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Sommario del 29/10/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Giornata del Migrante. Il Papa: aprite la speranza, non chiudete le frontiere
  • Il cardinale Vegliò: nessuno Stato ha il diritto di cacciare i migranti
  • Crisi e integrazione europea al centro dell'incontro del Papa col premier croato Milanović
  • Sinodo. Mons. Fisichella: ci spinge a ridare audacia e ardore a una fede spesso pigra e stanca
  • Chiara Amirante: annuncio del Vangelo credibile solo con testimoni radicali e coerenti
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Siria: autobomba a Damasco, 10 morti. Intervista con Laura Boldrini
  • Nigeria. Il presidente Goodluck dopo l'attacco alla chiesa: atto crudele e senza senso
  • Conferenza dell’Onu a Roma sui crimini ambientali sottovalutati: una minaccia per tutti
  • Sicilia, elezioni: in testa Crocetta. P. Matarazzo: tornata non all'altezza della situazione
  • Nel segno della speranza: a Roma, la consegna del Premio "Cittadino Europeo"
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Il cardinale Tong: la ripresa del dialogo tra Cina e Santa Sede è una "grande speranza”
  • Assisi. Mons. Muller: dialogo non significa "rinuncia alla propria identità"
  • 100.mo della nascita di Albino Luciani: domani a Venezia Messa con patriarca e vescovi del Triveneto
  • Egitto: al via la penultima fase per scegliere il successore di Shenouda III
  • Tanzania: la morte del superiore regionale dei Missionari della Consolata
  • Myanmar: Onu, almeno 28 mila sfollati nelle violenze fra birmani e Rohingya
  • Timori per l’arrivo dell’uragano "Sandy" a New York
  • Il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu chiede al Guatemala di proteggere i giornalisti
  • Congo: sui religiosi rapiti nel Nord Kivu nessuna pista attendibile
  • Congo: costretto alla fuga il medico che cura migliaia di donne vittime di stupri nell’est del Paese
  • Bangladesh: persiste la violenza contro le donne, che rimangono senza alcuna tutela
  • Nepal: il ruolo delle volontarie per la sanità a favore di donne a bambini
  • Filippine: "no" alla festa di Halloween nelle scuole cattoliche
  • Indonesia. Giornata giovanile 2012: i ragazzi si impegnano per la pace e la giustizia
  • Rwanda: mancano pochi giorni all’incontro internazionale dei giovani di Taizé a Kigali
  • Giappone: l’Anno della Fede “vissuto nello spirito dei martiri”
  • Il Papa e la Santa Sede



    Giornata del Migrante. Il Papa: aprite la speranza, non chiudete le frontiere

    ◊   “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”: è il tema del Messaggio del Papa per la 99.ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, pubblicato oggi. Nel documento, il Papa sottolinea che, pur nell’attuale contesto di crisi economica, vanno sempre rispettati i diritti fondamentali della persona migrante. Esorta dunque gli Stati a non chiudere ermeticamente le frontiere, ma piuttosto a risolvere alla radice la piaga del traffico e dello sfruttamento delle persone. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    “Fede e speranza” riempiono spesso “il bagaglio di coloro che emigrano”, un binomio che non va mortificato. E’ quanto scrive il Papa nel suo Messaggio per la prossima Giornata del Migrante, che verrà celebrata il 13 gennaio del 2013. Il Pontefice si sofferma dunque sul contributo che i migranti possono dare tanto alla società quanto alla vita ecclesiale dei Paesi in cui arrivano. Per questo, avverte, se ogni Stato “ha il diritto di regolare i flussi migratori” in vista del bene comune, va sempre assicurato “il rispetto della dignità di ogni persona umana”. Il diritto a emigrare, ribadisce infatti citando la Gaudium et Spes, è “iscritto tra i diritti umani fondamentali”. Del resto, afferma che, oltre al diritto di emigrare, va salvaguardato il diritto a non emigrare. Oggi, infatti – si legge nel Messaggio – molte migrazioni “sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali”. Purtroppo, annota il Papa, invece di un pellegrinaggio di speranza, il migrare diviene così un “calvario per la sopravvivenza” dove specie i più deboli sono privati dei loro diritti più fondamentali.

    A tal proposito, prosegue, non si può dimenticare la questione dell’immigrazione irregolare, specie quando si configura come “traffico e sfruttamento di persone” soprattutto donne e bambini. Tali misfatti, scrive, vanno “decisamente condannati e puniti”. E tuttavia, soggiunge, non si può ridurre la “gestione regolata dei flussi migratori” alla “chiusura ermetica delle frontiere” e “all’inasprimento delle sanzioni contro gli irregolari”. Il Papa auspica dunque degli interventi organici per lo sviluppo dei Paesi di partenza e in particolare “maggiore disponibilità a considerare i singoli casi che richiedono interventi di protezione umanitaria oltre che di asilo politico”. In tutto ciò, è la sua esortazione, “è importante rafforzare e sviluppare i rapporti di intesa e di cooperazione tra realtà ecclesiali e istituzionali”.

    La Chiesa, ammonisce, è chiamata nei confronti dei migranti “ad evitare il rischio dell’assistenzialismo, per favorire l’autentica integrazione” una società “dove tutti siano membri attivi e responsabili ciascuno del benessere dell’altro” con “pieno diritto di cittadinanza e partecipazione ai medesimi diritti e doveri”. D’altro canto, osserva, la Chiesa “non trascura di evidenziare gli aspetti positivi” e le potenzialità di cui le migrazioni sono portatrici quando si favorisce un inserimento integrale. Migranti e rifugiati, afferma il Papa, possono contribuire al benessere dei Paesi di arrivo con le loro competenze. E possono arricchirli anche “con la loro testimonianza di fede, che dona impulso alle comunità di antica tradizione cristiana”.

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    Il cardinale Vegliò: nessuno Stato ha il diritto di cacciare i migranti

    ◊   I contenuti del Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale del Migrante 2013 sono stati oggetto questa mattina di una presentazione in Sala Stampa vaticana, presieduta del capo dicastero vaticano dei Migranti, il cardinale Antonio Maria Vegliò. Il porporato ha ribadito che, pur avendo il diritto di difendere l’identità dei propri cittadini, nessuno Stato ha quello di “cacciare i migranti”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    Le ultime battute della conferenza stampa di presentazione del Messaggio papale sulla Giornata dei migranti fanno emergere la convinzione, chiara e diretta, del massimo responsabile vaticano in materia. Rispondendo alla domanda di un giornalista su come vada inteso il punto del documento che tratta della regolazione dei flussi migratori – se cioè il Vaticano sia pro o contro un forte controllo sugli stessi – il cardinale Vegliò replica:

    “Di fronte al processo migratorio, non è che uno lo incoraggia o lo scoraggia. Uno cerca di risolvere i problemi che questo processo comporta. Io credo che nessuno Stato al mondo abbia il diritto di cacciare i migranti, ma nessuno Stato al mondo deve essere così 'naïf' che tutti quelli che vogliono entrare nel suo Stato possano farlo. Ci sono leggi e lo Stato deve difendere l’identità culturale, di benessere, dei suoi propri cittadini. Questo non significa, però, cacciare i migranti”.

    In apertura di conferenza stampa, lo stesso cardinale Vegliò aveva messo in risalto – oltre agli aspetti umanitari del lavoro svolto dalla Chiesa verso gli immigrati – la dimensione religiosa del fenomeno. Un migrante, aveva detto in sostanza, non è solo un corpo in movimento col suo carico di esigenze e aspettative, ma anche un’anima con il bagaglio di ciò che crede. E citando uno studio del 2012, intitolato “Fede in movimento” – che individua la fede professata da chi emigra in rapporto al Paese di approdo e quindi i dieci Stati più interessati da questo fenomeno (Federazione Russa, Ucraina, Germania, Francia, Regno Unito e Spagna, ma anche Arabia Saudita e India) – il porporato ha ricordato che la nazione emblematica in questo senso sono gli Stati Uniti, con 43 milioni circa di cittadini stranieri ospitati, dei quali ben 32 milioni sono cristiani soprattutto messicani:

    “Questi numeri mostrano le potenziali risorse religiose che portano con sé i migranti e, allo stesso tempo, rivelano le aspettative che essi nutrono nei confronti delle comunità cristiane che li accolgono”.

    Per questo, ha soggiunto, la “dimensione religiosa” non viene “mai dimenticata” dalla Chiesa nel suo lavoro caritativo e pastorale, che si sforza di essere esemplare nel suo impegno di difesa a tutto tondo dei diritti e della dignità dei migranti:

    “La Chiesa ha un ruolo importante nel processo della integrazione. Essa risponde ponendo l’accento sulla centralità e sulla dignità della persona con la raccomandazione a tutelare le minoranze, valorizzando le loro culture, il contributo delle migrazioni alla pacificazione universale, la dimensione ecclesiale e missionaria del fenomeno migratorio, l’importanza del dialogo e del confronto all’interno della società civile, della comunità ecclesiale e tra le diverse confessioni e religioni”.

    Se il cardinale Vegliò si era soffermato sulle motivazioni di tipo strettamente non umanitario, e quindi economico, che spingono a lasciare la propria terra parte dei 740 milioni di migranti internazionali (stimati nel 2011 dall’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni), il segretario del Pontificio Consiglio, mons. Joseph Kalathiparambil, ha circoscritto l’attenzione ai rifugiati e richiedenti asilo, a quello che ha definito il loro “calvario per la sopravvivenza”, fatto spesso di abbandono, di abusi, e di camion e carrette del mare come mezzi di una fuga verso la speranza:

    “Penso, ad esempio, alla situazione in Siria, nel Mali e nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’80% delle vittime sono i civili. La fuga da queste tragedie prende diverse vie. Alcuni, ad esempio, devono camminare per settimane intere prima di varcare la frontiera di un Paese africano orientale. Purtroppo, durante questi esodi, non è raro che una madre perda uno o più figli, a causa di privazioni o stremati dalle fatiche, come è successo in Sudan”.

