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Sommario del 23/10/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • La delegazione vaticana in Siria dopo il Sinodo. L'Aula lavora al documento finale
  • Sinodo. Il Patriarca Béchara Raï: in Libano, i cristiani siano ponte di pace
  • Sinodo: appello per la liberazione dei missionari rapiti in Congo
  • Processo Gabriele, le motivazioni della sentenza. Il 5 novembre apre il processo a Sciarpelletti
  • Cinquant’anni fa la crisi di Cuba. L’impegno per la pace di Giovanni XXIII
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Usa: Obama prevale su Romney nell’ultimo dibattito televisivo
  • Emiro del Qatar a Gaza: prima visita di un leader arabo "nell'era Hamas"
  • Traffico di esseri umani in Sinai: dalle ong all'Onu i nomi dei basisti in Sudan
  • Dubai. Forum mondiale dell’energia: la politica contro gli interessi delle lobbies
  • Sisma Abruzzo, condanna Commissione Grandi Rischi. Sconcerto della comunità scientifica
  • 7 itinerari per Roma nell'Anno della Fede, presentati dall'Opera Romana Pellegrinaggi
  • I 150 anni dell'Unione Apostolica del Clero. Intervista con mons. Botia
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Congo: richiesta di riscatto per i tre sacerdoti rapiti. I vescovi condannano il crimine
  • Siria: due fedeli rapiti e uccisi. Il patriarca Laham: “I cristiani sono strumentalizzati nel conflitto”
  • Lourdes: riaperta la Grotta di Massabielle dopo l'inondazione
  • Mali: sì della popolazione all’intervento militare internazionale per liberare il nord
  • Indonesia. A Poso violenze anticristiane: estremisti incendiano chiesa protestante
  • Senegal: piano pastorale per rafforzare il dialogo cristiano-islamico
  • Usa: critiche dei vescovi per una sentenza contro il matrimonio tra uomo e donna
  • America Latina. Istruzione: 22 milioni di bambini non vanno a scuola o lasciano gli studi
  • Uruguay: cresce il supporto popolare alla Commissione “Per la Vita e per l’Acqua” di Tacuarembó
  • Paraguay: ricordato il missionario gesuita Antonio Ruiz de Montoya per gli indiani guaranì
  • Regno Unito: cattolici e anglicani insieme per il Sudan
  • Grecia: incontro a Kos tra Chiese ortodosse del Consiglio Ecumenico delle Chiese
  • Vietnam: Lettera pastorale dei vescovi per l’Anno della Fede
  • Palermo. Folla ai funerali di Carmela Petrucci, la giovane morta in difesa della sorella
  • Il Papa e la Santa Sede



    La delegazione vaticana in Siria dopo il Sinodo. L'Aula lavora al documento finale

    ◊   Diciannovesima Congregazione generale, stamani, per il Sinodo sulla nuova evangelizzazione: al centro dei lavori, la presentazione dell’elenco unico delle proposizioni. Si tratta della bozza del documento finale, che verrà poi emendato e votato sabato prossimo. Ma i Padri sinodali hanno anche lanciato un appello per il rilascio dei tre religiosi cattolici rapiti nella Repubblica democratica del Congo ed hanno ribadito che si continua a lavorare per l’invio di una missione di solidarietà in Siria, anche se la sua partenza sarà rinviata, probabilmente dopo la fine dei lavori. Il servizio di Isabella Piro:

    La missione in Siria di rappresentanti della Santa Sede e del Sinodo dei vescovi continua i suoi preparativi, nonostante gli ultimi fatti di cronaca, dice l’Assemblea episcopale. I tempi e le modalità della visita saranno annunciate prossimamente. Tuttavia, considerata la gravità della situazione, l’invio verrà posticipato, probabilmente oltre la conclusione del Sinodo, ribadisce l’Assise, così come ci sarà qualche modifica alla composizione della Delegazione, anche per gli impegni dei suoi membri. Quindi, i Padri sinodali esprimono solidarietà alla popolazione siriana ed incoraggiano coloro che cercano una soluzione al conflitto che sia rispettosa dei diritti e dei doveri di tutti.

    Poi, il Sinodo si stringe attorno alla Chiesa della Repubblica democratica del Congo e lancia un appello affinché i tre religiosi cattolici rapiti venerdì scorso siano rilasciati quanto prima, senza condizioni, così che possano continuare la loro missione.

    Quindi, i Padri sinodali lasciano spazio alle lettura dell’elenco unico delle proposizioni finali, che raccoglie e sintetizza, ancora in forma provvisoria, tutti i suggerimenti emersi dall’Assemblea. Sulla scia di quanto detto in Aula nei giorni scorsi, quindi, il Sinodo ribadisce che l’evangelizzazione è la missione della Chiesa, soprattutto in un mondo secolarizzato e globalizzato che pone sfide cruciali come le persecuzioni religiose o l’indifferenza della religione stessa. Centrale, in quest’ambito, la difesa della libertà religiosa e dei diritti umani fondamentali, anche perché il Vangelo è un annuncio di pace che aiuta l’uomo a sfuggire alla solitudine creata dal mondo moderno.

    Tra gli altri punti emersi dal Sinodo, l’importanza di un uso corretto dei mass media da parte di operatori formati nella morale cristiana e di un cammino evangelizzatore che passi anche attraverso la bellezza e le arti sacre. I vescovi richiamo anche la difesa dei migranti ed il sostegno alle opportunità di annuncio del Vangelo che essi offrono, la santità come parte significativa della nuova evangelizzazione, la necessità di fare riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa e al Concilio Vaticano II come punti focali della nuova evangelizzazione.

    Non sono mancati, inoltre, riferimenti all’educazione, alla catechesi per adulti, all’opzione preferenziale per i poveri ed i malati in un’ottica di evangelizzazione nella carità, ed al sacramento della penitenza come fulcro dell’azione pastorale della Chiesa. Centrale poi il richiamo alla corresponsabilità dei laici – anche dei giovani - nella nuova evangelizzazione e al riconoscimento del ruolo delle donne, poiché esse mantengono vive la fede e la speranza.
    Di qui, l’invito a sostenere la famiglia, primo agente di evangelizzazione, guardando anche ai divorziati ed ai risposati. Sacerdoti e consacrati, inoltre, sono chiamati ad evangelizzare con profonda spiritualità e consapevolezza della modernità, mentre le parrocchie ed i carismi, doni per la Chiesa, vengono invitati a collaborare alla sua missione in un’ottica di coessenzialità.

    Quindi, il Sinodo apre la pagina del dialogo, sviluppandolo su quattro fronti: ecumenico, interreligioso, tra scienza e fede, e con i non credenti. Denominatore comune ne sono il rispetto dell’altro e la collaborazione per la promozione dei diritti umani, soprattutto per quanto riguarda il confronto con i musulmani.

    Infine, l’Assemblea episcopale invita a guardare anche alla salvaguardia del Creato, che testimonia la fede e la solidarietà tra le generazioni, e a Maria, Stella dell’evangelizzazione, grazie alla quale la Chiesa può essere casa per molti.

    In chiusura della Congregazione, il segretario generale del Sinodo, mons. Nikola Eterović, legge una missiva di risposta a mons. Luca Ly, vescovo di Fengxiang, in Cina, che nei giorni scorsi aveva inviato un messaggio di saluto ai Padri sinodali. Il Sinodo ora gli risponde, facendosi interprete anche dell’affetto del Santo Padre, ed auspicando che, in questo Anno della fede, l’evangelizzazione raggiunga anche il popolo cinese. Annunciato, quindi, un dono del Papa ai Padri sinodali: una Croce pettorale che raffigura l’immagine del Buon Pastore.

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    Sinodo. Il Patriarca Béchara Raï: in Libano, i cristiani siano ponte di pace

    ◊   La situazione nel Medio Oriente è stata, in questi giorni, al centro dell’attenzione dei Padri sinodali. Al Patriarca di Antiochia dei maroniti, mons. Béchara Boutros Raï, il nostro inviato al Sinodo Paolo Ondarza ha chiesto una riflessione sulla tensione in Libano a seguito dell’attentato di venerdì scorso in cui hanno perso la vita otto persone tra cui il capo dell’intelligence del Paese:

    R. – Sono molto dispiaciuto per questo attentato. Il motivo si conosce: Al Hassan, il dirigente dei servizi segreti ucciso venerdì scorso, aveva scoperto un complotto che avrebbe provocato molti danni, orchestrato con materiali esplosivi, trasportati da un ex ministro dalla Siria in Libano. Era venuto a conoscenza di questo e l’ha denunciato. Ha dovuto vivere fuori dal Libano nell’ultimo periodo: gli avevano infatti consigliato tutti di non tornare, perché era stato minacciato. Appena tornato, dopo nemmeno 24 ore, è stato assassinato. Da chi, ancora non lo sappiamo. Il grande conflitto in Libano e nella regione è tra musulmani sunniti e sciiti. Io personalmente, dopo aver ricevuto la lettera del Santo Padre, mi sono consultato con il presidente della Repubblica libanese e ho rivolto due appelli per la pacificazione, per chiedere maggiore saggezza, perché quanto avvenuto sia interpretato in maniera corretta. Anche il presidente ha indetto una consultazione per valutare se sia necessario far cadere il governo o meno: infatti, attualmente, il primo ministro è sunnita e qualcuno teme possa avere legami con la Siria o con l’ambiente sunnita. Ma ancora non è affatto detto che siano stati i siriani a provocare l’attentato: non possiamo fare un’affermazione di questo genere. Ora, comunque, pare che la situazione stia tornando tranquilla.

    D. – Non teme, quindi, che la situazione possa degenerare?

    R. – La situazione è veramente molto critica a causa della Siria: tutto si ripercuote sul Libano, specialmente il fatto che in Siria si sta andando verso un sanguinoso conflitto tra sunniti, che sono la maggioranza, e il regime alawita, che è in minoranza. In Libano, ci sono sia sunniti che alawiti, e i problemi siriani si ripercuotono anche qui. Inoltre, i libanesi sono divisi tra loro: i sunniti sono contro il regime. Gli sciiti con il regime. Il conflitto è di natura politica, se rimarrà dentro questo ambito presto tutto tornerà alla normalità, se invece tale confine sarà oltrepassato – cosa che non credo – la situazione potrebbe degenerare.

    D. – I cristiani come vivono questa situazione?

    R. – Alcuni si sono alleati con i sunniti, altri con gli sciiti: non ideologicamente, ma a causa delle alleanze politiche. Ma noi li invitiamo a fare da ponte: i cristiani dovrebbero essere un ponte tra sciiti e sunniti, perché questo conflitto riguarda tutta la regione.

