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Sommario del 17/10/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Udienza generale. Il Papa apre ciclo sull’Anno della Fede: nuovo entusiasmo per superare frattura fede-vita
  • Rinuncia e nomina episcopale in Brasile
  • Il Sinodo incoraggia i movimenti ecclesiali. Maria Voce: la diversità dei carismi, dono di Dio per l'unità
  • Delegazione di Padri sinodali in Siria: interviste con i cardinali Monsengwo e Tauran
  • Il cardinale Coccopalmerio: la nuova evangelizzazione passa anche attraverso l'ecumenismo
  • Domenica la canonizzazione di suor Marianna Cope, una vita spesa per i lebbrosi delle Hawaii
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Cuba: "cancellati" i permessi d'uscita dal Paese, basta il passaporto. Intervista col nunzio
  • Secondo confronto televisivo tra Obama e Romney: i sondaggi premiano il presidente
  • Crisi: cresce la povertà in Spagna. Preoccupazione per la Grecia dopo l'interruzione dei negoziati con la troika
  • Al via i colloqui di Oslo tra Farc e governo colombiano
  • Sierra Leone, tra un mese elezioni generali in un clima disteso
  • Rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre: a rischio i cristiani nei Paesi della primavera araba
  • Caritas, Rapporto povertà 2012: 33 italiani su 100 ricorrono ai Centri di ascolto
  • Superare la logica dei "campi nomadi" e promuovere i diritti dei Rom in un convegno a Roma
  • Cento anni fa nasceva Albino Luciani, il "Papa del sorriso"
  • Simposio al Camillianum: la "fantasia della carità" a servizio del malato. Intervista col cardinale Comastri
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Siria: la speranza dei cristiani e di tutti i siriani per la visita della Delegazione del Sinodo
  • Commissione Onu: centinaia di jihadisti in territorio siriano
  • Unicef: la minaccia dell'inverno incombe sui bambini siriani rifugiati
  • Pakistan: a Karachi radicali islamici attaccano la chiesa di San Francesco
  • Pakistan: la sentenza sul caso Rimsha rinviata di un mese
  • La “carovana delle madri” alla ricerca dei loro figli emigrati è arrivata in Messico
  • Congo: nel Nord Kivu un nuovo gruppo ribelle taglieggia la popolazione
  • Solidarietà dei vescovi europei per atti di odio religioso in Russia
  • Sud Sudan: l'arcivescovo denuncia immense distruzioni ad Abyei
  • Kenya: apre l’Università di Dadaab, il primo ateneo per rifugiati
  • Hong Kong: ricordato il Beato padre Allegra, apostolo della Parola di Dio in cinese tra i cinesi
  • Sri Lanka. Cardinale Ranjith: nell’Anno della Fede le responsabilità dei cattolici
  • Terra Santa. Il patriarcato latino: Pasqua 2013 sarà celebrata con gli ortodossi
  • Cile: mons. Chomali incontra i 4 giovani mapuches in sciopero della fame da 50 giorni
  • Il Papa e la Santa Sede



    Udienza generale. Il Papa apre ciclo sull’Anno della Fede: nuovo entusiasmo per superare frattura fede-vita

    ◊   Benedetto XVI ha inaugurato questa mattina in Piazza San Pietro, davanti a circa 40 mila persone, un nuovo ciclo di catechesi dedicato all’Anno della Fede, interrompendo momentaneamente quello sulla preghiera, che svolgeva da tempo. In una intensa riflessione, il Papa ha spiegato di voler aiutare i cristiani a superare la “frattura tra fede e vita” e a ritrovare entusiasmo e coraggio nell’annuncio, pur in contesti sociali che sembrano aver dissolto qualsiasi valore profondo. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    C’era una volta la gioia di essere cristiani, la freschezza e il fuoco del primo annuncio: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, è sceso sulla terra e ha dato la sua vita per amore dell’umanità, salvandola. Trascorsi duemila anni – constata con un realismo punteggiato d’amarezza il Papa – tanti cristiani neanche ricordano più che questo è “il nucleo del primo annuncio”. Ed ecco la reazione di Benedetto XVI: contribuire personalmente con un ciclo di catechesi a far sì che l’Anno della Fede “rinnovi l’entusiasmo di credere in Gesù Cristo”:

    “Si tratta dell’incontro non con un’idea o con un progetto di vita, ma con una Persona viva che trasforma in profondità noi stessi, rivelandoci la nostra vera identità di figli di Dio. L’incontro con Cristo rinnova i nostri rapporti umani, orientandoli, di giorno in giorno, a maggiore solidarietà e fraternità, nella logica dell’amore (...) è un cambiamento che coinvolge la vita, tutto noi stessi: sentimento, cuore, intelligenza, volontà, corporeità, emozioni, relazioni umane”.

    Dunque, la fede coinvolge tutta la persona. Ma ai credenti è chiaro questo? Oppure, si chiede Benedetto XVI, la fede è un fattore esteriore, che poco a che fare con la vita di tutti i giorni?:

    “Oggi è necessario ribadirlo con chiarezza, mentre le trasformazioni culturali in atto mostrano spesso tante forme di barbarie, che passano sotto il segno di ‘conquiste di civiltà’ (…) Dove c’è dominio, possesso, sfruttamento, mercificazione dell’altro per il proprio egoismo, dove c’è l’arroganza dell’io chiuso in se stesso, l’uomo viene impoverito, degradato, sfigurato. La fede cristiana, operosa nella carità e forte nella speranza, non limita, ma umanizza la vita, anzi la rende pienamente umana”.

    Certi atteggiamenti umani così intrisi di relativismo sono frutto, osserva il Papa, dei “processi della secolarizzazione” e di “una diffusa mentalità nichilista”:

    “Così, la vita è vissuta spesso con leggerezza, senza ideali chiari e speranze solide, all’interno di legami sociali e familiari liquidi, provvisori. Soprattutto le nuove generazioni non vengono educate alla ricerca della verità e del senso profondo dell’esistenza che superi il contingente, alla stabilità degli affetti, alla fiducia. Al contrario, il relativismo porta a non avere punti fermi, sospetto e volubilità provocano rotture nei rapporti umani, mentre la vita è vissuta dentro esperimenti che durano poco, senza assunzione di responsabilità”.

    Quindi, Benedetto XVI “stringe” sulla situazione dei credenti, che non è molto più rasserenante. Un’indagine promossa nei continenti in vista del Sinodo sulla nuova evangelizzazione rivela – ha evidenziato – che spesso la “fede è vissuta in modo passivo e privato”, che esiste un “rifiuto all’educazione alla fede” e, in definitiva, “una frattura tra fede e vita”.

    “Il cristiano oggi spesso non conosce neppure il nucleo centrale della propria fede cattolica, del Credo, così da lasciare spazio ad un certo sincretismo e relativismo religioso, senza chiarezza sulle verità da credere e sulla singolarità salvifica del cristianesimo. Non è così lontano oggi il rischio di costruirsi, per così dire, una religione del ‘fai-da-te’. Dobbiamo, invece, tornare a Dio, al Dio di Gesù Cristo, dobbiamo riscoprire il messaggio del Vangelo, farlo entrare in modo più profondo nelle nostre coscienze e nella nostra vita quotidiana”.

    E c’è un modo perché questa riscoperta di Gesù e del Vangelo possa realizzarsi. Il Papa la chiama la “formula essenziale della fede”, dove le verità trasmesse sono presenti una ad una, il Credo:

    “Anche oggi abbiamo bisogno che il Credo sia meglio conosciuto, compreso e pregato. Soprattutto è importante che il Credo venga, per così dire, «riconosciuto». Conoscere, infatti, potrebbe essere un’operazione soltanto intellettuale, mentre «riconoscere» vuole significare la necessità di scoprire il legame profondo tra le verità che professiamo nel Credo e la nostra esistenza quotidiana”.

    Al termine dell’udienza generale, dopo aver salutato in varie lingue tra cui l’arabo i gruppi presenti in Piazza San Pietro, Benedetto XVI ha ricordato l’odierna Giornata Mondiale del Rifiuto della miseria, indetta dall’Onu, esortando a “preservare la dignità e i diritti di quanti sono condannati a subire il flagello della miseria, contro il quale – ha detto –l’umanità deve lottare senza sosta”.