    E quando il racconto del dramma arriva agli sciacalli che sfruttano la miseria di queste persone, la denuncia del numero due del dicastero vaticano si fa più stringente:

    “Nell’Unione Europea, queste situazioni sono il segno che diventa sempre più difficile poter chiedere asilo, specialmente da quando in alcuni Paesi sono state introdotte misure restrittive per ostacolare l’accesso al territorio (…) Queste limitazioni hanno incentivato le attività dei contrabbandieri, dei trafficanti, e pericolose traversate in mare che hanno visto sparire fra le onde già troppe vite umane”.

    Cibo, alloggio, cure mediche, diritto al lavoro e alla libera circolazione sono, ha concluso, gli “elementi primari” garantiti dalle norme internazionali ai richiedenti asilo. Concederli e provvedere alla loro integrazione da parte degli Stati, ha riconosciuto, “richiede grandi sforzi e adattamento”. Ma è indispensabile, ha soggiunto, che le misure e le politiche decise in alto siano riempite di umanità dalla base, dai cittadini:

    “C’è bisogno anche di un atteggiamento socievole e disponibile da parte del grande pubblico con piccoli gesti di attenzione nei loro riguardi (un sorriso, un saluto, una chiacchierata, un invito a partecipare alle attività di tutti i giorni) che aiuteranno i rifugiati e i richiedenti asilo a sentirsi più accolti e faciliteranno il processo di inclusione nella società”.

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    Crisi e integrazione europea al centro dell'incontro del Papa col premier croato Milanović

    ◊   Stamani Benedetto XVI ha ricevuto il presidente del governo della Repubblica croata, Zoran Milanović, che poi ha incontrato il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati.

    “I cordiali colloqui – riferisce un comunicato della Sala Stampa vaticana - hanno permesso un fruttuoso scambio di opinioni sulle sfide che il Paese deve affrontare nell’attuale crisi economica, come pure sui temi di comune interesse nel quadro dei rapporti bilaterali. Al riguardo si è fatto cenno alla Conferenza promossa in occasione del 20.mo anniversario dei rapporti diplomatici, che si terrà oggi pomeriggio. Per quanto poi concerne il noto caso di Dajla, le due Parti hanno concordato di risolvere la questione il più presto possibile, nello spirito della tradizionale amicizia fra la Santa Sede e la Repubblica di Croazia”.

    “Infine – conclude il comunicato - si è rinnovato l’appoggio della Santa Sede alle legittime aspirazioni della Croazia alla piena integrazione europea e ci si è soffermati sulla congiuntura regionale, con uno speciale riferimento alla situazione dei croati nella Bosnia ed Erzegovina”.

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    Sinodo. Mons. Fisichella: ci spinge a ridare audacia e ardore a una fede spesso pigra e stanca

    ◊   Con la Messa celebrata ieri dal Papa nella Basilica Vaticana si è concluso, dopo tre settimane di lavori, il Sinodo sulla nuova evangelizzazione. Benedetto XVI ha ricordato che “i veri protagonisti” dell’annuncio del Vangelo sono i santi, perché “parlano un linguaggio a tutti comprensibile con l’esempio della vita e con le opere della carità”. Quindi ha tracciato le tre linee pastorali emerse dal Sinodo: la rinascita della vita sacramentale, la missione presso quanti ancora non conoscono il messaggio di salvezza di Gesù e il rinnovato annuncio ai battezzati che si sono allontanati dalla fede. Per un bilancio del Sinodo Paolo Ondarza ha intervistato mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione:

    R. - Penso che sia emerso in maniera molto netta, molto chiara, che la Chiesa intende intraprendere questo cammino di nuova evangelizzazione con molta determinazione, così come il Santo Padre ha chiesto.

    D. - A questo punto come s’indirizzerà il lavoro del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione?

    R. - Innanzitutto, dovremmo essere capaci di fare una seria e profonda analisi di tutto ciò che è emerso, e anche di ciò che nel Sinodo non è emerso. Il fatto che il Papa adesso abbia annunciato che la catechesi diventa competenza del Pontificio Consiglio, significa che non solo aumenta la nostra responsabilità, ma soprattutto qualifica maggiormente la nuova evangelizzazione, e consente di verificare un legame sempre più profondo tra l’evangelizzazione e la catechesi.

    D. - Il Papa ha esortato a portare Cristo nei deserti della nostra contemporaneità. Il Sinodo ha utilizzato l’immagine della samaritana al pozzo con un’anfora vuota. Quali sono le anfore vuote dei nostri tempi?

    R. - Direi che ne sono emerse tante nel dibattito sinodale. Penso in modo particolare a ciò che avviene all’interno di alcune fasce del mondo giovanile, dove l’alcolismo, la droga, la depressione mietono tante vittime; penso al grande tema della disoccupazione, quindi del disagio giovanile. Penso anche a tendenze che crescono sempre di più e che non portano a quella prospettiva importante che è la centralità della famiglia nella società e per la vita delle persone. È interessante che nella scena narrata nel Vangelo di Giovanni è Gesù che si rivolge alla samaritana, non aspetta che gli altri si rivolgano a lui. Io penso che adesso sia la Chiesa ad essere chiamata a interpellare il suo contemporaneo per chiedergli se veramente si sente bene in questa situazione di deserto, e per offrigli quell’acqua, bevendo la quale non si avrà più sete.

    D. - La nuova evangelizzazione è concepita come principalmente rivolta ai Paesi di tradizione cristiana. Ma qui al Sinodo abbiamo ascoltato testimonianze provenienti da più parti del mondo…

    R. - In un periodo di globalizzazione come quello che noi viviamo, risulta veramente difficile dover constatare chi ha più bisogno di nuova evangelizzazione. Certamente, l’Occidente ha un’urgenza di nuova evangelizzazione perché il dominio del secolarismo ha determinato quella dimensione di un deserto e di un’eclissi del senso di Dio che sono veramente drammatiche. Però, è ovvio che nella trasmissione della fede, le giovani Chiese ci danno l’entusiasmo: solo in Africa ci sono più di 270 mila catechisti!

    D. - Il Sinodo è stato anche l’occasione per fare un esame di coscienza. Parte anche da questo la nuova evangelizzazione?

    R. - La nuova evangelizzazione come tale è un serio esame di coscienza. Certamente se siamo arrivati ad una situazione di crisi di fede come quella che noi constatiamo, significa che nel passato probabilmente diverse cose non hanno funzionato.

    D. - L’Anno della Fede che è appena iniziato sarà anche un terreno di verifica. Rafforzerà questo impegno?

    R. - Necessariamente, perché la fede spesso stanca, a volte pigra, possa ravvivarsi e recuperare pienamente quell’ardore, quell’audacia di cui ha fortemente bisogno.

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    Chiara Amirante: annuncio del Vangelo credibile solo con testimoni radicali e coerenti

    ◊   La nuova evangelizzazione è un’urgenza che riguarda tutti noi e tutto il mondo: questa la riflessione emersa dal Sinodo. Ma quanto si avverte, oggi, questa urgenza? Al microfono di Paolo Ondarza, risponde Chiara Amirante, fondatrice e presidente della Comunità Nuovi Orizzonti, presente ai lavori sinodali in veste di uditrice:

    R. – Ce n’è un grande bisogno! Io ho incominciato ad andare in strada proprio dai ragazzi più lontani, ragazzi che vivevano di carcere, di prostituzione, di droga, quindi certamente non ferventi cattolici o praticanti. E il mio timore più grande era proprio quello di un grande rifiuto … Pensavo: “Cosa farò? Cosa dirò?”. Poi mi sono resa conto che spesso sono più timori che nascono da una non piena consapevolezza del grande tesoro che ci è stato donato e di cui dobbiamo essere responsabili, perché di fatto la persona che si è allontanata dalla fede, da Gesù Cristo, per lo più si è allontanata per l’incoerenza di tanti cristiani, ma non certo per quello che è il messaggio di Gesù Cristo che è sempre e comunque affascinante, anche laddove è radicale. E’ vero che ci sono tantissimi valori che sono in crisi profonda; però è vero che c’è anche un grande bisogno di profeti che siano fedeli a quelle verità evangeliche ma che ci facciano anche comprendere il senso di certe linee che Santa Madre Chiesa, con l’esperienza di secoli, ci dà. Se penso alla sessualità e alle devastazioni che oggi questa sessualità, vissuta un po’ con l’usa-e-getta, sta portando nella vita di molti giovani, mi accorgo che quando parlo con ragazzi che sono stati sesso-dipendenti per una vita, quindi hanno vissuto il sesso anche come droga in tutte le sue sfumature, e hanno vissuto però anche i drammi che questo può portare nella vita, e poi parlo di castità … mi accordo che trasmettendo loro un senso di questa sessualità vissuta nell’amore, dell’altezza, della sacralità e anche dei danni che ne possono venire, io vedo che non c’è un rifiuto, anzi: anche le persone più lontane restano come affascinate … Perché Gesù Cristo affascina l’uomo di allora come l’uomo di oggi … Credo che il segreto sia nella coerenza alla radicalità evangelica e la coerenza alla genuinità del messaggio evangelico.

    D. – Questa testimonianza di vita coerente può essere in un certo modo la risposta a chi dice: “Credo in Cristo ma non nella Chiesa”?

