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Sommario del 28/01/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa ai vescovi della Campania: sostegno alla giustizia e alla legalità, attenzione ai poveri
  • Sinodo della Chiesa caldea. Il cardinale Sandri porta la benedizione del Papa
  • La preghiera del Papa per le oltre 200 vittime del rogo nella discoteca di Santa Maria in Brasile
  • Nella Giornata mondiale del malato speciali indulgenze nel segno della sofferenza condivisa
  • Il Papa affida al patriarca Bechara Raï le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo
  • Altre udienze
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Egitto: Morsi concede più potere ai militari. No dell'opposizione a dialogo nazionale
  • Siria: la Russia sempre più distante dal regime di Assad
  • I Paesi occidentali tagliano il debito della Birmania
  • Giornata europea della privacy dedicata al cyberbullismo. Il garante: arginare i lati oscuri della rete
  • Il neopresidente delle Acli Gianni Bottalico: nuovo welfare per le famiglie
  • Giornata della memoria. Il nazismo e la "soluzione finale" dei disabili
  • Giornata della memoria: l'eccidio dimenticato dei rom, le discriminazioni continuano anche oggi
  • Nei cinema "In Darkness" film di Agnieszka Holland, storia di un Giusto tra le nazioni
  • Rebibbia, premiati i presepi dei detenuti. Il cappellano: pochi mezzi per aiutare la rieducazione
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Mali: liberata anche Timbuctu. La popolazione in festa
  • Varsavia: migliaia di fedeli ai funerali del card. Glemp
  • Siria: il dramma dei cristiani e gli aiuti della Chiesa
  • Siria: marcia di solidarietà per i sequestrati in Mesopotamia
  • Vietnam: a Saigon migliaia di fedeli in preghiera per i diritti e la libertà religiosa
  • India: al via giovedì a Bangalore la Conferenza internazionale sui 50 anni del Concilio
  • India: a Mumbai "37 milioni di luci" contro aborti selettivi e violenza sulle donne
  • Malaysia: rientra la minaccia del rogo delle bibbie
  • Nord Corea: popolazione allo stremo nelle province più povere colpite da carestia e siccità
  • Unione Africana: il nuovo presidente è l'etiope Hialemariam Desalegn
  • Addis Abeba: salta l'accordo di pace per il Nord Kivu
  • Zambia: appello dei vescovi per l’approvazione di una nuova Costituzione
  • Burundi: distrutto lo stock nazionale di beni di prima necessità nel rogo di Bujumbura
  • Guatemala. I vescovi: la crisi alimentare è più grave di quella finanziaria
  • Messico: il nunzio prega con 35 mila giovani per le persone rapite
  • Colombia: tremila casi di maltrattamenti infantili nel 2012
  • Inghilterra: i vescovi ribadiscono il "no" ai matrimoni gay
  • Irlanda: Messa inaugurale della Settimana delle Scuole cattoliche
  • Capo Verde: i 20 anni dell'emittente cattolica Radio Nova
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa ai vescovi della Campania: sostegno alla giustizia e alla legalità, attenzione ai poveri

    ◊   Sostegno al lavoro svolto in favore di una giustizia animata dalla carità e dello sviluppo del senso di legalità. Lo ha offerto questa mattina Benedetto XVI al primo gruppo di vescovi della Campania, ricevuti in visita ad Limina. Al termine dell’udienza, Alessandro De Carolis ha domandato a uno dei presenti, il vescovo di Avellino, mons. Francesco Marino, quale realtà di Chiesa e di società sia stata presentata al Papa:

    R. - Anche noi risentiamo delle problematiche sociali della crisi, della forte disoccupazione, dell’assenza di prospettive di futuro per i nostri giovani, che ancora continuano a vedere il loro futuro nell’emigrazione. Però, poi, dal punto di vista religioso, nella nostra terra ancora tiene il radicamento dei valori nella fede. La gente è ancora attaccata ai valori della famiglia, i nostri giovani seguono le nostre comunità parrocchiali ed è confortante anche l’incremento delle vocazioni rispetto al recente passato.

    D. - Cosa le è maggiormente rimasto nel cuore di Benedetto XVI?

    R. - La sensibilità del Papa, che ha seguito con molta attenzione i nostri interventi, uno a uno. Lui stesso, alla fine, con molta simpatia ha detto: “Ho imparato alcune cose della vostra storia”, perché poi ognuno di noi presentava anche gli aspetti del cammino storico delle nostre chiese, i Santi, le esperienze, e il Santo Padre coglieva immediatamente i punti salienti dei nostri interventi. Per la verità, ci ha confortato molto con le sue parole e ha anche confermato i cammini intrapresi che a lui stanno molto a cuore: quello dell’evangelizzazione e quello della fede.

    D. - Voi vescovi della Campania avete prodotto un documento, “La Chiesa nel Mezzogiorno”, nel quale mettete in rilievo le sfide, non solo ecclesiali ma anche sociali, - umane, direi – delle vostre terre. In particolare, su questi aspetti Benedetto XVI vi ha detto qualcosa?

    R. - Il Papa è da sempre molto attento a questi aspetti. Il senso della legalità, l’attenzione alla giustizia sorretta dalla carità, la sensibilità soprattutto verso i più poveri e gli umili, i valori fondamentali della vita, della famiglia, sono tutte cose che stanno sempre a cuore al Santo Padre. Lui li ha sottolineati man mano che noi vescovi li mettevamo in evidenza.

    D. - Con che animo lei personalmente torna alle responsabilità pastorali che la attendono tra la sua gente?

    R. - Io torno con grande gioia dopo l’incontro con il Papa, proprio per il valore spirituale che comporta, il senso di comunione effettivo ed affettivo con il Successore di Pietro. Quest’anno, poi, l’esperienza nuova, “collegiale”, del rapporto con Lui – il fatto cioè di vedere il Papa assieme a un gruppo di vescovi, in un contesto in cui abbiamo ascoltato non solo il Papa, ma anche le esperienze di tutti, come facciamo spesso nelle conferenze, ma non con la presenza visibile del Papa – è stata una cosa bella.

    La realtà della Chiesa della Campania sarà nuovamente all’attenzione di Benedetto XVI giovedì prossimo, giorno nel quale è in programma l’udienza a un secondo gruppo di presuli, guidati nella circostanza dall'arcivescovo di Napoli, e presidente dei vescovi campani, il cardinale Crescenzio Sepe. Alla vigilia dell’incontro con il Papa, Luca Collodi lo ha intervistato:

    R. – Presenteremo quella che è la realtà che oggi ci vede impegnati tutti sul fronte pastorale. Una realtà molto bella, perché la Chiesa campana è una Chiesa viva, dinamica, con un buon numero di sacerdoti. Vogliamo aprire le porte delle nostre chiese per entrare nelle case, nei vicoli, nella piazze e ascoltare, parlare vivere con la gente, a volte persone che non hanno voce, ma che comunque fanno sentire la drammaticità del momento in cui ci troviamo a vivere. Vedo anche laici molto impegnati nella vita sociale che cercano di dare un’anima questa realtà, una società spesso senza anima, delusa, amareggiata, e quindi il loro sforzo di portare la speranza, la fiducia, per salvaguardare quei valori tradizionali della nostra gente.

    D. – Un elemento importante della vostra pastorale è quello della legalità. E’ una battaglia che la Chiesa campana sta vincendo?

    R. – Noi qui viviamo una situazione di frontiera, nel senso che è come se l’illegalità avesse conquistato tutto il territorio, dove neanche le istituzioni spesso riescono a contrapporsi a questo sfacelo. Ma la Chiesa alza la voce per richiamare tutti al dovere di sconfiggere insieme questo male, questo cancro e devo dire che tale impegno della Chiesa per salvaguardare la dignità della persona - penso in particolare ai nostri giovani che non vedono uno spiraglio per il loro futuro e a volte sono in balia di queste organizzazioni malavitose - ha una buona risonanza.

    D. – La povertà della società campana quanto aiuta l’illegalità?

    R. – La facilita enormemente. Il problema dei problemi è la mancanza di lavoro, il fatto che qui in Campania non solo non si arriva a fine mese, ma non si arriva neanche a metà mese, il fatto che gli anziani non hanno un’assistenza adeguata: tutto questo aiuta la Camorra e tutte le organizzazioni malavitose a “impossessarsi” della nostra gente, a strumentalizzarla per i propri scopi.

    D. – Senza il supporto delle istituzioni civili questo impegno della Chiesa campana potrà avere successo?

    R. – Noi facciamo il nostro dovere che viene dettato dal Vangelo di Cristo, naturalmente sempre con il cuore aperto ad accogliere tutti coloro che coscienti del male che fanno vogliono pentirsi realmente. Spero però che questo sia un segno forte anche per le istituzioni, perché anche loro si possano impegnare come è loro dovere per un’ azione che salvaguardi la dignità della nostra gente.

    D. – L’attuale Dottrina sociale della Chiesa è in grado di aiutare la vostra azione pastorale sul territorio o, secondo la vostra esperienza, potrebbe essere aggiornata?

    R. – Io credo che fondamentalmente la risposta c’è: è quella del Magistero e anche dello stesso Episcopato italiano. Penso alle grandi Encicliche, al documento che noi vescovi italiani abbiamo pubblicato su “La Chiesa nel Mezzogiorno”, cioè tutta una serie di prese di posizione molto forti che incidono, soprattutto nella coscienza: una coscienza direi rinnovata su quella che è la corresponsabilità di tutti, innanzitutto dei cristiani. Io stesso per esempio sono intervenuto per dire che questa gente che ammazza ogni giorno, che fa violenza è tutta non è cristiana. Inoltre cerchiamo di sensibilizzare sulla nostra realtà anche con la catechesi, cominciando dai bambini. A breve pubblicheremo Catechismo della Chiesa napoletana, proprio per affrontare questi problemi che ci riguardano più da vicino.

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    Sinodo della Chiesa caldea. Il cardinale Sandri porta la benedizione del Papa

    ◊   E’ iniziato oggi a Roma il Sinodo della Chiesa Patriarcale di Babilonia dei Caldei, convocato da Benedetto XVI per l'elezione del nuovo Patriarca che dovrà succedere al cardinale Emmanuel III Delly. Presiede il Sinodo il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Stamani, mons. Enrico Dal Covolo, rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, ha proposto ai presuli elettori una meditazione sulla prima comunità di Gerusalemme, icona della Chiesa e di ogni comunità cristiana. Sergio Centofanti ha chiesto al cardinale Leonardo Sandri quali siano gli auspici del Papa per questo Sinodo:

    R. – Sono quelli di realizzare nella comunione e nella missione la vita nuova della Chiesa caldea, con l’elezione del nuovo Patriarca. Il Santo Padre ha inviato la sua benedizione e segue da vicino questo Sinodo che segnerà il futuro della Chiesa cattolica caldea. In questo Sinodo abbiamo la presenza del piccolo mosaico della sofferenza del Medio Oriente: i vescovi dell’Iraq, e sappiamo bene tutto quello che hanno sofferto e che soffrono; due vescovi dell’Iran, i vescovi della diaspora – negli Stati Uniti, in Canada, in Australia – uno del Libano e infine quello della Siria, dove la sofferenza la tocchiamo tutti i giorni attraverso i mezzi di comunicazione. Quindi, questa Chiesa sofferente è riunita, illuminata dallo Spirito Santo, per scegliere il nuovo capo che la guiderà nella collegialità e nella sinodalità per i prossimi anni. E il Papa auspica che nell’Anno della Fede sia proprio un momento di crescita, che porti frutti dopo tante sofferenze e tanti dolori.

    D. – Quali sono le principali sfide che dovrà affrontare la Chiesa caldea?

    R. – Le principali sfide sono quelle della Chiesa in generale: la fede e, nel caso particolare della Chiesa caldea, ovviamente, una grande importanza è riservata al dialogo ecumenico e al dialogo interreligioso. La carenza di fede, perché i cristiani sono pochi e molti dei nostri hanno dovuto fuggire, migrare, andare altrove per cercare quella pace e quella sicurezza che mancavano nella loro patria. In questa situazione di violenza e di sofferenza, la fede si è affievolita. In quest’Anno della Fede, il Papa ci chiama proprio a rinvigorirla e a viverla con tutta l’intensità in modo tale che sia non soltanto una fede intellettuale, di parole, ma una fede di vita che si trasmette attraverso il proprio esempio e la propria testimonianza.

    D. – Lei è stato recentemente in Iraq. Quali impressioni ha riportato?

    R. – Le impressioni sono che nonostante tutto quello che noi apprendiamo dalle notizie, per la situazione di violenza e di terrorismo, c’è una Chiesa viva, la Chiesa in Iraq che si manifesta sia attraverso la Chiesa caldea sia attraverso la Chiesa siro-cattolica, sia attraverso la Chiesa latina. Ci sono i nostri fratelli che vivono il Vangelo, che cercano di mettere tutta la loro vita nelle mani del Padre, attraverso Gesù Cristo, nella comunione dello Spirito Santo. E questo l’ho visto nelle divine liturgie alle quali ho partecipato e che mi hanno veramente rincuorato nella speranza di un futuro migliore. E poi, la sensazione di vedere che appartengono con tutto il loro animo alla Chiesa universale, alla Chiesa cattolica; sentono l’abbraccio paterno del Papa, sentono la vicinanza di lui a loro e di tutti noi, che con la preghiera e con l’affetto li seguiamo sempre con tanta ammirazione e con tanta fraternità.

