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Sommario del 27/08/2013

Il Papa e la Santa Sede

  • Domani la Messa del Papa con gli agostiniani. Padre Prevost: grati per la sua vicinanza
  • Due tweet del Papa: Gesù è la porta che conduce alla salvezza, usciamo da egoismi e indifferenze
  • Papa Francesco riceverà il re di Giordania, giovedì prossimo in Vaticano
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Siria: sempre più probabile un attacco militare, forse domani riunione all'Onu
  • Giordania, delegazione della Caritas Italiana nei campi profughi: 1 milione e 300 mila i siriani
  • Nel monastero di Deir Mar Musa, giornata di preghiera per la pace in Siria e la liberazione di padre Dall'Oglio
  • Egitto: quartieri cristiani sotto assedio, ma ricchi di fede e speranza
  • I colloqui israelo-palestinesi continuano: nessuno stop dopo il raid in Cisgiordania
  • Nuovo attacco di "Boko Haram" in Nigeria: uccisi 14 giovani
  • Congo: nuovi scontri a Goma, la Chiesa al fianco della popolazione
  • Misure "salva-precari". Per i sindacati: "Un piccolo passo, ma non basta"
  • Lotta al racket: 22 anni fa l'omicidio di Libero Grassi. "Addiopizzo": il fenomeno rimane diffuso
  • Sinodo valdese. Mons. Bianchi: orizzonti comuni. Il pastore Bernardini: importante e fecondo il dialogo ecumenico
  • Perdonanza Celestiniana. Mons. Petrocchi: evento che ci apre al dono della riconciliazione con Dio
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Il Patriarca Sako: i cristiani non fuggano dall'Iraq
  • Il card. Grocholewski a Seul: l’educazione come via di evangelizzazione in Asia
  • India: approvato dal parlamento il piano contro la fame
  • Manila: il card. Tagle contro la corruzione nelle Filippine
  • Sud Corea: la Chiesa chiede al governo di aiutare i malati terminali e non ricorrere all'eutanasia
  • A Sajan George il premio per la pace ‘Martin Luther King’
  • Papua Nuova Guinea: la Chiesa chiede un'alleanza con lo Stato nelle politiche sociali
  • Colombia: il governo apre al dialogo con i campesinos
  • Argentina: quasi il 60% dei bambini non vede rispettati i suoi diritti fondamentali
  • Il Papa e la Santa Sede



    Domani la Messa del Papa con gli agostiniani. Padre Prevost: grati per la sua vicinanza

    ◊   Domani il Papa celebrerà a Roma la Messa di apertura del Capitolo generale dell’Ordine di Sant’Agostino. Nel giorno in cui la Chiesa ricorda il vescovo di Ippona, i religiosi agostiniani accoglieranno il Pontefice alle 18, nella Basilica di Sant’Agostino. Fu Innocenzo IV, nel XIII secolo, a dare il primo impulso a diverse comunità eremitiche a riunirsi in un Ordine religioso con la regola e lo stile di vita di Sant’Agostino. Al 96.mo priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino, padre Robert Prevost - in carica da 12 anni e che si appresta a concludere il suo secondo mandato - Tiziana Campisi ha chiesto un bilancio personale e una riflessione sui primi mesi di Pontificato di Papa Francesco:

    R. – Sono stati 12 anni positivi per quanto riguarda la vita dell’Ordine, grazie ad alcune cose concrete e all’apertura di nuove missioni. L’elemento di dialogo e di collaborazione tra le circoscrizioni è cresciuto molto.

    D. – Come ha vissuto l’Ordine di Sant’Agostino l’inizio del Pontificato di Papa Francesco?

    R. – Vediamo questo nuovo Papa come un grande dono per la Chiesa, nella stessa maniera in cui abbiamo vissuto il dono del Pontificato del Papa emerito Benedetto, che ha dato alla Chiesa l’insegnamento di Sant’Agostino in maniera molto grande e importante. Il nuovo Papa prende alcuni elementi del Pontificato di Benedetto con uno stile diverso e si avvicina al Popolo di Dio sempre con il messaggio del Vangelo. Vive, quindi, con la sua umanità, con la sua vicinanza, con questo grande amore, questa compassione, questa misericordia di cui parla molte volte e fa che il Vangelo sia un messaggio vivo per la gente, per il popolo. Per noi è un regalo, un dono, ma anche una grande sfida, questo nuovo Papa e tutto il suo messaggio.

    D. – Domani, memoria liturgica di Sant’Agostino, si apre il vostro Capitolo Generale. In che modo state affrontando questo momento?

    R. – Abbiamo scelto la data della solennità di Sant’Agostino per aprire il Capitolo, precisamente per l’importanza che ha Sant’Agostino per la vita dell’Ordine e per la vita della Chiesa. Sant’Agostino è una figura che ancora oggi ha molto da dire ai cristiani e al popolo, a tutti, quindi. E questo messaggio è qualcosa che deve anche guidare e accompagnare la riflessione e il lavoro del Capitolo. Agostino è davvero una figura, come teologo e come pastore, che ha molto da dire alla Chiesa di oggi.
    D. – Capitolo Generale, che viene accompagnato anche dalla preghiera del Papa...

    R. – Certamente. Abbiamo ricevuto diversi segni della sua vicinanza nei nostri confronti. Qualche settimana fa abbiamo ricevuto dal cardinale Bertone, dalla segreteria di Stato, un messaggio in cui si comunicava questo desiderio del Papa di accompagnarci nel Capitolo Generale, riconoscendo l’importanza del Capitolo per la vita dell’Ordine, all’interno della Chiesa. Un Capitolo, in questo senso, è un evento ecclesiale non solo dell’Ordine. E noi siamo grati, siamo contenti di sapere che c’è anche questo accompagnamento, questa vicinanza del Santo Padre nei nostri confronti.

    D. – Domani, memoria liturgica di Sant’Agostino, ma oggi memoria liturgica di Santa Monica, madre di Sant’Agostino. C’è anche l’intercessione di Santa Monica sul vostro Capitolo e su queste giornate?

    D. – Santa Monica si può dire che sia anche nostra madre: la figura di Monica, che con le sue preghiere è riuscita a realizzare la conversione di Agostino, sempre attraverso la grazia di Dio. Possiamo dire che anche noi, come Ordine, vogliamo essere parte della vita della Chiesa e quindi Monica, con la sua preghiera, il suo amore, la sua intercessione accompagna l’Ordine in questo senso.

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    Due tweet del Papa: Gesù è la porta che conduce alla salvezza, usciamo da egoismi e indifferenze

    ◊   “Gesù è la porta che conduce alla salvezza ed è una porta aperta per tutti” e ancora: “Lasciamo entrare Gesù nella nostra vita, uscendo dagli egoismi, dalle indifferenze e dalle chiusure verso gli altri”. Sono i due tweet lanciati oggi da Papa Francesco sul suo account in 9 lingue, @Pontifex, seguito da quasi 9 milioni di follower.

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    Papa Francesco riceverà il re di Giordania, giovedì prossimo in Vaticano

    ◊   Giovedì prossimo, Papa Francesco riceverà in udienza in Vaticano Sua Maestà Abdallah Ibn Husayn, Re di Giordania, con il seguito. Si tratta del primo incontro tra il re giordano e il Pontefice. Re Abdallah aveva incontrato Benedetto XVI nel maggio del 2009 ad Amman, in occasione del viaggio apostolico in Terra Santa che aveva avuto come prima tappa proprio la Giordania.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   In prima pagina, il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, ricorda i 50 anni del grido “I have a dream” di Martin Luther King.

    Il vero frutto della fede: in cultura, come nei cosiddetti “Sermoni di Erfurt” Sant’Agostino parla dell’attenzione ai bisognosi.

    Un articolo di Ugo Sartorio dal titolo “Dire Dio è impossibile senza dire anche l’uomo”: linguaggio religioso e linguaggi del mondo in un convegno teologico a Bressanone.

    Quel caso limite nascosto in ogni attimo: Silvia Guidi sul tema dell’amore coniugale nell’opera teatrale di Gino Fiore.

    In rilievo, nell’informazione internazionale, la Siria: fuoco incrociato sulle ispezioni dell’Onu.

    Nel sociale più che in politica: nell’informazione religiosa, Romano Penna sui cristiani e il potere civile secondo Gesù e l’Apostolo Paolo.

    Agostino in Vaticano: sul vescovo di Ippona e sull’attuale Vescovo di Roma, intervista di Nicola Gori all’agostiniano Bruno Silvestrini, parroco della parrocchia di Sant’Anna in Vaticano.