    R. – I giovani che incontriamo in strada per lo più ci dicono proprio questo: “Noi ci siamo allontanati dalla Chiesa”, ma ci dimentichiamo che la Chiesa siamo noi. Ci dimentichiamo, appunto, che noi tutti siamo chiamati alla santità. Allora questo dire “Credo in Cristo ma non nella Chiesa” dovrebbe diventare qualcosa che ci interpella in prima persona. Cioè, ci interpella la radicalità di un Francesco che di fronte a quanto gli dice il Signore: “Va’, e ripara la mia casa perché cade in rovina”, sì, ha iniziato dai mattoncini di San Damiano ma poi il suo vero contributo nel rinnovare la Chiesa perché tornasse alle origini della sua santità e “meravigliosità”, questo suo essere il Corpo mistico di Cristo, è stato essere lui per primo santo!

    D. – Come portare avanti la testimonianza del Vangelo?

    R. – Credo che l’urgenza sia proprio questa: rimanere nel suo amore, nella riscoperta di una santità quotidiana, nella semplicità che ci porta a sperimentare quei frutti della vita di comunione con Gesù che sono frutti di grande gioia, di grande pace, di comunione che sono qualcosa che – purtroppo – il mondo cerca nei paradisi artificiali che i falsi profeti con tanta forza oggi propongono, ma che sanno riconoscere nei testimoni credibili. Quindi, la testimonianza si porta avanti con questo nuovo impegno alla santità quotidiana, nella semplicità.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Paesi di missione: in prima pagina, un editoriale del direttore a conclusione del Sinodo dei vescovi.

    Fede e speranza nel bagaglio del migrante: il messaggio di Benedetto XVI per la celebrazione della giornata mondiale.

    Bussando alla porta delle religioni: l'intervento dell'arcivescovo Gerhard L. Muller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, all'incontro - promosso dai Frati minori - per ricordare la giornata di preghiera per la pace tenutasi ventisei anni fa ad Assisi, alla presenza di Giovanni Paolo II, e quella convocata un anno fa da Benedetto XVI.

    In rilievo, nell'informazione internazionale, un'altra domenica insanguinata in Nigeria: dieci morti in un attacco a una chiesa cattolica.

    Sfondi nuovi per capolavori antichi: in cultura, Paola Martini sul Museo diocesano di Genova che cambia volto per ospitare e valorizzare il gran numero di opere attualmente in deposito.

    Il testo scritto, nel 1947, da Henri Matisse per il suo libro d'arte "Jazz", presentato in anteprima al Festival del libro d'arte di Bologna (il 30 novembre esce in libreria l'edizione in facsimile di quest'opera pubblicata da Electa).

    In sala per riflettere sul mistero della vita: Claudia Di Giovanni sull'anteprima in Vaticano della mostra del cinema spirituale di Barcellona.

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    Oggi in Primo Piano



    Siria: autobomba a Damasco, 10 morti. Intervista con Laura Boldrini

    ◊   Un’altra giornata di sangue in Siria. E' di almeno dieci morti e diversi feriti il bilancio di un'autobomba esplosa oggi nel sobborgo di Jaramana, a sud di Damasco. Secondo fonti locali, tra le vittime vi sono donne e bambini. Combattimenti sono in corso in altre aree del Paese, mentre resta alta la tensione al confine con la Turchia, dove almeno 27 soldati siriani si sarebbero consegnati alle autorità anatoliche per evitare di finire in mano ai ribelli. Una crisi in rapida evoluzione, insomma, che evidenza la fragilità della tregua voluta dall’osservatore di Onu e Lega Araba, Brahimi. Il diplomatico, che oggi a Mosca ha incontrato il ministro degli Esteri russo, Lavrov, ha detto che “la situazione sta peggiorando”. Domani sarà a Pechino. Cresce intanto l’emergenza umanitaria per i profughi che, in fuga dalle violenze, si stanno ammassando lungo i confini con i Paesi limitrofi. Salvatore Sabatino ha intervistato Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, appena rientrata dalla Giordania. Ascoltiamo qual è la situazione che ha trovato:

    R. – E’ una situazione sicuramente difficile. La Giordania è un piccolo Paese di meno di sei milioni di abitanti, che però ha adottato la politica della porta aperta. Secondo il governo giordano, sarebbero almeno 200 mila i siriani entrati nei confini del Paese, anche se di queste persone, la metà – circa 105 mila - si sono registrate con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sono persone che abitano in un campo che ha una capienza di 40 mila persone, il campo di Zaatari, e al momento ce ne sono circa 20 mila. Altri invece – il 75% – si trovano nelle città più grandi, dove affittano appartamenti oppure sono ospitati presso amici e parenti.

    D. – La Giordania è di per sé un Paese – come dicevi tu – piccolo, molto povero. Non mancano, però, nonostante tutto, testimonianze di solidarietà...

    R. – Direi che non solo non mancano testimonianze di solidarietà, ma c’è veramente una tendenza a voler presentare questa cosa come una situazione di dovere da parte delle istituzioni, così come da parte delle persone. Quindi, la politica della porta aperta, della solidarietà, è quasi una parola d’ordine per le istituzioni giordane. Ecco, questo allora ci fa riflettere, specialmente perché abbiamo visto che non è sempre così, anche in Europa, dove ci sono molti più mezzi. Lo scorso anno, ricordo che in Italia sono arrivate 28 mila persone dalla Libia. Ebbene, in Italia, lo scorso anno, le aurorità governative parlarono di "tsunami umano" e avvertirono l’opinione pubblica che saremmo stati travolti da questa ondata di gente. Questo, chiaramente, creò molta paura, molto timore. Allora, si capisce, invece, che quando c’è un’emergenza, ciò che è più importante è riuscire a gestirla con pacatezza, con senso pratico, e suscitando i sentimenti migliori dell’opinione pubblica. Io credo, dunque, che in questo caso dovremmo guardare a questi Paesi che sono sicuramente più poveri e imparare anche da loro.

    D. – Ha sempre ribadito che i rifugiati siriani hanno voglia di parlare e di far sapere al mondo quello che sta succedendo nel loro Paese. Ma c’è anche paura per quello che potrebbe avvenire...

    R. – Sì, noi abbiamo visto tante persone nel campo di Zaatari che volevano parlare, dire la loro, raccontare l’orrore che avevano vissuto nel loro Paese, ma avevano paura di farlo. Le donne si coprivano il volto, perché non volevano rinunciare a denunciare, ma avendo i parenti ancora lì, non volevano nemmeno metterli in pericolo, a rischio. Quello che hanno raccontato sono storie terribili: storie di violenze, di abusi, di stupri. Veramente una galleria degli orrori.

    D. – Di cosa hanno più bisogno le persone che arrivano in Giordania e quali sono le maggiori difficoltà che state riscontrando?

    R. – Le persone che arrivano dalla Siria spesso sono state già sfollate all’interno del Paese due o tre volte. Quindi, arrivano non avendo più niente con loro: non hanno risorse, non hanno vestiti, non hanno niente, perché sono scappati in fretta e furia. Lì nel deserto, nel campo di Zaatari, sono stati fatti tanti interventi - è stata portata la luce, l’acqua, le strade - ma è sempre deserto e per migliorare le condizioni di vita di queste persone c’è bisogno di più stanziamenti, di più denari, di più disponibilità da parte della comunità internazionale, ma anche da parte dei cittadini, perché con l’inverno che arriva, se non si riesce a dare un’alternativa alla tenda, per queste persone sarà durissima. Bisogna allora fare in modo che ci siano fondi, soldi necessari per fornire i container, per fornire le coperte, le stufe. Io spero che gli italiani continuino a essere generosi, come sono sempre stati, anche con cifre modeste. Vorrei dare un numero verde, dove si possano acquisire più informazioni su questo. Il numero è: 800 298 000.

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    Nigeria. Il presidente Goodluck dopo l'attacco alla chiesa: atto crudele e senza senso

    ◊   Nuova domenica di sangue ieri, in Nigeria. Un attentato suicida contro una chiesa cattolica, a Kaduna, ha causato 10 morti e oltre 140 feriti. L’episodio ha poi provocato la rappresaglia di alcuni gruppi cristiani: uccisi tre islamici. “Un atto barbaro, crudele, non necessario”. Così, il presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, ha stigmatizzato quanto accaduto, sottolineando che è urgente che il Paese investa il più possibile nella sicurezza, invertendo “la sfortunata e inaccettabile tendenza che minaccia la pace e la stabilità della Nazione”. Ma come leggere questo nuovo atto di violenza che coinvolge cristiani e musulmani? Giancarlo La Vella ne ha parlato con Anna Bono, docente di Storia e Istituzioni dei Paesi africani all’Università di Torino:

    R. - L’episodio si inserisce in una lunghissima scia di analoghi episodi, che ormai da anni stanno sconvolgendo la Nigeria, in particolare al nord, ma sempre più spesso anche altre parti di questo immenso Paese che, come sappiamo, è diviso sostanzialmente in due: un nord islamico e un sud cristiano e animista. I protagonisti di questo ennesimo episodio sembrano essere i militanti del gruppo islamico Boko Haram, gruppo ormai noto anche a livello internazionale, che ha come obiettivo l’imposizione della sharia, la lotta contro l’occidente e tutto ciò che l’Occidente rappresenta e che combattono, ormai è certo, non soltanto in Nigeria ma anche in altri Paesi africani.

    D. – E’ pensabile che Boko Haram abbia agganci anche con al Qaeda?

    R. – Mi sembra certo che combatta a fianco di al Qaeda o di cellule terroristiche che sono l’espressione di al Qaeda in Africa.