    D. – Qual è il suo auspicio in questa sede del Sinodo?

    R. – Noi abbiamo bisogno di persone che richiamino alla pacificazione, alla riconciliazione, alle soluzioni diplomatiche, perché oggigiorno diversi Stati fomentano la violenza e incitano alla guerra, pagano, inviano armi, sostengono politicamente questa parte o l’altra. E’ bene invece che si ascolti l’appello alla pace da parte del Santo Padre e del Sinodo. Ci affidiamo a Dio: Egli è il Maestro e il Padrone della Storia.

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    Sinodo: appello per la liberazione dei missionari rapiti in Congo

    ◊   Dal Sinodo questa mattina l’appello per la liberazione, senza condizioni, dei tre religiosi cattolici rapiti venerdì scorso nella Repubblica Democratica del Congo. Da questo Paese, arriva in aula la testimonianza di un’uditrice: Ernestine Kinyabuuma, focolarina, docente all’Istituto universitario "Maria Malkia" a Lubumbashi, città in cui svolge servizio accanto ai detenuti. Paolo Ondarza l’ha intervistata:

    R. – Io sono professoressa e mi occupo dell’educazione alla pace e al dialogo interreligioso. Un’interpretazione sbagliata delle religioni può infatti portare a dividere la gente, mentre la religione è veicolo di pace.

    D. – Lei inoltre lavora tra i carcerati, con un programma di riabilitazione e reinserimento sociale...

    R. – Nel mese di maggio ho cominciato ad insegnare a cucire ai detenuti. Con i pochi mezzi che avevo, ho comprato cinque macchine da cucire e ho selezionato 20 carcerati, tra donne e uomini, per formare il primo gruppo per un corso di tre mesi. In questi tre mesi, non si trattava solo di insegnare loro il cucito, ma anche di cercare di far capire loro quanto valevano, infondere stima in loro stessi, nelle loro capacità. La cosa bella è che dopo tre mesi - normalmente, secondo la legge, se un carcerato ha cambiato il suo comportamento, può avere la grazia - di quei 20 carcerati ne sono rimasti solo due. Questo, è un bel risultato di ciò che sto cercando di fare nel mio piccolo.

    D. – Anche questa è evangelizzazione?

    R. – Penso di sì: io sono una focolarina e vivo la Parola di Dio ed è questa che cerco di trasmettere. E’ “il mio segreto”, il filo conduttore di ogni mia azione.

    D. – Come sta vivendo l’esperienza qui al Sinodo?

    R. – Vedere i vescovi, tutti radunati insieme, mi dà l’idea di una famiglia nella quale i genitori radunano i figli per esporre loro un problema e cercare di capire come risolverlo. Qui, al Sinodo, sto facendo un’esperienza di Chiesa madre, Chiesa famiglia, famiglia di Dio.

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    Processo Gabriele, le motivazioni della sentenza. Il 5 novembre apre il processo a Sciarpelletti

    ◊   E’ stata pubblicata oggi la sentenza con le motivazioni del processo in Vaticano a Paolo Gabriele. L’ex aiutante di camera del Papa condannato a 3 anni di reclusione, con pena ridotta ad un anno e mezzo, per furto aggravato di documenti riservati. Nel briefing con i giornalisti, il direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, ha ribadito che Gabriele è attualmente agli arresti domiciliari e che potrebbe scontare la pena in Vaticano, salvo l’eventuale Grazia di Benedetto XVI. Annunciato anche che il processo al tecnico informatico Claudio Sciarpelletti, accusato di favoreggiamento, riprenderà il 5 novembre. Massimiliano Menichetti:

    Quindici pagine per spiegare, dettagliare, ripercorrere l’intera vicenda che ha portato alla condanna a tre anni di carcere, ridotta a diciotto mesi grazie alle attenuanti, nei confronti di Paolo Gabriele. Le motivazioni della sentenza hanno ribadito la piena capacità di agire e la consapevolezza delle azioni dell’ex aiutante di Camera (la difesa stessa aveva rinunciato alla perizia di parte che delineava in sostanza Paolo Gabriele come un soggetto incapace di intendere e volere. L'unica perizia agli atti era dunque quella disposta d'ufficio).

    Precisato che il materiale sequestrato nella residenza di Castel Gangolfo è stato escluso dal dibattimento, che alcuni documenti originali, anche con firma del Papa, sono stati ritrovati nell’abitazione in Vaticano, insieme ad un migliaio di fotocopie di altri atti riservati.

    Esclusi, per assenza di prove, complici o correi. I magistrati parlano invece di un “convincimento soggettivo” di Gabriele nato in seguito a contatti e dialoghi con altri. Centrale la questione del capo d’imputazione, ovvero il furto dei documenti, che secondo i giudici avrebbe portato, oltre all'appropriazione, anche un vantaggio morale ed intellettuale a Gabriele: per il "suo studio personale" e per le reazioni provocate in seguito alla divulgazione degli atti.

    Per i magistrati vaticani sono invece non rilevanti: la pepita, l’assegno da 100 mila euro e la copia rara dell’Eneide. Questo sia per le testimonianze discordanti sul dove e quando sarebbero state trovate, sia per la mancanza di una colpevolezza oggettiva di Gabriele.

    Nel briefing con i giornalisti, in Sala Stampa Vaticana, il direttore padre Federico Lombardi ha precisato che l’ex aiutante rimane agli arresti domiciliari in Vaticano, fino alla decorrenza dei termini previsti per il ricorso d’ufficio, poi potrebbe scontare la pena in una delle celle allestite della Gendarmeria.

    Sollecitato dai giornalisti, padre Lombardi, ha confermato la possibilità della grazia per il maggiordomo, senza però indicare modi e tempi. Precisato anche che ammontano a mille Euro le spese processuali a carico del condannato. Confermato che il promotore di Giustizia, Picardi, non ha chiuso il fascicolo relativo ad altri eventuali reati e che il procedimento volto ad accertare eventuali violazioni durante il primo periodo detentivo di Gabriele, sta facendo il suo corso.

    Evidenziato che l’interdizione dai pubblici uffici chiesta dall’accusa non ha avuto seguito, in punto di diritto, perché non prevista per pene così brevi, ma che la gravità degli atti compiuti da Gabriele ha escluso la sospensione condizionale della pena. Poi l’annuncio che il prossimo 5 novembre riprenderà il processo a carico del tecnico informatico Claudio Sciarpelletti, accusato di favoreggiamento.

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    Cinquant’anni fa la crisi di Cuba. L’impegno per la pace di Giovanni XXIII

    ◊   Ricorre in questi giorni il 50.mo anniversario della crisi di Cuba, uno dei momenti più drammatici del XXI secolo, in cui il mondo sfiorò pericolosamente il rischio di una Terza Guerra Mondiale. Ad impegnarsi senza sosta per risolvere la crisi nucleare tra Mosca e Washington fu Giovanni XXIII, che inviò una lettera a Kennedy e Krusciov e rivolse un accorato appello per la pace ai microfoni della Radio Vaticana. Dalla crisi di Cuba nacque poi l’ispirazione per l’Enciclica Pacem in Terris che il Beato Roncalli firmò nell’aprile del 1963. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    E’ il 22 ottobre 1962. Il presidente americano, John F. Kennedy, si rivolge alla nazione attraverso la televisione. L’annuncio è drammatico: navi sovietiche si dirigono verso Cuba per armare con testate atomiche le installazioni presenti sull’isola caraibica a poche decine di chilometri dalle coste statunitensi. La crisi è iniziata in realtà il 15 ottobre, dopo che un aereo spia americano U2 ha svelato la presenza di postazioni missilistiche a Cuba. Sono giorni di tensione spasmodica, il mondo sembra precipitare nel baratro di un conflitto nucleare devastante. Da una parte, il presidente americano mette in quarantena l’isola, dall’altra il leader sovietico Krusciov sembra intenzionato a non ritornare sui suoi passi. In questa situazione di stallo, interviene con tutta la sua forza morale e spirituale Giovanni XXIII. Anzi, è lo stesso Kennedy a chiedere al Beato Roncalli di fare da ponte con il Cremlino, come ricorda lo storico Agostino Giovagnoli:

    “Il presidente americano Kennedy riteneva che un appello del Papa avrebbe potuto sbloccare la situazione. Naturalmente, Giovanni XXIII fu molto toccato da questa richiesta: sentì la responsabilità di agire ed agì attraverso un messaggio, un invito pubblico alla pace. Successivamente, la crisi si risolse felicemente”.

    Un messaggio che il Papa rivolge con parole accorate dai microfoni della nostra emittente. Un appello vibrante che tocca le coscienze di milioni di persone, senza distinzione di credo religioso:

    “Pace! Pace! Noi rinnoviamo oggi questa solenne implorazione. Noi supplichiamo tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace. Eviteranno così al mondo gli orrori di una guerra, di cui non si può prevedere quali saranno le terribili conseguenze”.

    Colpisce inoltre che la crisi di Cuba esploda proprio nei giorni in cui il mondo guarda con rinnovata speranza al futuro grazie all’inizio del Concilio Vaticano II, voluto con forza proprio da Giovanni XXIII. Ancora il prof. Giovagnoli:

    “Nel cuore e anche nel magistero di Giovanni XXIII, il Concilio e la pace erano due temi strettamente uniti. Se ricordiamo il famosissimo 'Discorso della luna', pronunciato la sera dell’11 ottobre 1962, c’è il senso emozionato di Giovanni XXIII davanti a un avvenimento che gli pareva talmente grande, per la sua portata mondiale, da creare una novità anche sul piano dei rapporti tra tutti gli esseri umani e, dunque, anche sul piano della pace”.

    L’esperienza drammatica della crisi di Cuba convince ancor più Giovanni XXIII dell’urgenza di un rinnovato impegno per la pace di tutte le persone di buona volontà. Da questa consapevolezza, nasce - nell’aprile del 1963 - l’Enciclica Pacem in Terris, quasi un testamento spirituale di Angelo Roncalli, che morirà dopo solo due mesi:

    “La Pacem in Terris è uno straordinario documento, frutto anche di un lavoro piuttosto complesso. Il Papa stesso intervenne, personalmente, nella redazione, proprio perché si trattava di qualcosa di nuovo, che era difficile esprimere e che invece il Papa voleva fosse chiaro a tutti”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Malala fa scuola: in prima pagina, l’iniziativa di intitolare un istituto della valle dello Swat alla quattordicenne studentessa pakistana, gravemente ferita dai talebani perché da lei apertamente criticati.

    L’Onu pronta a inviare i caschi blu in Siria.

    Storia di una donna che ha imparato a pregare: in cultura, Giulia Galeotti recensisce il nuovo romanzo di Mariapia Veladiano “Il tempo è un dio breve”.

