi l’80% in un decennio, ma con l’approvazione del nuovo Codice forestale, di nuovi impianti idroelettrici, rinunciando a creare altre aree protette ha aumentato la speculazione sulle terre, lasciando intendere che la combatterà con molta durezza” ha commentato Adalberto Veríssimo, dell’Istituto Imazon, organizzazione non governativa per la tutela dell’ambiente. La deforestazione nell’Amazzonia brasiliana aveva toccato il suo record negativo di 4571 km2 nel 2012, dopo un allarmante picco di 27.000 km2 nel 2004. (R.P.)

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    Comece: il card. Marx annuncia documento dei vescovi sulle elezioni parlamentari europee

    ◊   “Abbiamo bisogno di più Europa, per arrivare a una Europa migliore”. È quanto ha affermato il card. Reinhard Marx, presidente della Comece, aprendo i lavori dell’assemblea d’autunno dell’organismo ecclesiale. La plenaria - riferisce l'agenzia Sir - è specialmente dedicata al tema delle migrazioni, e prevede, oltre alle relazioni di vescovi, del segretario generale padre Patrick Daly, dei componenti del segretariato Comece, anche l’intervento di alcuni esperti, fra cui un alto funzionario di polizia britannico e di una donna rifugiata. La relazione di Marx si è sviluppata in diversi capitoli, a partire dall’elezione di Papa Francesco e dall’incontro con il Pontefice da parte del presidium Comece, nel maggio scorso; un ulteriore capitolo si è soffermato sulla “voce della Chiesa in Europa nel momento presente” e qui il cardinale ha chiarito che nella sessione di oggi sarà discusso un documento da rendere noto all’inizio del 2014 in vista delle elezioni per il Parlamento europeo. Una citazione di compiacimento e di sostegno è andata quindi all’Iniziativa dei cittadini “Uno di noi”, con la raccolta in tutta l’Ue di un milione e 800mila firme a sostegno della vita. Il presidente della Commissione degli episcopati della Comunità europea si è poi soffermato su alcune “questioni cruciali” che interrogano in particolar modo i vescovi e la Chiesa cattolica in questo frangente: le migrazioni, la crisi economica con le sue ricadute, il crescere di populismi e nazionalismi, taluni processi legislativi avviati in vari Paesi e in sede comunitaria. Sui temi economici, il card. Marx ha tra l’altro affermato: “Si nota, all’interno dell’Ue, la crescente convinzione che le soluzioni tradizionali non funzionano nella crisi attuale”. È “un fatto che né gli uomini di Stato, né i politici”, né i funzionari Ue né gli esperti “sanno davvero come uscire” dalla fase recessiva. Di fatto mancano risposte “creative” e adeguate ad affrontare i problemi, nonché soluzioni che “tengano conto dei principi etici che dovrebbero essere alla base di una società libera, aperta, democratica, prospera e giusta”. Marx si è dunque domandato se questo sia un ambito “in cui la Chiesa potrebbe portare il suo specifico contributo”. I lavori proseguono con un confronto tra i prelati presenti. (R.P.)

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    Lettera del preposito padre Nicolas: i Gesuiti guardano alla missione universale

    ◊   Nel 2014 i Gesuiti celebreranno il secondo centenario della Ricostituzione della Compagnia di Gesù, sancita dalla Bolla papale “Sollicitudo omnium ecclesiarum” di Papa Pio VII del 7 agosto 1814. In occasione dell’anno commemorativo, che ufficialmente comincia il 3 gennaio 2014, festa del Santissimo Nome di Gesù, e termina il 27 settembre, anniversario della approvazione della Compagnia nel 1540, il preposito generale, padre Adolfo Nicolás, ha inviato una lettera a tutti i Gesuiti, in cui ricorda che “in molte parti del mondo sono stati programmati studi approfonditi, pubblicazioni, incontri e conferenze accademiche per promuovere una più profonda conoscenza e comprensione delle complesse realtà della Soppressione e Ricostituzione della Compagnia”, tuttavia - riferisce l'agenzia Fides - chiede anche che “nel corso del 2014 lo studio storico sia approfondito nella preghiera personale e comunitaria, nella riflessione e nel discernimento”, perché l’attenzione non sia focalizzata unicamente sul passato, ma questo sia compreso ed apprezzato “in modo da poter procedere nel futuro”. Tra i temi di riflessione e di studio proposti, padre Nicolás indica quello della “Missione universale” con queste parole: “Una delle caratteristiche della Compagnia ricostituita fu il notevole spirito e attività missionaria. Durante il generalato di padre Roothaan, il 19% dei 5.209 membri della Compagnia operavano al di fuori della Provincia nella quale erano entrati. Le origini di molte Province dell'Asia, Africa, America e Australia risalgono a quel periodo della Compagnia ricostituita. Quale potrebbe essere per noi oggi il significato di questo forte senso della missione universale nella Compagnia nuovamente ricostituita?”.