    D. – Quindi, con un obiettivo politico ma facendo leva su eventuali frizioni tra gruppi religiosi?

    R. – Indubbiamente, perché un terreno di coltura di Boko Haram, come di altri analoghi movimenti, è dato da una conflittualità in Africa, sia etnica che religiosa, che permette di reclutare - con il favore poi di condizioni sociali ed economiche disastrose - soprattutto giovani disoccupati con grandi problemi oggettivi e altrettanto grandi problemi di identità. Giovani che è facile coinvolgere in scontri che poi spesso degenerano in vendette private, in distruzione di beni e di proprietà, in attacchi a persone che nulla hanno a che vedere con la situazione.

    D. – Quindi, secondo lei, quando il presidente Jonathan chiede di investire maggiormente in sicurezza, intende anche promuovere il progresso sociale?

    R. – Assolutamente, e devo dire che questo presidente - tanto osteggiato dal nord e la cui elezione, essendo lui un cristiano del sud, ha intensificato l’ostilità di una parte della popolazione del nord nei confronti del sud cristiano - sta dando segnali e anche qualcosa di più, di buona volontà. Sta cercando, per esempio, di realizzare un colossale investimento nel settore energetico per superare una contraddizione clamorosa. La Nigeria, infatti, è da decenni il primo produttore africano di petrolio di risorse energetiche e dipende dall’estero per l’approvvigionamento di energia con costi e conseguenze economiche e sociali che possiamo immaginare.

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    Conferenza dell’Onu a Roma sui crimini ambientali sottovalutati: una minaccia per tutti

    ◊   “I crimini ambientali: minacce attuali ed emergenti” è il tema della Conferenza internazionale aperta oggi a Roma nel Palazzo della Fao, promossa dall’Unicri il Centro di ricerche delle Nazioni Unite sul crimine e la giustizia, in collaborazione con il Programma Onu per l’Ambiente. Una cinquantina gli esperti, giuristi, politici, delegati di associazioni giunti da tutto il mondo per dibattere il tema. Il servizio di Roberta Gisotti:

    Traffici illegali di ogni genere che vanno ad inquinare l’ambiente, materiali tossici che attraversano clandestinamente le frontiere da un Paese all’altro e poi pratiche criminose che si riflettono nella vita di ognuno di noi e vanno ad arricchire le casse della criminalità organizzata. Si stima nel mondo un giro d’affari fino a 40 miliardi di dollari. Eppure ancora non c’è una definizione internazionalmente riconosciuta di questo reato. Angela Patrignani, responsabile del Programma Unicri contro il crimine ambientale:

    R. – Stiamo cercando di identificare i crimini che in qualche modo mettono a rischio l’ambiente - e mettono quindi in pericolo anche la vita di tutti noi, attraverso l’inquinamento e l’utilizzo scorretto dei materiali che dovrebbero essere riciclati in maniera appropriata - e di verificare la connessione che c’è in primo luogo con i diritti umani, cioè il diritto che abbiamo tutti noi a vivere in maniera sana e salubre, e i legami con le criminalità organizzate che, soprattutto nei traffici di materiali e rifiuti, stanno aumentando il loro business. Noi vediamo questa grande connessione tra reati dell’ambiente ed infiltrazione di organizzazioni di tipo mafioso.

    D. – Ci sono liste dei Paesi maggiormente coinvolti?

    R. – Sì. Se parliamo, ad esempio, dell’Italia, l’ultimo rapporto di “Ecomafie” ha registrato comunque, soltanto per l’anno 2010, due milioni di tonnellate di rifiuti tossici che sono stati identificati dalle forze di Polizia. Quindi, possiamo immaginarci quale sia stato poi l’indotto totale. Il tutto, per un business tra 3 miliardi e 3 miliardi e mezzo di dollari, che corrisponde – in proporzione – alle stime che ha fatto, ad esempio, il Programma delle Nazioni Unite sulla produzione di rifiuti elettronici, valutata dai 20 ai 50 milioni di tonnellate...

    D. - …questo a livello internazionale?

    R. - …sì a livello internazionale. E gli Stati Uniti hanno prodotto delle stime secondo cui l’insieme del business del traffico dei rifiuti pericolosi si aggira più o meno tra i 12 e i 15 miliardi di dollari l’anno.

    D. – Ma c’è poca consapevolezza nell’opinione pubblica di questo reato che – come ha sottolineato il direttore dell’Unicri – sembra essere nel sentire comune un reato senza vittime…

    R. – Il problema del reato ambientale ci riguarda tutti, perché interessa la nostra vita, la nostra salute. Noi viviamo, respiriamo, ci cibiamo di alcuni prodotti e molti dei reati ambientali hanno una connessione strettissima con questo. Tra l’altro, l’indifferenza verso il reato ambientale permette alla criminalità organizzata di gestire questo business in maniera indiscriminata e quindi di realizzare altissimi proventi, che poi vengono a loro volta utilizzati per altre attività criminali, inclusa la corruzione, il "lavaggio" del denaro ottenuto. Inoltre, manca un po’ un incentivo ad aumentare e migliorare la collaborazione internazionale, perché - ricordiamo - questi sono crimini internazionali: cioè, io produco e poi trasporto attraverso altri Paesi o altri mari, poi deposito in Paesi terzi, poi magari utilizzo anche quello che dovrebbe essere distrutto per realizzare prodotti altamente pericolosi e li ridistribuisco. Quindi, è anche molto importante aumentare la cooperazione internazionale per lavorare sia sulla prevenzione, sia su azioni che siano molto veloci e veramente di contrasto.

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    Sicilia, elezioni: in testa Crocetta. P. Matarazzo: tornata non all'altezza della situazione

    ◊   Nello scrutinio dei voti relativo alle elezioni di ieri in Sicilia, il candidato presidente della Regione di Pd-Udc-Api-Psi, Rosario Crocetta, è in testa con il 31.8% dei voti. Un dato però estremamente parziale visto che riguarda circa il 15% delle sezioni. Il servizio di Alessando Guarasci:

    Finora, c’è un solo vincitore certo. E si chiama astensionismo. Ieri, i seggi sono stati aperti dalle 8 alle 22 e ha votato solo il 47.42%. Un dato che non ha precedenti nella storia dell'autonomia. Lo spoglio delle schede, ancora parziale, vede in testa Rosario Crocetta del centrosinistra con il 31.8% dei voti. Segue Nello Musumeci, sostenuto dal centrodestra con il 26%. Poi, appaiati, Gianfranco Miccichè, leader del Grande Sud, che si attesta al 15.8%, e Giancarlo Cancellieri del Movimento Cinque stelle col 16.6%. Eppure, gli exit poll, ieri sera, davano vincente proprio Cancellieri. E’ certo comunque che la prossima assemblea siciliana sarà eletta dalla minoranza dei cittadini, Perché questo disimpegno? Padre Gianfranco Matarazzo, direttore dell’istituto Pedro Arrupe di Palermo:
    R. – Anzitutto, il dato va riconosciuto come un dato critico ed è soltanto in parte spiegabile con la scelta di concentrare il voto in una sola giornata. E’ anche vero che la partecipazione massiccia di altre volte, nel passato, non è che abbia dato di per sé risultati positivi. Poi, secondo me il dato, forse, ha anche una valenza etica: cioè, le persone hanno rifiutato di dare il consenso a una tornata elettorale considerata non all’altezza della contingenza, anche drammatica, di questo territorio. Ci sono stati appelli alla partecipazione, ma secondo me le persone li hanno percepiti come appelli interessati da parte, per esempio, di partiti e di movimenti e quindi questi appelli non hanno funzionato. I social network, per esempio, espressione dei candidati e dei partiti, con l’eccezione del Movimento 5 stelle, non hanno avuto seguito, quindi questo faceva capire che c’era qualcosa nell’aria.

    D. – Insomma, non si riesce a intravedere una vera svolta nella politica siciliana?

    R. – Siamo in una fase di attesa e preoccupazione. Vedrei un altro livello molto interessante e che si sta muovendo ed è proprio il livello ecclesiale dove c’è stato, per esempio, un appello che la gente ha percepito come disinteressato alla partecipazione ed è quello che ha rivolto la Conferenza episcopale siciliana con un documento molto interessante: “Amate la giustizia voi che governate sulla terra”. Io riprenderei proprio il dato dell’astensione in questo scenario abbastanza complesso e non ne farei un dato conclusivo, anche di carattere negativo, per il momento, ma la base di un processo di rilancio per la partecipazione socio-politica.

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    Nel segno della speranza: a Roma, la consegna del Premio "Cittadino Europeo"

    ◊   Alla sede di rappresentanza del Parlamento europeo di Roma si é svolta questa mattina la cerimonia di consegna del Premio "Cittadino europeo" 2012. Dal 2009, con questo riconoscimento si cerca di dare rilievo a iniziative o persone che si distinguono per impegno civile e sociale. Alla cerimonia, c'era per noi Fausta Speranza:

    Tra i premiati, Biagio Conte, fondatore della “Missione Speranza e Carità” a Palermo, per assistere i poveri della città. E poi, Giovanni Riefolo che fa parte del direttivo dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, promotore di incontri sulla memoria nelle scuole di Roma per affermare i principi di fratellanza e rispetto contro la xenofobia. E l’associazione “Melarancio”, impegnata nel teatro per ragazzi su valori umani. C'è poi l’Albergo etico di Asti, un progetto che aiuta ragazzi con sindrome di Down o disabilità psichica, a lavorare a contatto diretto con i clienti, mettendo a disposizione la propria professionalità: una sorta di accademia che forma i ragazzi nei settori della ristorazione e del turismo. Il presidente, Antonio De Benedetto:

    R. – L’albergo etico è un metodo di formazione attiva, volto al miglioramento dell’handicap sensoriale, fisico e mentale, con gli strumenti del sistema alberghiero, quindi il ristorante, la reception, le camere. Questo è il concetto di una grande casa che dà l’indipendenza. Noi vorremmo arrivare a certificare l’indipendenza e poi a dare un lavoro.