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    Rinuncia e nomina episcopale in Brasile

    ◊   In Brasile, Benedetto XVI ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Pinheiro, presentata per raggiunti limiti di età da mons. Ricardo Pedro Paglia, dei Missionari del Sacro Cuore . Al suo posto, il Papa ha nominato padre Elio Rama, delle Missioni della Consolata, finora superiore regionale del suo Istituto in Brasile. Mons. Rama, è nato il 28 ottobre 1953 a Tucunduva, nella diocesi di Santo Ângelo, Stato di Rio Grande do Sul. Ha emesso la professione religiosa nell’Istituto Missione Consolata il 21 ottobre 1982 ed è stato ordinato sacerdote il 10 novembre 1984. Ha compiuto gli studi di Filosofia presso le “Faculdades Associadas do Ipiranga” – FAI (1975-1976) e di Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana (1979-1984), dove ha conseguito anche la Licenza in Missiologia. Come sacerdote ha ricoperto i seguenti incarichi: Vicario Parrocchiale a Vilanculo, Mozambico (1985-1987); Parroco a Vilanculo (1987-1992); Rettore del Seminario della Consolata a Nampula, Mozambico (1992-1996); Superiore Regionale a Maputo, Mozambico (1996-2002); Rettore del Seminario Teologico I.M.C. a São Paulo (2003-2009); Consigliere Regionale a São Paulo (2005-2011); Parroco della parrocchia “Nossa Senhora da Penha”, a São Paulo (2010-2011). Dal 2011 svolge l’incarico di Superiore Regionale per il Brasile dell’Istituto Missioni Consolata, con sede nell’arcidiocesi di São Paulo.

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    Il Sinodo incoraggia i movimenti ecclesiali. Maria Voce: la diversità dei carismi, dono di Dio per l'unità

    ◊   La Chiesa accolga i carismi e i movimenti ecclesiali come una nuova primavera per una nuova evangelizzazione: questa l’esortazione lanciata stamani dal Sinodo dei vescovi, in corso in Vaticano. I presuli hanno anche richiamato la necessità di una soluzione alla crisi economica globale. Nel pomeriggio, i lavori proseguiranno con la “Relazione dopo la discussione”, presentata dal cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington e relatore generale del Sinodo. Il servizio di Isabella Piro:

    Una nuova primavera per una nuova evangelizzazione: è ciò che i carismi, i movimenti ecclesiali e le comunità portano alla Chiesa. Ma essa deve essere incoraggiata ad accogliere tali frutti, discernendoli nel segno della comunione. Il Sinodo dei vescovi riflette su questo tema facendo anche autocritica: talvolta i sacerdoti sono poco preparati sull’argomento e non vogliono prendersene cura, rivelando una certa stagnazione spirituale. Ne deriva, evidenziano i vescovi, che i carismi si spengono, restano soli e talvolta diventano inclini alla contestazione del magistero della Chiesa. La nuova evangelizzazione, dunque, non li dimentichi e metta a frutto le loro potenzialità.

    Poi, il Sinodo affronta la questione della crisi economica globale, ostacolo alla nuova evangelizzazione perché costringe l’uomo a soddisfare solo i bisogni vitali, come quello del cibo. Ma in questo modo, dicono i presuli, crisi sociale e crisi di fede si equivalgono e l’annuncio del Vangelo viene schiacciato dall’incudine economico. Di qui, il suggerimento di creare una struttura finanziaria basata su esperienze ecclesiali che mettano in atto un’economia di comunione e un credito sociale. Solo così, afferma il Sinodo, si otterrà un sistema finanziario immune dai debiti e a servizio dell’uomo. La Chiesa, quindi, deve essere capace di scoprire come affrontare il problema economico in un modo rispettoso dell’ecologia della persona umana.

    Sulla stessa linea, anche l’invito del Sinodo a migliorare la qualità della vita delle donne e dei bambini, perché la nuova evangelizzazione sarà significativa solo quando terrà conto di tale obiettivo.

    Spazio, quindi, ai rappresentanti pontifici: di essi si ricorda il ruolo di vigilanza sulla libertà della missione della Chiesa che talvolta, nel mondo, registra gravi restrizioni. Tale vigilanza, dice il Sinodo, non è una ricerca di privilegi anacronistici, ma garantisce la missione della Chiesa che ha benefici sulle altre religioni e sull’intera società, grazie al servizio prestato alla causa della pace e dei diritti fondamentali dell’uomo. Annunciato, inoltre, per il prossimo mese di giugno a Roma, un incontro di riflessione di tutti i nunzi, i delegati apostolici e gli osservatori permanenti, affinché la loro missione possa rinnovarsi e perfezionarsi per essere all’altezza delle esigenze dei tempi.

    Il Sinodo torna, poi, ad affrontare la questione dell’evangelizzazione nei Paesi a maggioranza islamica: qui spesso i cristiani sono ritenuti cittadini di serie B, le leggi limitano la libertà di culto, la violenza sfigura il dialogo interreligioso. Eppure, dice l’Assemblea, la nuova evangelizzazione è possibile anche in questi contesti, soprattutto grazie alle opere educative e di carità, che mostrano una Chiesa presente al di là delle sue dimensione reali.

    Altro strumento centrale per un nuovo annuncio del Vangelo è la parrocchia: in particolare nelle metropoli multietniche e multireligiose, essa deve superare l’analfabetismo religioso contemporaneo, proporre la Messa domenicale come esperienza forte di una fede creduta, professata ed annunciata, ma deve soprattutto ritrovare il suo slancio missionario. Diceva infatti Giovanni Paolo II: “Parrocchia, trova te stessa, fuori di te stessa!”.

    Ieri pomeriggio, invece, il Sinodo ha ascoltato gli interventi dei delegati fraterni, tra cui il Metropolita Hilarion, rappresentante del Patriarcato di Mosca, che ha lanciato un appello alla stretta cooperazione tra i cristiani per affrontare le sfide acute e minacciose della contemporaneità, tra cui secolarismo ed ateismo, e per fronteggiare insieme le persecuzioni che subisce oggi la cristianità.

    Alle sue parole fanno eco quelle degli altri delegati fraterni presenti all’Assise: battisti, metodisti, anglicani, tutti richiamano l’imperativo ecumenico come primo strumento dell’evangelizzazione e sottolineano l’urgenza di difendere la libertà religiosa, sotto assedio in molti modi, sia subdoli che evidenti. L’evangelizzazione, dicono i delegati fraterni, è la ragion d’essere della Chiesa ed il successo dell’annuncio del Vangelo è legato alla credibilità di chi lo porta nel mondo. Di qui anche il richiamo alle opere di carità ed alla formazione delle comunità ecclesiali, per trasmettere la fede a chi non appartiene più a nessuna chiesa.

    I Padri sinodali hanno ascoltato infine la testimonianza di frère Alois, priore della Comunità di Taizé, invitato speciale all’assemblea. Al centro del suo discorso, l’ecumenismo della preghiera che non incoraggia una tolleranza superficiale, ma favorisce un profondo ascolto reciproco e un autentico dialogo. La divisione dei cristiani è un ostacolo alla trasmissione della fede – continua frère Alois – perché per le giovani generazioni la ricerca dell’unità diventa irresistibile. Quindi, l’esortazione affinché le Chiese locali, le parrocchie, le comunità, i gruppi siano innanzitutto luoghi di comunione, in cui si dà fiducia ai giovani e ci si sofferma anche sui più deboli, su coloro che non condividono le nostre idee.

    Al Sinodo è stata ribadita l’importanza dei laici per la Nuova Evangelizzazione ed è stato sottolineato anche l’apporto che i nuovi movimenti stanno dando. Presente ai lavori, in qualità di uditrice, Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari. Paolo Ondarza l’ha intervistata:

    R. – Mi sembra ci sia una grande gioia nel riconoscerci tutti Chiesa. Anche i pastori se ne stanno rendendo sempre più conto, ma mi sembra che sia anche importante rispettare la specificità dei carismi che ognuno porta perché sono doni di Dio e non si possono mescolare così indifferentemente. Allo stesso tempo bisogna sapere che ognuno di questi doni serve alla costruzione dell’insieme e quindi che quel dono specifico che porta il Movimento dei Focolari, o che porta la Comunità di Sant’Egidio, o che porta il carisma di un vescovo, deve integrarsi con tutti gli altri carismi proprio per la costruzione del Corpo di Cristo che è la Chiesa. Mi sembra che in questo senso ci sia ancora cammino da fare.