    D. – Nei Paesi arabi sta soffiando un vento islamista. Quale dialogo è possibile, oggi, con il mondo musulmano?

    R. – Intanto il dialogo al quale ci chiama il Concilio Vaticano II: dopo aver parlato dei nostri fratelli ebrei, parla anche – in primo luogo – dei musulmani e di coloro che appartengono ad altre religioni. Con i musulmani, noi condividiamo la fede nel Dio unico. Ma c’è un impegno comune che può essere abbinato anche a questa cosiddetta Primavera araba, che è quello di dare tutta l’importanza alla dignità della persona umana, a quella sua dignità che si manifesta nella sua libertà, specialmente nella libertà religiosa, nella difesa dei diritti fondamentali degli uomini e delle donne.

    D. – Ma ci sono dei timori per il futuro tra i cristiani?

    R. – I cristiani, vivendo in un Paese a maggioranza islamica, possono avere dei timori, ma non tanto a causa dell’islam, perché anche l’islam è una religione che vuole la concordia e la pace; tutto quello che è deformazione dell’islam, come la violenza o il voler imporre con la forza la propria religione, quello non ha nulla a che vedere con l’islam. Con l’islam autentico c’è possibilità di dialogo e di intesa.

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    La preghiera del Papa per le oltre 200 vittime del rogo nella discoteca di Santa Maria in Brasile

    ◊   Il Papa si dice “sgomento” per l’incendio in Brasile che, ieri, ha ucciso 232 giovani in una discoteca di Santa Maria, nel sud del Paese. In un telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, Benedetto XVI prega per le vittime e i familiari colpiti dalla tragedia. Massimiliano Menichetti:

    Il Papa prega per le vittime e si stringe a quanti sono stati colpiti dall’incendio che ieri ha devastato una discoteca della città universitaria di Santa Maria, nello Stato di Rio Grande do Sul, in Brasile. Un rogo che ha ucciso 232 ragazzi, oltre 130 i feriti, molti in terapia intensiva. Benedetto XVI si dice “sgomento”, nel telegramma inviato a mons Hélio Adelar Ruper, arcivescovo della città, invoca “il conforto” nel dolore, il “coraggio” e la “speranza” ed auspica un “rapido recupero” dei feriti e affida tutti alla “misericordia di Dio Padre”. Il Paese intanto è attonito e cerca risposte per una tragedia che forse poteva essere evitata. All’origine dell’incendio sembra ci sia stata l’accensione sul palco, di un bengala da parte di uno dei componenti di una band durante un'esibizione. Le scintille avrebbero appiccato il fuoco al tetto di polistirolo che faceva da isolante acustico al locale. Anche i vescovi brasiliani hanno espresso “vicinanza spirituale e solidarietà” a tutti coloro che sono stati colpiti dalla tragedia. Mons. Hélio Adelar Ruper, arcivescovo della città di Santa Maria, parla di un dramma che "non deve far perdere la speranza". Ascoltiamolo al microfono di Cristiane Murray:

    "Io credo che la parola giusta, in questo momento, debba essere:
    speranza. C’è stata una tragedia, un dolore infinito per tutta la società, però Gesù Cristo rimane sempre la nostra speranza. In questo momento, dobbiamo guardare a Lui, guardare anche Maria e guardare in alto; la nostra vita non è definitiva qui su questa terra, la patria definitiva è il cielo. Dobbiamo preparaci tutti per quel momento: è il momento di non giudicare nessuno, è il momento di rinnovare la speranza e l’amore fraterno, perché dopo questa vita è l’unica cosa che rimane. Allora, bisogna vivere bene la fede, la speranza e tradurre tutto questo in un’azione di carità, di bontà, di amore verso Dio e verso il prossimo. Per noi è una chiamata di Dio per rinnovare la fede. Siamo nell’Anno della Fede e prossimi alla Giornata Mondiale della Gioventù, a Rio de Janeiro, a luglio. Dio ci sostiene con una parola molto forte, in questo momento della nostra storia".

    A Santa Maria decretati 30 giorni di lutto. Una commossa presidente del Brasile, Dilma Rousseff, dopo aver incontrato alcuni famigliari delle vittime, ha chiesto al Paese di restare unito. E mentre si è aperta un’inchiesta per far luce sulla vicenda. Ieri migliaia di giovani si sono ritrovati a Rio de Janeiro, dove a fine luglio si terrà la prossima Gmg, per una Santa Messa in suffragio delle vittime, presieduta dall’arcivescovo di Rio e presidente del Comitato organizzatore locale della Gmg, mons. Orani João Tempesta.

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    Nella Giornata mondiale del malato speciali indulgenze nel segno della sofferenza condivisa

    ◊   “Il senso cristiano della sofferenza e della sua condivisione tra i fratelli” è al centro delle speciali indulgenze concesse dal Papa in occasione della XXI Giornata mondiale del malato, che sarà celebrata a partire dal 7 all’11 febbraio prossimi. Roberta Gisotti ha intervistato mons. Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria Apostolica, che ha pubblicato il Decreto attuativo:

    D. - Mons. Nykiel quale legame tra la Giornata mondiale del malato e le speciali indulgenze concesse da Benedetto XVI in questa occasione?
    R. – Il Santo Padre – spinto dal desiderio che l’annuale celebrazione della Giornata mondiale del malato si riveli una sempre più efficace catechesi sul senso salvifico della sofferenza e sensibilizzi maggiormente tutti coloro, che a vario titolo, sono impegnati quotidianamente al servizio di chi soffre, nell’anima o nel corpo – ha scelto come tema di questa XXI Giornata mondiale l’icona del Buon Samaritano: “Va' e anche tu fa' lo stesso”, che insegna a fare del bene a chi soffre e ad accogliere la propria sofferenza come dono d’amore. Questa Giornata – che avrà il suo culmine proprio l’11 febbraio, nella memoria della Madonna di Lourdes – si celebrerà nel Santuario mariano di Altötting e sarà presieduta da Sua Ecc.za Mons. Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della Salute e Inviato speciale di Sua Santità.
    D. – Quali sono le condizioni per ottenere l’indulgenza e qual è la differenza tra indulgenza plenaria e indulgenza parziale?
    R. – Per quanto riguarda le condizioni, prima di tutto dobbiamo tenere presente che un fedele, per ottenere l’indulgenza, deve avere un animo veramente pentito e contrito per acquisire l’indulgenza plenaria, un totale distacco da qualsiasi peccato, anche veniale; l’ indulgenza plenaria, che i fedeli potranno ottenere una volta al giorno alle solite condizioni: la confessione sacramentale, la comunione eucaristica e la preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre. Un’indulgenza plenaria può essere anche applicata in suffragio per i nostri cari defunti. Questa indulgenza plenaria si potrà acquisire dal 7 all’11 febbraio prossimi nel Santuario mariano di Altötting o in qualsiasi altro luogo stabilito dall’autorità ecclesiastica. Naturalmente, i fedeli sono invitati a partecipare devotamente ad una liturgia celebrata per impetrare da Dio i propositi della Giornata mondiale del malato e dovranno recitare il Padre Nostro, il Credo e una pia invocazione alla Beata Vergine Maria. Poi, mi preme sottolineare che i fedeli i quali negli ospedali o in qualsiasi casa privata assistono caritatevolmente gli ammalati, a motivo del loro servizio non potendo partecipare alle funzioni celebrative nel Santuario mariano di Altötting o in altri luoghi indicati dall’autorità ecclesiastica, potranno ottenere nei medesimi giorni l’indulgenza plenaria, avendo l’animo distaccato da ogni peccato e il proposito di adempiere non appena possibile le condizioni richieste per l’ottenimento dell’indulgenza. Infine, se è malato o sofferente, quindi se impedito per malattia, per età avanzata o per altre simili ragioni dal prendere parte alla cerimonia della Giornata mondiale del malato, potrà ugualmente ottenere l’indulgenza plenaria avendo l’animo distaccato da qualsiasi peccato e proponendosi di adempiere non appena possibile le solite condizioni. Per quanto riguarda l’indulgenza parziale, questa si può acquisire da parte di ciascun fedele, ogni qualvolta che ci si rivolgerà a Dio, Padre misericordioso, con cuore contrito nei giorni sopra indicati, con devote preghiere in aiuto degli infermi nello spirito del corrente Anno della Fede. La differenza tra indulgenza plenaria e indulgenza parziale dipende soprattutto dalla disposizione interiore del fedele.
    D. – Cosa rispondere a chi critica per diversi motivi la pratica delle indulgenze?
    R. – La Chiesa, comunque, non può fermarsi di fronte a critiche del genere, perché il compito primario della Chiesa è annunciare il Vangelo della conversione: “Andate e ammaestrate le genti”, diceva nostro Signore. Nell’annuncio salvifico di Cristo, trasmesso dalla Chiesa, non può mancare il riferimento alla Divina Misericordia e il dono delle indulgenze credo si inserisca in questa peculiare missione della Chiesa di annunciare al mondo la salvezza. L’indulgenza, infatti, non è altro che la remissione della pena temporale per i peccati commessi da un fedele, che gli sono stati perdonati, mediante il sacramento della Penitenza. E perché allora non approfittare di questo grande dono dell’indulgenza, che viene dispensato dal Santo Padre, di questo immenso, inesauribile tesoro della Chiesa?



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    Il Papa affida al patriarca Bechara Raï le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo

    ◊   Il Papa, memore del suo viaggio in Libano dello scorso settembre e per invitare tutta la Chiesa a pregare per il Medio Oriente, i suoi problemi e le comunità cristiane in quelle terre, ha invitato, tramite il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il Patriarca maronita Bechara Boutros Raï a provvedere ai testi per la Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo. I testi saranno preparati, sotto la guida del Patriarca, da due giovani libanesi e seguiranno lo schema tradizionale delle 14 Stazioni.

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    Altre udienze

    ◊   Benedetto XVI ha ricevuto nel corso della mattina il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Mai più gli orrori della Shoah: all'Angelus della giornata della memoria l'invito a vivere la domenica "l'oggi" propizio per la conversione. In cultura, Gaetano Vallini rescensisce il film di Agnieszka Holland "In Darkness", storia di un operaio, nella Polonia occupata dai nazisti, che salvò la vita di alcuni ebrei.

    La Chiesa ha a cuore l'uomo: la prolusione del cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ai lavori del Consiglio permanente.

    In rilievo, nell'informazione internazionale, l'Egitto tra proteste tentativi di dialogo.

    In cultura, un articolo di Oddone Camerana dal titolo "Morire è fuori moda": ora anche le medicine specifiche contro il malessere del lutto.

    Moglie e mistica: Alvaro Cacciotti sul cammino interiore di Angela da Foligno.

    Tommaso e l'esperienza di Dio: Inos Biffi sulla memoria liturgica, oggi, del santo teologo d'Aquino.

    Cosa rivelano i deserti del nostro tempo: anticipazione dell'intervento del reggente della Penitenzieria Apostolica, Krysztof Nykiel, al simposio, a Loreto, su "Riconciliazione e direzione spirituale 'luoghi' priovilegiati di educazione della coscienza e di permanente evangelizzazione".

    "Pagine ebraiche" sull'editoriale di Ernesto Galli della Loggia a proposito delle nozze gay.

    Elogio del silenzio e della lettura: Pietro Citati e la profondità della Scrittura.

    Dall'Ocidente un nuovo colonialismo: nell'informazione religiosa, un articolo sull'allarme per la diffusione dell'ideologia di genere nel quarto rapporto dell'Osservatorio internazionale sulla dottrina sociale della Chiesa.

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    Oggi in Primo Piano



    Egitto: Morsi concede più potere ai militari. No dell'opposizione a dialogo nazionale

    ◊   L’Egitto ancora nella spirale della violenza. Da ieri e per trenta giorni, è in vigore lo stato d’emergenza a Port Said, Suez e Ismalia dopo le violenze che hanno causato oltre 40 morti. Stamani, il governo ha approvato un decreto che conferisce ai militari il potere di arrestare i civili. Caduto nel vuoto l’invito del presidente Morsi al dialogo con l’opposizione. Benedetta Capelli:

    E’ una nuova giornata di tensione in Egitto. Nel pomeriggio, Al Cairo, è prevista una manifestazione che dovrebbe concludersi davanti al Parlamento, ma stamani in Piazza Tahrir sono scoppiati nuovi scontri nei quali una persona è morta. Si teme che la situazione possa ancor più degenerare perché il governo ha approvato un decreto che conferisce all’esercito la possibilità di arrestare i civili, che saranno così giudicati da un tribunale civile e non più militare. Intanto, resta in vigore per un mese lo stato di emergenza a Suez, Ismalia e Port Said dove in migliaia stamani hanno partecipato ai funerali delle vittime di ieri, non sono mancati tafferugli. Il provvedimento di emergenza è stato preso dal presidente Morsi che, sempre ieri, ha convocato un tavolo di dialogo nazionale per oggi alle 18 con tutte le anime politiche del Paese. Su Twitter è giunta la risposta del leader del Fronte nazionale di salvezza, El Baradei, che ha parlato di “una perdita di tempo”. Tre le condizioni poste a Morsi: prendersi la responsabilità dei sanguinosi incidenti, impegnarsi a formare un governo di unità nazionale; creare un comitato che si proponga di cambiare la Costituzione.

    Sulla decisione del governo di conferire più potere ai militari, Benedetta Capelli ha intervistato Alessandro Corneli, docente di Relazioni internazionali e geopolitica alla Luiss-Guido Carli di Roma:

    R. – Sta accadendo una cosa: sembrava che Morsi avesse rimesso, per così dire, i militari nelle caserme. In realtà, è stato soltanto un compromesso al momento della sua elezione e del voto sulla Costituzione. Un compromesso nel senso che i militari hanno detto: va bene, ora stiamo a vedere che cosa è capace di fare il presidente. Il presidente, con tutta la buona volontà, la bacchetta magica non ce l’ha, quindi le manifestazioni sono riprese perché la realtà quotidiana è molto dura e lui adesso ha dovuto fare ricorso ai militari per cercare di tenere sotto controllo la situazione.