    D. – Dunque, i ragazzi con – ad esempio – Sindrome di Down o altre disabilità non sono ospiti, ma sono protagonisti della struttura?

    R. – Assolutamente protagonisti. Protagonista la Sindrome di Down nell’accoglienza, nel lavoro di cucina, nel lavoro di sala, soprattutto nel front office, non nel back office: non dietro alle quinte, ma davanti; noi ci siamo, noi esistiamo!

    D. – Che cosa significa, per questo progetto, aver ricevuto il Premio “Cittadino europeo”?

    R. – Per l’Albergo etico è molto importante, come penso per tutti gli altri vincitori del Premio; è un riconoscimento di esistenza di quello che si fa. Sicuramente per noi, che non siamo finanziati da nessuno ma facciamo tutto con la buona volontà della società, diciamo che questa incomincia ad essere una firma molto importante.

    D. – Nell’Albergo etico di Asti, Nicolò è un punto di riferimento per i ragazzi lavoratori …

    R. – Io, nell’Albergo etico sono il responsabile per dare una mano ai ragazzi per affacciarsi al mondo del lavoro, per gestirci tra di noi. Io sono un ragazzo down che dà una mano ai ragazzi ad imparare a muoversi nel mondo del lavoro.

    D. – C’è sicuramente il peso del lavoro che c’è in tutti i mestieri; ma c’è anche l’entusiasmo di stare insieme …

    R. – Sì, anche. Tutti insieme per darci una mano tra di noi, affinché tutto funzioni bene nell’albergo: il modo di apparecchiare, il modo di comportarsi …

    D. – Gli ospiti più simpatici che avete avuto e che ricordi?

    R. – Per me, sono tutti simpatici, i clienti!

    Infine, tra i premiati c’è l’Unitalsi con il suo progetto case-famiglia a favore di persone con disabilità o stato di disagio sociale, prive dei principali riferimenti familiari. Il presidente dell'Unitalsi, Agostino Borromeo:

    R. - Le case famiglia sono nate per rispondere all’interrogativo angoscioso che si pongono i genitori di un ragazzo ammalato o diversamente abile: cosa succederà dopo di me? La casa famiglia dà questa risposta: tuo figlio, tua figlia, sarà sempre accudito, circondato da persone amiche, che condividono le sue sofferenze e cercano di alleviarle, di rendergli la vita meno difficile possibile e che con lui pregano, se vuole pregare, ma che comunque lo sorreggono con la loro fede. Esistono già diverse case famiglia in Italia. Una a Ascoli Piceno, un’altra a Rieti, una a Pisa. Ciascuna nasce in un contesto particolare. A volte è una persona che dona all’Unitalsi una struttura e addirittura ha i mezzi per poter rendere operativa la struttura. In altri casi è la diocesi, come nel caso di Rieti: è il vescovo di Rieti che ha messo a disposizione dell’Unitalsi una struttura e l’Unitalsi accoglie gli ospiti, se ne occupa attraverso una propria cooperativa e l’azione dei volontari. Quindi le situazioni non sono tutte uguali ma lo scopo è sempre uno: dare un aiuto e un calore umano agli ultimi, ai più deboli, ai più sfortunati.

    D. - Chi sono soprattutto i volontari, ci sono più giovani o persone di mezza età?

    R. - I volontari sono di tutte le età. L’Unitalsi è una realtà di centomila volontari e tra questi centomila volontari ci sono giovani, giovanissimi, e persone ormai avanti negli anni che avendo più tempo libero lo dedicano al prossimo.

    D. - E’ un progetto che tanti possono far nascere anche in altri luoghi d’Italia o anche in altre nazioni. Questo premio è anche un invito a crescere?

    R. - Certamente è un invito a crescere. Per noi è uno stimolo a continuare su questa strada perché l’esperienza dimostra quanto bisogno ci sia di questo tipo di intervento e lo Stato non può affrontare le situazioni singole. Noi, anche perché animati dagli ideali cristiani che ci sono propri, questo lo possiamo e lo dobbiamo fare.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Il cardinale Tong: la ripresa del dialogo tra Cina e Santa Sede è una "grande speranza”

    ◊   La recente proposta del cardinale Fernando Filoni di istituire una Commissione di alto livello tra Cina popolare e Santa Sede per affrontare questioni irrisolte che riguardano la vita dei cattolici cinesi rappresenta “una grande speranza per il futuro”. Ne è convinto il cardinale John Tong, vescovo di Hong Kong. Il porporato cinese, che ha trascorso le ultime settimane a Roma in veste di presidente delegato dell'Assemblea sinodale sulla nuova evangelizzazione, confida all'agenzia Fides di pregare affinché le autorità cinesi - nell'imminenza di un cruciale Congresso del Partito comunista - colgano come “gesto amichevole” la portata delle considerazioni esposte dal Prefetto del dicastero vaticano per l'evangelizzazione in un recente articolo scritto proprio per Tripod, il trimestrale cattolico legato alla diocesi Hong Kong. In quel saggio, il cardinale Filoni considerava le vicende del cattolicesimo cinese a cinque anni dalla Lettera indirizzata da Benedetto XVI ai cattolici di Cina nel 2007, suggerendo tra l'altro la ricerca di “un nuovo modo di dialogare” tra Santa Sede e governo di Pechino, e citando a tal riguardo come precedenti di riferimento le Commissioni bilaterali esistenti tra Cina popolare e Taiwan e quella istituita tra Santa Sede e Vietnam. Anche secondo il cardinale Tong “il dialogo è necessario, perché senza di esso non si può tentare di risolvere nessuno dei problemi ancora aperti, mentre attraverso il dialogo possono cadere incomprensioni e equivoci”. Il vescovo di Hong Kong porta come esempio i casi delle ordinazioni episcopali illegittime imposte alla Chiesa che è in Cina: “il nostro turbamento su tali vicende” spiega il porporato a Fides, “nasce dal fatto che queste ordinazioni feriscono la Chiesa in un punto essenziale della sua natura propria. Col dialogo si può rendere ragione del fatto che i vescovi non sono funzionari politici di un apparato. Anche per diventare sacerdoti occorre avere dei requisiti appropriati dal punto di vista dottrinale, morale, pastorale e umano. E questo vale ancora di più per la scelta dei vescovi”. Secondo il cardinale Tong, il saggio scritto dal Prefetto del Dicastero missionario della Santa Sede delinea con forza persuasiva gli effetti positivi che la libertà di fede e di appartenenza alla Chiesa cattolica possono proiettare anche sul terreno della convivenza civile: “c'è una potenziale consonanza” nota il vescovo di Hong Kong “tra l'essere un buon cattolico e l'essere un buon cittadino. Le nostre tradizioni millenarie basate sul pensiero confuciano spingono i singoli a correggere se stessi per vivere nell'armonia e nel rispetto verso la propria famiglia, la società e il mondo intero. Ora, la sequela di Gesù produce proprio questi effetti, liberandoci dall'egoismo e dal materialismo e conducendoci ad amare il prossimo. Anche il governo potrebbe riconoscere e apprezzare questo: se alla Chiesa è concesso di far crescere nella libertà i propri fedeli, così che possano essere davvero dei buoni cattolici, anche la società ne guadagna”. Il cardinale Tong concorda anche sull'opportunità di nuovi strumenti di dialogo prefigurati dal cardinale Filoni nel suo articolo per Tripod: “Commissioni bilaterali di alto livello” ricorda il Vescovo di Hong Kong “esistono già tra Cina popolare e Taiwan, così come tra Vietnam e Santa Sede. Sono precedenti eloquenti, e confermano che si potrebbe istituire un simile strumento di contatto anche tra Santa Sede e Cina popolare”. (R.P.)

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    Assisi. Mons. Muller: dialogo non significa "rinuncia alla propria identità"

    ◊   No ad un dialogo con le altre religioni “politically correct”, condotto cioè nascondendo la propria fede e la propria identità. Lo ha detto questa mattina - riferisce l'agenzia Sir - mons. Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede che a 26 anni dallo storico incontro ad Assisi delle religioni per la pace ha fatto il punto sul dialogo interreligioso chiarendone obiettivi e modalità. “Per un cristiano - ha detto il prefetto - il rispetto della religiosità altrui non significa, e non potrebbe significare, una rinuncia alla propria fede, alla propria identità e alla verità definitiva ricevuta, tramite la Chiesa, nella Rivelazione di Dio. Anzi - ha aggiunto - la Chiesa può proporre un dialogo vero solo a partire della verità su se stessa. Sarebbe menzognero nascondere la fede autentica ed abbandonare l’unicità della Rivelazione e della Incarnazione del Figlio di Dio, in nome di un dialogo politically correct. È giustificato e corretto solamente un dialogo condotto nella verità e nell’amore. Perciò la nostra fede, indirizzata verso Cristo, e la verità su noi stessi devono sempre avere un posto privilegiato in ogni occasione di dialogo dei cristiani con coloro che non lo sono”. Pertanto, “il dialogo con i seguaci delle religioni non-cristiane è una forma di testimonianza della fede, che dev’essere sempre rispettosa verso l’altro e la dignità della sua coscienza”. (R.P.)