    D. – Un cammino da fare all’interno della comunità ecclesiale, ma anche un cammino fuori dalla Chiesa, quindi verso i non credenti…

    R. – Certamente. Anche una persona che non ha principi religiosi o che non si riconosce in principi religiosi ha senz’altro qualcosa da donare. In questo senso mi sembra che i laici abbiano la specificità di andare incontro alle persone, non a quelle che vengono in chiesa, ma a quelle che sono fuori dalla chiesa, ma alla ricerca di una risposta alla domanda di senso della vita che tutti gli uomini hanno. Noi testimoniamo il Vangelo attraverso l’amore e nessuno è indifferente all’amore, nessuno rifiuta di essere amato! Quando si stabilisce un rapporto di amore è facile poi passare dalla carità alla verità.

    D. – Ci sono esperienze che secondo lei possono arricchire la riflessione sulla Nuova Evangelizzazione, sulla trasmissione della fede, proprie del Movimento dei Focolari?

    R. - La testimonianza della comunione: cioè, che se siamo uniti Gesù è fra noi e se Gesù è fra noi è lui che testimonia se stesso. Noi questo lo abbiamo sperimentato soprattutto nella diffusione del movimento perché non si può pensare a una diffusione così ampia se non per un agente soprannaturale che noi riteniamo sia proprio la presenza di Gesù che ci ha portati in tutto il mondo. E’ Lui che ha fatto apprezzare la Chiesa attraverso di noi, in ambienti anche diversi, come possono essere i movimenti buddhisti o il movimento del Rissho Kosei-kai in Giappone o gli animisti nel Camerun, per fare solo qualche esempio.

    D. – In un mondo dove l’uomo contemporaneo che cerca la spiritualità spesso giunge a soluzioni di sincretismo religioso, porsi in dialogo con le altre religioni rappresenta una sfida nella quale voi state riuscendo, pur rimanendo radicati nella vostra identità...

    R. – E’ difficile dire “siamo riusciti”, è sempre un tentativo che si fa e si ripete tante volte. Però è vero che noi ci teniamo molto a essere noi stessi e quelli che ci invitano sanno che invitano persone che sono cristiane, sanno che ci poggiamo su questa roccia fondamentale e ci apprezzano per questo.

    D. – Qual è il suo augurio per questo Anno della fede appena iniziato?

    R. – Dobbiamo sperare per quello che sta emergendo da questo Sinodo: il desiderio di tornare ad annunciare la nostra fede nella carità, rendendoci conto anche di tanti sbagli che possiamo aver fatto, ma senza aver paura perché Gesù è ancora con noi.

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    Delegazione di Padri sinodali in Siria: interviste con i cardinali Monsengwo e Tauran

    ◊   Il Papa ha deciso di inviare nei prossimi giorni a Damasco una Delegazione del Sinodo per esprimere “fraterna solidarietà” a tutta la popolazione siriana: lo ha annunciato il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, affermando che non si può restare indifferenti di fronte ad una tragedia simile, nell’auspicio che nel Paese possano prevalere “la ragione e la compassione". La Delegazione – ha detto il porporato – porterà anche la vicinanza spirituale “ai nostri fratelli e sorelle cristiani” e “i nostri incoraggiamenti a quanti sono impegnati nella ricerca di un accordo rispettoso dei diritti e dei doveri di tutti, con una particolare attenzione a quanto previsto dal diritto umanitario”. Tra i Padri sinodali che si recheranno in Siria, c’è anche il cardinale Laurent Mosengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

    R. – Andiamo lì per portare alla popolazione che soffre il conforto del Santo Padre e del Sinodo, per testimoniare loro la nostra vicinanza e la nostra prossimità nella situazione che stanno vivendo. Portiamo un aiuto, una somma di denaro che i Padri sinodali raccoglieranno e affideranno alla delegazione.

    D. – Quanto si vive in Siria è risuonato anche qui nell’aula del Sinodo, negli interventi delle varie persone che provengono da quella realtà...

    R. – Sì, qui ci sono vescovi e patriarchi che vengono dalla Siria. Ma bisogna dire che anche altri hanno parlato di questa tragedia e hanno chiesto di fare questo gesto per la Siria per portare il conforto del Papa e della Chiesa.

    D. – La soluzione però – si ribadisce – non può che essere politica...

    R. – Noi non portiamo una soluzione politica, la lasciamo a chi se ne deve occupare. Noi andiamo lì per un’opera di carità e per un’opera spirituale di conforto.

    Della Delegazione fa parte anche il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Ascoltiamolo al microfono di Hélène Destombes:

    “Vogliamo esprimere la solidarietà umana alle persone, alle famiglie che soffrono tanto. Pensiamo per esempio agli emarginati, alle persone anziane, agli ammalati… L’altro giorno un vescovo presente qui al Sinodo raccontava di aver ricevuto un appello di un suo parroco che non sapeva cosa fare per un ospizio bombardato. Quindi vogliamo esprimere una solidarietà materiale anche perché ci sarà un contributo finanziario da parte dei padri e poi la solidarietà spirituale con i nostri fratelli cristiani che hanno bisogno di sentire, come in una famiglia, l’affetto, la preghiera l’accompagnamento di tutta la famiglia. Infine, incoraggiare chi sta collaborando alla ricerca di una soluzione che non può essere che politica.

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    Il cardinale Coccopalmerio: la nuova evangelizzazione passa anche attraverso l'ecumenismo

    ◊   Secolarismo, ateismo e persecuzioni contro la fede: sfide che le varie confessioni cristiane sono chiamate ad affrontare insieme. Lo ha ribadito ieri il metropolita Hilarion, rappresentante al sinodo del Patriarcato di Mosca. La nuova evangelizzazione ha un dunque una vocazione ecumenica come conferma il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. L’intervista è di Paolo Ondarza:

    R. – La Chiesa russa ha gli stessi problemi che abbiamo noi: deve far fronte al secolarismo, al materialismo che sta avanzando soprattutto a livello giovanile. Quindi sente lo stesso bisogno che abbiamo noi di questa nuova evangelizzazione e nello stesso tempo desidera questa collaborazione. E’ una cosa veramente molto penosa il fatto che noi cristiani siamo ancora divisi anche in quegli ambiti nei quali c’è già unità. Il Concilio, infatti, raccomandava di agire insieme su quelle cose nelle quali possiamo dire di essere già uniti. Mi pare che sia molto importante presentarsi uniti anche per dimostrare alla società europea che le Chiese ci sono e sono unite e poi per dare anche una testimonianza all’islam.

    D. - In che senso una testimonianza per l’islam?

    R. – Perché l’islam vedrebbe che c’è un solo mondo cristiano e non c’è quella divisione che può essere facilmente interpretata come ostilità. Una divisione che certamente depone a sfavore del soggetto – i cristiani - che ha davanti.

    D. - Effettivamente le sfide che si pongono di fronte all’evangelizzazione oggi accomunano le confessioni cristiane. Potrebbe essere questa la piattaforma per una ripartenza o per una continuazione con più forza del già avviato percorso ecumenico?

    R. - Questa è senz’altro un’occasione importantissima per continuare questo dialogo, questo continuo avvicinamento. Specialmente in questo momento un avvicinamento sarebbe auspicabile con la Chiesa romena che, in seguito a tensioni sopraggiunte, non pratica più nessuna forma di Communicatio in sacris con la Chiesa cattolica. Sarebbe questo il momento opportuno per dire: lasciamo perdere queste nostre rivalità, uniamoci in questa attività comune, in questa finalità comune. La nuova evangelizzazione potrebbe costituire un’occasione importante, una ragione importante, per superare gli attriti esistenti.

    D. - Per chiudere: qual è il suo auspicio per questo Sinodo?

    R. – Dobbiamo indirizzarci nel nostro lavoro verso cose molto concrete. I grandi motivi teologici di cui stiamo parlando devono indirizzarsi verso qualcosa di concreto. Per esempio, una cosa assolutamente importante è che le parrocchie diventino veramente luoghi di evangelizzazione. Io vorrei fare un esempio che troviamo nella diocesi di Milano. C’è una parrocchia in cui i giovani vanno nelle strade, nei bar, alla sera, a invitare altri giovani. La chiesa è a loro disposizione, ci sono sacerdoti che li attendono, ci sono incontri di preghiera particolarmente pensati per i giovani. Mi dice il responsabile che in una sola notte riescono a radunare in chiesa fino a 500 giovani. Poi c’è l’apostolato di spiaggia durante l’estate… La parrocchia o organizzazioni di questo tipo devono diventare più propositive, cioè dare indicazioni molto concrete, di attività, di iniziative…

    D. – Anche i centri commerciali potrebbero diventare luoghi di evangelizzazione…

    R. – Qualcuno lo ha detto. Effettivamente sono luoghi di grande aggregazione: si potrebbe pensare ad una presenza di evangelizzatori anche lì.