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    Oggi in Primo Piano



    Siria: sempre più probabile un attacco militare, forse domani riunione all'Onu

    ◊   Sono ore di trepidazione nelle cancellerie internazionali, tutte al lavoro per una soluzione alla crisi siriana. Si potrebbe tenere, domani, una riunione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Ad annunciarlo il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino. Intanto è sempre più probabile un attacco internazionale, guidato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Proprio Londra spinge per un intervento a breve termine, mentre il regime siriano insiste: “un attacco non fermerà la guerra ai ribelli”. Il servizio è di Salvatore Sabatino:

    Un’operazione lampo, della durata di non più di due giorni con missili lanciati dalle navi da guerra nel Mediterraneo. Questa l’opzione che Obama starebbe valutando; viene rilanciata dal "Washington Post" e smentisce quanto detto solo due giorni fa dal capo della Casa Bianca, il quale aveva basato la sua posizione sulla prudenza, sottolineando che un intervento sarebbe stato possibile solo con un voto all’unanimità al Consiglio di Sicurezza Onu. Di certo, al momento, questa resta solo un’ipotesi, che però ha già provocato la dura reazione della Russia, già “amareggiata” dal rinvio del bilaterale che avrebbe oggi dovuto definire i cardini della conferenza di pace “Ginevra 2”. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Londra si starebbe muovendo approntando i piani per un possibile intervento militare. L'uso delle armi chimiche "è completamente e assolutamente aberrante ma qualsiasi decisione deve essere presa rigorosamente in un ambito internazionale", ha detto il premier britannico Cameron. Intanto la Nato fa sapere che discuterà giovedì prossimo della situazione, mentre è stata rinviata a domani la seconda visita degli ispettori Onu al sito del presunto attacco con armi chimiche nei sobborghi orientali di Damasco. Dall’Iran, infine, una nuova "stoccata" agli Stati Uniti: un eventuale intervento militare avrebbe "gravi conseguenze" non solo per la Siria ma per tutta la regione.


    L’Amministrazione americana è, dunque, sotto pressione, ma quali le conseguenze di un possibile attacco sugli equilibri diplomatici internazionali? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Ennio Di Nolfo, docente emerito di Relazioni Internazionali presso l’Università di Firenze:

    R. - Penso che ci sarebbero conseguenze terrificanti e da evitare! Mi auguro che queste voci che circolano insistentemente, dopo la dichiarazione del segretario di Stato Kerry, siano voci che tendano ad amplificare l’intenzione dell’Amministrazione americana e mi auguro che l’Amministrazione americana consideri approfonditamente le fatali conseguenze che avrebbe un’iniziativa militare nell’area.

    D. - La più interventista è sicuramente la Gran Bretagna che spinge per un attacco, anche senza avallo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Perché questa posizione così netta di Londra?

    R. - Sia la Gran Bretagna, sia la Francia sono spinte - secondo me - dalla nostalgia di essere state potenze imperiali fino a qualche decennio fa, ma sono spinte poi anche dal fallimento clamoroso che hanno visto in Libia... e sembra vogliano ripetere forse questo fallimento nel caso della Siria, in una situazione assai peggiore per i due Paesi che lo promuovono e per il contesto nel quale l’azione si svolgerebbe.

    D. - Su una cosa non ci sono dubbi: l’Europa, anche in questo caso, si mostra divisa al suo interno?

    R. - Certo. L’Europa, in questo momento, è priva di una politica estera comune e questa è una vera tragedia, perché le poche ipotesi avanzate dalla Ashton durante la crisi egiziana, nel momento più critico della crisi egiziana, non sono state poi confermate da un’azione coerente di tutta l’Unione Europea, che è profondamente divisa. Il fatto che - per fortuna! - la Merkel sia costretta dalla campagna elettorale a non volere un’azione militare è una "benedizione involontaria" per l’Unione Europea, che è così costretta a non intervenire, quando invece la Francia e la Gran Bretagna - come si diceva - vorrebbero farlo.

    D. - Un altro attore importantissimo nella questione siriana è sicuramente la Russia, che esprime rammarico e avverte: “I tentativi di aggirare il Consiglio di sicurezza Onu, creano pretesti artificiali infondati per un intervento militare nella regione”: insomma una posizione, quella di Putin, molto netta...

    R. - Molto netta e - a mio parere - anche molto efficace spero, perché se è vero quello che Obama ha detto qualche giorno fa, che l’azione americana si svolgerà solo all’interno di una approvazione delle Nazioni Unite, il veto della Russia è garantito. Se invece affiorano le ipotesi "stile Kosovo", mi pare che allora la Russia - in questo caso - avrebbe messo a tacere con conseguenze drammatiche nei rapporti continentali Europa-Russia e nei rapporti internazionali più vasti Russia-Stati Uniti.

    D. - Per quanto riguarda l’Iran, ha ribadito che un attacco alla Siria avrebbe gravi conseguenze in tutta la regione mediorientale. Un dato reale questo?

    R. - Questo è il dato più pesante fra tutti! Io credo che la posizione dell’Iran sia una posizione quanto mai importante non solo per motivazioni religiose, ma anche per motivazioni geopolitiche. L’Iran è, con la Turchia e con l’Egitto, uno dei tre i grandi Paesi che dominano la situazione mediorientale: mentre la Turchia e l’Egitto sono all’interno in preda ad un crisi, l’Iran in questo momento affronta una nuova politica estera, con un nuovo presidente, che non nasconde la sua volontà di collaborare o riprendere i negoziati con gli Stati Uniti e il mondo sulla questione nucleare, ma che non potrebbe mai accettare un intervento militare in Siria. Sicché un’azione militare in Siria, farebbe saltare tutto l’assetto mediorientale!

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    Giordania, delegazione della Caritas Italiana nei campi profughi: 1 milione e 300 mila i siriani

    ◊   In questi giorni è giunta in Giordania una delegazione della Caritas italiana per valutare i bisogni nei campi profughi, che ospitano oltre un milione di siriani. La missione proseguirà fino al 30 agosto toccando anche Gerusalemme e la Cisgiordania per coordinare gli interventi umanitari nella complessa realtà mediorientale. Roberta Gisotti ha intervistato Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale dell’organismo ecclesiale.

    D. - Mentre le armi dominano la scena in Siria e la diplomazia è incapace di risolvere il conflitto, come sta sopravvivendo la popolazione in fuga? Quale situazione avete trovato nei campi profughi giordani?

    R. - In primo luogo, c’è una grandissima preoccupazione per le notizie che arrivano a livello internazionale, perché certamente tutto il Medio Oriente è collegato; c’è chi ha un parente in Terra Santa, chi in Libano, chi ha ancora fortissimi legami con la Siria e non parlo solo dei cittadini siriani, ma anche di quelli giordani e così via. Quindi l’apprensione e la preoccupazione sono ai massimi livelli. Il numero complessivo dei siriani in Giordania ha ormai superato il milione e 300 mila; quindi un numero impressionante se pensiamo che, in tutto, in Siria ci sono sei milioni di persone. Se poi consideriamo che a questi si aggiungono più di mezzo milione di iracheni che ancora restano qui, e più di mezzo milione di egiziani, certamente è un insieme molto composito di persone di nazionalità diverse che effettivamente non è facile gestire, mantenere in pace e in serenità.

    D. - Come vi state coordinando per gli aiuti insieme alle altre Caritas locali?

    R. - Devo dire che abbiamo riscontrato una grande capacità organizzativa, una grande voglia di collaborazione tra governo, agenzie dell’Onu, realtà locali, la Chiesa che è molto attiva; la Caritas di Giordania segue 130 mila persone. Per cui, lo sforzo è enorme. Quello che invece desta grandissima preoccupazione è lo scenario futuro e l’imprevedibilità di ciò che potrebbe succedere da qui a pochi giorni.

    D. - Quali bisogni primari avete individuato?

    R. - Più dell’80 percento dei siriani in Giordania sono donne e bambini; quasi tutti hanno assistito ad episodi di violenza verso familiari o persone ben note. Quasi tutti, soprattutto i bambini, soffrono di problemi psicologici. Oltre ai campi profughi, molti siriani si sono ormai dispersi in tutta la Giordania e quindi, in prospettiva futura, la situazione è molto preoccupante perché migliaia di persone arrivano tutti i giorni. E se ne dovessero arrivare altre decine di migliaia, o centinaia di migliaia, la situazione sarebbe ingestibile.