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    Un convegno ricorda il 50° dello storico pellegrinaggio di Paolo VI in Terra Santa

    ◊   Oggi pomeriggio, all’Auditorium San Fedele a Milano, il cardinale arcivescovo Angelo Scola interverrà al convegno “4-6 gennaio 1964. Paolo VI pellegrino in Terra Santa: un evento storico per la Chiesa universale”, con cui l’arcidiocesi e lo stesso card. Scola (suo quarto successore sulla Cattedra di Ambrogio) vogliono rendere omaggio ad uno dei suoi più illustri arcivescovi, il card. Giovanni Battista Montini nel 50° anniversario della sua elezione al Soglio Pontificio avvenuta il 21 giugno 1963, sottolineandone in particolare la decisione di recarsi pellegrino in Terra Santa, primo pontefice dopo San Pietro. Un viaggio “storico” che verrà rievocato attraverso il documentario “Ritorno alle sorgenti - Paolo VI in Terra Santa”, prodotto nel 1964 dalla Custodia, restaurato per l’occasione e che verrà proiettato questa sera. Il filmato - riporta l'agenzia Sir - è un documento storico di grande importanza: mostra una Terra Santa ormai scomparsa, precedente alla guerra dei "Sei Giorni". Tra le immagini memorabili della pellicola, da segnalare quelle del commovente incontro avvenuto a Gerusalemme, tra Paolo VI e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora. Al convegno parteciperà anche frà Dobromir Jasztal, vicario della Custodia di Terra Santa. Interverranno don Angelo Maffeis (presidente Istituto Paolo VI di Concesio) e Andrea Tornielli, vaticanista de “La Stampa”. Inoltre, il 10 gennaio 2014, il pellegrinaggio di Paolo VI sarà ricordato presso l’Istituto Paolo VI di Concesio (Bs), alla presenza del mons. Luciano Monari, Vescovo di Brescia, e fra Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa. (R.P.)

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    India: una “Magna Charta” per i diritti dei bambini

    ◊   “Ogni mese circa centomila bambini indiani muoioni per cause legate alla malnutrizione. Molti vengono colpiti da malattie infettive che potrebbero essere curate, ma non ce la fanno poiché la malnutrizione ha abbassato le loro difese immunitarie e la resistenza fisica. La responsabilità di queste morti è solo della società indiana”. Con queste parole di denuncia Sajan George Kavinkalath, presidente della “Madre Teresa Foundation for children”, lancia un accorato appello per la tutela e la salvaguardia dell’infanzia in India, dove “cresce la percentuale di piccoli mendicanti, vagabondi, storpi, spesso vittime dello sfruttamento di organizzazioni criminali”. “La prima sfida per il Paese – scrive Kavinkalath nel comunicato inviato all’agenzia Fides - è l'istruzione primaria universale, accanto alla salute e alla crescita dei bambini. Urge, poi, una solenne affermazione legislativa sulla parità di accesso all’istruzione per le bambine e contro ogni discriminazione di genere, di casta e di status economico o sociale: una sorta di Magna Charta per il bambino”. Oltre a lanciare l’idea di una vera e propria carta dei diritti dei bambini il presidente invita, infine, sempre nel comunicato le organizzazioni non governative a “ collaborare per garantire il rispetto della giustizia sociale, dell’ambiente, dei diritti umani”, per aiutare a diradare “ansia, paura e disperazione nella società”. “Il benessere dell’infanzia – conclude infatti Kavinkalath – non va trattato come una decorazione amministrativa, ma deve diventare interesse centrale della nazione”. (C.S.)