    D. – Morsi ha anche lanciato un appello all’opposizione per creare un tavolo di unità nazionale, appello che invece è inesorabilmente caduto nel vuoto…

    R. – C’è stato un atteggiamento di superbia da parte di Morsi nei confronti degli altri candidati a governare il Paese, e quindi il disdegno con cui ha evitato di trattare, puntando alla vittoria, puntando alla soluzione dei problemi con l’accordo con gli islamici, lo ha messo adesso nella posizione di non avere molte carte da giocare. La sua offerta all’opposizione in questo momento è caduta nel vuoto: l’opposizione aspetta soltanto che cada Morsi e che non ce la faccia …

    D. – Ma secondo lei è uno scenario possibile, quello della caduta di Morsi?

    R. – Secondo me è possibile, benché lui abbia qualche appoggio internazionale e questi significhino una cosa semplice, cioè che all’Egitto arrivano rifornimenti alimentari per tenere un po’ la situazione sotto controllo … Poi, in realtà, all’interno le condizioni peggiorano di giorno in giorno e quindi le rivolte diventeranno sempre più importanti, i militari riprenderanno voce in capitolo e quindi la posizione di Morsi finirà per affievolirsi.

    D. – Che giudizio riservare, a questo punto, a quella che era la Primavera araba, nata a Piazza Tahrir, e che invece sembra essersi dissolta in queste violenze senza fine?

    R. – Una grande illusione. Nel senso che si è voluto dare un’importanza eccessiva al desiderio, per carità: legittimo e fondato, di democrazia però questo non comporta automaticamente un miglioramento delle condizioni generali. La disoccupazione è altissima – intorno al 40 per cento – le condizioni abitative sono pessime, il lavoro non c’è, il turismo è diminuito e pertanto le entrate si sono assottigliate: sono questi i problemi quotidiani delle persone. E non potendoli affrontare né risolvere, evidentemente la protesta continua. Quindi, non ci si può illudere che attraverso una modifica soltanto politica o costituzionale o altro, questi problemi si risolvano immediatamente.

    D. – Secondo lei, la Fratellanza musulmana sta perdendo consensi?

    R. – No, secondo me, no. Aspetta di liberarsi anche di Morsi e ci sarà alla fine lo scontro diretto tra la Fratellanza musulmani e i militari.

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    Siria: la Russia sempre più distante dal regime di Assad

    ◊   La Russia prende le distanze dal regime di Bashar Al Assad. “Ogni giorno che passa, ogni settimana, ogni mese, le possibilità che resti al potere diventano sempre più scarse'', ha detto il premier russo Medvedev in un’intervista alla Cnn. Un’affermazione, la sua, che fa presagire una rottura dell’alleanza che da anni vede Mosca e Damasco vicinissime. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Fulvio Scaglione, vice-direttore di Famiglia Cristiana ed esperto di questioni russe:

    R. - Credo che la Russia - come gli altri Paesi - stia più o meno segretamente trattando per cercare di uscire da questa situazione di stallo che sta decimando il popolo siriano e non ha alcun dividendo politico per nessuno.

    D. - L’alleanza tra Russia e Siria si è sempre basata su interessi di tipo strategico, pensiamo solo alla presenza della flotta navale russa nel Mediterraneo. Questa rottura vuol dire che la Russia si è rivolta ad altri Paesi?

    R. - Tutto va considerato in un quadro più globale. Credo che la Russia non voglia farsi impiccare alle sorti di Assad, avendo comunque tutta una serie di questioni globali in ballo, ed essendo un Paese che ha una posizione abbastanza delicata, perché la Russia - al di là delle trattative diplomatiche - vive sostanzialmente di esportazione di materie prime che ovviamente devono avvenire in un quadro - almeno dal punto di vista commerciale - di relativa pace internazionale. Quello che rischia la Russia - considerate anche le strategie americane, ad esempio sul petrolio e tante altre cose che si potrebbero dire - è l’isolamento, perché il Paese fa un pochino il pendolo tra la potenza emergente asiatica della Cina e la potenza tradizionale degli Stati Uniti. Quindi in questo momento probabilmente il pendolo russo ha considerato più importante per i propri interessi di staccarsi dalla questione Assad che è sostanzialmente a questo punto una questione israelo-americana, e avvicinarsi a posizioni un pochino più ragionevoli.

    D. - Tra l’altro Mosca nei giorni scorsi è stata tirata in ballo dalla stampa turca sugli arsenali chimici detenuti da Assad, dicendo che per poterli utilizzare il presidente siriano avrebbe dovuto avere l’autorizzazione di Mosca, quindi un coinvolgimento diretto…

    R. - Credo che comunque in queste cose bisogna sempre tenere in conto la questione della propaganda. Nel momento in cui la rivolta in Siria ha cominciato un pochino a battere in testa - perché certi proclami trionfalistici sono ormai stati accantonati da settimane - è spuntata la questione delle armi chimiche che spunta regolarmente da 15 anni a questa parte. Francamente, la realtà dei fatti ci dimostra che le armi di distruzione di massa o non esistono, come era il caso dell’Iraq, o non vengono comunque utilizzate, altrimenti non si capirebbe per quale ragione ad esempio Al Qaeda mise in piedi tutta la questione delle Torri Gemelle, quando avrebbe potuto -se avesse avuto disponibilità di armi chimiche - colpire ancora più duramente e ancora più facilmente. Credo che su queste cose bisogna essere molto prudenti.

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    I Paesi occidentali tagliano il debito della Birmania

    ◊   Il governo birmano ha comunicato di aver ottenuto un accordo con i suoi creditori del Club di Parigi per l'annullamento di metà del suo debito. Si tratta di un ennesimo segno della fiducia della comunità internazionale al regime militare di Naypyidaw che ha avviato un'epoca di riforme. L'accordo riduce il debito estero della Birmania di circa 6 miliardi di dollari. Dei significati economici e politici, Fausta Speranza ha parlato con il prof. Stefano Caldirola, docente di Storia contemporanea dell'Asia presso l'Università degli Studi di Bergamo:

    R. – Il Club di Parigi - che raccoglie, in modo informale, le organizzazioni finanziarie di 19 Paesi del mondo cosiddetto “occidentale”, più la Russia - ha deciso di cancellare il debito birmano per circa sei miliardi di dollari. Una cifra che per il Club di Parigi non è particolarmente rilevante ma è rilevante per il Myanmar, ex Birmania, in quanto rappresenta circa il 60% del totale del debito estero del Paese. Questi Paesi ed il Club di Parigi, quindi, si impegnano a cancellare una parte rilevante dei loro crediti – crediti che tra l’altro datano a diverse decadi fa – e in cambio, ovviamente, si preparano ad entrare, con investimenti o con le loro imprese, in un mercato che è stato a lungo chiuso per via delle sanzioni. Si parla di un Paese che ha rilevanti risorse in termini di gas, in termini di petrolio, di minerali e legname. Dall’altro, certamente, ci sono risvolti politici: si vuole incoraggiare ulteriormente il governo di Naypyidaw ad aprirsi nei confronti del mondo esterno, sulla via della democrazia.

    D. – Fino a pochissimo tempo fa parlavamo del regime della Birmania come uno dei più chiusi al mondo; adesso parliamo di regime riformista. Ci ricorda che cosa sia davvero cambiato?

    R. – Dal 2010 ad oggi è cambiato quasi tutto, almeno apparentemente. Improvvisamente, il regime - che era chiuso ed era un vero e proprio paria a livello internazionale - ha deciso di aprirsi: ha portato avanti una serie di riforme politiche, ha allentato la censura, ha tenuto delle elezioni, anche se parziali; ha liberato gran parte dei prigionieri politici… C’è un nuovo corso riformista che è stato molto rapido.

    D. – Ricordiamo che parliamo di Myanmar, ex Birmania. Oggi, secondo lei, cosa sarebbe più giusto usare come nome?

    R. – Dal punto di vista dell’etimologia, i termini hanno un’origine simile: il termine Birmania è legato all’utilizzo che se ne faceva in epoca coloniale - cioè, il nome ufficiale Burma – ed il regime ha deciso, all’inizio degli anni ’90, di cancellare tutta la toponomastica di origine coloniale, quindi di conseguenza anche il termine Burma, che in italiano è Birmania. In realtà, questo termine viene ancora utilizzato a livello ufficiale soprattutto da parte dei Paesi di lingua inglese, a partire dalla vecchia potenza coloniale, ovvero, la Gran Bretagna; oggi, il termine ufficiale è Myanmar. Chiaramente, l’utilizzo di uno dei due termini ha un preciso significato politico: il nome ufficiale è quello che viene utilizzato dalla giunta militare, dal governo; mentre, il termine Birmania viene utilizzato ancora da una parte dell’opposizione. Quindi, a seconda del riconoscimento che si vuole dare al governo, piuttosto che all’opposizione, ci sono termini diversi che vengono utilizzati. L’origine etimologica dei due termini è comunque molto simile.

    D. – Che cosa aspettarsi ancora, in termini di riforme. Che cosa ancora non va nel Paese?

    R. – Ci sono ancora molti prigionieri politici e le elezioni sono state ancora elezioni parziali, vinte per altro dall’opposizione guidata dal premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Dobbiamo aspettarci un’accelerazione nel processo delle riforme, ma bisogna fare molta attenzione, perché la dialettica in questo momento – più che tra governo ed opposizione – appare interna ai militari stessi: c’è una parte di militari che sicuramente appoggia queste riforme, un’altra parte più conservatrice che potrebbe cercare un “colpo di coda”. Per cui, da un lato bisogna fare attenzione ad incoraggiare le riforme, dall’altro evitare che questi scossoni possano portare ad un conflitto e ad un’eventuale reazione da parte dei militari più conservatori.

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    Giornata europea della privacy dedicata al cyberbullismo. Il garante: arginare i lati oscuri della rete

    ◊   Sensibilizzare i giovani sui rischi, legati ad un uso distorto dei social network, che possono sfociare nel fenomeno, sempre più allarmante, del cyberbullismo. A questa grave forma di prevaricazione, attuata attraverso Internet o il telefono cellulare, è dedicata l’odierna “Giornata Europea della protezione dei dati personali”. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

    I social network rappresentano oggi un rivoluzionario strumento per entrare in contatto con gli altri, ma presentano anche dei pericoli. Sui principali rischi che si possono correre in rete, il presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro:

    “Il bullismo, come fenomeno non nuovo, assume nella dimensione digitale un’invasività ed un effetto lacerante nella vita soprattutto dei giovani. Esiste una dimensione del fenomeno che, probabilmente, è sottovalutata: la trasformazione digitale della nostra società in pochi anni ha reso davvero diversa l’organizzazione della vita, particolarmente dei giovani e dei giovanissimi. Gli studi sostengono che fra i ragazzini di sette, dieci anni, il numero di aderenti alle comunità virtuali, con dati anagrafici falsati, è altissimo. Sono bambini che trascorrono una parte della loro giornata chiusi in una camera sul computer, nell’inconsapevolezza dei genitori, che anzi considerano il fatto di per sé positivo. Noi vogliamo dire che è positivo partecipare alla vita digitale, all’esperienza di Internet, perché è una fonte enorme e straordinaria di conoscenza e di crescita, ma sappiamo anche che esistono lati oscuri, come quello del bullismo elettronico. Alla base di tutto c’è la consuetudine, nella quale sono coinvolti anche gli adulti, di esporre la propria vita privata, i propri sentimenti, pensieri, progetti, fotografie, filmati dentro questo contenitore, che è privo di confini e la cui memoria è infinita. Non ha limiti, per cui a distanza di tanti anni probabilmente questi nostri pensieri e queste nostre fotografie potrebbero rimanere, anche quando questo non ci farà più piacere. Esiste una qualche superficialità di accesso all’uso di uno strumento così importante. Il compito che noi ci proponiamo è che si possa creare una nuova coscienza, prima di tutto dei ragazzi. Abituare i giovani all’idea che non basta conoscere la macchina, in cui peraltro son bravissimi e hanno competenze tecniche molto sviluppate dalla prima infanzia, ma conoscere anche il percorso e le insidie che questo percorso pone”.

    Nel messaggio per Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che si celebrerà il prossimo 12 maggio, il Papa ha ricordato che “l’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale”, ma è “parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani”. Come rendere sicuri questi spazi di quotidianità?

    “Penso che occorrano più fattori. C’è sicuramente la necessità di un processo educativo più intenso ed occorre che i genitori condividano l’esperienza che i ragazzi vivono in Internet. L’approccio più giusto - credo - più naturale sarebbe quello della mamma e del padre che chiedono ai figli: ‘Insegnami ad usare questa macchina. Insegnami a scoprire i segreti di Internet’. È il modo più diretto per entrare e condividere le esperienze. Aggiungo che sul singolo fenomeno del bullismo digitale, contano molto i fattori nuovi del sistema: l’anonimato o il presunto anonimato - in realtà sappiamo che questo anonimato non è mai assoluto - fa cadere un po’ di freni morali, spinge i ragazzi ad usare linguaggi ed atteggiamenti che, normalmente, in un rapporto diretto e con compagni di gioco, di scuola, non userebbero. La vittima è infinitamente esposta rispetto al bullismo, non conosce l’autore dei messaggi, non può difendersi, pensa che quei messaggi verranno letti da un pubblico vastissimo. Ed ogni volta che accede al suo smartphone o al suo pc rivive una violenza, si dispera, e normalmente non ne parla con i genitori. Quindi il punto di difficoltà maggiore è poi quello del dialogo tra i familiari e gli adolescenti. C’è un altro aspetto che viene sottovalutato: il linguaggio nei social network, da parte degli adulti, non è una cosa indifferente. Questo linguaggio normalmente è aggressivo, talvolta violento e liquidatorio. Diventa ‘brodo di cultura’ di una violenza verbale ed è un cattivo esempio per gli adolescenti. Linguaggi che poi replicano con facilità, convinti che si tratti di un gioco virtuale. In realtà, nella vita reale di questi ragazzi, in una condizione in cui crescono la solitudine e la sofferenza, matura un’esperienza terribile di cui dobbiamo farci carico, e di cui normalmente la grande comunità dei cittadini non è avvertita”.