    D. - Immagino che in questo momento ci sia scoraggiamento tra la popolazione civile, che ci sia poca speranza che le armi vengano deposte …

    R. - Qui ormai quasi tutti sono un po’ pronti al peggio. Certamente c’è molto stupore, anche se evidentemente la Giordania è sempre stato un Paese un po’ a sé, capace di mantenere buoni rapporti con tutti, buone relazioni, anche grande capacità di dialogo, di adattamento alle situazioni. Quindi da un verso, resta un Paese – se vogliamo – 'fortunato', perché appunto nei rapporti che ha un po’ con tutto il mondo ed anche con il Medio Oriente, è riuscito a trovare dei buoni equilibri. D’altro canto, però, la preoccupazione è fortissima, perché i legami con la Siria sono storici e molto radicati da tutti i punti di vista, non solo i legami a livello politico, ma anche familiare, sociale ... Quindi tutti sono preoccupati per i parenti che hanno lasciato in Siria, per le persone che conoscono, per quello che può succedere un domani. Certo, si auspica che si possa trovare una soluzione più ragionevole e meno violenta possibile, che sia più il frutto di dialogo e riconciliazione.

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    Nel monastero di Deir Mar Musa, giornata di preghiera per la pace in Siria e la liberazione di padre Dall'Oglio

    ◊   In Siria, presso il Monastero di San Mosè l’etiope, nella località di Deir Mar Musa, si svolge oggi una speciale giornata di preghiera e digiuno per invocare la pace nel Paese e chiedere la liberazione del gesuita padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato circa un mese fa nell’area di Raqqa. La comunità monastica di rito cattolico siriano, fondata nel 1982 proprio da padre Dall'Oglio, promuove il dialogo ecumenico e islamo-cristiano. Fabio Colagrande ha raggiunto telefonicamente in Siria uno dei monaci della comunità, padre Jihad Youssef:

    R. – Questa giornata, tradizionalmente, è una giornata di gioia per noi e per le due parrocchie di Nabek, la città più vicina al monastero: una siro-cattolica e una greco-cattolica. Quest’anno, vista la situazione, per cui non abbiamo notizie del nostro fondatore padre Paolo, non possiamo avere espressioni di festa o celebrazioni come tutti gli anni. Dunque, abbiamo deciso di dedicare questa giornata alla preghiera, al digiuno, per chi può e come può, alla meditazione, anche con l’idea di chiedere l’intercessione di San Mosé e di tutti i Santi, di Abramo, il protettore della nostra vocazione al dialogo tra i credenti, per essere solidali con padre Paolo, che in questi giorni non può celebrare l’Eucarestia e forse non può leggere la Parola di Dio, può solo pregare in cuor suo.

    D. – Chi partecipa a questa giornata?

    R. – Monaci e monache, perché qui la situazione non è più come due o tre anni fa, quando il monastero accoglieva sempre centinaia di persone. Non arrivano più i pellegrini e qui siamo in otto tra monaci e monache. Noi abbiamo chiesto, e chiediamo adesso, tramite la Radio Vaticana, la solidarietà di tutti i credenti cattolici e non, di tutti i cristiani e non, per la pace in Siria e nel mondo, dove c’è conflitto, dove c’è ingiustizia, e in modo particolare per i nostri cari, e pensiamo innanzitutto al nostro amato padre Paolo.

    D. – Anche Papa Francesco, recentemente, ha pregato per padre Dall’Oglio. Quali sono le vostre speranze per le sorti del vostro confratello e fondatore?

    R. – Siamo stati molto toccati dalle parole del Papa, del vescovo di Roma Francesco, perché nella festa di Sant’Ignazio aveva nominato il suo confratello gesuita scomparso. Allora non c’erano notizie certe della sua vita o della sua morte. Noi speriamo e non possiamo permetterci di non sperare fino in fondo. Speriamo non solo per la sua liberazione, ma anche che sia in buona salute e in buono stato fisico e spirituale. Non abbiamo nessuna conferma, nessuna informazione sicura. ‘Speriamo contro ogni speranza’, come dice San Paolo.

    D. – Una giornata anche per chiedere a chi in questo momento sta limitando la libertà di padre Paolo di rispondere a questo appello di pace...

    R. – Supponendo che qualcuno ci senta, noi parliamo con i cuori delle persone e il cuore può avere delle ragioni che la ragione non può capire. Speriamo, quindi, che il Signore metta nei cuori di queste persone più umanità, più tenerezza, più ragionevolezza verso padre Paolo e verso tutti coloro che si trovano nella sua situazione..

    D. – Il vostro monastero Deir Mar Musa è un monastero in cui si è sempre praticato il dialogo. E’ una comunità spirituale, potremmo dire, che promuove l’incontro tra cristianesimo e islam. Com’è cambiata la vostra attività di monaci durante questi ultimi due anni di guerra?

    D. – Ciò che è cambiato è che prima avevamo sempre, durante tutto l’anno, persone che venivano, pellegrini dall’Europa, dai Paesi arabi, di appartenenze e religioni diverse. Qui si faceva il dialogo della vita e il dialogo meditato, attraverso seminari interreligiosi, conferenze e incontri spirituali. Niente è cambiato per noi, tranne queste, le ‘attività pubbliche’. Noi continuiamo a pregare per l’islam, con l’islam per un’umanità migliore, per un’umanità più solidale, non soggetta alla logica del mercato e del potere. Abbiamo la speranza di poter arrivare ad un mondo migliore per tutti, dove si faccia politica per il bene delle persone e non per assoggettare un popolo sotto un altro popolo per mettere un polo contro l’altro.

    D. – Ha toccato il cuore di molti l’appello di domenica scorsa di Papa Francesco, proprio per la pace in Siria. In questa vigilia della festa di San Mosè l’Etiope, anche la vostra comunità, a pochi chilometri da Damasco, si unisce a questo appello...

    R. – Noi siamo sempre uniti con il successore di Pietro. Sempre, sempre, sempre. E uniti con lui e con tutti quelli che sono successori degli apostoli, cattolici, ortodossi e non, con tutti quelli che si dichiarano cristiani e a tutti quelli che si dichiarano credenti in Dio. Siamo uniti tramite questa rete che chiamiamo comunità e comunione dei Santi. Grazie mille. Orate pro nobis! Dalla Siria, Dio vi benedica! Arrivederci!

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    Egitto: quartieri cristiani sotto assedio, ma ricchi di fede e speranza

    ◊   In Egitto il segretario generale del Consiglio delle Chiese cristiane nel Paese, padre Bishoy Helmy, ha respinto a nome dei cristiani egiziani le dichiarazioni del primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, secondo cui anche Ahmed Al Tayyeb, grande Imam dell’Università di Al Azhar, ha gravi responsabilità nella crisi egiziana. “Le virtù dell’imam e la sua statura umana - ha dichiarato padre Helmy - sono testimoniate dalla sua storia”. In Egitto, intanto, la Chiesa copta continua a vivere giorni di dolore e sofferenza. Il servizio dall'Egitto di Cristiano Tinazzi:

    Minya, 250 chilometri a sud della capitale, è una città sotto assedio. Uomini armati in borghese stazionano agli ingressi della città. Le dita sul grilletto e la sicura alzata con il colpo in canna. Una delle zone più calde dell'Egitto, questa, dove decine e decine di negozi ed edifici religiosi sono stati attaccati il 14 agosto scorso da migliaia di persone guidate da elementi dei Fratelli Musulmani. Anche il museo archeologico è stato completamente devastato. Non rimane più nulla, a parte vetri infranti e calcinacci. E da poco è partito proprio dal museo il ministro del Turismo, venuto a constatare i danni. Kamel Garas Faltas, copto, si trovava in casa quando alle 8 di sera è stato attaccata la palazzina dove vive. "Hanno lanciato molotov nel cortile e sparato colpi di arma da fuoco contro l'entrata principale", dice, mentre Ezzat, accanto a lui, non riesce a trattenere le lacrime nel ricordare quei momenti. "Hanno portato via tutto, soldi, oro e - aggiunge - hanno picchiato me e mia figlia". Nel cortile rimangono le carcasse di alcune auto incendiate. Spostandosi di villaggio in villaggio si rivedono immagini molto simili: devastazioni, incendi, saccheggi e paura. Soprattutto perché la polizia non c'è. E neanche l'esercito, arroccato nelle caserme. Soprattutto in posti come Minya, roccaforte islamista dominata dai gruppi salafiti. Paura, ma anche fede. Nonostante tutto anche qui sono visibili gli attestati di solidarietà nei confronti della comunità copta, capro espiatorio di turno nel caos egiziano che sembra non avere termine.

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    I colloqui israelo-palestinesi continuano: nessuno stop dopo il raid in Cisgiordania

    ◊   I colloqui di pace tra israeliani e palestinesi proseguono: è quanto ribadisce il Dipartimento di Stato Usa, smentendo così informazioni di stampa secondo cui sarebbero stati sospesi, ieri, dopo i disordini nel campo profughi di Qalandia in Cisgiordania. Precisamente le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi in seguito a accese manifestazioni alle quali la polizia israeliana ha risposto con un raid. Della gravità dell’accaduto e delle concrete possibilità di dialogo tra israeliani e palestinesi, Fausta Speranza ha parlato con l’esperta di questioni mediorientali, Marcella Emiliani:

    R. - Finora episodi come questi non hanno impedito il proseguimento dei negoziati. Diciamo che Israele è, purtroppo, abituata ad avere questo tipo di attacchi. Certo, venivano da Gaza; ora, se cominciano a manifestarsi anche dalla Cisgiordania, la questione si aggrava di molto.