    L’abbraccio di Bernardo: Luca Pellegrini su odio, amore e speranza nel film “Io e te” di Bernardo Bertolucci in uscita nelle sale italiane.

    Posticipata la missione della delegazione del Sinodo in Siria: l’annuncio del cardinale segretario di Stato alla luce della “gravità della situazione”.

    Le relazioni dei circoli minori.

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    Oggi in Primo Piano



    Usa: Obama prevale su Romney nell’ultimo dibattito televisivo

    ◊   Ultimo confronto televisivo tra il presidente Obama e il candidato repubblicano Romney. Un duello incentrato sulla politica estera americana e ancora sui temi economici e, secondo gli osservatori, vinto dal capo della Casa Bianca su Romney, apparso indeciso e spesso troppo d’accordo con il presidente uscente. Da New York, Elena Molinari:

    Per Mitt Romney è stata l’ultima opportunità di mostrarsi moderato e presidenziale. Per Barack Obama l’ultima occasione di mettere in dubbio la competenza del rivale. Entrambi i candidati sono partiti con accuse vicendevoli. Obama sarebbe troppo debole con Siria ed Iran, Romney troppo ingenuo e belligerante. La frase del presidente, “governatore, non si usano più cavalli e baionette”, è già la più gettonata sul web. Ma alla fine in politica estera Romney, forse per paura di mostrarsi troppo ideologico, si è trovato a dar ragione ad Obama una mezza dozzina di volte. Dove i due hanno fatto scintille è stata l’economia, che sono riusciti ad infilare nel confronto. I sondaggi immediati danno la vittoria al presidente, mentre Romney è emerso non del tutto sicuro di sè. Il repubblicano sta però cavalcando un’ondata di sondaggi positivi, che non si infrangerà subito. Le prossime due settimane saranno dunque certamente una lotta all’ultimo spot.

    Sull’ultimo confronto televisivo tra Obama e Romney, prima del voto del 6 novembre, ascoltiamo il commento di Paolo Mastrolilli, corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano La Stampa, al microfono di Giancarlo La Vella:

    R. – Il problema è capire quale impatto questo dibattito avrà nel modificare la traiettoria della campagna presidenziale, che dopo il primo dibattito a Denver aveva preso una direzione favorevole al candidato repubblicano Romney. Certamente sulla politica estera Obama ha dimostrato di avere più dimestichezza del suo avversario, che in molti casi ha dato quasi l’impressione di voler dimostrare che era d’accordo con il presidente. Questo, però, potrebbe far parte della sua strategia, perché l’obiettivo di Romney fondamentalmente era dimostrare che potrebbe salire alla Casa Bianca, senza rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale e, nello stesso tempo, marcare la differenza rispetto all’amministrazione precedente repubblicana, cioè quella Bush, che molti americani vedono come un’amministrazione che ha fallito dal punto di vista della politica estera.

    D. – Questa mancanza di contrasti sui temi esteri vuol dire che in fondo la politica americana nei confronti del resto del mondo sarà sempre uniforme rispetto ai temi di politica interni?

    R. – Sì, la verità è che, al di là di alcune differenze di forma e di alcune polemiche, come quella sul modo in cui è stata gestita la recente crisi in Libia, non ci sono delle grandi differenze sui temi fondamentali: l’appoggio ad Israele o il contrastare l’Iran nel suo tentativo di ottenere armi di distruzione di massa; anche la strategia in Siria, sostanzialmente, è condivisa. Ma la questione fondamentale di queste elezioni resta l’economia, resta la politica interna, ed entrambi i candidati, ma in particolare Romney, hanno sempre cercato durante questo dibattito di riportare l’attenzione sulle questioni domestiche, per dire che in sostanza gli Usa restano una potenza indispensabile e restano la nazione che deve avere la leadership mondiale, per garantire la pace e naturalmente la sicurezza degli americani. Tutto questo non si può fare. se non si ha alle spalle un Paese forte, un’economia solida, che consenta poi anche di investire nelle relazioni internazionali.

    D. – In quest’ultimo dibattito preelettorale uno dei temi che è mancato è stato il rapporto con l’Europa. Si tratta, secondo te, di una sorta di monito indiretto al Vecchio Continente...

    R. – Il rapporto con l’Europa, da una parte, viene dato per scontato: l’Europa viene considerata l’alleato più vicino agli Stati Uniti ed è anche naturalmente una fonte di scambi commerciali fondamentale. Quindi, insomma, questa relazione è solida e non è in discussione. Dall’altra parte, però, c’è un preciso avvertimento, perché si è parlato molto, ad esempio, della Cina, dell’attenzione da parte degli Stati Uniti nei confronti di tutto l’Estremo Oriente e naturalmente del Medio Oriente. C’è stato, effettivamente, negli ultimi anni un cambiamento di focus da parte degli Stati Uniti, perché dal punto di vista economico naturalmente gli scambi con l’Asia sono diventati molto importanti, e perché dal punto di vista della sicurezza, questi Paesi presentano una sfida nuova per gli Stati Uniti, per quanto riguarda il loro ruolo di super potenza mondiale. Naturalmente è una cosa, questa, su cui l’Europa deve riflettere, pur restando fermo il buon rapporto con gli Stati Uniti, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico.

    D. – I sondaggisti assegnano ad Obama anche quest’ultimo faccia a faccia, come quello precedente. A questo punto si può parlare di un Obama riconfermato alla Casa Bianca o in questi ultimi giorni, prima del voto, potrebbe cambiare qualcosa?

    R. – In realtà, i sondaggi, a livello nazionale danno praticamente, chi più chi meno, i due candidati quasi alla pari. E la questione fondamentale adesso è vedere che cosa succede negli Stati dove i candidati devono conquistare i voti elettorali necessari ad arrivare alla maggioranza di 270 voti elettorali e quindi di riconfermarsi alla Casa Bianca. Obama resta in vantaggio, secondo i sondaggi, in uno Stato chiave molto importante: l’Ohio. Nessun repubblicano è entrato alla Casa Bianca senza vincere in questo Stato. E se Obama effettivamente riuscisse a conservarlo e a conservare anche altri Stati in bilico, importanti per lui, come l’Iowa e il Wisconsin, riuscirebbe sicuramente a raggiungere quota 270. Romney sta recuperando, invece, in altri Stati importanti, come la Florida, la Virginia, il North Carolina, che sembrano essere favorevoli alla sua politica. Quindi, adesso diventa un po’ una partita a scacchi fra questi Stati. E’ necessario allora capire chi riesca a prevalere negli Stati che hanno più voti elettorali. L’Ohio, ripeto, diventa fondamentale, perché, senza vincere in quello Stato, difficilmente Romney potrà andare alla Casa Bianca; se Obama perdesse invece in Ohio, la strada per i repubblicani sarebbe più favorevole.

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    Emiro del Qatar a Gaza: prima visita di un leader arabo "nell'era Hamas"

    ◊   L'Emiro del Qatar, sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, è giunto oggi nella Striscia di Gaza per una visita di alcune ore durante la quale porrà la prima pietra per un nuovo quartiere per mille famiglie palestinesi. La leadership di Hamas ha chiesto alla popolazione di riversarsi in massa nelle strade e nello stadio di Gaza per ascoltare il discorso di al-Thani. Si tratta del primo capo di Stato arabo in visita nella Striscia da quando gli islamici hanno conquistato il pieno controllo dell'enclave, nel 2007. Del ruolo del Qatar a Gaza, Fausta Speranza ha parlato con il prof. Arduino Paniccia, docente di studi strategici all’Università di Trieste:

    R. – La strategia è la contrapposizione alla strategia siriana del dittatore Assad: cioè si vuole togliere pezzi di alleanza, tra cui sicuramente quella di Hamas al regime siriano che cerca di allargare il conflitto in tutta l’area. A questo punto, l’emiro Bin Khalif al Thani si presenta ad Hamas come il benefattore e anche come "ambasciatore degli interessi americani" nell’area, portando oltre 250 milioni di dollari di aiuti – che sono soltanto la prima tranche – per permettere a Hamas di sviluppare una nuova politica che la veda meno isolata, sia nella lotta contro l’Autorità palestinese, sia contro le forze israeliane. Si vuole comprendere sempre più Hamas in questa nuova strategia di area che vede in prima linea proprio il Qatar, in rappresentanza anche degli interessi sauditi, americani e – sullo sfondo – perfino turchi.

    D. – Chiariamo meglio, in questo contesto, il tentativo di Assad?

    R. – Il regime di Assad persegue, come risposta all’attacco da più parti anche dal fronte arabo sunnita, il tentativo di destabilizzare le aree vicine. Quindi: finanziare e armare i curdi in Turchia, destabilizzare di nuovo l’area libanese, e quindi la parte mediterranea e, fino a poco tempo fa – un anno e mezzo fa, circa – tentare di alimentare il conflitto tra Hamas e l’Autorità palestinese onde tenere sotto scacco anche l’area di Gaza e, più in generale, la vicenda della Palestina. Questa strategia è stata abbastanza evidente e gli americani hanno, naturalmente, cercato di portare in prima linea non loro stessi – sapendo che questo avrebbe portato moltissimi problemi – ma il Qatar, il Paese in questo momento più esposto della parte del Golfo e degli Emirati, che rappresenta interessi multipli, compreso il fatto di essere “all’avanguardia” del nuovo fronte sunnita e della rappresentanza degli stessi Fratelli musulmani e, in piccola parte, anche delle componenti salafite.

    D. – Dunque: ha parlato di strategia, di interessi, di Fratelli musulmani. Resta da ricordare l’obiettivo finale sullo sfondo: isolare l’Iran…

    R. – Sicuramente. L’Iran ha, ad un certo momento, rappresentato una linea di demarcazione, quella che gli americani chiamavano la frontiera avanzata: la frontiera avanzata sciita, che passava dal Golfo Persico fino al Mediterraneo, appunto in una linea che univa l’Iran, gli interessi emergenti sempre più forti sciiti in Iraq, attraverso la Siria e Assad fino al Libano e alla Palestina, con Hezbollah e Hamas. L’obiettivo del Qatar è quello di recidere il più possibile le alleanze e gli sforzi per tenere questa linea rossa strategica iraniana e, quindi, anche attraverso la caduta del regime di Assad, rendere sempre più isolato l’Iran e le sue ambizioni di potenza regionale, possibilmente nucleare – almeno negli obiettivi degli ayatollah – nel Golfo.