    Il volto più drammatico del cyberbullismo si scorge nei casi di giovani e adolescenti, tra cui quello recente della ragazza 14.enne di Novara, che hanno deciso di porre fine alle loro vite a causa di insulti diffusi on line. Per evitare che l’isolamento e le offese possano sfociare in queste tragedie, si deve anche rafforzare la sinergia tra scuola e famiglia. Ancora il garante della Privacy, Antonello Soro:

    “L’azione congiunta di tutti i soggetti, che hanno funzioni di educazione - dalla scuola alla famiglia, ma anche le istituzioni - in un contesto di società digitale diventa ancora più importante. Oggi, insieme con il ministro Profumo, abbiamo condiviso questa intenzione. Credo che questa sia una strada da percorrere, con la speranza che il giovane adolescente, che si avvicina ad Internet, ne colga di più la complessità e diventi un navigatore con la patente, per usare uno slogan. Oggi, invece, normalmente i ragazzi - non solo i ragazzi, ma per i ragazzi, questo è più importante - navigano senza patente”.

    Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo - ricordando che dal 2007 è attivo il numero verde antibullismo 800.66.96.96 per segnalare casi e chiedere informazioni - ha dichiarato infine che è necessaria una “revisione continua” degli strumenti messi in campo contro il cyberbullismo.

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    Il neopresidente delle Acli Gianni Bottalico: nuovo welfare per le famiglie

    ◊   Famiglia, lavoro, welfare. Si muoverà attorno a questi cardini l’azione del neo presidente delle Acli Gianni Bottalico, eletto sabato dal Consiglio nazionale dell’associazione dopo le dimissioni di Andrea Olivero. E’ stato presidente delle Acli provinciali di Milano, Monza e Brianza e ha collaborato col cardinale Tettamanzi al Fondo diocesano di solidarietà per le famiglie colpite dalla crisi. Alessandro Guarasci lo ha intervistato:

    R. – Collocare le Acli innanzitutto in una posizione che è sempre stata naturale, quindi in un’associazione autonoma e pluralista, ma assolutamente anche un’associazione proiettata sui temi delle famiglie, dei giovani e delle donne. Il mio impegno, in questi mesi, sarà innanzitutto di riaffermare un programma di lavoro e riaffermare alcune proposte che le Acli intendono fortemente porre all’attenzione della politica dei partiti, in particolar modo in questo momento di campagna elettorale.

    D. – Il suo predecessore, Olivero, è andato con Monti e altri ex presidenti delle Acli sono andati nel Pd. Saranno dei vostri interlocutori?

    R. – Per noi sarà fondamentale il legame, il collegamento con tutti loro, perché come dico sempre le Acli ancora sono una grande palestra politica, da cui gli atleti migliori vengono mandati in gara e la gara sono i partiti. Ma, ripeto, con questa grande tradizione delle Acli, che è quella dell’autonomia e del pluralismo, lì saremo tutti quanti in rete per fare proposte al Paese.

    D. – La crisi sta duramente fiaccando le famiglie, che hanno visto in questi anni calare drasticamente il loro potere di acquisto. Voi che cosa chiedete alla politica su questo fronte?

    R. – Noi dobbiamo attivare tutte le leve possibili per sostenere, aiutare, tutti coloro che, drammaticamente, non solo sono finiti in una fascia di difficoltà, ma rischiano di finire automaticamente nella fascia di povertà. Quindi, dobbiamo attivare da subito una rete di welfare che tenda a salvaguardare queste famiglie e soprattutto richiediamo che si facciano vere, importanti, significative politiche sul lavoro. Bisogna rilanciare il lavoro: senza il lavoro, difficilmente noi costruiamo una città più giusta e più equa. E questo è il nostro obiettivo. Poi, c’è sicuramente tutta una serie di politiche familiari, a partire anche da una riforma di carattere fiscale, che aiutino le famiglie.

    D. – Lei ha parlato di lavoro, ma che cosa serve nello specifico? Semplicemente una politica fiscale, oppure una vera politica industriale?

    R. – In tanti anni, con le forti privatizzazioni, abbiamo dismesso un patrimonio industriale immenso e oggi il nostro Paese non sa cosa è. Noi, in questi anni, eravamo leader nell’informatica, nella metalmeccanica, nella chimica, nella farmaceutica, in grandi campi, e oggi non lo siamo più e abbiamo lasciato che tutto questo know-how uscisse dal nostro Paese. Noi dobbiamo ricostruire una politica industriale e chiederci che cosa vogliamo fare – mi consenta – da "grandi".

    D. – In questi giorni, è scoppiato il caso Mps. Quanto la finanza e alcune sue deviazioni stanno influenzando lo sviluppo del Paese?

    R. – Bisogna che la politica si riappropri del suo ruolo: quello di fissare le regole. Noi non possiamo lasciare al mercato, alla finanza che determinino loro le condizioni. Il punto principale sarà quello che la politica si riappropri del proprio ruolo, che non vuol dire occupare, ma vuol dire dettare le regole del gioco, in cui tutti si devono riconoscere e che sono le regole che ci fanno stare insieme.

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    Giornata della memoria. Il nazismo e la "soluzione finale" dei disabili

    ◊   Bastavano emicranie ricorrenti, tic nervosi, timidezza per finire nel progetto "Aktion T4", il famigerato piano di sterminio sistematico di circa 200 mila persone con disabilità presunte o conclamate, di cui cinquemila bambini. È la Shoah dei disabili, l'eccidio dimenticato che ha fatto da battistrada ai campi di concentramento e all’ideologia della superiorità della razza, del super-uomo. Dopo aver presentato lo scioccante film-documentario di Silvia Cutrera “Vite Indegne, nazismo e disabilità”, al microfono di Luca Attanasio, Antonio Parisella, presidente del Museo Storico della Liberazione di Via Tasso, a Roma, spiega la scelta di celebrare la Giornata della Memoria ricordando la storia di questo olocausto.

    R. - Lo sterminio dei disabili è il primo passo: la prova che viene fatta a partire della metà degli Anni ’30 fino alla vigilia della guerra, per eliminare tutti coloro che costituivano un peso sociale. Si comincia quindi a distinguere tra le persone di peso "indegne" di vivere, e coloro che sono gli uomini o i "superuomini". È la frattura nella dignità della persona umana nelle culture tradizionali, di quella cristiana e quella del razionalismo laico, per distruggere una certa Europa e costruire un’altra idea di organizzazione sociale: quella della realizzazione della "super razza" attraverso i superuomini selezionati biologicamente. Il cardinale di Monaco, Von Galen, alzò forte la sua voce per denunciare lo sterminio dei disabili, ripetendo sistematicamente nelle sue omelie domenicali tutti gli elementi in cui questa politica contrastava con la legge naturale e con il messaggio cristiano. Questo servì a fermare - sia pure temporaneamente - il loro sterminio.

    D. - Qual è il senso di celebrare la Giornata della memoria proprio a partire forse da uno degli stermini più dimenticati?

    R. - La Giornata della memoria se ha un senso, non è solo quello della contemplazione archeologica: riallaccia la memoria con il presente. In una situazione di crisi economica, ad esempio a soffrire maggiormente sono quelli che hanno più bisogno. La nostra società a volte è complice di stermini sotterranei, di cose che non si vedono. Gli anziani, i disabili… la memoria deve legarsi a questi problemi.

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    Giornata della memoria: l'eccidio dimenticato dei rom, le discriminazioni continuano anche oggi

    ◊   Cinquecentomila uomini, donne e bambini perseguitati, imprigionati deportati e uccisi nei lager nazisti, sterminati nelle camere a gas e nei forni crematori. E’ la persecuzione subita da Rom e Sinti in Europa tra il 1934 e il 1945. Una tragedia che in Italia non ha ancora ricevuto nessun riconoscimento ufficiale. Per questo ieri nella Giornata della memoria ha fatto tappa a Roma una campagna di sensibilizzazione volta a combattere pregiudizi e stereotipi nei confronti di queste popolazioni. Il servizio di Irene Pugliese:

    Si chiama Porrajmos e in pochi sanno che cosa vuol dire. In lingua romaní, quella parlata dai rom, Porrajmos significa "distruzione". Al pari della Shoah, infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale, ci fu un altro genocidio, quello dei Rom e Sinti, basato su analoghe teorie razziste. Una tragedia dimenticata, come spiega il consigliere Marco De Giorgi, direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali:

    “Non si parla mai di un evento molto importante, che è il Porrajmos. Nella Giornata della memoria, quindi, ricordiamo che oltre mezzo milione di persone Rom subirono lo sterminio nazista. Questo, spesso, non viene citato nei libri e nelle cronache. Noi lo ricordiamo per il passato, ma in realtà pensiamo anche al futuro, cioè a come fare per l’inclusione sociale di queste comunità. L’unica soluzione è reintrodurli tra noi, non relegarli nei campi rom, fare delle miniaree, reintrodurli nel consorzio civile, ed educarli all’istruzione, alla cultura e al lavoro".

    Anche l’arte, la musica e la cultura, dunque, hanno un ruolo importante, e per questo è nata la campagna “Dosta!”, termine che in lingua romanes significa “basta”: un’iniziativa, volta a diffondere la conoscenza delle comunità Rom, Sinti e Camminanti, attraverso una diversa rappresentazione, più attenta alla loro quotidianità, coinvolgendo direttamente gli interessati. Spettacoli, mostre, concerti, ma anche esposizione di prodotti artigianali, ieri, proprio nella Giornata della memoria, hanno ricordato il Porrajmos al Museo Maxi di Roma. L’obiettivo: superare i pregiudizi. Santino Spinelli è un musicista e docente universitario di etnia Rom:

    “Noi vogliamo un’Europa unita, solidale e senza discriminazione. La Shoah è finita nel ’45, il Porrajmos dei Rom, cioè il divoramento, continua tuttora. I campi nomadi non sono altro che un retaggio della cultura nazifascista, di quella ferocia concentrazionaria che doveva dividere, annullare nella dignità la persona e separarla dagli altri. Questo contravviene a qualsiasi logica democratica, a qualsiasi Costituzione e a qualsiasi Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.

    In Europa, rom, sinti e camminanti sono 12 milioni, in Italia circa 140 mila. Spesso vivono in condizioni difficili, sono oggetti di discriminazione, ma sono un popolo ricco di storia e tradizioni, tutt’altro che nomade. L’80 per cento dei rom e dei sinti, che vivono in Europa, è stanziale. Spesso si parla della necessità di trovare una soluzione al problema dell’integrazione, ma quasi mai si è riusciti ad ottenere un risultato. Da dove bisogna partire? Don Paolo Lojudice è direttore spirituale al Seminario Romano Maggiore, che da tempo segue la comunità rom della capitale:

    “Credo che un intervento sia quello del semplice, del singolo cittadino, che deve pensare, riflettere, mettersi davanti ad alcune situazioni presenti in questa realtà, davanti ai propri occhi, vicino alle proprie case, cercando di capire cosa c’è dietro, perché purtroppo, soprattutto certe popolazioni rom sono legate allo stereotipo di qualcuno che sicuramente delinque e ruba. Forse, però, conoscere, andando più a fondo, significa affrontare meglio un problema, in tutta la sua complessità”.

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    Nei cinema "In Darkness" film di Agnieszka Holland, storia di un Giusto tra le nazioni

    ◊   In occasione della Giornata della memoria, è nei cinema italiani il film “In Darkness” della regista polacca, Agnieszka Holland. E' la storia di un polacco nella Leopoli del 1943 occupata dai nazisti, che accetta di nascondere, ma solo per soldi, un gruppo di ebrei e che poi finirà per aiutarli seguendo la sua umanità, rischiando la vita e divenendo uno dei Giusti tra le nazioni. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

    E’ il 1943 a Lvov, Leopoli, città prima polacca, poi passata all’Ucraina sovietica, occupata nel ‘41 dai tedeschi, e che ha conosciuto orribili repressioni, soprattutto contro la popolazione ebraica, quasi interamente trucidata. E’ in questa Lvov che Leopold Socha, polacco cattolico, operaio delle fognature, dedito a piccoli furti per mantenere la famiglia, si troverà ad affrontare la scommessa più dura della sua vita: quella con la sua stessa umanità. Il bivio per Socha arriva quando nei dedali delle fogne incontra un gruppo di ebrei, in fuga dal ghetto e dalla furia nazista. Sa che aiutandoli rischia la morte per mano dei nazisti. Sa anche che, però, può essere un modo per farsi pagare un bel po’ di denaro. E sceglie questa strada, li nasconde:

    “Hai sentito? Pare che abbiano fatto piazza pulita nel ghetto…

    Hai visto qualcosa?

    Danno una ricompensa a chi denuncia un ebreo… Alcuni stanno facendo un mucchio di soldi!”

    I 14 mesi vissuti dal gruppo di ebrei sotto le fogne di Leopoli sono anche i 14 mesi di trasformazione di Socha - lo "Schindler polacco" è stato detto - la cui storia però è sconosciuta ai più:

    “Signor Socha, signor Socha, non possiamo più pagare…
    I soldi di venerdì erano gli ultimi: non c’è rimasto niente, niente!.

    Signor Gigel, lo sanno anche gli altri?

    No, non l’ho detto apposta!.