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    Domenica la canonizzazione di suor Marianna Cope, una vita spesa per i lebbrosi delle Hawaii

    ◊   Tra i nuovi santi che il Papa proclamerà domenica in Piazza San Pietro, c’è suor Marianna Cope, religiosa del Terz’Ordine francescano di Syracuse, negli Stati Uniti. Molto amata nelle Hawaii, suor Marianna seguì, nel 1883, il luminoso esempio di San Damiano di Molokai, che qui fondò un lebbrosario. Anche la religiosa servì i lebbrosi fino alla morte, che sopraggiunse nel 1918. Nell’intervista di Benedetta Capelli, ascoltiamo il postulatore della Causa di canonizzazione, padre Ernesto Piacentini:

    R. - La cosa che attira maggiormente di lei è la sua generosità davanti al bisogno del prossimo. Suor Marianna ricevette l’invito ad andare ad aiutare padre Damiano a Molokai. Si dice che la richiesta d’aiuto da parte di padre Damiano, che non riusciva più a portare avanti l’assistenza ai lebbrosi, fosse stata rivolta a circa 20-30 Istituti di suore, ma molte non accettarono di andare a lavorare tra i lebbrosi. Madre Marianna Cope, in quel periodo ministra generale del suo Istituto, rivolse lo stesso l’invito a tutte le suore e 20 si offrono di andare con lei a Molokai. Ne scelse sei, partì con loro, le accompagnò nelle Hawaii, e lì fondarono una piccola casa, poi un piccolo istituto per assistere i figli dei lebbrosi, così che i lebbrosi non dovessero vivere insieme ai loro familiari.

    D. - Quanto è conosciuta alle Hawaii suor Marianna Cope e quanto è ancora amata oggi?

    R. - E’ conosciuta moltissimo e lo è a tal punto che il governo hawaiano per lei e per padre Damiano ha emesso un decreto per renderli cittadini onorari dello Stato delle Hawaii. E’ conosciuta molto anche perché il problema della lebbra era un problema talmente grande, talmente grave e sentito per le Hawaii, che aver avuto una suora e un religioso che hanno dato la loro vita per curare la lebbra, per liberare le Hawaii da questa piaga, è stata una cosa molto apprezzata e molto amata.

    D. - Questa donazione completa di sé è uno dei tratti peculiari del carisma di suor Marianna Cope?

    R. - Sì, certamente. Il carisma più importante è proprio quello dell’assistenza ai fratelli che hanno maggiormente bisogno e quindi assistere coloro che maggiormente hanno bisogno di aiuto. Lei dice: “Ormai la mia vita è qui nelle Hawaii; nel lebbrosario di Molokai, io ci resto fino alla morte”. C’è un grande monumento di lei che abbraccia il Cristo e i lebbrosi sono tutti intorno. Diceva sempre: “Sorridi, il sorriso non ti rovinerà la faccia!”. Questa è un’esortazione rivolta a tutti, un invito ad aiutare i lebbrosi, a sorridere ai lebbrosi: il sorriso, che fate, non vi rovina la faccia.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   In Siria a nome del Papa e del Sinodo: una delegazione si recherà a Damasco per esprimere solidarietà, vicinanza e incoraggiamento a un accordo rispettoso dei diritti e doveri di tutti. Gli interventi dei padri sinodali, tra i quali quello del cardinale segretario di Stato.

    All'udienza generale Benedetto XVI inizia un nuovo ciclo di catechesi sull'Anno della fede.

    Settantadue milioni di persone in fuga: in rilievo, nell'informazione internazionale, le migrazioni forzate per conflitti e disastri naturali, analizzate nel rapporto annuale della Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa.

    Sempre più italiani in fila alla Caritas per chiedere aiuti economici: i dati del rapporto 2012 su povertà ed esclusione sociale.

    Arte e fede devono ricordarsi di essere sorelle: in cultura, intervista di Silvia Guidi al cardinale Gianfranco Ravasi sul motuproprio "Pulchritudinis fidei" (dal 3 novembre la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa viene unita al Pontificio Consiglio della Cultura).

    Ordini religiosi e partita doppia: Gianpaolo Romanato sulla secolarizzazione dei beni ecclesiastici in Europa.

    C'era un'altra volta in America: Emilio Ranzato sulla versione restaurata (ora nelle sale) dell'ultimo film di Sergio Leone.

    La paradossale logica del mistero pasquale: Timothy Verdon sui crocifissi lignei di Donatello, Brunelleschi e Michelangelo al cospetto del Cristo glorioso del Battistero di San Giovanni.

    Giovani lettori di giornali crescono: "Il Quotidiano in Classe" raggiunge quota 2.018.720 studenti e inaugura un portale internet, attivo dal 29 ottobre.

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    Oggi in Primo Piano



    Cuba: "cancellati" i permessi d'uscita dal Paese, basta il passaporto. Intervista col nunzio

    ◊   A partire dal 14 gennaio 2013, i cittadini cubani potranno uscire dall’isola con il semplice passaporto. L’ha annunciato ieri il governo de L’Avana. Dopo 50 anni, non ci sarà quindi più bisogno dei permessi finora obbligatori e che potevano essere negati senza motivazione. Non si avrà più bisogno neanche di una lettera d’invito da un cittadino del Paese straniero destinazione del viaggio. E’ una misura che rientra nel quadro delle tante riforme annunciate dal fratello di Fidel Castro, Raul, e che forse era una delle più attese. La durata del soggiorno all’estero sarà innalzata dagli attuali 11 mesi a 24. Si può parlare di svolta storica? Risponde il nunzio apostolico a Cuba, mons. Bruno Musarò, intervistato da Francesca Sabatinelli:

    R. – Certamente, questa riforma della politica migratoria è un cambiamento che si stava aspettando da tempo. Una svolta storica? Di sicuro, è un passo molto importante: si rendono più agevoli le pratiche burocratiche. Adesso bisognerà vedere quanti potranno viaggiare. Il governo giustifica la legge migratoria in vigore fino adesso, con il fatto che da Cuba, fin dall’inizio della rivoluzione, sono partiti coloro che vengono indicati come “los cerebros”, i cervelli, cioè i professionisti: medici, ingegneri e tecnici. A Cuba, viene definito lo “spoglio indiscriminato” dei propri professionisti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, come si legge oggi in un editoriale. Senz’altro, questa notizia si stava aspettando da tanto tempo, speriamo che porti benefici a tutti i cubani.
    D. – Eccellenza, lei parlava della "fuga dei cervelli", ma questo aggiornamento della politica migratoria di Cuba non sembra che riguarderà gli scienziati e i militari…

    R. – Questo naturalmente non si dice nel concreto. Bisogna vedere in che modo saranno applicate queste nuove disposizioni, bisognerà vedere in che modo il governo riuscirà a controllare questa "fuga di cervelli2. Certamente, avranno già disposto, oppure arriveranno in seguito alcune disposizioni applicative di questa attualizzazione della politica migratoria.

    D. – Tutto ciò rientra, comunque, in una serie di riforme che ormai da diverso tempo si stanno avviando a Cuba. Insomma, sono segnali continui che arrivano dall’isola...

    R. – Sono segnali che fanno ben sperare, anche se mi dicono che nel passato c’era stata qualche apertura e dopo è stata fatta marcia indietro. Credo, comunque, che adesso non si possa più pensare allo stesso modo di 40 o 30 anni fa.

    D. – Leggendo la pagina spagnola di "Granma online" si nota comunque un linguaggio sempre molto forte nei confronti del governo nordamericano e di quelli che il giornale definisce i suoi alleati. Da una parte, un ammorbidimento e, dall’altra, un segnale che vuole dire: Cuba rimane la stessa?

    R. – Certamente. Infatti, sottolineano: “Il governo cubano nell’esercizio della sua sovranità”. Praticamente vogliono dire che, nonostante tutti i tentativi di sovversione e così via, loro rimangono "sovrani": "Noi decidiamo quando modificare la politica migratoria”. E’ un modo per far vedere agli Stati Uniti che non sono loro succubi.

    D. – Potrebbe però questa riforma ammorbidire la politica degli Usa? Pensiamo all’embargo...

    R. – Sarebbe una speranza, perché questa politica dell’embargo naturalmente pesa molto, soprattutto sulla povera gente.

    D. – Lei ritiene che ci saranno persone, pensiamo ad esempio ai giovani, che ne approfitteranno per uscire da Cuba?

    R. – Certamente, ci sarà questa volontà di emigrare. I giovani, magari per perfezionare i loro studi, vorranno uscire. Poi, vedranno quale sarà la situazione che si presenterà nel futuro. Sicuramente, ci saranno persone che desidereranno uscire.