    D. - Che cosa sappiamo di questi negoziati, perché c’è molta discrezione …

    R. - Entrambi i contendenti, Netanyahu e Abu Mazen, sono arrivati al tavolo dei negoziati spinti praticamente dal segretario di Stato americano, Kerry. I termini sono sempre gli stessi: i palestinesi finora hanno detto - e continuano a dire - che non arriveranno a nessun tipo di accordo con Israele, se prima Israele non sospende la costruzione delle colonie in Cisgiordania. Il governo di Netanyahu, dal canto suo, nemmeno nel momento in cui siede al tavolo dei negoziati con i palestinesi di Cisgiordania sospende la costruzione delle colonie. Quindi, diciamo che siamo in una situazione di stallo dove l’unica cosa positiva è stata quella di tornare formalmente ad un tavolo dei negoziati. Poi, entrambi i contendenti in questo momento hanno preoccupazioni ben più pressanti: i palestinesi che rischiano sempre di più un isolamento regionale ed internazionale, Israele che deve tenere a bada tutto quello che accade in Egitto, prima che dal Sinai arrivino minacce consistenti, per non parlare poi della minaccia che arriva dalla Siria e dal Libano, dove sta tracimando la guerra civile. Per quanto riguarda la Siria, abbiamo visto quello che è successo con gli attacchi addirittura con i gas nervini … Per ora l’impasse americana non sa che fare e come rispondere. Quindi diciamo che siamo in una situazione difficilissima...

    D. - Paradossalmente potrebbe essere il momento in cui le parti decidono di venirsi incontro?

    R. - Paradossalmente sì. Però con l’attuale governo israeliano non c’è la minima speranza - per lo meno finora - che Israele sospenda la costruzione delle colonie. Quindi, il punto cruciale è questo! Se continua così, rimarranno pochissimi metri quadri - eventualmente - da restituire ai palestinesi. Quello che potrebbe essere restituito come territorio, praticamente diminuisce di giorno in giorno.

    D. - Ma potrebbero esserci altre questioni da cui partire per un negoziato - anche un po’ diverso - da quello che si immaginava tempo fa?

    R. - Nello stesso campo palestinese - parlo dei palestinesi di Abu Mazen, non di quelli di Hamas, di Gaza - si stanno facendo avanti delle opzioni basate soprattutto su accordi economici precisi tra i palestinesi di Cisgiordania e Israele per arrivare non tanto ad una spartizione di territorio - che ormai è qualcosa di estremamente virtuale -, quanto piuttosto ad una non dichiarata, ma reale integrazione, in modo che i palestinesi si possano inserire nella più dinamica economia israeliana. Tutto questo per portare avanti la "scommessa" che in Medio Oriente è stata fatta molte volte: passare attraverso un maggior livello di benessere economico, per abbassare le rivendicazioni di tipo nazionalista. Questo però, lascia fuori - e lo lascerebbe poi comunque, perché anche negli attuali negoziati in corso non se ne parla e non ne parla nessuno - il futuro dei profughi, cioè di coloro che sono sparsi per tutto il Medio Oriente. Sono milioni, confinati dentro campi che stanno diventando tra l’altro - come abbiamo visto soprattutto in Libano e in Siria -, territori di scontri tra sunniti e sciiti, fazioni estremiste e quant’altro. Per cui, comunque la si giri, la situazione rimane estremamente complessa, complicata ed intricata e a livello regionale ed internazionale si procede per priorità macroscopiche: in questo caso il vecchio processo di pace israelo-palestinese allo stato attuale delle cose purtroppo interessa a pochissime persone.

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    Nuovo attacco di "Boko Haram" in Nigeria: uccisi 14 giovani

    ◊   La setta islamica dei "Boko Haram" colpisce ancora in Nigeria dopo le 44 vittime di domenica scorsa. Quattordici giovani, che facevano parte delle milizie pro-governative sono stati massacrati oggi a Bama da uomini armati che indossavano le divise della polizia. Dietro questa escalation di violenza nel Paese africano, potrebbe esserci anche la morte, non ancora confermata del leader di "Boko Haram", Abubakar Shekau? Cecilia Seppia lo ha chiesto a Massimo Alberizzi, editorialista del Corriere della Sera:

    R. – Sì. Potrebbe essere legato anche al fatto che sembrerebbe che il leader di "Boko Haram" sia stato ucciso: anzi, sono stati i militari a dirlo ma non c’è nessuna conferma di questo e "Boko Haram" stesso non ha confermato. Però, in realtà è uno stillicidio continuo e quotidiano. Infatti, basta guardare un po’ i media nigeriani per riuscire a capire che, appunto, la cosa ha delle impennate in termini numerici ma è una cosa cronica, non è solo una cosa acuta come sembra a noi!

    D. – "Uno stillicidio quotidiano"... e poi più o meno usano sempre la stessa modalità di attacco con questi commando armati che entrano, fanno irruzione … adesso hanno incominciato anche a tendere trappole, sempre più frequentemente, travestendosi da finti agenti della polizia …

    R. – Sì: utilizzano le divise dell’esercito, della polizia, fermano a posti di blocco finti e poi ammazzano le persone, appunto, perché bruciano le macchine: non le rubano. Quindi, non è una questione di denaro, non è una questione solo di banditismo, però non è solamente – come noi crediamo – una questione religiosa. In realtà, le radici di questa violenza devono ricercarsi nel fatto che la Nigeria è un Paese ricchissimo in cui la gente è poverissima e le ricchezze sono concentrate nelle mani di pochissime famiglie. Quindi, non c’è una reale ridistribuzione della ricchezza. Consideriamo che la Nigeria è il più grande e il più popoloso Paese dell’Africa con 150 milioni di abitanti che, per le royalties del petrolio, potrebbero vivere non dico a livello scandinavo, ma a livello europeo sicuramente. Invece, mancano i servizi, le strutture, le strade, l’elettricità va a singhiozzo, non ci sono ospedali, non ci sono scuole …

    D. – Non di rado questi attacchi vanno a colpire i settori economici e proprio quello dell’agricoltura, che in fondo è più vicina alla gente povera …

    R. – Si: bruciano i campi coltivati… Attenzione, perché noi parliamo di "Boko Haram", che è al Nord; il petrolio è al Sud: se andiamo a Sud, ci sono altri gruppi – molti, non tutti, sono proprio gang criminali – che, per esempio, sequestrano persone in continuazione e poi chiedono il riscatto … La polizia non è in grado, perché oltretutto molto spesso è connivente …

    D. – Di oggi è anche la notizia del massacro di 14 giorni miliziani pro-governo, cosiddetti giustizieri. Cerchiamo di capire chi sono, queste milizie, come possiamo definirle e soprattutto perché si stanno diffondendo proprio a Nord della Nigeria …

    R. – Perché a Nord opera "Boko Haram" e ammazzano soprattutto i cristiani – i cristiani animisti, e poi di tutte le confessioni religiose: ci sono cattolici ma ci sono soprattutto protestanti, luterani … Ma attenzione, perché "Boko Haram" non attacca solo i cristiani: ci sono casi di massacri di musulmani, anche, e quindi in realtà questo dimostra che è una violenza generalizzata e non mirata in particolare. Certo, i cristiani sono l’obiettivo più comune, ma non sono solo loro. E i giovani che si oppongono ai "Boko Haram" hanno deciso dunque di organizzarsi anche loro in gruppi.

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    Congo: nuovi scontri a Goma, la Chiesa al fianco della popolazione

    ◊   Continuano nella Repubblica Democratica del Congo gli scontri tra il governo e i ribelli del gruppo M23 per il controllo della città di Goma, capitale dello stato del Nord Kivu. Nuovi scontri, che hanno fatto più di 80 vittime, sono stati registrati negli ultimi giorni aggravando una situazione già drammatica di emergenza umanitaria. Nel panorama di una situazione politica incerta, confusa anche dagli interessi economici dietro la ricca e fertile regione del Nord Kivu, Davide Pagnanelli ha raccolto la testimonianza di Davide de Arcangelis, seminarista presso il seminario "Redemptoris Mater" di Goma, sulle emergenze più urgenti che affliggono la popolazione locale:

    R. - Goma - già normalmente - è una città in cui manca la corrente elettrica, manca l’acqua corrente; le strade quasi non esistono o sono in uno stato molto dissestato… Quindi in una situazione di emergenza così, in cui ci sono alcune migliaia, decine di migliaia, di rifugiati nei campi di accoglienza, c’è ovviamente bisogno di tutto, di tutti i beni di prima necessità.