    Va bene. Questi sono per venerdì. Me li dia davanti agli altri: non devono pensare che sono un idiota che lavora e non si fa pagare…”

    “In Darkness” è un bel film, difficile, molte le scene al buio che raccontano la vita nelle fogne, una storia vera affrontata magistralmente dalla regista polacca Agnieszka Holland, un film tra i finalisti lo scorso anno agli Oscar come miglior film straniero. Leopold Socha, così come sua moglie, sono stati riconosciuti da Israele fra i Giusti tra le nazioni, cittadini non ebrei che hanno agito eroicamente rischiando la propria vita per salvare dalla Shoah anche un solo ebreo. Olek Mincer nel film è Shlomo Lanzberg, una delle persone aiutate da Socha. Mincer è originario proprio di Leopoli, i suoi genitori sono nati lì e da lì sono fuggiti durante la guerra proprio perché ebrei. E Mincer è cresciuto a Varsavia:

    R. – Per me tornare, in maniera non propria ma soltanto sul set, in quella città significava rivivere i racconti dei miei familiari. Purtroppo, di quelli che sono rimasti durante la guerra a Leopoli non è sopravvissuto nessuno. Leit-motiv della mia vita è questo ricordo di mia madre che quando si veniva a scoprire che qualcuno era sopravvissuto, che si era salvato, diceva sempre: “Perché non è capitato mai ai miei?”. Mio padre è rimasto solo di una famiglia di centinaia di persone. Mia madre è riuscita a scappare con suo padre e suo fratello in Russia, mentre mia zia e mia nonna sono riuscite a passare dalla parte fuori dal ghetto, fino praticamente a pochi giorni dall’arrivo dei russi. Ma poi c’è stata una spia che le ha denunciate e sono morte. Pure il mio cuginetto di un anno…

    D. – La storia del ghetto di Leopoli ai più è sconosciuta rispetto, per esempio, a quella del ghetto di Varsavia…

    R. – Era la terza città per grandezza ed importanza della Polonia di prima della guerra, con una grandissima fiera, quella che si chiamava la “fiera dell’Est”. Una città di tradizione secolare, una gran bella città. Per quelli che ci abitavano, il legame era profondo: i miei genitori ne hanno conservato anche il dialetto, che è particolarissimo. Nel film è stato ricostruito in maniera molto precisa, non è il polacco che si parla adesso in Polonia. Oltre a questo, a Leopoli si parlava ucraino, c’erano tantissimi ucraini. C’era la tradizione germanica, perché per oltre cento anni la città era stata la capitale della parte polacca dell’Impero asburgico. Era una città piena di minoranze, di lingue, di colori: una città rivolta verso la tradizione mediterranea, in qualche modo, perché c’erano tanti greci, c’erano gli armeni, tantissimi rom… E quando poi è arrivata la guerra, alcune minoranze sono state a favore dell’occupazione nazista, altre no. Da una parte di ucraini, che prima erano stati vittime delle politiche di Stalin, è paradossale pensarlo, ma l’arrivo dei tedeschi fu considerato una liberazione. Nel film, questo atteggiamento è descritto benissimo. E dunque, il potenziale nemico non era soltanto il soldato nazista: poteva essere un poliziotto ucraino o un vicino di casa polacco che aveva magari paura… Quell’epoca è stata, da una parte, una fonte di nefandezze, dall’altra espressione di comportamenti magnifici di esseri umani. Spesso e volentieri, e ne abbiamo testimonianze, di ladri, di persone che in condizioni normali sarebbero finite in prigione, durante la guerra si è scoperta la profonda umanità e la sensibilità nei riguardi di un altro essere umano. E proprio così è successo con Leopold Socha che, oltre ad essere un operaio nelle fognature di Leopoli, era un ladruncolo. Quando poi è stato chiamato dal destino, perché nelle fogne di Leopoli si è imbattuto in un gruppo di persone, ha deciso di aiutarle.

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    Rebibbia, premiati i presepi dei detenuti. Il cappellano: pochi mezzi per aiutare la rieducazione

    ◊   Nella Casa di reclusione di Rebibbia sono stati premiati sabato scorso i presepi più belli allestiti dai detenuti. Cinque le opere in gara realizzate dalle diverse sezioni del carcere romano. Ha seguito per noi l’evento, Davide Dionisi:

    Una barca realizzata con gli stuzzicadenti che ospita la Sacra Famiglia, allestita nella Cappella dell’Istituto di pena romano, segna il punto di eccellenza della mostra dei presepi realizzati dai detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia. Una scelta non casuale che rievoca, così come si legge nella presentazione degli autori, “la Chiesa in navigazione nei flutti nell’Anno della Fede”. Anche di fronte all’evidente mancanza di risorse economiche, è ancora una volta la creatività e le giuste motivazioni che pilotano iniziative come queste. Ci spiega perché, il cappellano del carcere romano, don Nicola Cavallaro:

    R. – Si può potenziare il tutto anche con quella che è la piccola creatività, cioè facendo trascorrere in modo diverso la giornata ai detenuti, ad esempio facendo per loro una catechesi molto semplice, con piccoli dibattiti. E questo fa sì che essi aumentino la loro conoscenza sia dal punto di vista della fede, sia dal punto di umano.

    D. – Il carcere continua a essere unicamente un luogo di reclusione e di pena e non un’opportunità di rieducazione e di un possibile reinserimento sociale. Perché?

    R. – Perché mancano le cure che la società civile dovrebbe dare a ciascun detenuto, perché nel momento in cui un detenuto entra in una struttura carceraria perde quella che è la sua dignità, dignità che poi non gli viene riconosciuta neanche quando ha finito di scontare la sua pena. Inoltre, all’interno dell’Istituto stesso, non ci sono quei mezzi - come ad esempio un lavoro per impiegare il tempo quotidiano - sufficienti a una sua rieducazione. Sono pochi i mezzi e ciò dipende sia dalla carenza economica, dalla crisi attuale e forse anche da coloro che sono preposti alla cura dei detenuti e che invece pensano ad altro.

    D. – Come viene percepita una figura come la sua dal detenuto?

    R. -– Io sono cappellano, qui a Rebibbia, da quattro mesi. Vengo da una realtà parrocchiale, ero viceparroco, quindi anche io mi trovo un po’ spaesato e vedo che le difficoltà sono tante. La mia figura è vista come quella di un sacerdote, ma anche di un amico, di un conoscente, di una persona che cammina insieme ai detenuti. Ad esempio, ogni tanto io trascorro “l’ora d’aria” con loro e passeggio assieme a loro. Si cerca di venire un po’ incontro alle loro necessità.

    Nel carcere di Rebibbia operano anche i volontari. Ascoltiamo la testimonianza di Agnese Manca, appartenente al Vic–Volontari in carcere:

    R. – È il terzo anno che presento un corso di arabo, perché qui a Rebibbia ci sono molti immigrati, persone che veramente non hanno mai avuto la fortuna di sedersi a un banco di scuola nei loro Paesi. Si tratta di persone che vengono soprattutto da Tunisia, Algeria, Marocco, ma anche da Ghana, Senegal, da Paesi dell’Africa.

    D. – Come viene percepita la sua figura dal detenuto?

    R. – Noi volontari ci sentiamo “in famiglia” con i detenuti. In effetti, quando si entra in carcere si vedono i detenuti, si parla con loro e si conoscono le loro storie. Quel muro che c’è tra la società civile e il carcere stesso, crolla sul serio. Con i detenuti quindi abbiamo una certa familiarità. Io spesso telefono alle loro famiglie che vivono nei Paesi arabi.

    D. – Secondo lei, il carcere in Italia riabilita?

    R. – È una domanda difficile a cui rispondere: si fanno degli sforzi, ma certe volte gli ambienti carcerari in Italia, come tali, difficilmente servono alla riabilitazione. Sentire un detenuto che dice: “In rapporto ad altre carceri, qui a Rebibbia siamo in un hotel a cinque stelle” è tutto dire e noi sappiamo che non è un hotel a cinque stelle. Sappiamo che ci sono celle anche con otto-dieci detenuti.

    D. – Quanto è importante la religione in carcere, secondo lei?

    R. – Io vedo che quando ci sono delle celebrazioni per i cristiani, ma anche per i musulmani – perché qui c’è una sorta di “piccola moschea”, ovvero una cella adibita a luogo di preghiera per i musulmani – i detenuti ne ricevono un grande conforto. E questo credo sia importante, perché vedo la partecipazione alle Messe. Inoltre, il gruppo di detenuti musulmani, che pratica il digiuno in maniera rigorosa, è lontano da fanatismi. Loro sanno che io sono cristiana, ma non fa differenza quando parliamo, anzi. Certe volte ho incontrato in loro una certa curiosità di sapere, di condividere questo “non fanatismo”. Dire “Dio è uno” ha la sua importanza qui, come in tutti i luoghi di sofferenza.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Mali: liberata anche Timbuctu. La popolazione in festa

    ◊   “Nella regione liberata dai gruppi jihadisti, la popolazione è in festa” dice all’agenzia Fides don Edmond Dembele, segretario generale della Conferenza episcopale del Mali, dove i militari francesi e maliani stanno avanzando nel nord del Paese, per riprendere le città che dal marzo scorso erano cadute nelle mani dei gruppi jihadisti. “Radio e televisioni continuano a trasmettere le manifestazioni di gioia degli abitanti delle città appena riconquistate dalle forze maliane e francesi. La gente è felice della ritrovata libertà e della possibilità di tornare ad una vita normale. A Gao il sindaco è rientrato in città ed ha notato con soddisfazione come gli abitanti stiano tornando alla vita di sempre” conclude il sacerdote. I diversi gruppi jihadisti avevano imposto alla popolazione la stretta osservanza della sharia, comprese mutilazioni ed esecuzioni capitali. Dopo aver liberato Gao, i soldati maliani e francesi hanno raggiunto Timbuctu, la città definita “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco (l’ente Onu per la cultura), che ha subito danni ancora da quantificare nel suo patrimonio artistico, fatto di mausolei sufi e di preziose raccolte di volumi di inestimabile valore. Secondo il sindaco della città, 4 giorni fa, i jihadisti in fuga hanno dato alle fiamme l’Ahmed Baba Institute, un centro bibliografico costruito con finanziamenti sudafricani. (R.P.)

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    Varsavia: migliaia di fedeli ai funerali del card. Glemp

    ◊   “Ha speso tutta la sua vita per il bene della Chiesa in Polonia”. Così mons. Jozef Kowalczyk, primate di Polonia, ha definito il card. Jozef Glemp - morto mercoledì scorso all’età di 83 anni - nell’omelia pronunciata questa mattina nella cattedrale di Varsavia durante il solenne rito funebre presieduto dal card. Stanislaw Dziwisz arcivescovo di Cracovia. Il presule ha ricordato le difficoltà incontrate dal card. Glemp nel 1981 quando gli venne consegnato il lascito del grande primate polacco Stefan Wyszynski ed ha sottolineato che il ministero del defunto cardinale si svolse sotto lo “sguardo paterno” di Giovanni Paolo II. I funerali - riferisce l'agenzia Sir - sono stati concelebrati da oltre 80 cardinali e vescovi, polacchi e stranieri, fra i quali i cardinali Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, Péter Erdõ, arcivescovo di Budapest e presidente del Ccee, Martinez Sistach, arcivescovo di Barcellona, Dominik Duka, arcivescovo di Praga, Josip Bozanic arcivescovo di Zagabria, il card. Stanislao Rylko ed il nunzio apostolico a Varsavia mons. Celestino Migliore. Erano presenti anche il presidente Bronislaw Komorowski e i presidenti di entrambe le camere del parlamento polacco, l’ex presidente del parlamento europeo Jerzy Buzek e l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede Hanna Suchocka. Hanno partecipato infine il capo di Solidarnosc Lech Walesa e il primo presidente del consiglio dei ministri della Polonia democratica Tadeusz Mazowiecki. La Polonia ha reso onore al cardinale Józef Glemp, con bandiere a mezz’asta sugli edifici presidenziali e cortei funebri. Le celebrazioni in suo onore erano iniziate sabato scorso con il saluto di numerosi fedeli alla salma esposta in una delle chiese di Varsavia. Ieri, nella basilica della Santa Croce, il nunzio apostolico a Varsavia, mons. Celestino Migliore, ha celebrato una liturgia in suffragio del cardinale scomparso, con i cardinali Dziwisz, Rylko e Nycz, il presidente della Conferenza episcopale, mons. Józef Michalik, e numerosi presuli polacchi. Mons. Migliore ha letto stralci del telegramma di cordoglio di Benedetto XVI in cui il card. Glemp viene ricordato come “un uomo giusto”: “Tale giustizia è stata la base del suo profondo amore per Dio e per l’uomo, che era la luce, l’ispirazione e la forza nel difficile ministero di guida della Chiesa in un’epoca, in cui significative trasformazioni sociali e politiche interessarono la Polonia e l’Europa”. Dopo la celebrazione un corteo funebre composto, nonostante il freddo, da migliaia di persone si è diretto verso la cattedrale di san Giovanni dove si è tenuto il rito funebre. (R.P.)