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    100.mo della nascita di Albino Luciani: domani a Venezia Messa con patriarca e vescovi del Triveneto

    ◊   Venezia ricorderà solennemente domani, 30 ottobre, il centenario della nascita di Albino Luciani, già patriarca della diocesi lagunare prima di diventare nel 1978, e per soli 33 giorni, papa Giovanni Paolo I. Il doppio appuntamento - riferisce l'agenzia Sir - prevede alle 18, nella basilica cattedrale di S. Marco, la Messa presieduta dal patriarca mons. Francesco Moraglia, il cardinale Angelo Scola ed i vescovi della Conferenza episcopale triveneta. Subito dopo, alle 20.30, si terrà un concerto di musica sacra offerto dalla Procuratoria della Basilica di San Marco, dall‘Istituto Polacco di Roma e dalla Fondazione Capella Cracoviensis di Cracovia. Durante i tre intervalli è prevista la lettura di altrettanti testi di Albino Luciani. Il programma del concerto prevede le composizioni di due tra i massimi esponenti della scuola veneziana del XVII secolo: Giovanni Gabrieli, compositore, organista e maestro di cappella della Basilica di San Marco del quale ricorrono i 400 anni dalla morte (1612) e Mikolaj Zielenski, compositore, organista e maestro di cappella legato alla Collegiata di Lowicz (sede del Primate polacco). Ad eseguirlo sarà il Collegium Zielenski diretto da Stanislaw Galonski, uno dei massimi esperti nel campo dell‘esecuzione e promozione della musica antica. (R.P.)

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    Egitto: al via la penultima fase per scegliere il successore di Shenouda III

    ◊   Inizia oggi in Egitto la penultima fase dei lavori per eleggere il nuovo pope di Alessandria e patriarca della Chiesa copta ortodossa. Dei cinque candidati già selezionati, 2.405 tra laici, monaci, sacerdoti e prelati ne indicheranno tre: tra questi, il prossimo 4 novembre, si sceglierà il successore di Shenouda III, morto lo scorso 17 marzo. Intanto, nella giornata di ieri vi sono stati scontri tra copti e musulmani in un villaggio a sud del Cairo. Un gruppo di islamici ha tentato di impedire ai cristiani locali di entrare in chiesa per partecipare alla messa domenicale. Ne è nato un alterco, nel quale cinque cristiani sono rimasti feriti. I cinque candidati sono: Amba Raphael, 52 anni, vescovo responsabile delle parrocchie del centro del Cairo; Amba Tawadraus, 60 anni, vescovo della diocesi di Behaira; Higoumen Rouphail Afa Mina, 70 anni, del monastero Mina Mari e allievo del patriarca Kyrillos VI, precedecessore del patriarca defunto; Serafini al-Souryani, 53 anni, del monastero dei siriani Dayr al-Souryan, dove era monaco Shenouda III; l'ingumeno Pakhomios, 49 anni, il candidato più giovane, canch'egli proveniente da Dayr al-Souryan. La Commissione elettorale ha iniziato a studiare i fascicoli dei 17 candidati solo il 4 ottobre scorso. Secondo fonti locali, essa avrebbe subito forti pressioni per accelerare la scelta del nuovo capo della Chiesa ortodossa, in modo da affrontare i problemi vissuti in questi mesi dalla comunità copta egiziana. Dopo aver indicato il 24 novembre e il 2 dicembre come date per la seconda e la terza fase elettiva, la scorsa settimana la Commissione ha accelerato ulteriormente i tempi, anticipando a oggi la seconda fase. La cerimonia finale - prevista per il 4 novembre - si terrà nella cattedrale di S. Marco in Abassya, con l'estrazione a sorte di uno dei tre nomi, fatta sull'altare da un bambino (bendato) di non più di nove anni, scelto tra i fedeli. La Chiesa copta conta circa 16 milioni di fedeli in tutto il mondo. Su una popolazione di 80 milioni di persone, in Egitto rappresentano il 10%. (R.P.)

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    Tanzania: la morte del superiore regionale dei Missionari della Consolata

    ◊   “Sgomento” e “costernazione” sono stati espressi dai missionari della Consolata dopo la notizia dell’improvvisa scomparsa di padre Lello Massawe Salutaris, il Superiore regionale dell’istituto in Tanzania. In una nota diffusa dall’istituto si riferisce che il missionario è morto in mare giovedì scorso a Bagamoyo, vicino a Dar es Salaam. Il suo corpo è stato ritrovato il giorno successivo in un bosco di mangrovie. “Uniamoci nella preghiera e nella fraternità – ha chiesto Stefano Camerlengo, padre generale della Consolata – in questo momento di grande sgomento e costernazione per il nostro istituto”. Padre Lello aveva 50 anni ed era nato nella città di Moshi, ai piedi del Monte Kilimangiaro, non lontano dal confine tra Tanzania e Kenya. Ordinato sacerdote nel 1993, aveva studiato in Italia dopo una prima esperienza di missione in Etiopia. Divenuto Superiore regionale della Tanzania, nel 2004, aveva assunto la direzione della rivista Enendemi. Negli ultimi anni, in più occasioni, aveva aiutato la Misna a raccontare i cambiamenti sociali, politici e culturali del suo Paese. (R.P.)

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    Myanmar: Onu, almeno 28 mila sfollati nelle violenze fra birmani e Rohingya

    ◊   Il numero degli sfollati a causa delle recenti violenze fra buddisti birmani e musulmani Rohingya nello Stato di Rakhine, nell'ovest del Myanmar, nei pressi del confine col Bangladesh, è di almeno 28mila persone. Lo riferiscono fonti delle Nazioni Unite nell'area, secondo cui la cifra è destinata "con molta probabilità" a salire perché quanti hanno abbandonato la zona costiera a bordo di imbarcazioni non sono compresi nell'elenco. Ashok Nigam, osservatore Onu per il Myanmar e coordinatore delle operazioni umanitarie, riferisce che quasi 27.300 sono musulmani. Alla base dei violenti scontri interconfessionali, lo stupro e l'uccisione a fine maggio di Thida Htwe, giovane buddista Arakanese da parte di tre musulmani. La nuova ondata di violenze è divampata il 14 ottobre scorso e in due settimane ha causato 84 morti e 129 feriti secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità. Tuttavia, il bilancio potrebbe essere di gran lunga superiore e mettere in serio pericolo - come avvertono le Nazioni Unite - il cammino di democratizzazione avviato dalla ex Birmania. Gli sfollati vanno ad aggiungersi agli altri 75mila profughi, stipati da mesi in centri di accoglienza sovraffollati. Nei giorni scorsi migliaia di abitazioni sono state date alle fiamme. Human Rights Watch (Hrw) ha diffuso immagini satellitari, dalle quali emergerebbero "massicce devastazioni di case e proprietà" nelle aree a maggioranza musulmana dello Stato di Rakhine.(L.F.)

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    Timori per l’arrivo dell’uragano "Sandy" a New York

    ◊   L’uragano Sandy si sta rafforzando nel suo procedere verso il nord-est degli Stati Uniti dopo aver seminato morte nei Caraibi, in particolare tra Cuba, Haiti e Giamaica. A Port au Prince sono state 51 le vittime e 15 i dispersi; ieri il Papa all’Angelus ha avuto un pensiero per le persone colpite dall’uragano. Massima allerta a New York, la città si è svegliata in un’atmosfera irreale senza traffico e con le strade deserte dopo la decisione di fermare i trasporti pubblici, di chiudere le scuole e perfino la borsa di Wall Street. Anche l’attesa riapertura della Statua della Libertà, dopo un’opera di restauro, è stata rinviata. L’uragano Sandy dovrebbe arrivare nella Grande Mela alle 18 ora italiana. Uno scenario simile si sta verificando anche nelle grandi città della costa orientale degli Stati Uniti, come Washington, Boston, Philadelphia. Le compagnie aeree americane hanno cancellato più di 7.400 voli; sospesa anche la campagna elettorale mentre si parla di milioni di evacuati. La Croce Rossa ha allestito diversi rifugi per le famiglie che hanno dovuto lasciare le proprie case. Nella Carolina del Nord, i 17 membri dell'equipaggio del Bounty, una copia della celebre nave, ha dovuto abbandonare l'imbarcazione. In loro soccorso la Guardia costiera ha inviato 25 battelli di salvataggio. Sono 8 gli Stati in cui il presidente americano Obama ha dichiarato lo Stato di emergenza: New York, New Jersey, District of Columbia, Maryland, Pennsylvania, Connecticut, Rhode Island e Delaware.(B.C.)



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    Il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu chiede al Guatemala di proteggere i giornalisti

    ◊   Sette Stati rappresentati nel Consiglio dei Diritti Umani dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, tra cui il rappresentante della Santa Sede, hanno espresso la loro preoccupazione per la situazione di vulnerabilità in cui si trovano la stampa e il diritto alla libertà di espressione in Guatemala, invitando le autorità ad adottare i necessari meccanismi di protezione per i giornalisti. Secondo la nota del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano) arrivata all’agenzia Fides, la raccomandazione è stata fatta durante la riunione chiamata “Upr” (Esame Periodico Universale), organismo del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che valuta la situazione dei diritti umani in tutti i Paesi: mercoledì 24 ottobre è stato preso in considerazione lo Stato guatemalteco. Il rappresentante del Vaticano ha chiesto al governo di garantire alla popolazione l'accesso alle informazioni, attraverso una effettiva tutela dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione. La Santa Sede, nell'intervento del proprio rappresentante, ha notato che la stampa guatemalteca è minacciata dalle azioni della criminalità organizzata e dei gruppi del narcotraffico, e ha chiesto alle autorità di promuovere una protezione speciale. In questa sessione, l’Austria ha espresso preoccupazione per l'impunità che circonda i casi di aggressioni e le minacce contro i giornalisti in Guatemala. La Norvegia ha consigliato una effettiva riforma alla legge sulle telecomunicazioni in modo di concedere un riconoscimento legale alle radio delle comunità, così finalmente i popoli indigeni avranno accesso ai mezzi di comunicazione. (R.P.)