    D. - Come agisce la Chiesa locale per rispondere alle necessità anche spirituali della popolazione?

    R. - La Chiesa fa un po’ quello che può. Il vescovo, mons. Kaboy, si "spolmona" per cercare di quietare un po’ i fuochi del tribalismo, che è quello che poi anima questi sentimenti di frustrazione, di angoscia, di paura e anche soprattutto di rabbia che ha la popolazione. La Chiesa compie quindi un’opera enorme sia da un punto di vista materiale - la Caritas di Goma è una delle prime in termini di servizi, di qualità del servizio - fornendo beni di prima necessità, soprattutto nei campi dei rifugiati; sia anche da un punto di vista pastorale. C’è un’azione di tipo pastorale a livello di evangelizzazione, andando anche nei campi o facendo delle missioni: noi abbiamo anche fatto delle missioni nelle strade. C’è bisogno di ricostruire un po’ la fede, perché praticamente la guerra a Goma - dal ’94 - non è mai finita, anche se ha visto brevi momenti di pace: ovviamente tutto questo genera una tale frustrazione da far perdere loro un po' la fede, la speranza e anche un po’ il senso del vivere.

    D. - Puoi raccontarci di qualche risultato dell’evangelizzazione a Goma?

    R. - Ce ne sono, senz’altro! Vedere che la Chiesa cattolica esce a cercare le persone, a cercare di parlare con loro, ha fatto avvicinare un gran numero di persone. Noi abbiamo anche un gran numero di coppie miste dal punto di vista delle tribù: coppie hutu-tutsi che vivono insieme, che vivono una fede seria, che li fa maturare. Ci sono giovani che si avvicinano, che danno anche disponibilità a Dio rispondendo ad una chiamata vocazionale; ci sono matrimoni ricostruiti: c’è un piccolo focolaio - diciamo così - di persone che accoglie il Vangelo, che accoglie questa predicazione, che accetta di cambiare vita, che accetta di smettere di mormorare, di vivere in una situazione così disperata. Il problema della gioventù è questo, perché i giovani non vedono un futuro davanti a loro: guardando al futuro, vedono quello che c’è e quindi guerra, povertà, difficoltà… E’ un’opera enorme, ma abbiamo visto però che molte coppie, molte persone hanno scelto di restare a Goma: cosa che non è certo scontata, perché tutti quelli che possono vanno via!

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    Misure "salva-precari". Per i sindacati: "Un piccolo passo, ma non basta"

    ◊   “Mai più precari di Stato”: ieri, con il varo del decreto sulla Pubblica Amministrazione il governo Letta ha posto un limite ai contratti a termine e ha dato uno spiraglio di stabilizzazione ai molti vincitori o idonei di passati concorsi. “Non è risolutivo, ma è un piccolo passo, ora attendiamo di discutere i dettagli”, commentano i sindacati, mentre il governo ribadisce che la soluzione è strutturale, non è una sanatoria. Gabriella Ceraso ne ha parlato con Elena Zuffada direttrice del Centro di ricerca per il cambiamento delle amministrazioni pubbliche (CeCap), della Cattolica di Piacenza:

    R. – In un momento storico come questo, caratterizzato da una grande incertezza in tutto il sistema socio-economico con delle ripercussioni evidenti sui nuclei familiari e sulle singole persone, un provvedimento che va nella direzione di creare o, comunque, assicurare posti di lavoro, è sicuramente un provvedimento importante e da apprezzare. Poi, se analizziamo il provvedimento in un’ottica di razionalizzazione, di modernizzazione della Pubblica Amministrazione, comincerei a considerare il fatto che, il nostro settore pubblico non è sovradimensionato, se guardiamo i dati Ocse, invece il nostro punto di debolezza credo sia soprattutto quello di far sì che la forza lavoro sia in grado di tradurre le proprie competenze in valore per il territorio, in servizi, in risposte tempestive. Quindi, al di là dell’attenzione, che anche i media hanno posto sulla questione dei precari, un aspetto importante mi sembra quello secondo cui il governo ha dichiarato di voler facilitare anche i procedimenti, le procedure per l’assunzione e per la mobilità. Questo, infatti, potrebbe essere uno strumento che dà efficienza al sistema pubblico.

    D. – Quindi lei dice che è una soluzione che può essere considerata strutturale, ma che non risponde all’ emergenza, che caratterizza la nostra Pubblica Amministrazione, della velocità, dell’efficienza, dell’equilibrio nelle diverse sedi?

    R. – Sì, dico che questo è un passo interessante, ma non è sicuramente sufficiente. Il provvedimento enfatizza molto il criterio del merito per la selezione. E questa credo sia una condizione importante per una Pubblica Amministrazione moderna, che funzioni. Ancora una volta, però, non bastano persone qualificate e preparate, ma serve tecnologia, servono leve di management, capacità manageriali, servono dirigenti capaci di agire una responsabilità sui risultati. E quindi è un primo passo.

    D. – Nella terminologia di questo decreto è tornata l’importanza del concorso, e l’importanza dell’assunzione, quando fino a poco tempo fa sembravano termini assolutamente superati anzi da superare, per guardare avanti...

    R. – Questo che lei pone è un bel tema. In un anno sono così radicalmente cambiati i conti da poter addirittura pensare ad un potenziamento dell’organico? Forse probabilmente non era vero un anno fa che la nostra Pubblica Amministrazione era sovradimensionata, e probabilmente appunto anche questo provvedimento non è la soluzione di tutti i mali oggi. Il punto vero, per me, è come si darà corso a questa stabilizzazione dei precari: se facendo una valutazione attenta del fabbisogno rispetto a quello che sono i carichi di lavoro, i servizi resi, le risorse a disposizione e così via, o se invece sarà un modo per aprire indistintamente le porte a tutti.

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    Lotta al racket: 22 anni fa l'omicidio di Libero Grassi. "Addiopizzo": il fenomeno rimane diffuso

    ◊   Domani e giovedi si terranno due giorni di eventi in ricordo di Libero Grassi, l’imprenditore assassinato da "Cosa Nostra" 22 anni fa. Il 29 agosto del 1991 Grassi venne ucciso per mano della mafia dopo essersi opposto alle richieste di pagare il racket ed aver denunciato gli estorsori. A promuovere le manifestazioni per ricordarlo, le associazioni antiracket "Addiopizzo" e "Libero Futuro". Debora Donnini ha intervistato il presidente di "Addiopizzo", Daniele Marannano:

    R. – Il senso è quello sì, di ricordare, ma di dare al ricordo una dimensione quotidiana di impegno e di sostegno concreto nei confronti di quanti, in questi anni, hanno trovato la forza e il coraggio di liberarsi dal fenomeno del racket e delle estorsioni, grazie all’ausilio del movimento anti-racket. Ormai sono parecchi coloro i quali sono riusciti ad affrancarsi dal fenomeno delle estorsioni, proprio perché rispetto al passato si sono create le condizioni per le quali si possa denunciare senza essere lasciati soli ed isolati come invece è accaduto a Libero Grassi. Quindi, vogliamo rilanciare l’appello a quanti vivono ancora adesso stretti dalle maglie del racket perché maturino la consapevolezza che la denuncia è l’unica via di uscita per liberarsi definitivamente da questo odioso fenomeno.

    D. – L’imprenditore Libero Grassi fu assassinato 22 anni fa da "Cosa Nostra" proprio perché lottava contro il racket …

    R. – Sì. Libero Grassi fu assassinato 22 anni fa sì perché si è rifiutato di pagare il pizzo, perché ha lottato contro "Cosa Nostra", ma è stato ammazzato soprattutto perché con la sua scelta di resistenza si è ritrovato solo ed isolato. Maturò la sua decisione di opporsi al fenomeno del pizzo in solitudine.