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    Traffico di esseri umani in Sinai: dalle ong all'Onu i nomi dei basisti in Sudan

    ◊   La vita umana di chi è povero e perseguitato non vale nulla. E’ su questo assurdo criterio che si basa il traffico di schiavi e organi umani che si svolge nel Sinai, con radici in Eritrea e importanti riferimenti in Sudan. Da oggi, un nuovo importante tassello si aggiunge nella lotta che diverse Ong conducono da anni a sostegno di migliaia di giovani rapiti e uccisi sotto gli occhi indifferenti del mondo. Ne parla Roberto Malini, presidente del "Gruppo EveryOne", al microfono di Gabriella Ceraso:

    R. – Noi abbiamo avuto, grazie a dei difensori dei diritti umani locali, una serie di nomi – undici nomi – di basisti, molti dei quali purtroppo di nazionalità eritrea, che sono nel campo profughi di Shegherab in Sudan, dove si ritrovano migliaia di eritrei. Questi basisti conoscono bene le tradizioni e le abitudini degli eritrei e lavorano proprio all’interno di locali nel campo: partecipano alle operazioni di convincimento, rivolte ai ragazzi eritrei e di altre nazionalità, che desiderano spostarsi con il sogno di raggiungere Israele. Oppure, addirittura, partecipano ad azioni di rapimento. Abbiamo fatto i loro nomi, li abbiamo trasmessi al governo del Sudan, alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa, alle grandi organizzazioni che hanno la possibilità di intervenire. Quanto meno speriamo che la popolazione del campo venga a conoscenza dei nomi di queste persone e che queste possano così sentire una certa pressione esercitata sul loro lavoro criminale.

    D. – Non è la prima volta che avete o che fornite liste, eppure nessuno si muove. L’immobilismo politico è ancora il problema fondamentale?

    R. – Sicuramente. Abbiamo ormai i nomi sostanzialmente di tutti i trafficanti del Sinai e abbiamo avuto qualche intervento, ma assolutamente insoddisfacente rispetto alle aspettative. Però, la grossa responsabilità di quello che accade è in Eritrea. Abbiamo sentito testimonianze di figure legate al traffico che sono poi nomi grossissimi delle forze armate eritree. Questo traffico, che parte dagli “intoccabili” eritrei, si muove poi con gli “intoccabili” del Sudan, dove c’è corruzione ovunque, e prosegue in Egitto. Ecco, il vero problema è la corruzione a tutti i livelli: è questo che ci spaventa molto. Ed è questa, poi, la grande battaglia umanitaria da combattere. Il miglioramento è che ora il mondo lo sa e che esiste una rete reale, che ha attivisti anche sul posto, e che è in grado veramente di risolvere alcuni casi e di fornire le nuove dinamiche di questo traffico. E questo è molto importante. Nonostante tutto ciò, i numeri sono ancora altissimi: i milioni di dollari che girano in questo enorme traffico sono veramente tanti, e quindi c’è tantissimo da fare e a livello numerico i risultati non sono assolutamente soddisfacenti. Diciamo che forse il traffico di esseri umani si è ridotto di un 10 per cento, e quindi la speranza è questa: che da questi primi risultati virtuosi si possa arrivare ad una presa di posizione più coraggiosa da parte delle istituzioni e quindi ad una vera azione globale contro il traffico. In quel caso, pensiamo che in questo momento - poiché sappiamo tutti come sono i trafficanti, come si svolge il traffico - perché non ci sono più misteri, sarebbe abbastanza fattibile l’idea di smantellarlo.

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    Dubai. Forum mondiale dell’energia: la politica contro gli interessi delle lobbies

    ◊   Il futuro energetico del Pianeta ad un bivio. Se ne parla da ieri a Dubai al Forum mondiale dell’energia. Da un lato i Paesi occidentali propensi alla riconversione sostenibile delle politiche energetiche, a patto che i costi siano ripartiti tra tutti gli Stati del mondo, da altro lato i Paesi in via di sviluppo che insieme ai Paesi arabi addossano alle nazioni industrializzate le colpe del maggior inquinamento, di cui non vogliono pagare i costi. Su tutto gli interessi delle lobbies dell’energia. Roberta Gisotti ha intervistato a Dubai il dott. Paolo Lembo, coordinatore delle Nazioni Unite per i Paesi del Golfo:

    R. – Questo Forum qui a Dubai, tra le sfide ha anche quella di promuovere un consenso di massima, da queste posizioni molto disperate, tra il Nord, il Sud, l’Est e l’Ovest. Uno dei motivi per cui questo Forum si tiene a Dubai, e non a New York, come è sempre stato dall’inizio del World Energy Forum, è che il governo degli Emirati ha assunto un ruolo di leadership importante, per promuovere consenso sulla necessità di affrontare politiche e investimenti, che rendano le nostre energie più pulite.

    D. – Questo Forum è stato sottotitolato “Forum dei leader mondiali”, forse perché a questo punto si vuole una presa d’atto di responsabilità da parte di chi poi, infine, deve prendere delle decisioni...

    R. – Certo, questo simbolicamente è molto importante, perché loro dicono che di uomini politici ce ne sono un centinaio, tra primi ministri, capi di Stato e re. Quindi, da questo punto di vista il Forum è stato un grande successo e devono assumersi la responsabilità di guidare questo processo, che in sostanza vuol dire anche avere la qualità di fare scelte che non sono sempre popolari e vuol dire poi affrontare queste grandi compagnie che, ovviamente, ritengono di perdere il profitto se devono riconvertirsi. Qui ci sono grandissimi interessi economici in gioco, ci sono grandissime lobby, che proteggono questi interessi economici. Il Forum, dunque, intende identificare una viabilità pratica - perché non viviamo in un mondo di sogni - che riesca a conciliare certi interessi esistenti in certi grossi potentati economici internazionali e la necessità di non continuare a procrastinare scelte politiche, che devono essere assunte da presidenti e primi ministri per avviare questo processo.

    D. - Quindi, una sorta di rivendicazione del primato della politica, perché l’economia sia a servizio dei popoli, sia a servizio dell’umanità...

    R. – Certo, direi anche un primato della moralità. Continuare a cedere a tentazioni lobbistiche porterebbe poi dei danni incalcolabili al futuro dell’umanità. C’è una nuova coscienza che sia possibile avviare questo nuovo processo di riconversione dell’energia ed anche di fare in modo di non appesantire troppo il budget dei Paesi in via di sviluppo, che devono affrontare anche grossi problemi di natura economica.

    D. – Scendendo appunto nelle scelte pragmatiche, al Forum si parla di petrolio, di gas, di combustibili fossili, di energie rinnovabili e anche di nuovo nucleare. Sarà possibile dal dibattito prevedere quale sarà la fonte di energia prevalente?

    R. – Non credo che ci sia una risposta univoca. La mia opinione personale è che inevitabilmente andiamo verso una riduzione profonda delle energie fossili. E’ un destino che non riusciremo ad evadere. Ed io dico: per fortuna. Come funzionario dell’Onu, il mio obiettivo è cercare di fare in modo che questo processo sia fatto in modo che non sia troppo violento e che non implichi terremoti politici, che poi renderebbero il processo di sviluppo molto più complicato. Ci sono molte compagnie petrolifere, che stanno assumendo una leadership importante. Convertirsi è come un modo di riguadagnare la loro futura posizione nell’avvenire.

    D. – Ci sarà un documento finale, un manifesto?

    R. – Sì, ci sarà una dichiarazione finale, che riassumerà i principi dell’accordo informale e anche una road map, un sistema di obiettivi, che si intende raggiungere nei prossimi mesi. Un meccanismo di controllo sarà quello di vedere, se si fallisce, cosa impedisce il raggiungimento di questi obiettivi e quali meccanismi di risposta gli organismi internazionali, primi tra i quali l’Onu, metteranno in piedi per fare un monitoraggio onesto, informare la stampa, informare i cittadini di quello che si è ottenuto, dove si è fallito, e quali sono i rischi che correremo, noi e le future generazioni, se non riusciremo ad onorare le promesse che ho sentito oggi nella sala delle conferenze qui a Dubai.

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    Sisma Abruzzo, condanna Commissione Grandi Rischi. Sconcerto della comunità scientifica

    ◊   “La giustizia ha comunque i suoi tempi e potrà manifestarsi al meglio”. Così il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, all’indomani della sentenza del tribunale dell’Aquila, che ieri ha condannato a sei anni di reclusione sette membri della Commissione Grandi Rischi per aver sottovaluto la possibilità, nel 2009, di un sisma in Abruzzo. Oggi, l’Ufficio di presidenza della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi ha rassegnato le dimissioni al presidente del Consiglio dei ministri. La sentenza, che ha ricevuto vasta eco in tutto il mondo e critiche in particolare dalla comunità scientifica statunitense, introduce un preoccupante precedente. E’ quanto sottolinea, al microfono di Amedeo Lomonaco, il prof. Giulio Zuccaro, docente di Ingegneria strutturale all’Università Federico II di Napoli:

    R. – Sicuramente, questa sentenza lascerà un segno e un precedente gravissimo che mette in discussione i giusti rapporti tra la comunità scientifica e la società che, a parer mio, non può fare a meno del contributo della scienza. La scienza, in genere e specie in questi settori, ha ampi margini di incertezza. Ci sono, quindi, valutazioni che vanno sempre affrontate con una chiara interpretazione probabilistica.

    D. – Questa sentenza pone anche un problema: quello di saper comunicare di fronte a rischi e catastrofi ambientali…

    R. – Io trovo che la comunicazione, la stampa, i media abbiano una responsabilità perché la ricerca, che spesso si fa da parte della stampa e dei media, è quella del sensazionalismo. Si pubblica l’articolo che in qualche modo faccia effetto "choc", che faccia vendere le copie o che faccia discutere al di là di quello che nello specifico gli scienziati o gli esperti dicono. Quindi, un’interpretazione forzata di quello che si dice francamente credo sia un fattore importantissimo, che mette in evidenza delle responsabilità che oggi, al riguardo, non mi pare emergano e che danno poi vita a delle conseguenze devastanti, come quelle di questa sentenza. E a parer mio, c’è anche una responsabilità nel come le informazioni sono state trasferite alla società civile.

    D. – Quindi, l’"optimum" sarebbe creare una sorta di rete virtuosa tra scienziati e comunicatori che sappiano evitare allarmismi, in modo che non si generi il panico in caso di notizie non rassicuranti…

    R. – Esattamente. Il ruolo dell’informazione - specie in questo settore - è delicatissimo e importantissimo e ha un alto valore etico. Fare allarmismo, fare sensazionalismo è una cosa che può essere devastante. Mi consta anche per esperienza personale: quante interviste concesse a giornalisti vengono poi amplificate, vengono leggermente interpretate con più drammaticità, vengono forzate? Io ho appena dato le mie dimissioni dalla Commissione Grandi Rischi perché non ci sto a questo gioco al massacro, e come me molti altri colleghi. La conclusione qual è? Quella che un contributo di esperti o di scienziati, a tutti i livelli, venga meno. E’ ovvio che non c’è più la disponibilità di poter dare con serenità un contributo, quando si ‘viaggia’ con queste premesse.