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    Siria: il dramma dei cristiani e gli aiuti della Chiesa

    ◊   "I cristiani di Siria soffrono come tutta la popolazione, musulmana, alawita, sunnita. Essi hanno però un problema in più: il dilagare dell'estremismo islamico, che rischia di trasformare il Paese in un nuovo Iraq". È quanto afferma all'agenzia AsiaNews Issam Bishara, direttore regionale della Catholic Near East Welfare Association (Cnewa) per Libano, Egitto, Siria e Iraq. Il funzionario cita i casi di Homs e Qusayr, dove gli islamisti entrati in possesso della città hanno cacciato le famiglie cristiane dalle loro abitazioni. Egli racconta che, nei primi mesi di guerra, molte famiglie hanno trovato rifugio nelle città costiere della Siria, in quella che un tempo veniva chiamata "la fascia cristiana". Tuttavia, per il dilagare della guerra e la discesa in campo di brigate estremiste islamiche - fra tutte le milizie al-Nousra - "queste città sono ormai praticamente deserte, ma sono migliaia le famiglie che hanno scelto o sono state costrette a restare a causa dei rischi che comporta l'espatrio in Libano". Secondo Bishara l'embargo rende impossibile far giungere aiuti diretti agli sfollati. Per gestire l'emergenza, la Cnewa lavora in collaborazione con la Chiesa locale. Oltre ai membri delle organizzazioni internazionali, ordini religiosi e sacerdoti del Patriarcato Greco ortodosso sono gli unici a poter operare sul territorio. Sacerdoti e religiosi affrontano spesso in prima persone il dramma degli omicidi sommari, i soprusi degli jihadisti stranieri e i rapimenti a fondo di riscatto, che colpiscono soprattutto la minoranza cristiana. Al momento l'associazione aiuta circa 3mila famiglie: 300 a Tartous (città costiera a ovest del Paese) attraverso il convento delle suore del Buon Pastore; 1000 nella valle di Wadi al Nasara, situata a ovest del Paese e conosciuta come la valle dei cristiani. Esse sono sotto la protezione del Patriarcato greco-ortodosso e della Chiesa cattolica. A Homs, roccaforte dei musulmani sunniti fra i luoghi più martoriati dalla guerra civile, sono ben 800 le famiglie ortodosse e cattoliche rimaste nella città. Ad aiutare queste persone vi sono i padri Gesuiti e le suore del Buon Pastore. Nella capitale le famiglie cristiane rimaste sono circa 600. Ad assisterle vi è la missione delle Suore del Buon Pastore e il Patriarcato greco-cattolico. Infine, ad Hassake (Siria del Nord), la società di San Vincenzo de Paoli si prende cura di circa 1200 sfollati cristiani. Alle 3mila famiglie rimaste in Siria si aggiungono i migliaia di profughi che dall'inizio del 2012 hanno scelto di fuggire del Paese, tentando di varcare i confini con il Libano. "All'inizio - afferma Bishara - essi hanno trovato rifugio fra parenti e amici, sperando in un rapido ritorno in patria". Tuttavia, negli ultimi mesi la situazione si è aggravata. La speranza di rivedere i propri villaggi e i propri cari rimasti in Siria è sempre più flebile. "Essi - racconta - non hanno diritto agli aiuti, perché risiedono al di fuori dei campi profughi e chi li ospita non può mantenerli. Che cosa sarà di questa gente nei prossimi mesi?". Il funzionario dice che finora la Cnewa sostiene circa 1000 famiglie cristiane fuggite in Libano, distribuendo loro vestiti, pasti caldi e beni di prima necessità. "Purtroppo - spiega - le richieste aumentano di giorno in giorno e noi siamo gli unici a fornire questo tipo di servizio. Il nostro timore è di non riuscire ad aiutare tutte le persone che ne fanno richiesta. Per questa ragione abbiamo bisogno del sostegno dei Paesi occidentali e di tutti i cattolici che desiderano soccorrere questa gente, dietro cui si cela il volto di Cristo sofferente". (R.P.)

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    Siria: marcia di solidarietà per i sequestrati in Mesopotamia

    ◊   Una marcia di solidarietà con le vittime dei sequestri; un corteo per sensibilizzare l’opinione pubblica verso il fenomeno dei rapimenti; una “assemblea di speranza” che ha visto riunite tutte le componenti della società: cristiani, musulmani, curdi, associazioni e Ong, leder delle chiese e capi della moschee, funzionari pubblici. Come appreso dall’agenzia Fides, l’iniziativa, tenutasi giovedì 24 gennaio ad Hassake, capoluogo della Mesopotamia, dove la popolazione civile è ridotta allo stremo, scuote l’area della Siria orientale. Nella regione si vive un precario equilibrio fra le forze di opposizione (fra le quali milizie islamiste), le forze curde, l’esercito regolare siriano, in lotta fra loro. A fare le spese del conflitto permanente è la popolazione che è dunque scesa in piazza – oltre tremila presenti al corteo – con striscioni e slogan per chiedere “un futuro di pace e di speranza per la Mesopotamia”. I partecipanti, che hanno dato vita alla “Associazione di solidarietà con le famiglie delle persone rapite”, hanno marciato dal quartier generale della Chiesa ortodossa siriana al Palazzo di Giustizia della città, esprimendo la loro sofferenza e le loro rivendicazioni. E’ stato presentato un memorandum al Procuratore della Repubblica, chiedendogli di svolgere i suoi compiti e chiedendo al governo locale di assicurare la protezione ai cittadini innocenti. “Il sequestro di persona è diventato un fenomeno quotidiano per le strade di questa città. I rapitori non esitano a commettere crimini alla luce del giorno. Circa tre settimane fa, tre uomini armati, a volto scoperto, hanno fermato un taxi e rapito un ragazzo di 10 anni, Saeed Afram Aho, mentre stava andando alla scuola elementare” spiega a Fides l’arcivescovo siro-ortodosso Eustathius Matta Roham, Metropolita di “Jazirah ed Eufrate”. “Circa sei mesi fa i sequestri di persone hanno iniziato a moltiplicarsi, opera di alcune bande”. Oggi le vittime sono 43, appartengono e tutte le componenti della società (cristiani, musulmani, yazidy, curdi e arabi), sono di età e ceto sociale diversi: bambini, studenti, medici, ingegneri, commercianti e gente comune. L’arcivescovo racconta a Fides “i momenti molto difficili, la paura e il dolore delle famiglie” anche perché i rapitori, nota, “utilizzano forme di tortura verso vittime innocenti, in spregio alle virtù umane, morali e religiose, per ottenere un forte riscatto”. Un bambino, Bashar, è stato lasciato per due giorni senza cibo e acqua in una cella sotterranea, in una fattoria lontana dalla città. “Oggi – spiega – molte famiglie cristiane sono fuggite, cercando salvezza nei Paesi vicini e in Occidente”. Mons. Matta Roham ha preso parte alla marcia con gli altri due vescovi della città, il vescovo siro-cattolico Jacques Behnan Hindo e il vescovo Mar Afrem Natanaele, della Chiesa assira. In questo periodo di forte crisi, i tre presuli si incontrano regolarmente per discutere questioni di interesse sociale e religioso. (R.P.)

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    Vietnam: a Saigon migliaia di fedeli in preghiera per i diritti e la libertà religiosa

    ◊   Migliaia di vietnamiti, cattolici e non, hanno pregato insieme per la pace e la libertà religiosa nel Paese, teatro nelle ultime settimane di una serie di violazioni alla pratica del culto, fra cui la demolizione del Carmelo ad Hanoi e la condanna di blogger ed attivisti. Ieri - riferisce l'agenzia AsiaNews - almeno duemila persone hanno preso parte alla messa celebrata dai sacerdoti Redentoristi di Saigon, durante la quale è intervenuta anche la madre di una giovane, arrestata di recente per aver condannato in rete "l'espansionismo cinese". Intanto il Comitato vietnamita per i diritti umani denuncia la chiusura in manicomio di un altro blogger e attivista della capitale. Per tutto il 2013 i Redentoristi di Ho Chi Minh City hanno assicurato di continuare "l'impegno a favore della pace e della giustizia in Vietnam". Al riguardo, i sacerdoti celebreranno ogni ultima domenica del mese una Messa speciale, unita ad altre iniziative "che verranno illustrate nei prossimi giorni", come recita un comunicato ufficiale. Illustrando le particolari intenzioni della funzione celebrata ieri, padre Joseph Dinh Huu Thoai ha chiesto a tutti i fedeli di "pregare per le vittime delle ingiustizie sociali" e per le "gravi violazioni" compiute dalle autorità locali, soprattutto in tema di proprietà terriere e possedimenti. I sacerdoti hanno anche lanciato un accorato appello alla libertà per i molti attivisti, finiti in carcere per aver preso posizione - in internet e nelle piazze - contro la "politica imperialista" di Pechino. Durante la funzione, padre Joseph ha presentato Nguyen Thi Nhung, buddista e madre della studentessa cattolica Nguyen Phuong Uyen, originaria della provincia di Long An, arrestata per i suoi post contro la Cina. Il responsabile provinciale dei Redentoristi, padre Vincent Pham Trung Thanh ha ricordato il caso della giovane, affermando che "se le porte della prigione oggi si aprissero, Phuong Uyen sarebbe libera", per la gioia di "genitori, amici e tutti noi". "Siamo cattolici - ha aggiunto il sacerdote - e non possiamo esimerci dal pregare per la libertà di tutti gli esseri umani, così come Gesù ha fatto". Al termine della funzione, preti e fedeli hanno acceso candele a Nostra Signora del Mutuo Soccorso, pregando per la pace e la giustizia in Vietnam. Intanto la Commissione vietnamita per i diritti umani denuncia la sparizione di Le Anh Hung, blogger e attivista, rinchiuso in un centro di detenzione per malattie mentali di Hanoi. Il 24 gennaio scorso sei agenti della sicurezza lo hanno prelevato - con un pretesto - dal luogo di lavoro, gettandolo a forza all'interno di un furgone. Alcuni amici hanno cercato di incontrarlo, ma la direzione dell'istituto ha opposto un netto rifiuto e aggiunto che è stata proprio la madre del giovane - un'affermazione respinta con forza dalla donna - a chiederne l'internamento. (R.P.)

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    India: al via giovedì a Bangalore la Conferenza internazionale sui 50 anni del Concilio

    ◊   “Rivisitare il Concilio Vaticano II: 50 anni di rinnovamento”: questo il tema della Conferenza internazionale organizzata la prossima settimana a Bangalore dal Pontificio Ateneo “Dharmaram Vidya Kshetram”di Filosofia, Teologia e Diritto Canonico (DVK), sotto l’egida del giornale di teologia “Asian Horizons”. Più di trecento esperti e vescovi si incontreranno dal 31 gennaio al 3 febbraio per un’approfondita riflessione critica sull’impatto del Concilio sulla Chiesa universale con un’attenzione particolare alle Chiese in Asia. L’incontro, al quale interverranno eminenti studiosi e teologi da diversi continenti, è organizzato in collaborazione con il Pontificio Comitato di scienze storiche, le Facoltà di Teologia dell’Università cattolica di Lovanio (Belgio) e dell’Università di Tubinga (Germania); la Fondazione per le Scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna, l’”Insitut Catholique” di Parigi; l’”Augustines College” di Johannesburg e la diocesi Rottenburg-Stuttgart (Germania). Le quattro giornate saranno scandite da nove sessioni plenarie, accompagnate da tavole rotonde e varie relazioni attraverso le quali la conferenza, partendo dai contesti storici, culturali, filosofici, teologici e pastorali in cui fu convocato il Concilio 50 anni fa, approfondirà il contenuto dei vari documenti conciliari; la risposta che essi hanno dato alle aspettative di rinnovamento nella Chiesa e nel mondo dopo il Concilio fino ai nostri giorni e la loro attualità per il rinnovamento della Chiesa e della società oggi. Ad inaugurare i lavori, nella mattinata del 31 gennaio, saranno il card. Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione vaticana per l’Educazione cattolica; il card. George Alencherry, arcivescovo Maggiore dei siro-malabaresi e l’arcivescovo di Bangalore, Bernard Moras. Seguirà la relazione di apertura del prof. Mathijs Lambergts dell’Università cattolica di Lovanio su “L’eredità del Concilio Vaticano II: preparare il futuro per il passato” e quindi le due sessioni plenarie dedicate al contesto storico e teologico e al contributo dell’Asia al Concilio. La relazione di apertura della seconda giornata sarà invece svolta dal prof. Peter Hünermann della Facoltà di Teologia dell’Università di Tubinga (Germania) che parlerà del dibattito sull’ermeneutica del Concilio Vaticano II. A seguire le due sessioni plenarie sulle quattro costituzioni conciliari “Sacrosanctum Concilium”, “Lumen Gentium”, “Dei Verbum” e “Gaudium et Spes” e una sessione sull’incontro tra Occidente e Oriente e il recepimento del Concilio nei due contesti. A quest’ultima interverranno, tra gli altri, il prof. Riccardo Burigana dell’Istituto studi ecumenici San Bernardino di Venezia e il prof. P. Felix Wilfred del Centro asiatico per gli studi interculturali di Chennai (che svolgerà un’analisi critica su come è stato recepito il Concilio in Asia e sulle prospettive future). Mons. Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze storiche interverrà invece alla sessione sul sacerdozio, la vita consacrata e laici (“Il paragrafo 28 della ‘Lumen Gentium’: fonte degli insegnamenti conciliari sul sacerdozio nella ‘Presbyterorum Ordinis’ e nella ‘Optatam Totius’). A svolgere la relazione di apertura della terza giornata sarà il padre Kuncheria Pathil (Cmi) della rivista “Jeevadhara” di Kottayam che introdurrà i temi delle prime due plenarie dedicate al ruolo delle Chiese orientali nell’ecumenismo e nelle missioni e alle religioni mondiali. Quindi in conclusione la sessione dedicata al rinnovamento dopo il Concilio. Ospite principale della giornata conclusiva, il 3 febbraio, sarà il card. Oswald Gracias, presidente della Conferenza episcopale indiana (Cbci) e segretario generale della federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc) accompagnato il card. Moran Mor Baselios Clemis Catholicos, arcivescovo maggiore di Trivandrum dei siro-malankaresi. (A cura di Lisa Zengarini)

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    India: a Mumbai "37 milioni di luci" contro aborti selettivi e violenza sulle donne