    Ultimo aggiornamento: 17 ottobre

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    Secondo confronto televisivo tra Obama e Romney: i sondaggi premiano il presidente

    ◊   Si è svolto ieri sera il secondo confronto televisivo tra i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Nel dibattito tra Obama e Romney, scandito dalle domande dei cittadini, i due si sono dati battaglia sui temi caldi dal lavoro alle tasse, l’economia, l’immigrazione ma anche la politica estera. Secondo i sondaggi, questa volta ha prevalso il presidente Usa. Il servizio di Elena Molinari:

    Un aggressivo Barack Obama ha messo in dubbio ogni affermazione dello sfidante Mitt Romney nel secondo confronto televisivo fra I due, decisivo per la conquista della Casa Bianca. E si è aggiudicato così una vittoria, per lo meno fra gli spettatori di ieri notte. Ci vorranno però giorni per sapere se la serata ha mosso preferenze di voto. Il presidente ha accusato lo sfidante di voler aiutare i più ricchi a spese della classe media. Ma il repubblicano ha respinto l’accusa. “La verità – ha detto è che la classe media è stata spremuta negli ultimi quattro anni”. Scambi di opinioni accesi come questo si sono ripetuti per i 90 minuti della partita giocata di fronte a milioni di elettori, a meno di tre settimane dal voto. Obama ha di certo imparato la lezione di due settimane fa, e non ha ripetuto la performance apatica del primo duello con Romney, che ha nel frattempo conquistato preziosi punti nei sondaggi. I rivali si sono trovati in disaccordo su tasse, deficit, energia, facendo uno sforzo visibile di rimanere calmi in un appuntamento così decisivo. Hanno cercato entrambi di conquistarsi le simpatie del ceto medio con promesse di nuovi impieghi. Ma lo scontro più teso si è avuto sulla Libia, quando Romney ha accusato, erroneamente, il presidente di aver mentito sulla natura dell’attacco contro il consolato Usa. Un teso Obama ha smentito, raccogliendo il plauso del pubblico.

    E su questa questione Obama si è assunto la piena responsabilità di quanto accaduto a Bengasi. Sondaggi concordi nel definire il presidente vincitore di questo confronto, ma questo basterà a compensare la sconfitta del primo faccia a faccia a Denver? Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Paolo Mastrolilli che ha seguito il dibattito per il quotidiano La Stampa:

    R. – Certamente, il presidente è sceso in campo con molta più energia di quanto avesse fatto a Denver: molto più deciso, molto più determinato ad attaccare il suo avversario, molto più preparato – anche – nello spiegare quali sono le sue politiche e la sua visione per i prossimi quattro anni per gli americani, e nel criticare le proposte del suo avversario.

    D. – Tutti parlano di uno scivolone di Romney sul caso-Bengasi …

    R. – Romney ha detto che il presidente non aveva parlato di un atto di terrorismo, appunto, riguardo all’attacco contro il consolato americano; in realtà, in un discorso che aveva fatto al Rose Garden, il giorno dopo quel tragico evento, lui aveva detto che si era trattato di un attacco di terrore. Romney ha anche sottolineato il fatto che però l’intera amministrazione, in particolare l’ambasciatrice all’Onu, Rice, ma anche il segretario di Stato, Hillary Clinton, per molti giorni avevano detto che la responsabilità di quell’atto è legata al video che aveva indispettito la popolazione araba e per molti giorni avevano sostenuto, in sostanza, che si fosse trattato di una reazione spontanea a quel video. Mentre invece, poi, la realtà ha dimostrato che si era trattato di un atto terroristico organizzato da estremisti legati ad al Qaeda.

    D. – Su questo punto Obama si è ripreso la responsabilità, riassumendo il ruolo di presidente …

    R. – Bè, certo, non poteva lasciare che il segretario di Stato si assumesse la responsabilità completa e che lui, in sostanza, si nascondesse dietro Hillary Clinton. Anche perché il prossimo dibattito – il terzo – sarà incentrato sulla politica estera e questi temi torneranno.

    D. – Economia, lavoro, Libia: certamente i temi principali. Ma Obama si è riferito anche alla contraccezione, guardando all’elettorato femminile, garantendola a tutte. Puntualizzazione che guarda alla sua riforma sanitaria, tanto criticata in ambienti cattolici per l’obbligo ad ospedali e cliniche di dotarsi di strumenti per contraccezione e aborto. Su questo punto, Romney non ha preso le distanze …

    R. – Certamente sulla questione della vita, sulla questione dell’aborto, su queste questioni etiche Romney è su posizioni più vicine a quelle della Chiesa cattolica. Però, naturalmente anche lui ha il problema di dover riconquistare l’elettorato femminile. E proprio perché negli ultimi giorni ha visto salire le sue quotazioni tra questo elettorato, che è fondamentale per Obama, probabilmente a questo punto non ha interesse a marcare questa differenza di opinione che potrebbero penalizzarlo. E quindi ancora una volta, l’interesse strategico di Romney per vincere queste elezioni prevale, probabilmente, sulle convinzioni etiche in materia.

    D. – Ora si attende il terzo confronto tra Obama e Romney. Ma come li stanno guardando, gli americani?

    R. – Il problema è che gli americani in queste elezioni sono indecisi. Chiaramente, le cose non vanno bene: l’economia fatica a riprendersi, c’è un po’ di delusione, naturalmente, per come le cose sono andate in questi quattro anni. E quindi, gli elettori vogliono capire, da questi dibattiti, quale sia la persona che ha le idee migliori per cercare di farli effettivamente ripartire.

    D. – A Denver, il 3 ottobre scorso, Obama ha subito una netta sconfitta. Oggi, invece, ha riguadagnato punti. Questo basterà per arginare i danni di Denver?

    R. – E’ difficile dirlo. In termini di proporzioni, la vittoria che ha ottenuto in questo dibattito – ammesso che di vittoria si tratti – certamente non è stata uguale al successo che aveva ottenuto Romney; l’altro problema è che naturalmente il primo dibattito – quello di Denver, che ha avuto un grandissimo pubblico, circa 70 milioni di spettatori – ha la capacità di influenzare maggiormente gli elettori. E quindi è difficile che questa seconda prestazione basti ad Obama per recuperare i danni che ha fatto a Denver. Ci vorrà di più, nel prossimo dibattito, nel resto della campagna, per cercare di rimettere le cose nella direzione a lui favorevole.

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    Crisi: cresce la povertà in Spagna. Preoccupazione per la Grecia dopo l'interruzione dei negoziati con la troika

    ◊   Mercati europei in salita e spread bassi, dopo che Moody's ha confermato il rating alla Spagna. Un segnale rassicurante che cozza, però, con i dati sulla povertà nel Paese iberico, diffusi dalla Rete europea per la lotta alla povertà, secondo la quale, ad oggi, sono ''circa 12,7 milioni i cittadini'' spagnoli ''che non riescono a condurre una vita dignitosa a causa di un reddito totalmente insufficiente''. Preoccupante anche la situazione in Grecia, dopo l’interruzione dei negoziati tra i rappresentanti della troika Ue-Fmi-Bce e il ministro del Lavoro, Vroutsis. A provocarla la questione del licenziamento di 15 mila dipendenti statali entro il 2015 per far quadrare i conti. Cosa determina questa battuta d’arresto per il Paese ellenico? Salvatore Sabatino lo ha chiesto all’economista Francesco Carlà:

    R. – Penso che la battuta d’arresto sia, in realtà, parte integrante di un negoziato molto complesso. Quindi, siccome c’è in ballo la questione dei due anni in più per rientrare dal deficit, sul quale anche esponenti tedeschi incominciano a convergere un po’, io credo che i greci stiano tergiversando per cedere da una parte e riuscire ad ottenere almeno questi 24 mesi in più.

    D. – Il governo greco, però, già il mese scorso aveva lanciato un allarme sulle casse dello Stato che entro novembre sarebbero rimaste vuote, se non fossero arrivati altri fondi internazionali. Ora, come andrà a finire?

    R. – Per l'appunto, tutto fa parte di questo negoziato, sia da un punto di vista finanziario – denunciare le casse vuote – sia da un punto di vista politico: il rievocare Weimar, come ha fatto Samaras qualche giorno fa. Dall’altra parte, c'è anche una difficile gestione politica, perché licenziare tutti quei dipendenti pubblici da qui al 2015 non è certo semplice.

    D. – Alcuni, però, presagiscono un’uscita di Atene dall’area euro più rapida del previsto: si è parlato molto spesso di questo. Si tratta di una prospettiva reale, secondo lei, nonostante la Bce continui a insistere sull’irreversibilità dell’euro?