    D. – A che punto è la lotta al racket? La situazione è migliorata lì a Palermo?

    R. – Rispetto a qualche anno fa, la situazione è sicuramente sensibilmente migliorata. Sono parecchi i commercianti e gli imprenditori che in questi anni hanno trovato la forza e il coraggio di denunciare e di liberarsi dal fenomeno delle estorsioni. Registriamo in particolare su imprenditori e commercianti di giovane generazione una maggiore presa di coscienza e di consapevolezza. Al tempo stesso, la crisi, la grave congiuntura economica sta determinando un’ulteriore spinta sul fronte delle denunce. Oggi, rispetto al passato, i commercianti e gli imprenditori non sono più nelle condizioni di farsi carico nemmeno di piccoli balzelli imposti da "Cosa Nostra" per cui maturano la decisione di denunciare. E’ chiaro che ancora c’è molto da fare: il fenomeno rimane diffuso. Ci sono importanti sacche di imprenditori e commercianti che, ignari di tutto, continuano a pagare il pizzo all’organizzazione mafiosa, con la quale hanno instaurato negli anni un rapporto di contiguità, un rapporto che non è necessariamente di natura illecita, ma un rapporto di scambio di benefici. Gli stessi imprenditori che corrispondono periodicamente l’estorsione all’organizzazione mafiosa, si rivolgono senza indugi agli stessi mafiosi per la risoluzione di tutta una serie di problematiche, di controversie connesse all’esercizio della propria attività economica: dal recupero crediti ai problemi di concorrenza, di vertenze sindacali, eccetera. Un rapporto che sicuramente rappresenta un limite alla crescita delle denunce.

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    Sinodo valdese. Mons. Bianchi: orizzonti comuni. Il pastore Bernardini: importante e fecondo il dialogo ecumenico

    ◊   Prosegue a Torre Pellice, in provincia di Torino, il Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi. All’assemblea è intervenuto anche il ministro italiano per l’Integrazione, Cécile Kyenge, che ieri sera ha sottolineato come l’apporto delle Chiese cristiane sia “fondamentale” per il processo di integrazione degli immigrati. Rivolgendosi, domenica scorsa, al Sinodo, mons. Mansueto Bianchi, presidente della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana, ha detto che sfide comuni attendono tutte le Chiese cristiane. Antonella Palermo lo ha intervistato:

    R. – E’ stato un messaggio che ha avuto diverse sfaccettature. Anzitutto, una presenza e un messaggio non formale proprio per evidenziare la paternità che nasce dalla condivisione della fede cristiana e della Parola del Signore. Poi anche la condivisione di alcuni impegni e di alcuni orizzonti, anche problematici, che un tempo come il nostro, che stiamo vivendo insieme, presenta ai cattolici, ma presenta a tutte le Chiese, e cioè quello della evangelizzazione di un mondo ad alto tasso di secolarizzazione. Allora è una sfida e un impegno comune quello dell’annuncio del Vangelo, in un tempo come il nostro. Un altro aspetto, un altro orizzonte è stato l’evidenziare come stia cambiando il mondo nel quale viviamo, nel quale ci collochiamo, sia per la multi etnicità che si sta diffondendo e che comporta una multiculturalità, una multi religiosità. In un certo senso, il mondo globalizzato sta ‘fiorendo’ attorno a noi e cambia il tessuto nel quale ci collochiamo e cambia anche le relazioni che finora abbiamo vissuto e che stiamo tuttora vivendo. Pure questo allora è un elemento che dobbiamo affrontare insieme. Collegato proprio a questo, però, c’è il tema dell’apporto specifico che le Chiese possono dare al formarsi di un nuovo tempo, di una nuova civiltà.

    D. – Lei ha detto che le Chiese possono dare un originale contributo per immaginare altre vie di sviluppo e di crescita. Può fare degli esempi concreti di collaborazione?

    R. – Sì, il tema della partecipazione, il tema della democrazia, il tema della redistribuzione delle ricchezze e dell’accesso alle ricchezze. Si tratta, quindi, proprio di ripensare un sistema economico in cui l’esperienza di umanizzazione delle Chiese, l’esperienza di carità, di solidarietà che le Chiese stanno portando avanti in Europa, può dire veramente una parola importante, una parola orientativa. Si tratta in un certo senso di ritrovarci, di condividere quello che è l’insegnamento sociale della Chiesa, che tocca aspetti ampiamente apprezzati anche dalle altre Chiese e apre delle porte concrete per nuovi percorsi di relazioni economiche, che diventano nuovi percorsi di relazioni umane e, quindi, diventano nuovo modo di fare civiltà. Di questo c’è bisogno e su questo ho trovato attenzione, ho trovato grande sensibilità da parte del Sinodo valdese, tanto che alcuni di questi aspetti sono stati poi anche ripresi dal presidente del Sinodo e sottolineati proprio per la loro urgenza e per la loro pertinenza.

    D. – C’è stato anche un momento di grande convergenza nel commento che la pastora Bonafede ha fatto al Vangelo di Matteo, che ha inaugurato proprio i lavori della tavola valdese, che è il Vangelo sulla porta stretta...

    R. – Esattamente. C’è questa convergenza. Direi che la pastora Bonafede ha commentato questa immagine biblica della porta stretta anzitutto con una grande coerenza biblica, a livello di fedeltà al testo, ma poi anche con una grande sapienza spirituale. Ha fatto vedere, infatti, come questa porta stretta sia sostanzialmente la persona di Gesù, sia Cristo, sia la Croce del Signore, il suo Vangelo, e ha fatto vedere come questa porta stretta si ponga di fronte a tanti aspetti della contemporaneità - della contemporaneità personale, della contemporaneità culturale, sociale, relazionale, che oggi viviamo - e cosa questa immagine biblica della porta stretta chieda ed esiga sotto queste componenti. In particolare, poi, ha evidenziato che attraverso la porta stretta si passa uno per uno: c’è la responsabilità personale, l’assunzione personale di responsabilità nei confronti della propria scelta di fede e anche con la propria coscienza davanti agli occhi e sotto il giudizio della fede.


    Parole, quelle di mons. Mansueto Bianchi, molto apprezzate dal Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi. La riflessione di Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola Valdese, sempre al microfono di Antonella Palermo:

    R. - Il Sinodo delle nostre Chiese, che è l’assemblea generale nazionale che prende le decisioni che interessano tutte le nostre Chiese, ha molto apprezzato la presenza e il messaggio di mons. Bianchi: è stato un intervento carico di simpatia e di fraternità, e questo è un piano che per noi è uno dei prodotti più belli del dialogo e dell’incontro ecumenico. La stagione che ha aperto Papa Francesco, noi l’abbiamo salutata con molta positività e con molte attese, soprattutto il suo presentarsi su un piano di semplicità, di condivisione, di fraternità non soltanto per il popolo cattolico ma anche per i cristiani delle altre confessioni e un po’ per tutti. Questo ci sembra fondamentale per ogni tipo di presenza cristiana, perché l’umiltà e la semplicità sono non solo delle grandi virtù ma anche un comandamento del nostro comune Signore.

    D. – Avete anche anticipato i dati di una ricerca Eurisko sulla religiosità degli italiani: proprio ieri se n’è parlato in una tavola rotonda sul tema: “Santa Ignoranza: gli italiani, il pluralismo delle fedi, l’analfabetismo religioso”. Vi ha partecipato anche il ministro per l’integrazione Cécile Kyenge. Davvero siamo così ignoranti?

    R. – Non soltanto questa ricerca ha confermato la sensazione dei cristiani praticanti, e cioè che noi viviamo in un contesto non solo secolarizzato, ma di ignoranza crescente. Le giovani generazioni sono ancora più ignoranti sui fondamenti religiosi del cristianesimo, ma in particolare sulle radici bibliche della fede cristiana. Più che le generazioni anziane, i giovani per effetto dell’indifferenza, della secolarizzazione e probabilmente anche delle carenze della testimonianza delle Chiese, sono particolarmente ignoranti, ma non disinteressati alle tematiche, alle problematiche religiose, alle proposte religiose … Quello che colpisce è che anche gli operatori della comunicazione e dell’informazione, anche quelli più specializzati da cui ci si aspetterebbe qualcosa di più, anche loro hanno delle carenze un po’ gravi. C’è un po’ di pigrizia in questo campo, mentre in altri settori – pensiamo allo sport – tutti sono commissari tecnici, allenatori… Questo fa veramente riflettere!

    D. – Perché uno sceglie di diventare valdese?

    R. – Ci sono due cammini: il primo è quello in cui si nasce in una famiglia valdese o in una famiglia in cui una parte di essa è valdese, una confessione cristiana presente da sempre, da secoli, nel nostro territorio; di minoranza, centrata sul rapporto diretto con Dio in un contesto comunitario ma molto caloroso e fraterno, con una radice biblica robusta, con un’individuazione della responsabilità personale e della libertà personale molto forti, aperto al sociale, ai diritti e naturalmente anche ai doveri di tutti. Si nasce in questo contesto e una parte consistente delle giovani generazioni continua questa tradizione. L’altra parte, che in questi decenni sta crescendo, sta aumentando, è composta da coloro che sono alla ricerca di una loro casa: una casa di fede, una casa di spiritualità, comunitaria, religiosa, in cui si sentano maggiormente a proprio agio... Noi li accogliamo con molta gioia: non con uno spirito polemico nei confronti della loro tradizione passata, ma proprio perché crediamo che la pluralità, non soltanto delle fedi e delle religioni, ma anche delle modalità con cui si può esprimere il pensiero e la testimonianza cristiana, se vissuto nel rispetto reciproco e nella comunione, siano dei valori importanti che dobbiamo promuovere.