    ◊   E' partita ieri la campagna "37 milioni di luci", voluta dall'arcidiocesi di Mumbai per sensibilizzare la comunità su tutte le forme di violenza contro le donne: aborti selettivi, feticidi femminili, omicidi per dote, stupri, mortalità materna e infantile. Sabato l'India ha celebrato la sua 63ma Festa della repubblica, e tra la popolazione è ancora vivo il dibattito sul ruolo della donna, ripreso dopo lo stupro di gruppo di New Delhi. L'iniziativa dell'arcidiocesi si inserisce in questo contesto, per ribadire la posizione assunta dalla Chiesa sin dall'inizio della vicenda. Il nome fa riferimento a dati dell'ultimo censimento nazionale (Census 2011), secondo il quale la differenza tra uomini e donne nella popolazione è di 37 milioni. Per questo, nella serata di ieri in modo simbolico, le parrocchie dell'arcidiocesi hanno acceso 37 milioni di lampade e candele. Padre Anthony Charanghat, direttore del settimanale dell'arcidiocesi The Examiner, spiega all'agenzia AsiaNews: "In India la violenza sessuale contro le donne è antica e diffusa come il patriarcato. Crimini come lo stupro, gli omicidi per dote, gli attacchi con acido, i delitti d'onore, matrimoni con bambine e traffico umano sono all'ordine del giorno. La violenza senza senso e la brutalità maniacale inflitte alla vittima di New Delhi, hanno scosso la coscienza di molti cittadini della media borghesia, che considerano l'uguaglianza di genere importante quanto la lotta contro la povertà". Tuttavia, "questo movimento deve andare avanti fino a che non sarà fatta giustizia per tutte le nostre figlie e sorelle che sono state violate". Secondo il sacerdote, la protesta e l'indignazione dinanzi a crimini del genere "devono tradursi in azioni ragionate", non impulsive. Anziché "invocare pene draconiane o la morte per chi compie uno stupro", più di ogni altra cosa "serve un cambiamento di mentalità raggiungibile attraverso un'educazione spirituale e sessuale, nel rispetto della dignità e della sacralità dell'essere umano". Nel suo messaggio per la Festa della repubblica indiana, anche la Conferenza episcopale (Cbci) è tornata sul tema della violenza contro le donne. I vescovi ribadiscono che "le violenze contro donne e bambini - non solo gli stupri, ma tutti i casi di feticidi e infanticidi femminili, molestie, rapimenti, delitti d'onore e per dote - sbricioleranno i pilastri della società e della nazione, fermando il cammino verso la pace e la prosperità". Per sconfiggere queste piaghe, la Cbci ribadisce l'importanza della "formazione totale della persona, a cui devono contribuire genitori, insegnanti, anziani, leader spirituali e autorità", e l'inutilità di "provvedimenti disumanizzanti come la pena di morte o la castrazione chimica". Il desiderio di vendetta "deve lasciare il posto al perdono", ricordando che "la vita umana è dono prezioso di Dio, che nessuno ha il diritto di portare via". (R.P.)

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    Malaysia: rientra la minaccia del rogo delle bibbie

    ◊   Un gruppo islamico che aveva annunciato per oggi un "rogo delle bibbie" non si è presentato all'appuntamento. L'evento - riferisce l'agenzia AsiaNews - era stato pubblicizzato con dei volantini anonimi, invitando tutti i musulmani a un "festival per bruciare le bibbie in lingua Malay" che contengono la parola "Allah", da essi visto come un monopolio della cultura islamica. I volantini anonimi erano stati distribuiti dopo che Ibrahim Ali, capo del gruppo Perkasa - che lotta per la supremazia del gruppo malay - ha invitato i suoi membri a bruciare le versioni in malay della bibbia. Alì aveva fatto la proposta dirompente dopo aver sentito voci che dei cristiani stavano distribuendo bibbie in malay a giovani studenti musulmani di Jelutong. Il Malaysian Islamic Development Department (Jakim) ha accresciuto la tensione, diffondendo nei sermoni del venerdì scorso la notizia che "nemici dell'islam" stavano cercando di confondere i musulmani facendo credere che tutte le religioni sono uguali. La polemica è legata alla questione del nome di Allah (Dio), usato da musulmani e da cristiani. Secondo i gruppi estremisti musulmani i cristiani non hanno diritto ad usare questo nome, proprietà esclusiva dell'islam. In realtà il nome arabo di Dio veniva usato dai cristiani ancora prima che nascesse l'islam. Negli anni scorsi vi è stato un intenso dibattito in Malaysia, che si è concluso nel 2009, quando l'Alta corte ha stabilito che i musulmani non avevano l'esclusiva. Ma a fasi alterne il problema riemerge, soprattutto in occasione di elezioni politiche, come quelle che si terranno nel Paese il prossimo giugno. Contro Ibrahim Ali e lo Jakim questa volta si sono scagliati diversi leader musulmani del partito Pas (Pan-Malaysian Islamic Party), accusandoli di seminare odio fra cristiani e musulmani. Oggi mons. Sebastian Francis, vescovo cattolico di Penang, ha incontrato il leader spiritual del Pas, Datuk Nik Abdul Aziz Nik Mat, per offrire una torta per il suo 82mo compleanno. Secondo il sito web del Pas, mons. Francis avrebbe detto che la nazione ha bisogno di persone che imitino l'esempio di Nik Abdul Aziz, e non i sentimenti provocatori di Ibrahim Ali. (R.P.)

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    Nord Corea: popolazione allo stremo nelle province più povere colpite da carestia e siccità

    ◊   Si stima che una grave carestia nelle province rurali coreane del Nord e Sud Hwanghae abbia causato la morte di 10 mila persone anche per cannibalismo e si teme che incidenti di questo genere possano continuare ad aumentare. In un rapporto dell’Asia Press, si legge di testimonianze particolarmente scioccanti. Giornalisti sotto copertura - riferisce l'agenzia Fides - hanno rivelato che alla popolazione delle due povere province erano stati confiscati i generi alimentari per distribuirli nella capitale Pyongyang. Ad aggravare la situazione si è poi aggiunta anche la siccità che ha ulteriormente ridotto le risorse. Questa emergenza è cresciuta a tal punto che tanta gente è impazzita per la fame e ha commesso episodi di cannibalismo pur di sfamarsi. Non è la prima volta che dal Paese asiatico arrivano notizie su questo atroce fenomeno. Negli anni 90 una terribile carestia, conosciuta come Arduous March, si stima abbia causato la morte tra 240 mila e 3 milioni e mezzo di persone. I funzionari delle Nazioni Unite hanno visitato l’area ma secondo i reporter locali non sono stati portati nelle zone colpite dalla carestia. (R.P.)

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    Unione Africana: il nuovo presidente è l'etiope Hialemariam Desalegn

    ◊   Sarà il primo ministro etiope a subentrare al presidente beninese Thomas Boni Yayi alla guida dell’Unione Africana. La nomina, annunciata ieri al termine del vertice Ua - riferisce l'agenzia Misna - pone il 47enne successore di Meles Zenawi a capo dell’organismo continentale per un anno che – dagli sconvolgimenti in Mali e Congo, ai contrasti tra i due Sudan – prevede numerose incognite. Nonostante fosse ampiamente annunciata – la presidenza di turno dell’Ua prevede una rotazione delle cinque zone geografiche in cui è diviso il continente (Nord, Sud, Est, Ovest e centro) – la notizia è riportata con risalto dalla stampa africana di oggi che sottolinea l’exploit di Desalegn. “Fino a pochi mesi fa sconosciuto persino dall’opinione pubblica etiope – sottolinea la rivista Jeune Afrique – Desalegn si è visto catapultato in pochi mesi alla guida di una delle economie più promettenti del continente e ai vertici dell’organismo più importante d’Africa”. Senza nascondere una certa apprensione, il portale ‘Afrik infos’ si domanda se Desalegn saprà riuscire nel nuovo ruolo continentale “che richiede disponibilità, una buona conoscenza delle crisi e degli scenari africani”, ma anche e soprattutto “di una buona agenda telefonica e di rapporti diretti con i capi di Stato e di governo”. Già per anni alla guida della diplomazia di Addis Abeba, Desalegn ha saputo stringere contatti con quasi tutti i Paesi del continente e non ha voluto lasciarsi sfuggire quest’occasione – osserva il sito Afrique en ligne – sottolineando che a maggio l’Etiopia accoglierà le celebrazioni per il 50° anniversario dalla nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) divenuta nel 2002 Unione Africana. Ingegnere idrico, sposato ad una economista e padre di tre figli, ha vissuto per anni all’ombra di Meles Zenawi, di cui era considerato il ‘delfino’ e che lo aveva nominato consigliere speciale, vice primo ministro e ministro degli Esteri. Nel discorso di insediamento, ieri ad Addis Abeba, Desalegn ha parlato di pace e stabilità per il continente e affermato che “faremo quanto possibile per restaurare al più presto l’ordine costituzionale in Mali”. Il suo governo tuttavia è accusato del massacro di numerose comunità rurali nella valle dell’Omo dove è in corso la costruzione di una mastodontica diga detta di Gibe III. L’ultimo episodio, che risale a fine dicembre, riferito da associazioni umanitarie e Ong parla di oltre 150 vittime in un villaggio suri. (R.P.)

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    Addis Abeba: salta l'accordo di pace per il Nord Kivu

    ◊   È stata rinviata sine die la firma di un accordo regionale sulla pace nell’est della Repubblica Democratica del Congo, prevista lunedì al vertice dell’Unione Africana (UA). Lo hanno reso noto le Nazioni Unite senza diffondere le motivazioni del rinvio per l’adozione di un documento che avrebbe dovuto essere firmato dai capi di Stato della Regione dei Grandi Laghi. L’accordo quadro per la pace e la sicurezza nell’Est del Congo - riferisce l'agenzia Misna - avrebbe dovuto consentire di affrontare le cause profonde delle ripetute esplosioni di violenza nella regione, teatro di ribellioni e gruppi armati. In dettaglio, però, non sono stati resi noti i punti contenuti nel testo e dunque le modalità con cui gli organismi regionali prevedevano di estirpare le radici del conflitto. Secondo fonti diplomatiche bene informate, l’accordo avrebbe previsto un rafforzamento della missione Onu (Monusco) e il dispiegamento di una unità di intervento forte di 2500 uomini con l’obiettivo di sbaragliare il Movimento 23 marzo e gli altri gruppi ribelli presenti nel Kivu. I governi di Rwanda e Uganda sono stati accusati in un recente rapporto stilato da esperti Onu di sostenere la ribellione del M23 in armi contro Kinshasa dalla metà del 2012 e lo scorso novembre, con un’offensiva, è arrivata a controllare ampie porzioni di territorio in Nord Kivu, compreso il capoluogo di Goma. (R.P.)

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    Zambia: appello dei vescovi per l’approvazione di una nuova Costituzione

    ◊   “Agire giustamente e camminare umilmente con Dio”: si intitola così il comunicato della Conferenza episcopale in Zambia (Zec), diffuso ieri, al termine della Plenaria di gennaio. Dal lungo documento, siglato da mons. Ignatius Chama, arcivescovo di Kasama e presidente della Zec, emerge soprattutto un appello al governo affinché vari al più presto una nuova Costituzione. In particolare, i vescovi puntano il dito contro alcune irregolarità evidenti nel processo di elaborazione della Carta fondamentale: promessa sin dalle elezioni del settembre 2011, la Costituzione è tuttora priva di “un quadro giuridico sui suoi contenuti” e di “una tabella di marcia e di una scadenza definitiva” per la sua approvazione; i vescovi notano, inoltre, che non è stato pubblicato il bilancio preventivo per la stesrua della Costituzione e “ciò è inaccettabile – scrivono – poiché il governo deve essere trasparente su questo argomento”. Inoltre, i presuli ribadiscono la necessità di sottoporre la nuova Carta fondamentale ad un referendum, secondo quanto promesso in passato. Altro punto esaminato dalla Plenaria è il rapporto Stato-Chiesa: in particolare, la Zec ricorda la cooperazione con il governo nell’ambito del settore educativo e lamenta “la crescente tendenza dell’esecutivo di portare avanti pronunciamenti unilaterali, circolari e direttive” senza “le dovute consultazioni” con le altre parti in causa. La medesima problematica i vescovi la riscontrano nel campo della sanità, in cui le relazioni tra Stato e Chiesa sono stabilite da uno specifico memorandum che, però, spesso viene ignorato dall’esecutivo. Quindi, guardando al contesto politico, la Chiesa in Zambia punta il dito contro “le discussioni tra i partiti per l’egemonia del potere, sempre più al centro della scena, a scapito del bene comune del Paese”. In quest’ottica, i presuli lanciano un appello “a tutti i leader politici, affinché dimostrino maturità, dignità e magnanimità nell’esercizio della loro leadership”, così da “concentrarsi sulla promozione del bene comune e sulla tutela dei più deboli nella società”. E ancora, i presuli chiedono alle autorità di “esercitare con prudenza il potere che la popolazione ha affidato loro”, ricordando che “ospedali, scuole ed altri centri pubblici non riescono ad offrire servizi di qualità a causa della mancanza di fondi”, destinati a “priorità sbagliate”. Per questo, i presuli auspicano che “la nuova Costituzione preveda un meccanismo di controllo” in questo settore. Di qui, l’ulteriore richiamo che la Zec fa agli esponenti del potere, affinché “siano coerenti con i principi dichiarati e fedeli all’impegno intrapreso per il bene comune”. Un altro aspetto critico che i vescovi in Zambia mettono in risalto è la questione dell’ordine pubblico: pur esprimendo apprezzamento per gli sforzi messi in atto dalla polizia per “combattere il crimine e garantire il rispetto della legge”, i presuli ribadiscono “il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge stessa” e sottolineano che “garantire la legge e l’ordine non significa impedire ai partiti dell’opposizione di esercitare i loro diritti basilari, come quello di riunirsi liberamente in assemblea”. In questo senso, il governo viene esortato ad abrogare la legge che regolamenta la gestione dell’ordine pubblico, definita “repressiva ed anacronistica”, affinché la nazione possa intraprendere, “in spirito ed alla lettera, il cammino democratico, senza precipitare nel caos”. Centrale, poi, l’esortazione della Chiesa affinché lo Stato garantisca “il diritto alla vita, la libertà di espressione, di associazione e di coscienza”. “Il governo – si legge nella nota – ha l’imprescindibile obbligo di promuovere e rispettare i diritti umani dei cittadini, e ciascun cittadino ha l’obbligo di rispettare i diritti dell’altro”. “La situazione dei diritti umani nel Paese – proseguono i vescovi – si sta deteriorando in maniera preoccupante”, a causa “dell’uso arbitrario del potere da parte di esponenti governativi; di intimidazioni e minacce contro chiunque non sia filogovernativo; deportazioni di sacerdoti cattolici che, nelle loro omelie, criticano il governo”. Infine, i presuli concludono la loro dichiarazione invitando tutti i fedeli a pregare per il Paese, affinché abbia “sete e fame di una società più giusta”. (A cura di Isabella Piro)