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    Congo: sui religiosi rapiti nel Nord Kivu nessuna pista attendibile

    ◊   “Ci sono tante contraddizioni in tutte le segnalazioni che abbiamo ricevuto ma finora nessuna pista ci ha portato sulla buona strada. Siamo preoccupati, i nostri confratelli mancano all’appello da una decina di giorni e ancora non abbiamo avuto un contatto diretto con i rapitori né la prova che siano vivi” dicono all'agenzia Misna fonti della congregazione degli Assunzionisti contattate a Roma e a Beni, città dell’instabile provincia del Nord-Kivu (est). Da sabato 20 ottobre non si hanno più notizie dei tre religiosi congolesi della congregazione degli Agostiniani dell’Assunzione, rapiti in un convento della parrocchia di Nostra Signora dei Poveri a Mbau, a una ventina di chilometri a nord di Beni. I padri, tutti cittadini congolesi, Jean-Pierre Ndulani, Anselme Wasinkundi e Edmond Bamutute, sono stati portati via da non meglio identificati uomini armati, forse una decina, che parlavano swahili. Gli sviluppi del rapimento dei tre padri assunzionisti sono seguiti dal responsabile della provincia Africa, padre Protais Kabila, e dal vescovo della diocesi di Butembo-Beni, mons. Paluku Sikuly Melchisedec. I due hanno avuto tutte le rassicurazioni del caso da parte del governo provinciale e delle forze di sicurezza che stanno portando avanti l’inchiesta. Il portavoce della società civile del Nord-Kivu, Omar Kavota, ha riferito all’emittente locale Radio Okapi che “gli ostaggi sono in vita, detenuti nella foresta tra la località di Oicha e il villaggio di Mavivi”, senza però fornire informazioni sull’identità dei rapitori “per non ostacolare le iniziative in corso tese alla loro liberazione”. Kavota ha inoltre assicurato che gli autori del rapimento intendono con il loro gesto “colpire psicologicamente lo Stato congolese” e “dimostrare l’inefficienza dei servizi di sicurezza” a tutela della popolazione e dei suoi beni. “Chiunque si sia in messo in contatto con la congregazione o con le autorità ecclesiastiche di Beni si è presentato come fonte credibile di indizi che potrebbero portarci sulle tracce dei religiosi, ma nei fatti non abbiamo nulla di concreto e la verità non sembra vicina. Per questo motivo cominciamo a dubitare di tutti e preferiamo mantenere il riserbo sull’intera vicenda, almeno fino a quando non ci sarà una svolta” concludono fonti della congregazione degli Assunzionisti. Sono almeno tre le piste individuate dagli esponenti locali della chiesa cattolica: quella dei ribelli ugandesi delle Adf-Nalu, attivi nella zona e in passato già responsabili di azioni simili ai danni dei civili nel settore di Mbau-Beni – e del nuovo movimento politico-militare dell’Unione per la riabilitazione della democrazia in Congo (Urdc), creato sabato scorso. Non è del tutto escluso un possibile coinvolgimento della ribellione del Movimento del 23 marzo (M23), appena ribattezzato Esercito rivoluzionario del Congo (Arc); anche se ha il suo ‘feudo’ nel territorio di Rutshuru alcuni dei suoi uomini sarebbero infiltrati a Beni. (R.P.)

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    Congo: costretto alla fuga il medico che cura migliaia di donne vittime di stupri nell’est del Paese

    ◊   Un medico congolese, da anni impegnato a curare le vittime delle violenze sessuali nell’est della Repubblica Democratica del Congo, è stato costretto ad abbandonare l’area delle sue attività perché la sua vita è stata minacciata. Il dottor Denis Mukwege e la sua famiglia hanno lasciato sabato scorso Bukavu, capoluogo del sud Kivu, riferisce Radio Okapi, dopo essere sfuggiti ad un assalto alla sua abitazione da parte di un gruppo armato, nel corso del quale un militare di guardia è stato ucciso. Il dottor Mukwege - riporta l'agenzia Fides - è direttore dell’ospedale di Panzi, che offre cure gratuite e aiuto psicologico alle migliaia di donne che hanno subito violenza sessuale nella regione, dove da anni imperversano diversi gruppi armati che vessano i civili. Uno dei crimini più odiosi è quello della violenza sessuale, che non risparmia nessuno. Per il suo impegno umanitario, il dottor Mukwege è stato insignito di diversi riconoscimenti internazionali. (R.P.)

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    Bangladesh: persiste la violenza contro le donne, che rimangono senza alcuna tutela

    ◊   Le statistiche della polizia e i rapporti delle Organizzazioni non governative (Ong) che operano per stabilire i diritti femminili in Bangladesh, mostrano una certa tendenza all’aumento della violenza contro le donne (Vaw). Secondo i dati della polizia, nel 2004 ci sono stati 2.981 casi di violenza legata alla dote, mentre nei primi nove mesi del 2012, la cifra è già salita a 4.563 donne. Inoltre, mentre nel 2004 sono stati registrati 2.901 casi di stupro, quest’anno, fino ad agosto, sono già 2.868. Secondo gli attivisti, le donne bengalesi attualmente subiscono maggiori violenze mentali rispetto al passato, anche se non possono essere quantificate e molte rimangono addirittura taciute. Tuttavia - riporta l'agenzia Fides - il suicidio in questo Paese è la causa principale dei decessi tra le donne. Spesso le atrocità non vengono riportate per paura di molestie da parte dei leader religiosi o politici e, dei casi che vengono registrati, gran parte finiscono per essere liquidati come false accuse. Ogni anno in Bangladesh vengono presentate circa 5 mila denunce per molestie per la dote. Nel 2010 la polizia ne ha ricevute 5.331, arrivate a 7.079 nel 2011. I dati della Bangladesh National Women Lawyers’ Association (Bnwla) riportano che dei 420 casi di stupro registrati nel 2011, solo 286 sono arrivati in tribunale. A suo merito il governo del Bangladesh ha adottato una serie di azioni legali per migliorare la situazione delle donne, a partire dal Suppression of Violence against Women and Children Act del 2000. Nel 2009 è stato approvato il National Human Rights Act seguito dal Domestic Violence Act nel 2010. Il Bangladesh è anche firmatario di convenzioni internazionali intese a proteggere le donne e i loro diritti. Tuttavia, finora ben poco è stato fatto per garantire loro un ambiente sicuro. (R.P.)

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    Nepal: il ruolo delle volontarie per la sanità a favore di donne a bambini

    ◊   Le donne impegnate come volontarie nel settore sanitario spesso forniscono un servizio vitale per i più poveri che vivono nelle regioni montuose del Nepal, e sono quelle che hanno contribuito ad un costante miglioramento dei tassi di sopravvivenza materna e neonatale. Questa Organizzazione di volontarie (Fchvs) opera nelle aree nepalesi più remote, dove non ci sono medici nè operatori sanitari. Nel distretto di Dailekh, 600 km a nord ovest di Kathmandu, ce ne sono 810, e in tutto il Paese altre 52 mila. L’ospedale di Dailekh, il più grande centro sanitario della regione gestito dal Governo - riferisce l'agenzia Fides - fa spesso riferimento alle informazioni fornite dalla Fchvs che aiutano a registrare e a raccogliere dati sulla salute delle donne e dei bambini. Sono costantemente in contatto con i più poveri che hanno difficoltà a percorrere chilometri per recarsi in ospedale, e vengono considerate “medici”. Pur non potendo gestire complicazioni mediche, le volontarie ricoprono comunque un ruolo fondamentale per i referti e riescono a convincere le madri incinte e le giovani donne a recarsi nei Centri sanitari, oltre ad offrire loro informazioni di base sulla cura dei figli. Il Nepal ha fatto passi avanti per quanto riguarda i tassi di mortalità materna (Mmr). E’ uno dei 10 Paesi in via di sviluppo ad averlo ridotto di almeno il 75% tra il 1990 e il 2010. Nel 2010 morivano circa 170 donne ogni 100.000 nati vivi. La media varia tra 100 e 290 decessi. Nel 1990, il Mmr era di 770 morti ogni 100.000 nati vivi. Secondo l’Indagine Demografica Sanitaria più recente (2011), tra il 2006 e il 2011, la percentuale di bambini assistiti da operatori qualificati è quasi raddoppiata, dal 19% al 36%, mentre la percentuale dei bambini nati in una struttura sanitaria è aumentata dal 18 al 28% nello stesso periodo. Il programma Fchv è stato lanciato nel 1988 in 19 distretti della regione più povera del Nepal con l’obiettivo di migliorare l’assistenza materna e neonatale. Oltre la metà delle volontarie hanno lavorato per oltre 10 anni ma, nonostante abbiano un ruolo considerato così determinante, il governo non da loro alcun sostegno economico. I funzionari del Ministero della Salute a Kathmandu dicono che stanno facendo del loro meglio per destinare maggiori risorse al Fchvs, ma sono vincolati dal bilancio. Le volontarie Fchv si sentono comunque motivate nel loro lavoro grazie al rispetto della comunità e alla libertà di uscire di casa. (R.P.)