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    India: assolto TJ Joseph, il professore cristiano accusato di blasfemia

    ◊   È assolto con formula piena TJ Joseph, il professore cristiano accusato di blasfemia nel 2010, a cui un gruppo di sconosciuti tagliò la mano destra e parte del braccio. La corte di Thodupuzha in Kerala ha ascoltato l'appello presentato dal docente e lo ha scagionato da ogni accusa. Una sentenza, spiega all'agenzia AsiaNews Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), "per la dobbiamo ringraziare il sistema giudiziario indiano. Il caso del professore Joseph è stata una delle pagine più buie del Kerala". È il marzo 2010 quando il docente, professore al Newman's College, viene accusato di blasfemia dal gruppo fondamentalista islamico Popular Front of India (Pfi). Secondo gli estremisti, egli aveva inserito domande offensive verso Maometto in un questionario per gli esami. Date le minacce ricevute, l'uomo chiede scusa pubblicamente per il suo "errore non intenzionale". Qualche mese dopo però, un gruppo di sconosciuti lo aggredisce a Muvattupuzha (distretto di Ernakulam), mozzandogli la mano e parte del braccio destro. TJ Joseph sopravvive all'attacco, ma nel settembre dello stesso anno le autorità scolastiche lo licenziano, senza possibilità di accedere alla pensione. Secondo Sajan George, gli aspetti più gravi di questo episodio "sono stati l'atteggiamento della polizia, che ha registrato la denuncia contro di lui e l'ha anche arrestato, e quello dell'istituto, che l'ha sospeso dal servizio. Per fortuna, la Mahatma Gandhi University, a cui il Newman College è affiliato, ha revocato la decisione delle autorità scolastiche e lo ha riassunto". (R.P.)

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    Indonesia: dai vescovi programmi per il recupero dei tossicodipendenti

    ◊   Il problema della tossicodipendenza, in particolare fra i giovani, è stato uno dei punti al centro dell'ultima Conferenza dei vescovi indonesiani (Kwi), che si è svolta nei giorni scorsi a Jakarta. Come ha sottolineato mons. Aloysius Sudarso, arcivescovo di Palembang, "noi [vescovi] siamo moralmente obbligati a prenderci cura di questa terribile 'malattia' sociale della società moderna". Il prelato ha inoltre aggiunto che quanti abusano delle sostanze stupefacenti necessitano di "cura pastorale e trattamento medico" per "guarire" dal terribile male, compresi quanti "assumono anfetamine" e altre droghe chimiche. A lungo - riferisce l'agenzia AsiaNews - i vertici della Chiesa indonesiana hanno trascurato il problema della tossicodipendenza; tuttavia, la battaglia condotta da un gruppo di docenti di teologia morale del Seminario maggiore di San Paolo a Yogyakarta (Java centrale), ha consentito l'impegno dell'episcopato anche in questo settore delicato, in particolare per i giovani. Parlando a nome dei vescovi nel corso della Messa finale alla parrocchia di Cristo Re di Pejompongan (Central Jakarta) - che ha chiuso i 10 giorni di incontro annuale - mons. Sudarso ha rinnovato l'invito ad aiutare "questi pazienti abbandonati". "È nostro dovere morale - ha aggiunto - prenderci cura di loro da un punto di vista fisico, mentale e sanitario". Alla funzione hanno partecipato il cardinale indonesiano Julius Darmaatmadja, il nunzio apostolico mons. Antonio Guido Filipazzi e il presidente della Kwi mons. Ignatius Suharyo, assieme a dozzine di altri vescovi. Interpellato da AsiaNews padre Edy Purwanto, segretario esecutivo Kwi, sottolinea che i vescovi hanno preso in seria considerazione il problema relativo all'abuso di sostanze stupefacenti, assai diffuso fra i giovani per quanto concerne le sostanze chimiche. È un grande passo in avanti l'intervento della Chiesa, aggiunge il sacerdote, che porterà a un "piano pastorale" e a "programmi di cura" dedicati per i tossicodipendenti. Il secondo passo, conclude, sarà il coinvolgimento di laici e movimenti specializzati per la nascita di "progetti concreti" di recupero. A confermare la gravità del problema, i dati forniti dal generale Anang Iskandar dell'Agenzia nazionale anti-droga: nel 2013 il numero di tossicodipendenti ha superato i 4,9 milioni, la maggior parte dei quali dedita al consumo di cannabis. La droga è presente in ogni strato sociale, compresi studenti, professionisti e persino politici. Tuttavia, la maggioranza appartiene a un livello "più alto" e che può permettersi il costo dei "beni illegali". Assieme all'impegno alla lotta contro la droga, i vescovi indonesiani invitano i cattolici a prestare maggiore attenzione alla vita politica del Paese; un compito reso ancor più urgente in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. "Votate il vostro candidato preferito - conclude mons. Sudarso - basandovi sulla morale e l'integrità". In Indonesia, nazione musulmana più popolosa al mondo, i cattolici sono una piccola minoranza composta da circa sette milioni di persone, pari al 3% circa della popolazione totale. Nella sola arcidiocesi di Jakarta, i fedeli raggiungono il 3,6% della popolazione. La Costituzione sancisce la libertà religiosa, tuttavia la comunità è vittima di episodi di violenze e abusi, soprattutto nelle aree in cui è più radicata la visione estremista dell'islam, come ad Aceh. Essi sono una parte attiva nella società e contribuiscono allo sviluppo della nazione o all'opera di aiuti durante le emergenze, come avvenuto per in occasione della devastante alluvione del gennaio scorso. (R.P.)