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    Burundi: distrutto lo stock nazionale di beni di prima necessità nel rogo di Bujumbura

    ◊   “I commercianti hanno perso tutto ed è andato distrutto lo stock nazionale di beni di prima necessità. Ora i prezzi aumenteranno alle stelle e la popolazione purtroppo ne pagherà le conseguenze” dice all’agenzia Fides Danilo Giannese, un operatore umanitario che si trova a Bujumbura, capitale del Burundi, dove ieri, domenica 27 gennaio, un enorme incendio ha devastato il mercato centrale della città. “Si dice che vi siano anche delle vittime, ma al momento le notizie su questo punto sono scarse” aggiunge Giannese. “Da dove mi trovo vedo ancora il fumo. Ieri ci è stato detto di restare a casa, perché poteva essere pericoloso, dato che erano segnalati atti di sciacallaggio”. Secondo la stampa locale, l’incendio è scoppiata alle prime ore della mattina di ieri. Le fiamme sono state spente dopo ore, anche grazie all’intervento di un elicottero rwandese dotato di benna spargiacqua. Le cause dell’incendio sono ancora ignote. L’esercito ha poi steso un cordone sanitario per impedire nuovi atti di saccheggio. Il Capo dello Stato, Pierre Nkurunziza, è rientrato d’urgenza in Burundi da Addis Abeba, dove partecipava al Vertice dell’Unione Africana. Il Presidente ha convocato una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza Nazionale per valutare la situazione ed ha lanciato un appello alla solidarietà nazionale. (R.P.)

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    Guatemala. I vescovi: la crisi alimentare è più grave di quella finanziaria

    ◊   In un messaggio pubblicato sabato scorso, dal titolo “Beati coloro che lavorano per la pace” (Mt. 5,9), la Conferenza episcopale del Guatemala (Ceg) raccoglie le conclusioni dell’Assemblea Plenaria svoltasi dal 21 al 25 gennaio, e sottolinea la necessità di promuovere “un nuovo modello di sviluppo e una nuova visione dell'economia per realizzare uno sviluppo integrale, solidale e sostenibile”. Per fare questo, secondo i vescovi, il governo deve “offrire al Paese un progetto nazionale a breve, medio e lungo termine, ponendo le basi per la futura prosperità e la qualità della vita dei guatemaltechi, soprattutto giovani e bambini”. Per attuare il nuovo modello economico e di sviluppo, il documento dei vescovi, inviato anche all'agenzia Fides, segnala che “è necessario riformare le leggi che regolano gli investimenti per lo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili del Paese, in modo che tali attività economiche riescano effettivamente a migliorare la qualità della vita dei guatemaltechi”. La crisi alimentare che colpisce migliaia di guatemaltechi, in particolare bambini vittime di malnutrizione cronica, “è un affronto alla dignità umana di tutti coloro che soffrono” ed è “più grave della crisi finanziaria”. La Ceg critica il Parlamento per non aver approvato la legge sullo sviluppo rurale, che rappresenta la “soluzione urgente” alla situazione di fame e sfruttamento subita da migliaia di famiglie contadine. “Il rifiuto della discussione e dell'eventuale approvazione del disegno di legge sullo sviluppo rurale a lungo preparato con vari settori che rappresentano gli interessi dei contadini, dimostra che i legislatori devono prendere sul serio la loro responsabilità e la missione di essere veri rappresentanti del popolo" scrivono i vescovi. (R.P.)

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    Messico: il nunzio prega con 35 mila giovani per le persone rapite

    ◊   Il nunzio apostolico in Messico, mons. Christophe Pierre, ha manifestato la sua condivisione della sofferenza delle famiglie delle vittime dei rapimenti, ed ha espresso particolare apprensione per la scomparsa del sacerdote Santiago Álvarez. “Nella diocesi di Zamora c'è un sacerdote scomparso pochi giorni fa, è scomparso e nessuno sa nulla, ma sappiamo bene che questo sacerdote è uno delle migliaia di persone, migliaia di famiglie, che soffrono come voi” ha detto l’arcivescovo parlando con i giornalisti il 26 gennaio, alla fine della celebrazione eucaristica che ha concluso il pellegrinaggio al Cerro del Cubilete, a Guanajuato. Quasi 35mila giovani hanno percorso 14 chilometri in preghiera fino ad arrivare al monumento di Cristo Rey, come avviene da 30 anni. Alla celebrazione hanno partecipato diversi vescovi e centinaia di sacerdoti. In particolare i giovani hanno invocato la fine della violenza, dell’insicurezza, dell’ingiustizia e, in particolare, dei rapimenti. Ai giornalisti mons. Pierre ha detto di aver conosciuto il sacerdote scomparso qualche mese fa, in occasione della nomina del vescovo ausiliare di Zamora: “lo ricordo bene, era molto cordiale e simpatico, per questo soffro e condivido la sofferenza di mons. Javier, il vescovo, ma anche le sofferenze di migliaia di mamme, papà, fratelli e sorelle, che non sanno dove sono i loro cari. Si tratta di una tragedia. Tutti desideriamo una situazione di maggiore giustizia, e per raggiungere la giustizia dobbiamo lavorare tutti, ognuno nel suo incarico, ma non è così facile”. (R.P.)


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    Colombia: tremila casi di maltrattamenti infantili nel 2012

    ◊   Ogni giorno in Colombia 3 bambini muoiono per cause violente. Al 21 gennaio di quest’anno sono già stati registrati 101 omicidi di minori, e nel 2012 sono stati riportati 2.936 casi di maltrattamento infantile. Secondo l’Ufficio di medicina legale locale, nel mese di gennaio 16 morti sono state causate da incidenti casalinghi e a scuola; 36 sono omicidi; 17 casi sono ancora allo studio; 13 si sono suicidati e 19 sono morti per incidenti stradali. La situazione - riferisce l'agenzia Fides - è particolarmente grave nel dipartimento di el Huila dove è inquietante il numero di bambine incinte in seguito ad abusi da parte di familiari. L’ Instituto Colombiano de Bienestar Familiar (Icbf) riporta abusi sessuali (704 casi denunciati); psicologici (122); fisici (908); e negligenza (694). La Fundación Restrepo Barco segnala che in tutto il territorio nazionale il 22% dei casi sono dovuti ad incesti. Di fronte alla situazione di el Huila, l’Icbf ha evidenziato che influiscono enormemente i fattori culturali e la scarsa alfabetizzazione. Tra il 1990 e il 2012, circa mille minori hanno subito mutilazioni che obbligano a protesi permanenti e 200 bambini sono morti. Per tutti questi casi non esistono condanne penali per i carnefici. Dal rapporto Forensis 2011 di Medicina Legale, risultano 1.177 omicidi di minori. Il documento ha censito inoltre 11.495 casi di violenze domestiche, 20.968 di violenza interpersonale e 17.628 di eventuali abusi sessuali. (R.P.)

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    Inghilterra: i vescovi ribadiscono il "no" ai matrimoni gay

    ◊   “È profondamente deludente, ma non inaspettato, il fatto che il governo abbia scelto di procedere con l’introduzione di una legge che cambia la definizione del matrimonio. Insieme ad altre persone di tutte le fedi e a non credenti ci opporremo con vigore a questa legge”: questo il commento dell’arcivescovo Peter Smith, vicepresidente della Conferenza episcopale d’Inghilterra, alla pubblicazione, venerdì scorso, della legge sui matrimoni gay da parte del governo di David Cameron. In un comunicato diffuso dalla Conferenza episcopale cattolica d’Inghilterra e Galles e ripreso dall'agenzia Sir, l’arcivescovo Smith spiega che “il matrimonio ha una identità distinta da qualunque altro rapporto, non importa quanto amore o impegno possano esservi coinvolti. Il matrimonio è, e sempre è stato, l’unione di un uomo e una donna per amore e sostegno reciproco, aperto alla procreazione. Il matrimonio, lungo i secoli, è stato il riconoscimento duraturo di questo impegno ed è stato, giustamente, riconosciuto come unico e degno di protezione legale”. “Il problema fondamentale con la legge sul matrimonio omosessuale è che cambierà radicalmente il significato del matrimonio per tutti e, in questo modo, indebolirà il bene comune”, dice ancora l’arcivescovo Smith. “Non esiste mandato elettorale per questa legge e il processo di consultazione lo scorso anno è stato un disastro. Diamo il benvenuto alla promessa di un voto libero dei parlamentari sulla legge e speriamo che venga sconfitta”. (R.P.)

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    Irlanda: Messa inaugurale della Settimana delle Scuole cattoliche

    ◊   “La scuola non riguarda solo studenti ed insegnanti, bensì anche le famiglie, le comunità, le parrocchie e la Chiesa. In pratica, la scuola riguarda la vita”. È stato questo il passaggio centrale dell’omelia che padre Kevin Heery ha tenuto ieri, in occasione dell’inizio della Settimana delle Scuole cattoliche in Irlanda. Il sacerdote, cappellano della Scuola secondaria “Saint Joseph’s Mercy” di Navan, ha presieduta la Santa Messa in diretta televisiva, sull’emittente Rté. Promossa dalla Conferenza episcopale locale, la Settimana proseguirà fino al 3 febbraio, ed avrà come tema “Scuole cattoliche nella comunità di fede: condividere la Buona Novella”, che prende spunto dall’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI per commemorare i 50 anni del Concilio Vaticano II e i 20 anni del Catechismo della Chiesa cattolica. “A scuola – ha detto padre Heery – si nutrono virtù e valori; nel disordine che può essere la vita, la buona formazione ci indica la via giusta”. “Per i cattolici – ha continuato il sacerdote – l’educazione non è solo un diritto, ma anche una responsabilità cui provvedere”. “A scuola – ha detto – noi impariamo in presenza di altri; nelle scuole cattoliche, impariamo insieme a fratelli e sorelle nella fede”, anche perché “le nostre scuole sono comunità di fede, il cui cuore è Cristo ed Egli ci invita non solo a fare comunità, ma anche a vivere in unità”. Di qui, la sottolineatura forte del fatto che “l’educazione è un diritto per tutti i bambini, non solo per coloro che possono permettersela; essa vale tutto il difficile lavoro ed i sacrifici dei fondatori delle scuole cattoliche e gli innumerevoli sforzi di volontari e parrocchiani che vivono la loro fede come un servizio”. Infine, padre Heery ha esortato la comunità di fedeli “a rafforzare ed approfondire il proprio Credo”, guardando all’Anno della fede, occasione per “riscoprire la gioia del credere ed avvicinarsi a Cristo”. (I.P.)

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    Capo Verde: i 20 anni dell'emittente cattolica Radio Nova

    ◊   Da 20 anni va in onda a Capo Verde Rádio Nova, un’emittente cattolica voluta e realizzata dal Segretariato delle Missioni di Torino come mezzo di apostolato per la gente dell’Arcipelago. Superate non poche difficoltà per l’installazione, dovute alla distanza (la superficie del Paese è di 4.033 kmq) e alle accidentalità del territorio, l’oceano e molte montagne di notevole altezza, Rádio Nova iniziò le trasmissioni il 17 dicembre 1992 da Mindelo, capoluogo dell’isola di S. Vicente, con una potenza di 500 watt. Quattro anni dopo, grazie al rinnovamento di tutto l’apparato trasmittente, all’aumento della potenza e alla costruzione di sette torri nelle varie isole, debitamente trattate con agenti capaci di difenderle da fenomeni naturali (vento, salsedine, sabbia), Rádio Nova coprì l’intero territorio e può essere oggi ascoltata in tutte le isole, per le quali è diventata lo strumento più efficace di evangelizzazione. Per 24 ore su 24 la gente può infatti seguire programmi religiosi (Angelus, Rosario, riflessioni sulla Bibbia e, quest’anno, sulle fede), trasmissioni culturali e di interesse pubblico, come rubriche sulla sanità, sull’educazione, insieme a notizie di vario genere, spesso indispensabili alle comunità isolane. “Nonostante i nostri limiti - ha detto il direttore padre Ippolito Cansado Barbosa - abbiamo un vasto pubblico che ci segue con interesse e che preferisce sintonizzarsi sulle lunghezza d’onda della nostra Rádio, piuttosto che su quelle di carattere politico o commerciale. Molto seguite la rubriche “Buscando Luzes” e “Jovens entre jovens”, destinate particolarmente ai giovani, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione capoverdiana. Non mancano programmi per i bambini e corsi di formazione per i catechisti, alcuni dei quali sono responsabili di comunità senza sacerdote e facili a passare tra i fedeli delle varie sette presenti nel Paese, primi fra tutti quelli della chiesa avventista”. Rádio Nova si collega quotidianamente con la Radio Vaticana, trasmettendo i programmi in lingua portoghese, seguiti soprattutto dal clero, che viene così messo subito al corrente della vita della Chiesa nel mondo.(A cura di padre Egidio Picucci)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 28

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