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    Filippine: "no" alla festa di Halloween nelle scuole cattoliche

    ◊   Nessuna festa di Halloween nella scuole cattoliche: l’invito a lasciare “l’osanna alle pratiche esoteriche” e a celebrare, invece, la Festa di Tutti i Santi giunge dalla "Associazione per l’Educazione cattolica delle Filippine", che raggruppa tutti gli istituti educativi cattolici del Paese. In una nota diramata a tutti gli istituti e inviata all’agenzia Fides, padre Greg Bañaga, presidente dell’Associazione, rimarca che tutte le istituzioni cattoliche “hanno il dovere di difendere la dignità delle persone decedute”, e non devono “celebrare la festa di Ognissanti e il Giorno dei Defunti con costumi o riti spaventosi”. Secondo la dottrina cattolica, ricorda il presidente, la Festa di tutti i Santi (il 1° novembre) è un’opportunità data a ciascun fedele per approfondire la propria “vocazione alla santità”, mentre il 2 novembre è “l'occasione per pregare e ricordare nel raccoglimento tutti i fedeli defunti”. La Chiesa filippina, in tutte le sue componenti, ha manifestato forti riserve e perplessità per la diffusione della festa e dei riti di Halloween. Diversi vescovi e sacerdoti sono particolarmente preoccupati per i giovani e per i bambini, che possono essere contagiati da “controvalori” insiti nelle pratiche di Halloween, che tendono a valorizzare il male, i fantasmi, le streghe, la magia. Da qui l’appello a impedirne la diffusione nelle scuole cattoliche. Nelle Filippine la festa di Halloween è arrivata per motivi perlopiù commerciali, grazie ai mass media occidentali e data la dipendenza culturale dagli Stati Uniti d’America. Nel vasto arcipelago filippino, ha acquistato popolarità soprattutto in alcune aree di Manila e delle grandi città. (R.P.)

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    Indonesia. Giornata giovanile 2012: i ragazzi si impegnano per la pace e la giustizia

    ◊   Incontri, riflessioni e preghiere in comune, per rilanciare il motto "100% cattolici, 100% indonesiani". Con questo spirito migliaia di ragazzi hanno celebrato la prima Giornata indonesiana della gioventù (Iyd 2012), che si è tenuta la settimana scorsa nella diocesi di Sanggau, provincia di West Kalimantan, nella parte indonesiana dell'isola del Borneo, una delle zone più remote e sperdute dell'arcipelago. All'evento hanno aderito 1.914 fedeli - parrocchiani e sacerdoti - in rappresentanza di 35 diocesi di tutto il Paese. Il motto scelto per questo primo appuntamento - e già usato per la XXVI Gmg a Madrid - è "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (Col 2,7) ed è tratto da un passo della lettera di San Paolo apostolo ai Colossesi. Padre Yohanes Dwi Harsanto Pr., responsabile e anima della prima edizione della Iyd, sottolinea che i giovani hanno potuto comprendere appieno "come rendere concreta la nostra fede cristiana" nella vita quotidiana di una nazione che è "multiculturale, multietnica e multilinguistica". Segretario esecutivo della Conferenza episcopale indonesiana (Kwi), padre Yohanes ricorda le differenti lingue parlate dai ragazzi che hanno aderito all'evento ma, al tempo stesso, il sentimento di "unità" quali membri di un unico Paese. Pur contraddistinti da identità culturali diverse, linguaggio, abitudini e costumi molto vari, essi hanno saputo riunirsi sotto lo spirito e l'egida della "Chiesa indonesiana", ha aggiunto il sacerdote, il quale ricorda uno dei principi ispiratori delle giornate: "essere più fedeli e sentirsi al contempo più indonesiani". Questa doppia valenza trae certo spunto da una delle più illustri figure del cattolicesimo nel Paese, mons. Albertus Soegijapranata, vescovo emerito di Semarang, e primo prelato nativo della storia della nazione. Il suo motto, più volte ricordato e rilanciato in queste giornate della gioventù, era "100% cattolico e 100% indonesiano". Fra le altre ricchezze sperimentate dai giovani, continua padre Yohanes, la possibilità di condividere esperienze di fede e momenti di comunione, in particolare grazie all'ospitalità delle famiglie cattoliche della zona che hanno dato la loro disponibilità ad accogliere i ragazzi. Una unione che ha saputo vincere le differenze linguistiche, culturali in base all'elemento comune dell'appartenenza alla Chiesa cattolica. In un comunicato diffuso al termine della settimana, i giovani cattolici indonesiani hanno voluto ribadire il loro impegno al mantenimento dello spirito che ha animato le giornate di incontro e preghiera. Definendosi promotori di "pace e giustizia", essi intendono diventare "agenti del cambiamento" per "migliorare la situazione del Paese". "Siamo grati al Signore - concludono i ragazzi - per la grande benedizione che ci ha concesso nell'essere giovani cattolici indonesiani". (R.P.)

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    Rwanda: mancano pochi giorni all’incontro internazionale dei giovani di Taizé a Kigali

    ◊   Mancano meno di tre settimane all’incontro internazionale dei giovani di Taizé a Kigali, in Rwanda, una tappa del “Pellegrinaggio ecumenico di fiducia sulla Terra” iniziato dal fondatore della comunità Frère Roger. Diverse migliaia di giovani dal Rwanda e da altri Paesi africani , ma anche dall’Europa, dall’America e dall’Asia si ritroveranno nella capitale ruandese dal 14 al 18 novembre. Lo scopo dell’incontro è quello di celebrare Cristo, di andare tutti insieme alle sorgenti della fiducia e di rinnovare l’impegno nella Chiesa e nella società. In particolare l’evento sarà l’occasione per i giovani della regione dei Grandi Laghi, dell’Africa orientale e non solo, per vivere un’esperienza di comunione, di condivisione e di riflessione in un contesto internazionale e multiculturale, per mostrare il loro impegno per Cristo e nella Chiesa e la loro capacità di intraprendere iniziative concrete per costruire la fiducia e la pace nelle loro comunità. I punti salienti dell’incontro saranno la preghiera comune (con momenti di silenzio, meditazione e canti), la riflessione biblica, la condivisione delle esperienze con le famiglie ospitanti e le comunità cristiane locali. Il programma del mattino si terrà nelle parrocchie della città e delle zone circostanti (preghiera del mattino, visite e incontri con i "testimoni della speranza"). Nel pomeriggio sono previsti una riflessione biblica, la condivisione in piccoli gruppi e laboratori e seminari su vari temi (sociali, culturali...). La scelta del Rwanda non è stata casuale. Il Paese rappresenta un segno di speranza per tutti i Paesi vicini, per la capacità che ha avuto di compiere notevoli sforzi per la ricostruzione dopo il genocidio del 1994. L’evento darà la possibilità di meditare sulla risurrezione di Cristo e del suo amore che è più forte del male e della violenza. “Incontrare chi ha vissuto il dramma e le sofferenze del genocidio e le sue conseguenze, chi ha lottato per anni per trovare la pace e la libertà del cuore e può ora affrontare la sfida della riconciliazione nella sua comunità e partecipare alla costruzione del suo Paese – sottolinea il sito web di Taizé – , sarà un dono e un’esperienza evangelica unica”. (L.Z.)

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    Giappone: l’Anno della Fede “vissuto nello spirito dei martiri”

    ◊   L'Anno della Fede in Giappone "è una sfida per tutte le Chiese, ma in modo particolare per quella giapponese. Che ha davanti a sé molte sfide che si possono risolvere tornando alla vita nella fede e al sangue dei martiri, fondamento della nostra esistenza". È il senso del messaggio inviato dai vescovi giapponesi a tutte le chiese del Paese in occasione delle celebrazioni relative all'Anno proclamato da Benedetto XVI. "Fra gli scopi dell'Anno della Fede - si legge nel testo, intitolato 'Le sfide per la Chiesa giapponese' - c'è anche la preparazione per il futuro sviluppo della Chiesa e il rinnovamento della nostra fede, basandosi sulla comprensione del catechismo cattolico. Nel corso di quest'Anno, noi vescovi vorremmo confermare anche il progresso dell'evangelizzazione negli ultimi 50 anni e promuovere il rinnovamento della fede". "In questo 2012 - continua il testo - la nostra Chiesa commemora il 150mo anniversario della canonizzazione dei 26 Martiri giapponesi e la ripresa delle attività missionarie. Noi non dobbiamo mai dimenticare che abbiamo lo stesso sangue e la stessa fede di coloro che, 415 anni fa, diedero la vita per la Chiesa in Giappone: come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II durante la sua visita qui nel 1981, la fondazione della Chiesa nipponica è nel sangue stesso dei martiri". Con queste premesse, scrivono ancora i presuli, "dobbiamo riflettere sulla straordinaria storia di salvezza che Dio ha preparato per il nostro Paese. Allo stesso tempo, rinnoviamo e confermiamo la nostra fede in linea con Benedetto XVI. Per ottenere questi scopi, e promuovere una nuova evangelizzazione, è importante continuare nei nostri sforzi evangelici: leggiamo la Bibbia, preghiamo e condividiamo la nostra fede". "Il Giappone - conclude il testo - ha davanti a sé molte sfide: i postumi delle grandi tragedie ambientali, la stagnazione economica, il calo delle nascite, i suicidi. Questo nasce in parte anche per un modo di pensare sbagliato, basato sul materialismo e sul vivere solo per il presente. Ascoltando la voce di chi soffre, come cattolici dobbiamo fare il possibile per trovare nuove misure ed espressioni di evangelizzazione per chi vive all'interno e all'esterno della Chiesa". (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 303

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