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    Nepal: violenze dei maoisti radicali che non vogliono le elezioni

    ◊   Per impedire le elezioni del prossimo 19 novembre, i gruppi radicali maoisti mettono a ferro e fuoco il Nepal. Guidati dall'ex quadro Mohan Baidhya, essi hanno scatenato violenze in tutto il Paese: agguati, atti di vandalismo, incendi dolosi e bombe. Nella sola giornata di mercoledì, hanno attaccato mezzi pubblici e privati, facendo anche esplodere un ordigno a bordo di un autobus a Kathmandu. La deflagrazione è avvenuta a Samakhusi, in pieno centro. Nove persone sono rimaste ferite in modo grave. Tre di loro sono in condizione critiche, con oltre il 50% del corpo ustionato. Un altro autobus è stato attaccato nel quartiere di Siraha. A bordo c'erano 50 persone, quando un gruppo di estremisti ha lanciato una bomba artigianale contro il mezzo. Tutti i passeggeri sono riusciti a fuggire, senza riportare danni. Le elezioni avvengono dopo cinque anni di caos politico e quattro governi di coalizione, i quali hanno rimandato di continuo la stesura di una Costituzione democratica, dopo secoli di monarchia indù. I principali partiti politici - Congress Party (conservatori) e Unified Communist Party of Nepal (Ucpnm, maoisti) - hanno assicurato alla popolazione che, una volta al potere, essi faranno pronta la Costituzione entro un anno. Il grande favorito nei sondaggi è Pushpa Kamal Dahal, detto Prachanda, presidente dell'Ucpnm. Tuttavia, proprio in questi giorni sono emerse critiche a lui e a tutta la leadership maoista, accusati di aver "scambiato" i loro ideali rivoluzionari e le promesse di cambiamento sociale, crescita economica e pace duratura con una vita fatta di lussi. (R.P.)

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    Ecuador. Il cardinale colombiano Salazar Gomez: la fede è scopo e anima del nostro cammino

    ◊   “Camminare, costruire e confessare”. E’ il tema scelto per il Congresso nazionale sulla Fede, iniziato lo scorso mercoledì a Quito, in Ecuador, con una cerimonia d’inaugurazione presenziata dal card. Rubén Salazar Gómez, arcivescovo di Bogotà e presidente della Conferenza episcopale colombiana. Secondo quanto riferisce la nota riportata dall’agenzia Fides, nel discorso d’inaugurazione del Congresso, organizzato dalla Conferenza episcopale ecuadoriana, il porporato si è soffermato in particolare sul significato del verbo “camminare” usato anche da Papa Francesco per esprimere il dinamismo permanente della fede. Per Gómez, infatti, “la fede è allo stesso tempo la porta dalla quale si inizia a camminare e la luce che ci permette di seguire il cammino che ci apre la fede. La si trova all'inizio del percorso, lungo tutto il percorso e alla fine, come lo scopo verso il quale siamo in cammino”. Con questo Congresso, la cui fine è prevista per domani, culminano in Ecuador le celebrazioni per l'Anno della Fede indetto dal pontefice emerito Benedetto XVI. Lieti di affrontare con l’occasione i temi della libertà religiosa e della dimensione pubblica della fede, sono presenti all’incontro, sempre a nome della Colombia, anche mons. Victor Ochoa, vescovo di Malaga, e padre Pedro Mercado Cepeda, assistente segretario della Conferenza episcopale colombiana. (C.S.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 319

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.