    D. – Dunque, evitare allarmismi ma come, invece, comunicare il rischio quando c’è questa concreta possibilità?

    R. – Io ho avuto contatti con delle agenzie scientifiche di giornalismo. Chiedono l’intervista, fanno rileggere il testo, aspettano la conferma sui termini, la conferma sul giusto equilibrio su quello che si vuole dire: questo è il modo corretto di fare giornalismo, per dare informazione corretta. Non quella di carpire una frase, fraintenderla volutamente, forzarla. Questo provoca scompiglio. Sicuramente, c’è bisogno di un’informazione corretta, ma questo non può essere solo sulle spalle della capacità di comunicare dell’esperto o dello scienziato di turno. Va, ovviamente, fatta crescere la coscienza di colui il quale poi trasmette, a livello di stampa o a livello di media, questo tipo di informazione. Ed è un compito importantissimo, delicatissimo e di grande valore sociale. Anche etico.

    D. – Poi, per completare questo percorso di valore sociale ed etico, bisogna anche fare in modo che la popolazione si educata alla gestione del rischio…

    R. – Tutti i cittadini d’Italia vivono per oltre il 75% in case che non sono progettate per resistere ad eventi sismici e vivono in zone al 75-80% a rischio sismico. E lo dice la legge, perché sono tutte zone a rischio sismico, dove c’è un’accelerazione attesa in un certo numero di anni. Che non sono forse tutti informati di questo? E cosa si fa?

    D. – Un punto centrale, cruciale è che gli scienziati esprimono pareri, valutazioni in buona fede…

    R. - …e gratuitamente, perché questo va detto. Perché anche questa è un’informazione che sta passando e che è errata. Ieri, ho sentito una dichiarazione, in televisione, di un parente di una vittima che ovviamente ha tutta la mia solidarietà ma che non può pensare che la colpa sia dell’esperto di turno. Sia chiaro che tutto quello che noi del settore scientifico forniamo, lo forniamo sempre gratuitamente, per un senso civico, etico, che ci sollecita a dare un giudizio su certi fattori. Io non voglio entrare nel merito della sentenza. Diciamo anche che mancano delle leggi. Diciamo anche che i giudici si sono trovati in un vuoto legislativo. Ognuno deve fare la sua parte: la politica deve legiferare. In altri Paesi, come negli Stati Uniti, quando si danno delle indicazioni scientifiche da parte di esperti, scienziati, tecnici in emergenza, non si è soggetti a procedimenti di questo tipo, perché se ne capisce la delicatezza. Noi abbiamo un gap legislativo e i politici devono fare la loro parte. Abbiamo un gap d’informazione: la stampa non deve cercare sensazionalismi, deve dare l’informazione corretta. E poi la scienza farà la sua parte.

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    7 itinerari per Roma nell'Anno della Fede, presentati dall'Opera Romana Pellegrinaggi

    ◊   Roma, luogo di pellegrinaggio per l’Anno della Fede appena aperto da Benedetto XVI. Sono sette i percorsi proposti dall’Opera Romana Pellegrinaggi che ieri ha presentato l’iniziativa insieme al Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione. Ce ne parla Benedetta Capelli:

    La Fede pregata, la fede celebrata, la fede vissuta e professata. Si articolano su queste 4 tappe, i 7 itinerari a piedi che l’Opera Romana Pellegrinaggi ha messo a punto per rendere l’Anno della Fede “un’esperienza profonda”: così l’ha definita padre Cesare Atuire, amministratore delegato dell’organizzazione. A guidare i cammini sarà il Credo, preghiera nella quale la Chiesa ha raccolto il nucleo delle verità fondamentali della fede, mentre la Basilica di San Pietro sarà la tappa finale di tutti e 7 gli itinerari. I percorsi coinvolgono essenzialmente il centro della città, da San Giovanni in Laterano a Santa Maria Maggiore, dalla zona di Piazza Navona a quella del Pantheon e di Piazza Venezia, da Trastevere a San Pietro. Per i pellegrini è stato pensato un kit apposito in 4 lingue – francese, spagnolo, portoghese, inglese – e che prevede anche la “Credenziale del pellegrino” una sorta di carta sulla quale mettere un timbro e un adesivo dopo il passaggio in ognuna delle 4 tappe. “Cammino, sosta e meta sono le tre componenti essenziali del pellegrinaggio e sono garantite in questi itinerari” ha detto ieri il presidente dell’Orp, mons. Liberio Andreatta. Alla presentazione ha partecipato anche mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione che ha annunciato una serie di altre iniziative per l’Anno della Fede: una mostra a Castel Sant’Angelo, a partire da febbraio, e un grande concerto in piazza San Pietro in programma per il 22 giugno 2013.

    “Sono convinto che sarà un anno che non solo sarà dedicato a ravvivare la nostra fede, ma anche a provocare il movimento di quanti, attraverso la cultura che abbiamo proposto, possano ritrovare quella nostalgia di Dio di cui non possiamo fare a meno”.

    E nel ravvivare la fede le chiese della capitale apriranno le proprie porte. Il vescovo ausiliare per il settore centro di Roma, mons. Matteo Zuppi, ha infatti annunciato che le chiese, spesso chiuse, riscopriranno la loro vocazione all’accoglienza.

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    I 150 anni dell'Unione Apostolica del Clero. Intervista con mons. Botia

    ◊   Formare sacerdoti santi, che possano compiere al meglio la loro missione nella Chiesa. È semplice e formidabile insieme l’obiettivo che da 150 anni persegue l’Unione Apostolica del Clero (Uac). Ieri, a Roma, l’anniversario è stato celebrato nel corso di un’Assemblea internazionale sul tema “L’Uac a servizio della Chiesa oggi”. Mons. Julio Daniel
    Botia, presidente internazionale dell’Unione Apostolica del Clero, ne illustra struttura e impegni, alla luce della nuova evangelizzazione. L’intervista è di padre Joseph Ballong, della redazione Francese Africa della nostra emittente:

    R. - Es una organización muy querida, muy apreciada de la Iglesia…
    E’ un’organizzazione molto bella e molto apprezzata dalla Chiesa, che desidera contribuire alla santificazione e al buon ministero di tutti i ministri ordinati. E’ presente in molte parti del mondo, in molte nazioni, ed è organizzata in piccoli gruppi, in piccole fraternità nelle diocesi, e ci consente di aiutare i fratelli sacerdoti.

    D. - Durante questo Sinodo, molti Padri sinodali hanno parlato dei sacerdoti e dei consacrati come di persone indispensabili per la nuova evangelizzazione. In questo movimento di rinnovamento spirituale ed ecclesiale – partendo proprio dalla nuova evangelizzazione – che ruolo pensa di giocare l’Unione Apostolica del Clero?

    R. - Nosotros pensamos que es muy importante la Unión Apostólica del Clero…
    Noi retiniamo che l’Unione Apostolica del Clero sia molto importante, proprio perché aiuta specificatamente i suoi membri –sacerdoti, vescovi, diaconi – a rinnovarsi, ad attuare una conversione pastorale. Questo rinnovamento che stiamo mettendo in atto, ci permetterà di essere pastori migliori, di stabilire una maggiore e più profonda unione con i nostra fratelli laici e quindi di lavorare meglio e più fruttuosamente nelle parrocchie e a livello diocesano. Inoltre – proprio perché specificatamente indirizzati al clero diocesano – cerchiamo di rafforzare il presbiterio diocesano, vivendo in famiglie diocesane e cercando di realizzare nuovi servizi che ci permettano quindi di portare il nostro contributo. E’ la nuova evangelizzazione stessa che richiede nuovi attitudini e cuori nuovi, che richiede azioni nuove e un processo nuovo partendo dalle radici, un rinnovamento che sia forte e profondo nel clero. L’Unione Apostolica del Clero ha esperienze profonde in questo contesto e si propone quindi, mettendole a disposizione, di portare il proprio aiuto in questo campo. E’ quindi molto importante che sia presente in tutte le diocesi.

    D. - In occasione dei 150 anni dell’Unione Apostolica del Clero, avete tenuto un’Assemblea internazionale. Quali saranno i temi principali di questa Assemblea in rapporto alle sfide del mondo contemporaneo?

    R. - Nosotros tenemos dos reflexiones: una sobre la fraternidad sacerdotal…
    Noi affronteremo specificatamente due riflessioni. La prima relativa alla fraternità sacerdotale: abbiamo un progetto che vogliamo sviluppare dedicato al rinnovamento spirituale e integrale di tutto il clero. Una seconda riflessione viene, invece, dalla Congregazione del Clero e sarà dedicata agli orientamenti che la Chiesa universale ci indica per la nostra vita e per lo svolgimento del nostro servizio, laddove siamo presenti.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Congo: richiesta di riscatto per i tre sacerdoti rapiti. I vescovi condannano il crimine

    ◊   “Abbiamo ricevuto una telefonata di una persona che afferma di appartenere al gruppo che ha rapito i tre religiosi, con una richiesta di riscatto” dice all’agenzia Fides mons. Melchisedech Sikuli Paluku, vescovo di Butembo-Beni (nell’est della Repubblica Democratica del Congo), nella cui diocesi sono stati rapiti 3 padri assunzionisti (Agostiniani dell’Assunzione) di nazionalità congolese. Il vescovo si dimostra però prudente sull’attendibilità della richiesta: “Siamo ancora in attesa di trovare un canale affidabile per interloquire con i sequestratori”. La Conferenza episcopale del Congo (Cenco) ha emesso un comunicato di condanna del rapimento. “Spero che i sequestratori si rendano conto della dimensione del loro atto e che ne tengano conto” continua mons. Sikuli Paluku. Il messaggio, firmato da mons. Nicolas Djomo, vescovo di Tsumbe e Presidente della Cenco, oltre a condannare con fermezza il rapimento dei tre sacerdoti religiosi (che si ricorda erano stati nominati da poco nella parrocchia di Mbau), “fa appello ai sequestratori che hanno commesso questo gesto inammissibile, affinché salvaguardino l’integrità fisica e morale dei tre sacerdoti e li liberino senza condizioni per permettere loro di continuare il servizio pastorale e l’assistenza alla popolazione di Mbau”. Riguardo alla notizia secondo cui a rapire i tre religiosi sarebbero stati alcuni guerriglieri di origine ugandese che operano nella zona, mons. Sikuli Paluku risponde: “Nella regione ci sono alcuni gruppi che sono nati in Uganda ma che si trovano in Congo da anni, e sono ormai diventati congolesi anche perché i loro membri si sono sposati con donne congolesi. Questi gruppi vivono di banditismo oppure si mettono al servizio di altri. Non penso però che si tratti di loro. Ci sono infatti altri gruppi autoctoni e credo che occorra guardare in quella direzione” conclude il vescovo. (R.P.)