    R. – Io credo che questa prospettiva non sia reale, perché lo dice la Bce e perfino esponenti tedeschi, e il coro è generale: l’uscita della Grecia dall’euro è comunque la rottura di un fronte, creerebbe grandissimi problemi con i mercati finanziari. Quindi, io credo che siano tutte mosse diplomatiche, strategiche, tattiche…

    D. – Intanto, i mercati europei sono in rialzo dopo che Moody’s ha confermato il rating della Spagna: un segnale importante che riguarda l’altro anello debole della zona euro…

    R. – Sì. E’ un segnale importante, anche se – naturalmente – i problemi strutturali spagnoli restano all’orizzonte. I problemi spagnoli riguardano essenzialmente la difficoltà di riassorbire una gigantesca bolla immobiliare che ha fiaccato le banche. Però, dall’altra parte c’è un rinnovato interesse per i titoli di Stato, anche dei Paesi periferici, a livello globale. Di fatti, le ultime aste spagnole sono andate piuttosto bene e questo, per il momento, ritarda la richiesta di aiuti da parte degli spagnoli. Non so quanto questo sia, però, tatticamente intelligente, da parte di Madrid.

    D. – Ma la Spagna, con tutte le misure anticrisi prese dal governo, che stanno provocando anche sollevazioni popolari, a questo punto può tirare un sospiro di sollievo o ancora no?

    R. – Un sospiro di sollievo… a breve. Il problema è sempre: come conciliare i momenti che appaiono positivi con eventuali improvvisi cambiamenti di umore dei mercati, dovuti magari anche a iniziative delle agenzie di rating.

    D. – Complessivamente, l’Europa a che punto è nella battaglia contro la crisi che la attanaglia ormai da parecchio tempo?

    R. – Da un punto di vista finanziario, non siamo stati mai messi così bene negli ultimi sei mesi. Quindi, diciamo che è ad un punto migliore delle attese, per usare il linguaggio degli analisti. Da un punto di vista economico, io credo – invece – che la crisi proseguirà probabilmente per tutto il 2013.

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    Al via i colloqui di Oslo tra Farc e governo colombiano

    ◊   Dopo due giorni di rinvio prendono il via oggi ad Oslo i negoziati tra il governo colombiano di Manuel Santos e il leader delle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie. A ritardare l'avvio dei negoziati era stata la mancata partenza della delegazione governativa dall'aeroporto di Bogota' a causa del maltempo. I negoziatori delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia avevano fatto sosta a Cuba per completare le procedure per il salvacondotto che impedisce il loro arresto in Norvegia, in seguito al mandato di cattura internazionale nei loro confronti. Sull’importanza di questa trattativa, Salvatore Sabatino ha intervistato Andrea Amato, autore del libro-inchiesta “L’impero della cocaina” ed esperto di questioni latino-americane:

    R. - E’ la prima volta, dopo dieci anni, che le due parti decidono di incontrarsi e di sedersi intorno ad un tavolo. Quindi, ha un valore simbolico molto forte. Anche i sondaggi tra i cittadini colombiani danno ottimismo: il 75% dei colombiani crede che questi colloqui porteranno finalmente alla pace.

    D. - C’è ottimismo, però, non è la prima volta che le Farc si siedono al tavolo delle trattative. Tutte le altre volte i colloqui si sono chiusi con un fallimento. Cosa cambia questa volta?

    R. - Questa volta può cambiare qualcosa, perché le Farc hanno sempre meno appoggio dal loro tessuto sociale, quindi dai “campesinos”. Sentono questa mancanza di substrato culturale in cui sono nate e cresciute. Per lo più la guerra che sta facendo loro l’esercito da anni ha portato i suoi frutti: sono stati decimati i capi e continua l’offensiva dell’esercito colombiano. Quindi, diciamo che sono un po’ più alle “strette” rispetto a prima.

    D. - Bisogna sottolineare che la Chiesa ha ricoperto un ruolo chiave nei contatti esplorativi che hanno portato poi il governo e le Farc all’avvio dei colloqui di pace. Tutto è avvenuto con grande discrezione…

    R. - Certo, la Colombia è un Paese fortemente cattolico. Tutto il clero colombiano ha cercato di lavorare in questa direzione con i guerriglieri marxisti e questo è stato riconosciuto anche dallo stesso presidente, Juan Manuel Santos, che ha ringraziato il clero per questa opera di tessitura, soprattutto nelle zone rurali, dove le Farc hanno il loro brodo culturale.

    D. - A proposito del presidente Santos, fin dalla sua elezione nel 2010 ha detto di voler trovare una soluzione negoziata al conflitto, puntando sul dialogo e non sulle armi. E’ una strada, questa, oggettivamente percorribile?

    R. - E’ una strada percorribile. Santos doveva assolutamente trovare un’altra via, essere distonico rispetto alla politica di Uribe, che aveva fatto tutt’altro, perché aveva attaccato frontalmente le Farc, ma soprattutto aveva aiutato i guerriglieri di destra, quelli delle Autodefensas Unidas de Colombia, dando loro supporto logistico e usandole quasi come un secondo esercito per combattere i marxisti. Quindi, Santos ha completamente cambiato politica dentro la Colombia e cerca, attraverso gli incontri di pace, di trovare la via giusta.

    D. - Tra i punti in agenda ci sono: lo sviluppo rurale, le garanzie per gli oppositori, la fine del conflitto armato, la lotta al narcotraffico e i diritti delle vittime. Quali sono le criticità?

    R. - Il punto più critico è sicuramente quello del narcotraffico. Secondo il mio parere, assolutamente personale, tutte le rivendicazioni sul gruppo rurale, che sono le rivendicazioni degli anni ’60, marxiste, e delle Farc, oggi in realtà sono una “foglia di fico”. Il grandissimo potere delle Farc oggi è quello del controllo del territorio e quindi del traffico di cocaina. Ed è su questo punto che, secondo me, ad un certo punto salteranno questi incontri. Ricordiamo che questi incontri sono stati fissati prima delle elezioni in Venezuela. Oggi con la rielezione di Chavez, secondo me, le Farc si sentono un po’ più forti, perché hanno un alleato come Chavez che da sempre li ha sostenuti e continua a sostenerli.

    D. - Non a caso il Venezuela sarà uno dei Paesi osservatori della seconda tranche dei colloqui che avverrà a L’Avana…

    R. - Esatto, insieme al Cile. Quindi, un Paese fortemente vicino alle Farc e un Paese fortemente avversario delle Farc come il Cile. Gli incontri a L’Avana saranno probabilmente quelli decisivi. La mia impressione personale è che purtroppo alla fine faranno saltare il tavolo, proprio per queste ragioni, perché non è facile per le Farc rinunciare alla partita del narcotraffico e a tutta quella montagna di soldi.

    D. - Si ha anche l’impressione che su questa questione si fronteggino un po’ le due anime dell’America Latina: quella più vicina agli Stati Uniti e quella invece che viene capeggiata dal Venezuela, da Cuba…

    R. - Si sono già creati incidenti diplomatici, perché all’interno della delegazione delle Farc sono stati inseriti dei personaggi condannati in contumacia negli Stati Uniti per decenni e decenni di prigione come Simon Trinidad, ovvero Juvenal Ovidio Ricardo Palmera, che ha sequestrato dei responsabili del Pentagono nel 2003. Quindi, mettere all’interno della delegazione personaggi di questo tipo è sicuramente una provocazione verso gli Usa, i “gringos” come li chiamano loro.

    D. - Si parla anche della possibilità che le Farc si trasformino in un partito politico, ipotesi mai presa in considerazione nei precedenti colloqui. Questo che conseguenze avrebbe sugli equilibri interni del Paese?

    R. - Se realmente fosse vero, sarebbe un problema, più che a destra, a sinistra. Il partito democratico colombiano potrebbe soffrire maggiormente, più della destra, l’arrivo di un partito alla sua sinistra. Mi sembra, però, ancora un’ipotesi molto remota.