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    Perdonanza Celestiniana. Mons. Petrocchi: evento che ci apre al dono della riconciliazione con Dio

    ◊   Si conclude oggi all’Aquila il triduo di preparazione alla 719.ma edizione della Perdonanza Celestiniana, rito legato all’elezione al Soglio di Pietro di Papa Celestino V. Domani, dunque, alle ore 18 il cardinale delegato, Domenico Calcagno, celebrerà la Messa per la Perdonanza nel piazzale di Santa Maria di Collemaggio. Sull’importanza di questo evento, per gli aquilani e non solo, Federico Piana ha intervistato l’arcivescovo dell’Aquila, mons. Giuseppe Petrocchi:

    R. – La Perdonanza entra come fattore identitario della città dell’Aquila, cioè costituisce una struttura portante del modo di pensare e di agire degli aquilani. Mi sembra una prova evidente di un assioma teologico: ciò che è autenticamente evangelico, consente anche la promozione integrale dell’uomo; ciò che ha in sé un valore cristiano costituisce anche una spinta per l’edificazione di una comunità più compatta e meglio articolata. C’è da tenere presente che L’Aquila esce duramente provata dal terremoto, quindi la Perdonanza rappresenta un momento importante per aiutare gli aquilani a ritrovare se stessi dentro questa riscoperta della propria identità di popolo, a prestarsi ad affrontare la sfida del presente e le prospettive del futuro.

    D. - Quindi, possiamo dire che la Perdonanza dà fiducia, dà forza a queste persone provate dal terremoto affinché possano andare avanti nella vita quotidiana …

    R. - Sicuramente! Un motivo di grande gioia per tutti gli aquilani è stato costituito dalla notizia che nel 2015 la Perdonanza Celestiniana sarà inserita dall’Unesco nell’elenco dei “patrimoni orali e immateriali dell’umanità”. Quindi la Perdonanza esce dal perimetro locale, in cui è saldamente radicata, per diventare un evento che ha una portata univrsale.

    D. - Quindi questa Perdonanza dà un messaggio per tutto il mondo …

    R. - Certamente perché la Perdonanza significa aprirsi al dono che Dio ci fa del suo amore in Cristo, quel dono che ci consente di riconciliarci con lui. Ma se ritroviamo la comunione profonda con Dio, diventiamo capaci anche dell’incontro con noi stessi e con gli altri.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Il Patriarca Sako: i cristiani non fuggano dall'Iraq

    ◊   "Aiutate i villaggi cristiani del nord dell'Iraq". È l'appello lanciato da Mar Luis Rapheal I Sako, Patriarca della Chiesa caldea, durante la sua visita pastorale alla diocesi unificata di Zakho e Emmadea avvenuta dal 15 al 23 agosto. Nell'area - riferisce l'agenzia AsiaNews - sono 40 i villaggi e le città che subiscono la drammatica situazione di crisi dovuta alle violenze fra sciiti e sunniti in Iraq e al conflitto siriano. Molti centri abitati non hanno accesso all'acqua, all'elettricità e trovare ospedali o ambulatori è quasi impossibile. "Questi villaggi hanno bisogno - sottolinea il patriarca - invitiamo tutti i benefattori, da tutte le diocesi e chiese caldee, ad aiutare la popolazione cristiana, perché la loro presenza è molto importante". In questi mesi le diocesi di Mosul, Kirkuk, Zackho, Emmadea ed Erbil hanno vissuto da vicino il dramma del conflitto fra i musulmani sunniti e sciiti in Siria, la lotta fra governo centrale e locale per il controllo delle risorse petrolifere e gli attacchi degli estremisti islamici contro la popolazione, compresa quella cristiana. In questi anni centinaia di famiglie sono fuggite dal Paese trovando rifugio in occidente o in altre Paesi del Medio Oriente. Molte migliaia di musulmani curdi siriani sono fuggiti verso il Kurdistan irakeno. Nella lettera pastorale a tutti i cristiani del nord Iraq, il patriarca caldeo sottolinea l'importanza della presenza cristiana, invitando la gente a resistere e a non fuggire. "I cristiani in Kurdistan - afferma - sono cittadini indigeni, hanno radici profonde che non possono essere sradicate, risalgono a 2mila anni. Molti di loro hanno sacrificato la vita insieme ai loro fratelli musulmani per la libertà, la dignità, la convivenza". Per il Patriarca Sako i cristiani sono un ingrediente fondamentale per preservare il pluralismo culturale e religioso che da secoli caratterizza l'Iraq, culla delle prime civiltà e delle prime diocesi. "Vi invito - continua - a partecipare attivamente in tutti i settori della vita: culturale, politica, sociale". Il prelato parla con dolore del grande esodo della popolazione cristiana, ridotta in un decennio da quasi 1 milione a meno di 400mila persone: "Non vendete le vostre case e i vostri terreni. Essi sono una eredità dai vostri Padri. Dovete mantenere la vostra terra per sempre, invece di trasformarvi in emigranti e stranieri nella diaspora". Come esempio, il patriarca di Baghdad cita la storia del villaggio di Akra. "Nella visita a Mosul - racconta - ho incontrato 35 famiglie di Akra, che si sono trasferita a Duhok comprando un villaggio di nome "Romtha" dove hanno edificato le loro case, una chiesa, una sala per gli incontro, una scuola e iniziato a coltivare i campi". "Non abbiate paura delle difficoltà - conclude il Patriarca - perché esse rinfrescano la vostra presenza e la elevano". (R.P.)

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    Il card. Grocholewski a Seul: l’educazione come via di evangelizzazione in Asia

    ◊   Rilanciare l’educazione e la formazione del clero come via per l’evangelizzazione delle nazioni asiatiche: è l’orientamento emerso nel corso dei colloqui fra l’arcivescovo di Seul, mons. Yeom Soo-jung e il card. Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica, presente nei giorni scorsi in Corea del Sud per partecipare alla conferenza dell’Aseaccu (l’Associazione dei college e delle università cattoliche del Sudest asiatico e dell’Asia orintale), tenutasi all’Università cattolica di Seul. Come riferito all’agenzia Fides, il card. Grocholewski si è detto “molto sorpreso dalla vastità dell'arcidiocesi di Seul”, affermando che “con circa 400 seminaristi maggiori, Seul ha un ruolo importante per il futuro del Chiesa Asia”. Infatti, ha aggiunto il cardinale, “il futuro della Chiesa cattolica dipende dalla qualità dei sacerdoti”. L’arcivescovo di Seul ha accolto di buon grado l’invito, rimarcando: “L’arcidiocesi di Seoul è disposta a sostenere non solo la Chiesa coreana, ma anche altre Chiese che soffrono o sono nel bisogno. Faremo del nostro meglio per aiutare l'evangelizzazione della Chiesa asiatica”. Il card. Grocholewski, interessandosi anche alla storia della Chiesa coreana, ha detto che “la storia del cristianesimo in Corea può essere misurata in termini di sacrificio e di martirio. La Chiesa è cresciuta grazia agli sforzi dei laici. Questa è una storia molto particolare, che non ha nessuna altra Chiesa in tutto il mondo”. (R.P.)

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    India: approvato dal parlamento il piano contro la fame

    ◊   La Camera bassa del parlamento indiano ha approvato il Food Security Bill, piano di aiuti alla popolazione che prevede la distribuzione di cibo a prezzo calmierato per oltre 800 milioni di indiani. Il provvedimento, riferisce l’agenzia AsiaNews, non è ancora definitivo e per la ratificazione ufficiale bisogna ancora attendere il verdetto della Camera alta. Il piano è rivolto a contrastare la fame che affligge oltre i due terzi della popolazione indiana, distribuendo ad un prezzo, che varia da 1 a 3 rupie al kg, 5 kg di cereali al mese a testa. Nonostante l’indubbio valore umanitario, il Food Security bill è stato aspramente contestato: da una parte perché il costo annuo di quasi 24 miliardi di dollari è una nota di spesa pericolosa per un’economia affermata ma ancora emergente come quella indiana, dall’altra perché non del tutto risolutivo. Tra i promotori dell’iniziativa spicca Sonia Gandhi, presidente del partito di governo che ha arringato il parlamento in occasione della votazione dicendo: "Alcune persone ci chiedono se abbiamo le risorse per attuare un simile programma. Vorrei dire loro che noi dobbiamo trovare le risorse. Il punto non è se possiamo farlo, noi dobbiamo farlo” (D.P.)