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    Siria: due fedeli rapiti e uccisi. Il patriarca Laham: “I cristiani sono strumentalizzati nel conflitto”

    ◊   Due fedeli cristiani sono stati rapiti e uccisi ieri a Damasco, mentre un’autobomba è esplosa ieri sera nei pressi della chiesa di Sant’Abramo, nel quartiere di Jaramana, nel Nord di Damasco. I due fedeli uccisi sono il fratello e il cugino del giovane sacerdote padre Salami, parroco greco-cattolico di Damasco. Come riferito all'agenzia Fides, ieri i due stavano viaggiando da Qusair a Damasco. Un gruppo armato li ha fermati e sequestrati, poi ha chiesto un riscatto di circa 30mila dollari alla loro famiglia. Dopo due ore, i sequestratori hanno comunicato di averli uccisi. Nella tarda serata di ieri il terrore ha sconvolto i cristiani e i drusi residenti nel quartiere di Jaramana, già noto per aver subito circa un mese fa altri attentati dinamitardi. Fonti locali di Fides comunicano che una violenta esplosione è avvenuta nei pressi della chiesa greco-cattolica di Sant’Abramo, danneggiando gli edifici circostanti, ma non è tuttora chiaro se vi siano vittime e feriti. Interpellato dall’agenzia Fides, il Patriarca greco cattolico Gregorio III Laham, in Vaticano per il Sinodo sulla nuova evangelizzazione, spiega: “I cristiani sono usati come oggetti in una sfida al governo. Non c’è persecuzione, non sono uccisi per la loro fede, ma sono vulnerabili e vengono strumentalizzati per raggiungere altri obiettivi”. Il Patriarca ricorda con preoccupazione che “anche il fratello del rettore del nostro seminario maggiore in Libano è stato rapito dal 15 luglio e non se ne hanno più notizie. Questi episodi creano grande angoscia fra i fedeli”. (R.P.)

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    Lourdes: riaperta la Grotta di Massabielle dopo l'inondazione

    ◊   Microfono alla mano come un report davanti alla grotta di Massabielle è il vescovo di Lourdes in persona, mons. Nicolas Brouwet, ad annunciare che la Grotta è finalmente priva di acqua e che “possiamo celebrare di nuovo la messa”. La Grotta era stata completamente inondata dal torrente di acqua in seguito all’esondazione del fiume Gave che attraversa la cittadina francese. Il livello dell’acqua arrivava fino all’altare: “Ora è finita - annuncia il vescovo - ed è una gioia per tutti noi”. In tanti stanno in queste ore lavorando con “generosità” perché il santuario possa tornare al più presto alla normalità. Dalle immagini riprese personalmente dal vescovo, si capisce che molto resta da fare. La sacrestia della Grotta, ad esempio, è stata fortemente danneggiata dalla violenza delle acque. Ma sono “le piscine” la parte del santuario che desta maggiore preoccupazione: sono infatti ricoperte “da alberi, arbusti e pietre. Anche le pompe sono state danneggiate per cui non è attualmente possibile rinnovare l’acqua al loro interno. Rimarranno pertanto chiuse ancora per alcuni giorni”. Il vescovo ringrazia il Papa per la sua preghiera per Lourdes di domenica scorsa e quanti in questi giorni hanno “testimoniato la loro solidarietà con la preghiera e l’amicizia”. (R.P.)

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    Mali: sì della popolazione all’intervento militare internazionale per liberare il nord

    ◊   “La maggioranza della popolazione è favorevole alla prospettata azione militare internazionale per riconquistare il nord del Mali” dice all’agenzia Fides don Edmond Dembele, segretario della Conferenza episcopale del Mali, da Bamako. Dopo la riunione internazionale del 19 ottobre si profila infatti un intervento militare dei Paesi della Cedeao per aiutare l’esercito maliano a riconquistare il nord del Paese dai gruppi islamisti che da mesi lo controllano. Alla riunione hanno partecipato rappresentanti dell’Onu, dell’Unione Africana, dell’Unione Europea e della Cedeao (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) oltre che del Mali e di Paesi limitrofi come l’Algeria. “Coloro che vivono al nord e subiscono le angherie dei gruppi islamisti sono infastiditi dalle esitazioni del potere che risiede a Bamako ed auspicano un intervento celere per recuperare la loro libertà. Ma anche al sud la popolazione soffre per la crisi del nord. È tutto il Paese che soffre e che vuole una rapida liberazione del settentrione dai gruppi islamisti” dice don Dembele. I militari golpisti che a marzo avevano preso il potere, salvo poi cederlo a istituzioni civili dette di “transizione”, all’inizio si opponevano alla presenza in Mali di soldati stranieri. Ma dopo la riunione del 19 ottobre “all’interno dell’esercito non sono emerse posizioni manifestamente contrarie all’intervento militare internazionale” riferisce don Dembele. “Solo un gruppo di partiti che sostengono i militari golpisti ha raggruppato qualche centinaio di persone per manifestare contro l’intervento militare della Cedeao. La maggior parte della popolazione è però favorevole al ricorso delle armi e all’intervento esterno per mettere fine a questa crisi che dura da troppo tempo” conclude don Dembele. (R.P.)

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    Indonesia. A Poso violenze anticristiane: estremisti incendiano chiesa protestante

    ◊   La città di Poso, nella provincia indonesiana delle Sulawesi centrali, è di nuovo teatro di violenze a sfondo confessionale che hanno come bersaglio la minoranza cristiana protestante. Nella notte fra il 21 e il 22 ottobre un gruppo di assalitori - le cui identità non sono state sinora chiarite - ha dato fuoco a una chiesa pentecostale di Madele; l'immediato intervento dei fedeli ha permesso il rapido spegnimento delle fiamme, scongiurando gravi danni all'edificio. L'attacco anticristiano è confermato anche dal capo della polizia locale, Eko Santoso, secondo cui "il fatto è occorso verso la mezzanotte". L'Indonesia - riporta l'agenzia AsiaNews - è la nazione musulmana più popolosa al mondo, ma nella reggenza di Poso vive una comunità cristiana numerosa; la zona è stata teatro di un conflitto sanguinoso - concluso con l'accordo di pace del 2002 - che ha causato migliaia di morti su entrambi i fronti. Le fiamme alla chiesa pentecostale sono scaturite da un contenitore per le offerte, riempito di benzina e poi incendiato. Il rogo ha interessato anche parte dell'abitazione del pastore Aben, ma l'intervento di pompieri e volontari ha permesso di contenere i danni e di salvare i due edifici. Il leader cristiano ha voluto ringraziare gli abitanti del villaggio, fra cui "alcuni musulmani", che hanno contribuito alle operazioni di soccorso e il cui intervento è stato decisivo per limitare la propagazione del fuoco. Sempre ieri pomeriggio due autobombe sono esplose vicino a postazioni riservate agli agenti di polizia - secondo gli inquirenti bersaglio dell'attacco - ferendo tre persone, di cui due poliziotti in servizio al momento dell'attentato. Un ufficiale spiega che "i terroristi hanno usato un apparecchio sofisticato", che ha permesso di "innescare a distanza l'ordigno" mediante un "dispositivo mobile". Nell'ultimo periodo la città portuale di Poso è teatro di episodi di violenza a sfondo confessionale: fra questi vi sono stati attacchi contro edifici cristiani, tra cui luoghi di culto, e l'omicidio avvenuto in circostanze misteriose di due appartenenti alle forze dell'ordine. I poliziotti stavano indagando su un attentato avvenuto di recente, ai danni di un esponente di primo piano della comunità cristiana. I loro cadaveri sono stati ritrovati a distanza di otto giorni, ai margini di una strada poco distante un centro di addestramento di un gruppo legato al fondamentalismo islamico. Dal 1997 al 2001 l'isola di Sulawesi e le vicine Molucche sono state teatro di un conflitto sanguinoso fra cristiani e musulmani. Migliaia le vittime delle violenze; centinaia le chiese e le moschee distrutte; migliaia le case rase al suolo; quasi mezzo milione i profughi, di cui 25mila nella sola Poso. Il 20 dicembre 2001 è stata sottoscritta una tregua fra i due fronti - nella zona cristiani e musulmani si equivalgono - firmata a Malino, nelle Sulawesi del Sud, attraverso un piano di pace favorito dal governo. Tuttavia, la tregua non ha fermato episodi sporadici di terrore che hanno colpito pure vittime innocenti; fra i vari casi ha sollevato scalpore e indignazione in tutto il mondo la decapitazione di tre ragazzine mentre si recavano a scuola, per mano di estremisti islamici nell'ottobre 2005. (R.P.)

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    Senegal: piano pastorale per rafforzare il dialogo cristiano-islamico

    ◊   Uno strumento per rafforzare il dialogo cristiano-islamico in Senegal. Così il cardinale Théodore Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar, ha presentato sabato ai sacerdoti, religiosi e fedeli della capitale il nuovo piano di azione pastorale quinquennale della Chiesa senegalese (Pap III). Si tratta del terzo piano pastorale nazionale dopo quello per il quinquennio 2001-2006 e quello per il quinquennio 2006-2011, tutti centrati su quattro obiettivi “strategici”: comunione, liturgia, testimonianza e servizio. “Il piano di azione 2013-2017 consoliderà la coabitazione tra cristiani e musulmani in Senegal”, ha detto il cardinale Sarr durante la messa di apertura del nuovo anno pastorale diocesano 2012-2013 e dell’Anno della Fede celebrata sabato nella Cattedrale di Notre Dame des Victoire della capitale. “Questo piano ci apre al mondo: vogliamo essere testimoni di Gesù Cristo e servitori degli uomini nel mondo. Quindi - ha aggiunto l’arcivescovo citato dal quotidiano locale “Le Soleil” - vorrei dire ai nostri fratelli e sorelle in Senegal, ai nostri compatrioti, che vogliamo vivere con loro per coltivare la pace, ma anche la solidarietà, l'attenzione all'altro, in modo che possiamo tutti aiutarci a vicenda, unire le nostre risorse e idee per costruire Senegal di pace e ancora migliore”. Il lancio del nuovo anno pastorale è avvenuto mentre è ancora viva tra i cristiani in Senegal l’indignazione e la costernazione per la profanazione di più di 217 tombe nei due cimiteri cristiani della capitale nella notte tra il 6 e il 7 ottobre. A questo proposito il cardinale Sarr ha esortato la comunità cristiana a “non cedere al panico e alla collera”, ma ad attendere i risultati dell’inchiesta per conoscere gli autori dell’atto vandalico che “non possiamo che condannare”, ha detto il porporato. (L.Z.)