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    Sierra Leone, tra un mese elezioni generali in un clima disteso

    ◊   Si è aperta oggi, in Sierra Leone, la campagna elettorale per le elezioni generali. Il 17 novembre prossimo, gli aventi diritto al voto, tra gli oltre cinque milioni e mezzo di abitanti, dovranno scegliere il presidente, il parlamento e le amministrazioni locali. Ma qual è la situazione oggi nel Paese dell’Africa occidentale, che appena pochi anni fa ha vissuto il dramma di una lunga e sanguinosa guerra civile? Giancarlo La Vella ne ha parlato con il collega sierraleonese della redazione inglese per l’Africa della Radio Vaticana, Festus Tarawalie:

    R. - Il Paese ha attraversato un periodo molto brutto, tra il 1990 ed il 2002, l’anno in cui è finita la guerra civile. Penso che i sierraleonesi abbiano imparato molto da quella tragica esperienza, sia pure in modo molto duro e molto penoso, ma oggi abbiamo la pace in Sierra Leone e la gente è molto contenta di potere, per la terza volta dalla fine della guerra, votare per i propri candidati e per il presidente. Oggi, il Paese gode di pace e ci sono tante potenzialità per continuare su questa strada.

    D. - Non è rimasto nulla di quelle drammatiche frizioni, che provocarono la guerra civile?

    R. - A dire la verità, ci saranno sempre dei problemi, perché la situazione sociale è ancora difficile: ci sono alcuni che non hanno ancora abbastanza da mangiare. Ma penso che negli ultimi cinque anni l’incidenza della povertà si è dimezzata ed il governo attuale ha anche lanciato un nuovo progetto per continuare su questa strada e per far sì che questi problemi, che in passato hanno portato alla guerra civile, vengano superati. Da segnalare, poi, che in queste elezioni ci sono anche gli ex ribelli Ruf (Revolutionary United Front), che hanno il loro partito: questo per dire che il popolo sierraleonese vuole essere unito, vuole andare a queste elezioni in pace per il bene del Paese. Dopo le elezioni, qualunque sia il risultato, dobbiamo rimanere uniti, dobbiamo rimanere fratelli e sorelle per il bene del Paese.

    D. - Di fronte alla crisi economica globale, che sta interessando tutto il mondo, come sta reagendo la Sierra Leone e come riesce a promuovere le sue ricchezze naturali?

    R. - Molti dei suoi abitanti sono agricoltori. Dunque, è importante dar loro la possibilità di poter coltivare, di poter vendere, di poter mangiare quello che producono, perché se ad esempio il riso viene importato, costerà molto di più. Per le risorse minerarie, abbiamo il giacimento di bauxite - tra i più grandi del mondo - e in questi ultimi due anni abbiamo avuto degli investimenti di miliardi di dollari. Speriamo che, fra poco, questo si trasformi in cose concrete per i sierraleonesi. Poi, per fortuna, oggi non si combatte più per i diamanti. Il governo riesce a tassare chi viene a lavorare e a sfruttare le miniere: dai proventi dei diamanti il governo sta realizzando importanti progetti.

    D. - In questa fase di pacificazione, qual è il ruolo della Chiesa in Sierra Leone?

    R. - Già durante la guerra il Consiglio nazionale interreligioso, ma anche il Consiglio delle chiese della Sierra Leone, e tanti altri leader della chiesa hanno cercato di promuovere il valore della pace, del dialogo, per cercare di ricompattare il tessuto sociale. Non hanno mai smesso e anche adesso la Chiesa cattolica - in occasione delle elezioni, ad esempio - ha pubblicato una lettera pastorale, invitando tutti a rispettare il voto, a partecipare, ma in un modo corretto e leale verso gli altri. Anche se abbiamo delle sensibilità diverse, dobbiamo sapere che questo è per il bene del Paese e ognuno deve essere libero di fare la sua scelta. E’ fondamentale che le elezioni vengano accettate e che si svolgano in un clima di fratellanza, di amicizia, collaborazione e rispetto.

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    Rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre: a rischio i cristiani nei Paesi della primavera araba

    ◊   E’ stato presentato ieri a Roma il “Rapporto sulla Libertà Religiosa nel Mondo 2012” curato dalla Fondazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre”. Ne viene fuori un quadro generale in fase di peggioramento rispetto al recente passato, nel quale sono soprattutto le comunità cristiane, ma non solo, a subire gravi discriminazioni, che spesso sfociano in aggressione e violenze. Il servizio di Giancarlo La Vella:

    Il rapporto prende in esame 196 Paesi, di cui 131 a maggioranza cristiana. Eppure, sono proprio i cristiani che maggiormente subiscono discriminazioni e persecuzioni. Da segnalare anche che la mortificazione nel professare la propria fede colpisce anche altre minoranze religiose con vari livelli di gravità. Per tutti, si va da semplici atti di oltraggio e di disprezzo ad atti di oppressione e di vera e propria aggressione. Una situazione che troppo spesso causa vittime innocenti e determina atti di ritorsione tra comunità ed etnie diverse. Ad esempio, in Cina e in altri Paesi orientali sono in aumento - secondo il Rapporto - i tentativi dei governi di assoggettare le comunità religiose ai controlli dello Stato. Particolarmente preoccupante la situazione nel Paesi della "primavera araba", dove le istanze democratiche della prima ora hanno lasciato il passo a un islam non moderato. Ne abbiamo parlato con il gesuita egiziano, padre Samir Khalil Samir, islamologo dell’Università Saint Joseph di Beirut:

    “Per loro l’ideale è imporre la sharia islamica. Pretendono che sia la legge data da Dio nel VII secolo a Maometto. Essendo una legge divina non può essere che perfetta. ‘Tutte le vostre costituzioni – dicono – sono umane, dunque imperfette’. I cristiani, essendo una minoranza, anche se forte, sono i primi che sentono questa esclusione. La situazione, dunque, è sempre più difficile. La soluzione? Vogliamo cambiare, ma ci vuole un cambiamento di mentalità, della visione politica. Siamo, però, ancora lontani per arrivare a questo”.

    L’estremismo islamico dà vita ad atti di vera e propria aggressione anche in diversi Paesi africani, come il Kenya, il Mali, la Nigeria e il Ciad. Caso estremo, l’Arabia Saudita dove ai due milioni di cristiani residenti non è permessa alcuna manifestazione del proprio credo. Un capitolo a parte è rappresentato dall’India e dal Pakistan dove, dopo le violenze anticristiane degli anni scorsi nello Stato dell’Orissa, le leggi contro le conversioni oggi rappresentano spesso un alibi per commettere abusi di potere. E questo nonostante la Costituzione indiana riconosca il pieno diritto alla libertà religiosa. Inoltre, muta la situazione dei cristiani a causa di cambi della legislazione: in Kirghizistan, in senso positivo, e in Tagikistan, in senso negativo, poiché la nuova legge sulle comunità religiose sta obbligando molti cristiani a emigrare. Ma di fronte a tanti abusi e tanto dolore, non mancano gli esempi luminosi di collaborazione e di convivenza pacifica tra cristiani e altre religioni: spesso si riesce a lavorare insieme per il progresso della società. Ce ne parla Nino Sergi, presidente dell’organizzazione umanitaria Intersos:

    “Di fronte ai casi drammatici, che devono farci leggere le realtà e farci anche reagire, ci sono centinaia, forse migliaia di casi di piccole comunità, piccoli villaggi, persone, associazioni e così via che invece vivono ancora e abbastanza profondamente il rapporto fra di loro, considerandosi alla pari, aiutandosi fra di loro. Questi aspetti vengono oggi poco valorizzati e, secondo me, invece dovremmo riuscire a guardarli meglio e tutelarli, svilupparli, aiutarli a crescere, affinché non spariscano. Ci sono ancora molte realtà in cui si dialoga, in cui c’è rispetto, in cui i musulmani nelle grandi feste vanno alla Messa e, forse, talvolta gli stessi cristiani vanno poi alle feste musulmane, non tanto per una mescolanza di religioni, ma proprio per rispetto gli uni degli altri”.