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    Manila: il card. Tagle contro la corruzione nelle Filippine

    ◊   Il card. Tagle, arcivescovo di Manila, si è rivolto alle oltre 350.000 persone che sono scese in piazza contro la corruzione del governo, richiamando i presenti “all’onore e all’integrità” per combattere la corruzione. Le manifestazioni, riferisce all'agenzia AsiaNews, sono iniziate ieri contro il sistema di appropriazione indebita con cui la classe dirigente filippina ha rubato centinaia di milioni di dollari alla cosa pubblica attraverso il “Fondo prioritario per l’assistenza e lo sviluppo”. I dirigenti politici filippini usavano, infatti, il Fondo per lo sviluppo come una linea preferenziale per finanziare progetti ed enti fittizi e per rifornire il sistema del voto di scambio. Il card. Tagle ha ricordato “il senso dell’onore” auspicando una rinascita del patriottismo e di senso d’onestà anche nelle migliaia di espatriati, araldi delle filippine nel mondo, e augurando per il futuro il nascere di un vero spirito di cooperazione tra cittadini e classe dirigente. Alla marcia, ribattezzata “million march” hanno partecipato oltre al porporato, diversi esponenti della chiesa cattolica locale e mons. Antonio Ledesma, della diocesi di Cagayan de Oro, che ha definito l’atteggiamento del governo “gravissimo atto immorale”. (D.P.)

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    Sud Corea: la Chiesa chiede al governo di aiutare i malati terminali e non ricorrere all'eutanasia

    ◊   L’arcivescovo di Seoul si è pronunciato oggi contro il rapporto presentato dalla Commissione nazionale di bioetica riguardo l’eutanasia. Il presule ha commentato: “La morte è un processo naturale: è sbagliato e scorretto cercare di accelerarne il percorso. Per questo ritengo che la proposta di legalizzare l'eutanasia in Corea del Sud sia da bocciare. La mia posizione è quella di tutta la Chiesa universale: sono del tutto contrario”. Il parlamento sud-coreano, riferisce l’agenzia AsiaNews, ha iniziato oggi a discutere il testo della legge sull’eutanasia ma, secondo l’arcivescovo, “il governo dovrebbe pensare a sostenere le strutture per i malati terminali, migliorare la percezione pubblica della morte, educare meglio gli operatori sanitari e soprattutto sostenere dal punto di vista finanziario i pazienti in stato terminale e le loro famiglie. Servono inoltre delle Commissioni etiche in ogni ospedale, perché ogni caso è diverso e va valutato secondo coscienza. Senza queste condizioni, le raccomandazioni della Commissione diventano solo un approccio negativo alla vita umana". Il grave rischio dell’eutanasia è che essa venga sfruttata per alleggerire i costi della sanità coreana o per sgravare le famiglie dei malati terminali, senza il dovuto rispetto per la vita umana e per i diritti dell’individuo. (D.P.)

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    A Sajan George il premio per la pace ‘Martin Luther King’

    ◊   "Il suo impegno in difesa della libertà religiosa e nel suo sostegno ai più poveri, in particolare bambini, rende viva la Dichiarazione universale per i diritti umani". È con questa motivazione che Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), è stato insignito del prestigioso Martin Luther King Jr. Ambassador of Peace Award 2013. Sajan George, cristiano, è un amico dell'agenzia AsiaNews, dove più volte ha denunciato le violazioni a diritti umani - in particolare contro le minoranze etniche e religiose - avvenuti in India e in altri Paesi dell'Asia. A conferire il premio sono stati Charles Steele Jr., presidente emerito e a.d. della Southern Christian Leadership Conference - organizzazione statunitense per i diritti civili fondata dal reverendo King - e Mikhail Gorbacev, ex presidente sovietico. Occasione del riconoscimento è il 50mo anniversario della marcia su Washington (28 agosto 1963), per il quale la Southern Christian Leadership Conference ha organizzato una settimana di commemorazioni, che culminerà domani proprio nella capitale Usa. Ispirato dalla figura del Mahatma Gandhi, Martin Luther King ha fondato sulla resistenza nonviolenta la sua lotta contro la segregazione razziale e per i diritti civili dei neri. Fu al Lincoln Memorial di Washington, dove si concluse la "marcia per il lavoro e la libertà", che il leader pronunciò il celebre discorso "I have a dream". (R.P.)

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    Papua Nuova Guinea: la Chiesa chiede un'alleanza con lo Stato nelle politiche sociali

    ◊   Stato e Chiesa in Papua nuova Guinea dovrebbero ritrovare una “autentica alleanza”: è quanto chiede la comunità cristiana in Papua Nuova Guinea, dopo la celebrazione della “Giornata nazionale dell’Alleanza”, che da sette anni si celebra il 26 agosto come giornata speciale di preghiera e penitenza, per ribadire pubblicamente il mutuo riconoscimento fra Chiese cristiane e Stato. Come riferisce una nota inviata a Fides dall’Ufficio comunicazioni sociali della Conferenza episcopale di Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, ieri, a Goroka, nel corso della cerimonia, il Primo ministro Peter O’Neill e altri parlamentari hanno elogiato le Chiese “per essere partner nella fornitura di servizi e per il loto contributo allo sviluppo della nazione”. Alcuni, come il governatore di Goroka, Julie Soso, si sono spinti oltre, ricordando il progetto di legge che intende vietare le religioni non cristiane in Papua Nuova Guinea. Disegno, questo, avversato dalla Chiesa, favorevole sempre alla libertà religiosa. La nota dei vescovi spiega a Fides: “Le Chiese non sono d'accordo con la pena di morte. Non sono d'accordo sul trattamento riservato ai rifugiati e ai richiedenti asilo. Non sono d'accordo con molte delle politiche in materia di istruzione. Né sono contente di come i fondi pubblici siano usati e abusati”. “Un vero partenariato tra le Chiese e lo Stato, quindi, non esiste realmente in Papua Nuova Guinea”, dice la nota. “Ciò che è in atto è un residuo della struttura coloniale o più precisamente di epoca missionaria”, quando, un secolo fa, i missionari bianchi giunti nel Pacifico aiutarono a creare i primi servizi di istruzione e i servizi sanitari, costruendo suole e ospedali, ancora oggi gestiti in collaborazione con il governo. Se davvero lo Stato volesse dare valore alle Chiese, allora dovrebbe “coinvolgerle seriamente nel processo legislativo, nella definizione delle politiche e nel controllo dei fondi pubblici”, spiegano i vescovi. Per la Giornata dell’Alleanza si sono tenute celebrazioni e manifestazioni pubbliche in varie città. Vi hanno partecipato numerosi cittadini cristiani, che hanno pregato per i leader civili della nazione. (R.P.)

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    Colombia: il governo apre al dialogo con i campesinos

    ◊   Il governo colombiano ha accettato la richiesta dei contadini di aprire un tavolo di trattativa riguardo i problemi delle aree rurali, specie riguardo i prezzi dei prodotti agricoli. I campesinos colombiani da diversi giorni manifestavano contro il governo per le liberalizzazioni sul mercato ortofrutticolo e dei cereali, che avevano tanto abbassato il prezzo dei prodotti da rendere anti-economica la produzione. Ai cortei, riferisce l'agenzia Misna, sono seguiti i blocchi stradali fino all’intervento durissimo della polizia, che ha causato, in diverse aree e contro diversi cortei, oltre 250 feriti, spingendo l’Onu stesso ad esprimere preoccupazione e invitare le parti al dialogo. Ben 11 dei 32 dipartimenti della Colombia sono invasi da cortei, la protesta ha avuto origine dai produttori di caffè, dilagando ben presto verso le altre aree produttive. Il presidente Juan Manuel Santos ha replicato che, negli ultimi tre anni, sono stati spesi oltre 700 milioni di euro in sussidi per l’agricoltura e la protesta dei contadini sarebbe per questo ingiustificata. Intanto nei mercati di Bogotà i prodotti agricoli e ortofrutticoli hanno visto salire il prezzo del 200%. (D.P.)

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    Argentina: quasi il 60% dei bambini non vede rispettati i suoi diritti fondamentali

    ◊   Il nuovo rapporto del “Barometro del debito sociale dell’infanzia” dipinge per l’Argentina un panorama difficile per i bambini, il 59,1% subisce infatti violazioni dei propri diritti fondamentali. Lo studio, riferisce l’agenzia Misna, riporta le violazioni dei diritti fondamentali dell'infanzia come l’accesso al cibo, l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Sono risultati mancanti di almeno uno di questi accessi fondamentali il 24,2% dei minori nelle aree urbane, mentre sale al 34,9% il numero di chi accusa “carenze moderate”. A mancare di più di un diritto fondamentale sono oltre il 20%. I servizi più carenti sono quelli che riguardano la sanità e l’alimentazione con un 10% approssimativo di bambini che non ha un accesso al cibo sicuro e costante. (D.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 239

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