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    Usa: critiche dei vescovi per una sentenza contro il matrimonio tra uomo e donna

    ◊   La normativa federale che tutela solo il matrimonio inteso come unione fra un uomo e una donna, è “discriminatoria e non sostanzialmente collegata a un importante interesse dell’amministrazione pubblica”. Ad affermarlo è una sentenza di una Corte di appello americana che è stata prontamente criticata dai vescovi degli Stati Uniti, i quali ribadiscono che ogni tentativo di ridefinire il matrimonio tradizionale “contraddice i diritti fondamentali” delle persone. I giudici sono intervenuti in merito all’applicazione della “Defense of Marriage Act” (Doma, in sigla), la legge federale promulgata nel 1996 nella quale si afferma che con il termine matrimonio si intende “solamente una unione legale tra un uomo e una donna”. A contestare la Doma, attualmente oggetto di un ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti, era stata un’anziana donna, Edith Windsor, secondo la quale essa è discriminatoria nei confronti delle coppie non sposate in materia di diritti di successione. In una nota pubblicata venerdì e ripresa da “L’Osservatore Romano”, il presidente del Sotto-Comitato per la promozione e la difesa del matrimonio della Conferenza episcopale (Usccb), mons. Salvatore J. Cordileone, parla di una sentenza “ingiusta e deludente”. L’arcivescovo di San Francisco ricorda ancora una volta che il riconoscimento del matrimonio quale unione fra un uomo e una donna “è fondato sulla nostra natura”, come dimostra l’anatomia dei nostri corpi, e che questo riconoscimento “vincola le nostre coscienze e leggi”. La nota sottolinea inoltre che in gioco è la tutela di un diritto fondamentale: quello di ogni bambino ad essere accolto e cresciuto, per quanto possibile, da una madre e un padre in una famiglia stabile”. Mons. Cordileone conclude evidenziando che “il bene pubblico esige che il significato e lo scopo intrinseco del matrimonio sia difeso dalla legge e dalla società”. Attualmente sono sette gli Stati dell’Unione che hanno legalizzato le unioni omosessuali: New York, Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire, Vermont e District of Columbia (in quest’ultimo caso la legge firmata lo scorso febbraio dal governatore attende di essere confermata da un referendum il prossimo novembre). (L.Z.)

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    America Latina. Istruzione: 22 milioni di bambini non vanno a scuola o lasciano gli studi

    ◊   Nonostante ci siano 117 milioni di minori in età scolastica, nei paesi dell’America Latina e Caraibi, milioni di loro ancora non hanno la possibilità di andare a scuola. Oltre 22 milioni di minori e adolescenti infatti non frequentano le scuole o sono ad alto rischio di abbandonare gli studi. Secondo le statistiche più recenti - riferisce l'agenzia Fides - 6 milioni e 500 mila di loro non vanno a scuola e 15 milioni e 600 mila assistono alle lezioni in contesti non adeguati, discriminanti e che li rendono particolarmente vulnerabili. Negli ultimi decenni sono state promosse diverse iniziative per migliorare la qualità e il livello di uguaglianza nell’istruzione, fare fronte alla povertà e alla discriminazione, con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale. Tuttavia ci sono ancora molti ostacoli che causano l’ingresso tardivo di molti bambini nel sistema educativo. Inoltre, a maggior rischio di esclusione o abbandono dell’istruzione scolastica, sono i piccoli e gli adolescenti indigeni, afrodiscendenti, con disabilità o che vivono in zone rurali. Stando alle fonti locali, nelle zone più remote di alcuni Paesi, la frequenza della scuola secondaria raggiunge al massimo il 50%. (R.P.)

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    Uruguay: cresce il supporto popolare alla Commissione “Per la Vita e per l’Acqua” di Tacuarembó

    ◊   Per impedire la realizzazione dei progetti megaminerari a Tacuarembó, la locale Commissione "Per la Vita e per l'Acqua" ha raccolto 1.500 firme durante la Fiera "Expo Ganadera" che si svolge nella capitale del dipartimento di Tacuarembó. La nota inviata dalla Conferenza episcopale dell'Uruguay all'agenzia Fides informa che la settimana scorsa era partita la campagna per raccogliere le firme al fine di evitare lo sfruttamento delle miniere a cielo aperto: "E' un diritto dei cittadini pronunciarsi su questo problema, chiedere ai legislatori di proteggere l'ambiente, e questo è ciò che stiamo promuovendo" ha spiegato un membro della Commissione. Il vescovo della diocesi di Tacuarembó, mons. Julio Bonino Bonino, ha manifestato il suo appoggio all'iniziativa, al fine di dare ai cittadini la possibilità di esprimersi sulla proposta di "trasformare l'Uruguay in un Paese minerario". Il vescovo ha osservato che nella Commissione non ci sono tecnici né politici, e i suoi membri sono persone che vogliono preservare l'immenso patrimonio naturale locale perché l’Uruguay diventi un paese “produttore di alimenti”. Mons. Bonino, continua la nota, ricorda che il Celam (Consiglio Episcopale Latino Americano) ha esortato i vescovi a chiedere allo Stato “di realizzare processi di consultazione per facilitare la partecipazione delle persone interessate da progetti minerari nelle decisioni circa la possibile attuazione di tali progetti”. “Spinto da queste motivazioni – afferma il vescovo di Tacuarembó - ho deciso di prendere posizione ed entrare a far parte di questa Commissione denominata ‘Tacuarembó per la Vita e per l'Acqua’.” (R.P.)

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    Paraguay: ricordato il missionario gesuita Antonio Ruiz de Montoya per gli indiani guaranì

    ◊   La “Real Academia de la Lengua” (Rae) ha reso recentemente omaggio al gesuita peruviano Antonio Ruiz de Montoya (1585-1652), creatore della linguistica guaranì e grande promotore delle "Reducciones" (Riduzioni) gesuite in Paraguay. Ruiz de Montoya è ricordato per aver tradotto, insieme ad alcuni suoi colleghi, diversi libri nella lingua degli indiani guaranì, oltre ad aver ricoperto un ruolo importante nel grande esodo di queste popolazioni, costrette a lasciare le riduzioni per sfuggire alla persecuzione dei “paulisti” o cacciatori di indiani di San Paolo (Brasile). La nota inviata all’agenzia Fides ricorda che l'omaggio al missionario è stato motivato dalla riedizione del suo libro “Arte, vocabulario, tesoro y catecismo de la lengua guaraní”. Tra i libri scritti da padre Ruiz de Montoya, quello intitolato "La Conquista spirituale fatta dai religiosi della Compagnia di Gesù nelle province di Paraguay, Paraná, Uruguay e Tape" (1639), resta una delle principali fonti storiche sulle riduzioni. "Riduzione", secondo il dizionario della Rae, vuol dire "popolo di indigeni convertiti al cristianesimo". Le riduzioni o missioni gesuite del Paraguay (1609-1769) erano degli insediamenti di indiani Guaranì promosse dai padri e dai fratelli della Compagnia di Gesù nelle terre conquistate dal Portogallo e dalla Spagna, con il desiderio di salvaguardare la loro dignità come persone e come sudditi della Corona. I popoli indios, insediati in montagna e in piccoli gruppi lontani fra loro, si riunirono per iniziativa dei Gesuiti per formare insediamenti di circa 5.000 persone ciascuno, definite appunto “riduzioni”. In questo modo gli indios hanno potuto affrontare i problemi legati alla loro sussistenza (agricoltura, allevamento, confezione di indumenti), si sono dotati di una organizzazione sociale (consiglio, sindaco, giudici) e hanno sviluppato la loro dimensione culturale (istruzione, architettura, scultura, musica, scienza) e spirituale (questi popoli considerati dai conquistatori come "selvaggi" hanno ricevuto la fede attraverso i missionari). Attualmente vivono in Paraguay 70 gesuiti che si prendono cura di circa 150.000 persone, con l'aiuto di 1.500 collaboratori e volontari. Sono presenti in diversi campi: istruzione, pastorale sociale, parrocchie, apostolato intellettuale, spiritualità e mass media. Il loro impegno sociale comprende una vasta gamma di attività: dal contributo accademico alla presenza nelle comunità rurali, nei quartieri popolari e nelle comunità di indigeni, collaborando nella formazione dei leader e nella sensibilizzazione sui problemi di ingiustizia. (R.P.)

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    Regno Unito: cattolici e anglicani insieme per il Sudan

    ◊   Cattolici e anglicani esprimono condivisione e sostegno nella preghiera ai “cari fratelli in Cristo” di Juba “per gli sforzi compiuti in favore del Sudan e Sud Sudan e per gli orientamenti offerti ai cittadini e ai funzionari del Governo locale e alla comunità internazionale”. È quanto si legge – come riferisce L’Osservatore Romano - in una lettera congiunta, a firma dell’arcivescovo di Westminster, mons. Vincent Nichols, e del Primate anglicano Rowan Williams, indirizzata all’arcivescovo cattolico di Juba, mons. Paulino Lukudu Loro, e e a quello anglicano Daniel Deng Bul, primate della comunità episcopaliana sudanese. Nel formulare “congratulazioni” per il fruttuoso e proficuo impegno profuso per la pace, per la riconciliazione e per il perseguimento del bene comune, i rappresentanti della Chiesa cattolica e anglicana d’Inghilterra esprimono la propria la preoccupazione “per tutto il popolo e in particolare per le comunità di Jonglei e Abyei. Così pure condividono la preghiera per una soluzione negoziata dei conflitti nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e Darfur”, luoghi segnati da gravi conflitti e da emergenze umanitarie che richiedono urgenti interventi di assistenza umanitaria. Nella lettera vengono espressi condivisione e sostegno al recente appello lanciato dai presuli cristiani del Sudan a tutti i soggetti sociali nel Paese affinché rifiutino «violenza, discriminazione religiosa o tribale e corruzione». Nella parte conclusiva della lettera, gli arcivescovi di Westminster e di Canterbury, nel far proprie “le preoccupazioni, le speranze e gli sforzi quotidiani”, si augurano che i confratelli presuli, Paulino Lukudu Loro e Daniel Deng Bul, siano in grado “di proseguire insieme e offrire la loro guida e il loro saggio consiglio a tutte le donne e gli uomini di buona volontà”. (L.Z.)

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    Grecia: incontro a Kos tra Chiese ortodosse del Consiglio Ecumenico delle Chiese

    ◊   “La chiamata all’unità, alla giustizia e alla pace rimane oggi, la nostra vocazione”, “il supremo atto di amore di Dio è l’economia della salvezza, che, attraverso l’incarnazione del Figlio, la sua morte e resurrezione, è intesa come la ricreazione e il ripristino dell’umanità. È il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo rivestito di Cristo”. Questa e altre riflessioni teologiche – come riporta L’Osservatore Romano - sono state condivise in una recente consultazione, svoltasi a Kos, in Grecia, tra rappresentanti delle comunità ortodosse orientali, nell’ambito del cammino di preparazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Wcc) alla 10.ma Assemblea generale che si terrà a Busan, in Corea del Sud, dal 30 ottobre al 8 novembre 2013. L’evento — promosso dal Wcc su invito del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo — è stato scandito dalla preghiera e da interventi che hanno evidenziato il costante impegno della comunità ortodossa “a collaborare con tutti i cristiani per la causa della giustizia della pace, della riconciliazione e dell’unità, sul fondamento del messaggio di Cristo e l’amore di Dio per l’umanità e per tutta la creazione”. Certo, è stato sottolineato, è un “cammino lungo e non facile” quello che porterà all’unità dei cristiani, ma “occorre non scoraggiarsi e continuare a percorrerlo”, prima di tutto pregando ogni giorno perché l’unità si realizzi, ma anche attraverso comuni iniziative di carità, che mostrino il “comune sentimento dei cristiani”. Il fatto che la riunione abbia avuto luogo in Grecia, ha dato ai partecipanti la possibilità di avere un contatto diretto con la popolazione locale alle prese con la crisi. I partecipanti hanno dunque pregato per la Grecia e hanno espresso la speranza che il Paese presto sarà in grado di superare il difficile momento e riacquistare stabilità sociale. La consultazione ha offerto l’occasione ai delegati di visitare anche varie parrocchie locali, “innanzitutto per pregare insieme e per essere informati sulla vita quotidiana di Ko”. Un’esperienza particolare e al tempo spesso paradigmatica durante la quale si sono potute percepire le ansie, le attese e le speranze di un grande popolo protagonista di storia e di fede. I rappresentanti ortodossi — si legge in una nota diffusa al termine dell’incontro— nell’esprimere “profonda preoccupazione per l’escalation di violenza soprattutto in Siria”, hanno pregato per la pace in Medio Oriente, esprimendo la speranza che il “Dio della vita porterà la regione e tutto il mondo alla pace e alla giustizia”. I partecipanti alla consultazione hanno approvato un documento che sarà condiviso con i partecipanti alla Assemblea del Wcc nel 2013. (L.Z.)

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    Vietnam: Lettera pastorale dei vescovi per l’Anno della Fede

    ◊   Nell’Anno della fede appena iniziato i vescovi vietnamiti esortano i fedeli a “riscoprire la gioia della fede” per “impegnarsi con più passione nella nuova evangelizzazione, annunciando il Vangelo a quel 93% dei vietnamiti che non conoscono ancora il Signore, introducendo lo spirito evangelico in tutti gli ambiti della vita, contribuendo alla costruzione di una società sana, conforme ai valori del Vangelo e della tradizione culturale vietnamita”. L’esortazione è contenuta in una lettera pastorale pubblicata al termine della loro recente sessione autunnale a Thanh Hoa. Nel documento i presuli osservano che se la maggior parte dei cattolici in Vietnam ancora partecipa regolarmente alla Messa domenicale e la famiglia continua ad essere il luogo privilegiato in cui si trasmette la fede cristiana, in alcuni casi essa è diventata un’abitudine, senza tradursi in “convinzione personale che anima le decisioni importanti della nostra vita”. In altri casi, essa è ridotta a un fatto emotivo, o a una mera osservanza morale e rituale. Per altro verso, lo stile di vita materialista e edonista che ha contagiato anche la società vietnamita mina sempre di più la fede dei giovani. “Per questo - afferma la lettera - in comunione con la Chiesa universale, l'Anno della fede è per tutti i membri del popolo di Dio in Vietnam, l'occasione propizia per rafforzare la fede, per cambiare la propria vita e tornare così a nostro Signore, unico Salvatore del mondo”. Ma una fede “integrale” - sottolineano i vescovi facendo eco alle parole di Benedetto XVI nella lettera apostolica “Porta fidei” - comprende diverse dimensioni: essa “va proclamata nella sua totalità con convinzione; deve essere celebrata nella liturgia, in particolare nell’Eucaristia fonte e culmine della vita cristiana. Inoltre deve essere realizzata nella vita, una vita conforme al suo contenuto che annunciamo nella sua bellezza di cui ci facciamo testimoni”. Questo - continua il documento – è il motivo per cui Benedetto XVI ci esorta a studiare e ad approfondire il contenuto della fede quale esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, come anche i documenti conciliari nel 50° dell’apertura del Concilio Vaticano II. Ma l’Anno della Fede - sottolineano i vescovi vietnamiti - è anche un’occasione per riscoprire la storia del cristianesimo in Vietnam e in particolare l’esempio dei suoi martiri che ci chiamano ad essere a nostra volta testimoni della fede nel nostro quotidiano, soprattutto “attraverso l’esercizio della carità”. Per realizzare tutti questi obiettivi la lettera segnala alcune iniziative promosse dalla Chiesa vietnamita a livello nazionale e locale nel corso dell’Anno della Fede, a cominciare dalla Messa di apertura, celebrata a Than Hoa il 12 ottobre, e dalla celebrazione in tutte le parrocchie vietnamite della Giornata missionaria mondiale. I presuli si rivolgono quindi ai sacerdoti, ai religiosi e alle famiglie cattoliche. Ai primi rammentano che l’educazione alla fede è compito centrale nel ministero sacerdotale; ai secondi ricordano che il loro compito principale è di testimoniare la fede con la consacrazione della loro vita a Dio. Infine, la lettera si rivolge ai genitori, ricordando che la famiglia è sempre stata “la culla della trasmissione della fede cristiana, la scuola dove viene insegnato il primo catechismo alle nuove generazioni”. In conclusione, i vescovi vietnamiti esortano i fedeli a volgere lo sguardo alla Vergine Maria : “Grazie a lei e con lei cammineremo in questo Anno della Fede, con un senso di gratitudine per il dono che ci è stato fatto, sforzandoci di vivere il Vangelo con gioia ed entusiasmo e contribuire alla costruzione di una civiltà dell'amore e della vita nella nostra patria”. (A cura di Lisa Zengarini)

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    Palermo. Folla ai funerali di Carmela Petrucci, la giovane morta in difesa della sorella

    ◊   “C’è tanta commozione dentro di noi e attorno a noi. Con il cuore gonfio di dolore attraversiamo un momento di prova appesantito da tanti perché. Dentro di noi troviamo anche rabbia e orrore, ma riconosciamo che ciò non risolve il vuoto che continuiamo a vivere. La rabbia è sempre una sconfitta e questa mattina non possiamo essere perdenti”. Sono le parole del cardinale di Palermo Paolo Romeo che nella gremita parrocchia Sant’Ernesto ha presieduto i funerali di Carmela Petrucci, la studentessa di 17 anni uccisa venerdì scorso nell’androne di casa nel tentativo di difendere dai fendenti di Samuele Caruso, la sorella maggiore Lucia, rimasta ferita da oltre venti coltellate. Un epilogo di sangue per una, alla luce dei fatti, incauta conoscenza, quella tra la giovane Lucia e il 23.enne disoccupato Samuele: iniziata in un social network e proseguita con un flirt, interrotto per volontà della ragazza. “La relazione con l’altro è qualcosa di serio e sacro – ha aggiunto Romeo – Quando lo penso esclusivamente per me, ossia quando confondo l’amore con il possess, allora corro il rischio di rimanere deluso, di percepire la sua diversità e la sua libertà come un rifiuto. Cari giovani! Tenete bene aperti gli occhi!”. La chiesa di via Campolo era gremita di parenti, amici, compagni di scuola della ragazza, studenti di altri istituti e semplici cittadini che, circa in un migliaio, hanno riempito la piazza davanti alla parrocchia e le vie limitrofe per stringersi intorno alla famiglia di Carmela, una adolescente dal volto pulito, riservata, discreta, che studiava con profitto al Liceo classico e sognava di diventare medico. Una vita spezzata che ha gettato nella tragedia una famiglia per bene e nello choc tutti i palermitani. “La nostra fede – ha proseguito l’arcivescovo di Palermo – si fa preghiera anche per Samuele, perché anche per lui si apra il cammino del pentimento. Le vittime di questa tragedia non sono solo Carmela e Lucia, sono state colpite le nostre famiglie, le nostre relazioni, la comunità scolastica del liceo Umberto I, l’intera nostra Palermo, l’intera società”. Intanto, ieri il gip Maria Pino ha convalidato il fermo di Caruso riconoscendo le aggravanti di omicidio volontario premeditato per futili e abietti motivi. Nell’ordinanza di custodia cautelare, si legge: “E' pericoloso, lucido e merita il carcere”. Il magistrato usa inoltre espressioni come “lucida e perdurante determinazione a commettere reati” e sottolinea la ferocia del killer che ha colpito l’ex ragazza anche mentre era a terra: circostanza che, secondo il gip, conferma “la volontà omicida”. In silenzio, senza alcun cenno di pentimento, l’omicida ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere mentre venerdì, dopo l’arresto, aveva ammesso di essere l’autore del delitto di Carmela e del grave ferimento di Lucia. Resta da capire se qualcuno abbia aiutato il giovane reo confesso dopo il delitto. Lucia intanto, ricoverata all’ospedale Cervello, nonostante i cento punti di sutura sembra migliorare, è lucida e parla, ma non sa ancora che Carmela è morta. “E’ indispensabile che non lo sappia dai media", ha sottolineato il primario Giuseppe Termine del nosocomio. "Aspettiamo, prima di trasferirla nel reparto di chirurgia, che gli psicologi le diranno cosa è accaduto”. “Spero che nessun padre debba più piangere la morte della figlia uccisa da una mano vile. Chiediamo che la violenza sulle donne sia punita e repressa senza sconti di pene. L’immenso dolore che ci ha colpiti non troverà mai fine, questo dolore segnerà tutta la nostra vita”. E’ quanto si legge in una lettera del padre di Carmela Petrucci, Serafino, al termine dei funerali. I genitori, in lacrime all’altare, non se la sono sentita di parlare e hanno affidato le loro parole a un parente. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, conferirà a Carmela Petrucci, una medaglia al valor civile “per il suo coraggio e la sua dignità”. (Da Palermo, Alessandra Zaffiro)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 297

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.