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    Caritas, Rapporto povertà 2012: 33 italiani su 100 ricorrono ai Centri di ascolto

    ◊   Oltre il 30 per cento degli italiani ricorre ai centri Caritas: il dato preoccupante emerge dal Rapporto sulla Povertà 2012, pubblicato oggi per la prima volta in versione integrale on line all’indirizzo: www.caritasitaliana.it. Lo studio frutto di capillare raccolta in 191 Centri di ascolto (Cda) della Chiesa italiana, su 2.832 sparsi in tutta Italia, rivela che il lavoro e la casa sono in cima ai problemi di chi chiede un aiuto materiale ma anche un sostegno per orientarsi. Il servizio di Roberta Gisotti:

    “I ripartenti. Povertà croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi”. Il titolo del Rapporto che evidenzia una realtà di disagio sociale complessa e variegata: 33 italiani su 100 si sono rivolti lo scorso anno ad un Centro Caritas. Impennata di richieste fra le casalinghe, quasi 180% in più, segno di estrema sofferenza delle famiglie monoreddito, ma anche fra gli anziani e i pensionati in crescita del 55%. Aumentano gli stranieri del 70%, più in cerca però di lavoro (17%) e orientamento (13,4%) che di sostegni economici, solo il 7% delle richieste contro il 20 degli italiani. Quanto agli aiuti: beni e servizi materiali sono in cima alla lista, seguiti dai sussidi economici rivolti in maggioranza agli italiani (23%) rispetto agli stranieri (6,9%), segno della crisi. Nel rapporto si evidenzia – se cosi si può dire – una sorta di normalizzazione della povertà. Walter Nanni responsabile dell’Ufficio Studi della Caritas Italiana:

    R. – Stiamo notando una minore presenza di persone senza dimora o con gravi problemi abitativi, ossia di emarginati gravi. Questa presenza diminuisce del 10,7%. Aumentano invece casalinghe, pensionati, anziani, italiani tra i 40 e i 50 anni, che hanno perso il lavoro e cominciano a rivolgersi anche alla Caritas. Questo significa un cambiamento di utenza e anche un cambiamento di richieste e di modalità di intervento.

    D. – Nel Rapporto, si mette in luce anche il fatto che molte persone chiedono orientamento per il lavoro...

    R. – Sono quelli che abbiamo definito i “ripartenti”. A differenza del passato, in cui l’utente Caritas chiedeva essenzialmente beni materiali, riparo per la notte, pacchi di viveri, molto spesso ormai le persone, soprattutto gli italiani, chiedono alla Caritas la possibilità di reinserirsi dal punto di vista sociale, professionale: formazione, inserimento lavorativo, ascolto personalizzato, recupero della scolarità perduta, orientamento professionale. Questo significa voglia di ripartire e purtroppo anche false partenze, perché il tessuto economico italiano non offre moltissimo da questo punto di vista.

    D. – Nel Rapporto, si mette anche in luce che la Caritas non può svolgere un ruolo di supplenza rispetto a quelle che sono le responsabilità dello Stato...

    R. – Purtroppo, in questo momento, abbiamo un welfare nazionale, e quindi anche poi locale, in crisi, con gravi tagli che hanno inciso sulla sua efficacia. Abbiamo anche difficoltà che non sono legate solamente alla scarsità di risorse: manca il pronto intervento sociale. Una persona di 40-50 anni che perde il lavoro non ha in questo momento – se ad esempio aveva un lavoro a collaborazione, non a tempo indeterminato – delle risorse immediate, urgenti, e la Caritas, così come altri enti, svolge una funzione sussidiaria per cercare di tamponare queste situazioni di emergenza.

    D. – Quale giudizio dare della politica?

    R. – In questo momento, bisognerebbe dare maggiore attenzione al fatto che la povertà è cambiata. Non si può più pensare a un fenomeno stabile nelle generazioni. Ci vuole un grande sforzo comunitario. Il volontariato, purtroppo, in questo senso è anche in calo nel settore socio-assistenziale, ma mancano sicuramente quelle grandi dimensioni di impegno sociale degli anni precedenti. Dal punto di vista nazionale, poi, ci sono alcune misure che andrebbero prese con una certa urgenza, tra cui la possibilità di introdurre nel Paese un reddito minimo d’inserimento: una misura presente in quasi tutti gli Stati dell’Unione Europea e che manca in Italia.

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    Superare la logica dei "campi nomadi" e promuovere i diritti dei Rom in un convegno a Roma

    ◊   Superare la logica dei “campi nomadi” per promuovere la piena cittadinanza della popolazione Rom. Questo il tema del convegno “Pensare contro-campo. Rom, cittadini dell’Italia che verrà”, organizzato dall’associazione “21 luglio”, specializzata nella tutela dei diritti dell’infanzia e promotrice della campagna “stop all’apartheid dei Rom”. All’incontro, che si è svolto ieri a Roma, c’era per noi Michele Raviart:

    Ospiti mal tollerati, capro espiatorio dei problemi sociali in tempi di crisi, quasi mai cittadini a pieno titolo delle comunità in cui abitano. E’ la perpetua discriminazione subita, tanto in Italia quanto in buona parte d’Europa, dai popoli Rom e Sinti, spesso l’ultima delle minoranze in termini di tutela dei diritti civili. Dalla metà degli anni sessanta i Rom sono stati oggetto di una politica di allontanamento costante dai centri abitati, che in Italia ha preso la forma dei “campi nomadi”, veri e propri “non-luoghi”, fuori dallo Stato di diritto e dal resto del territorio urbano, come ci spiega Carlotta Sami, direttrice della sezione italiana di Amnesty International.

    “Innanzitutto sono luoghi di separazione, di segregazione, quindi sono luoghi chiusi in cui le persone vengono costantemente controllate, a prescindere dal fatto che abbiano commesso qualsiasi tipo di reato. Quindi vengono controllate in quanto semplici abitanti di quel campo, che siano bambini, donne o uomini. Violano i diritti umani perché privano le persone che ci vivono di servizi essenziali. Privano i bambini del diritto fondamentale all’istruzione e privano dell’accesso all’acqua, all’elettricità. Le persone non hanno di che lavarsi, non hanno di che cucinare e quindi pongono anche le persone a oggettivi rischi di salute”.

    Difficile parlare ancora di strutture di accoglienza per “nomadi”, dato che si è ormai arrivati alla terza generazione di persone nate e cresciute nei campi, spesso senza aver mai avuto un documento d’identità, con tutte le limitazioni all’accesso dei servizi pubblici che questo comporta. Oggetto di politiche, sia da parte delle istituzioni che dell’associazionismo, ma mai soggetto veramente attivo, i Rom in Italia sono circa 170mila, 10mila dei quali, secondo alcune stime, si trovano solo nei campi di Roma. In Italia i Rom sono considerati una questione di sicurezza e di ordine pubblico, tanto che da quattro anni è in vigore lo stato d’emergenza per il “problema nomadi”. Una serie di atti normativi giudicati illegali dal Consiglio di Stato e per i quali sono stati stanziati 20 milioni di euro. Di recente il governo ha improntato un “piano nazionale nomadi”, in linea con le direttive europee. Mons. Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes:

    “Ritengo importante anzitutto che il piano nazionale che è stato realizzato all’insegna anche di una indicazione europea venga preso sul serio come base di azione politica. Il problema rom è anzitutto un problema culturale. Una politica che riparta dalla città e nella città dagli ultimi è certamente una politica oggi che aiuta a superare questa condizione di minorità”.

    Fin dal 1965, con l’incontro di Pomezia fra Paolo VI e Rom, la Chiesa è stata una delle poche istituzioni in prima fila nella lotta per i diritti dei popoli Rom e Sinti. Ancora mons. Perego:

    “Da allora tutto quel cammino di coniugazione, di evangelizzazione e promozione umana negli anni ’70 ha significato lavorare molto per la scuola, per il riconoscimento dei diritti. Negli anni ’80 ha significato effettivamente riuscire a camminare anche per una città riconciliata che superi i pregiudizi e le discriminazioni. Negli anni ’90 ha significato ripensare la città a partire dai rom che provenivano da altri Paesi e che univano alla loro condizione rom l’esperienza anche di essere profughi. Nel 2000 significa fare in modo di riuscire effettivamente ad arrivare a quel superamento di chi vive ancora nei campi ma soprattutto il superamento di quei pregiudizi e di quelle discriminazioni che nel nostro Paese non rendono ancora cittadini queste persone”.

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    Cento anni fa nasceva Albino Luciani, il "Papa del sorriso"

    ◊   Ricorre oggi il 100.mo anniversario della nascita di Albino Luciani, salito al soglio di Pietro, il 26 agosto del 1978, con il nome di Giovanni Paolo. Sulla figura di Papa Luciani, Pontefice per soli 33 giorni e per il quale sta andando avanti il processo di Beatificazione, il servizio di Amedeo Lomonaco:

    Il suo motto episcopale era “Humilitas” e l’umiltà ha scandito la sua vita. Queste le parole del primo Angelus, il 27 agosto del 1978:

    “Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere… Io non ho né la sapientia cordis di Papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di Papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere”.

    Oltre all’umiltà, altre virtù da osservare sono la giustizia e la carità. La carità – sottolinea Papa Luciani nella prima udienza generale il 6 settembre del 1978 – “è l'anima della giustizia”:

    “Bisogna voler bene al prossimo, il Signore ce l'ha raccomandato tanto. Io raccomando sempre non solo le grandi carità, ma le piccole carità”.

    La misericordia di Dio è al centro dell’Angelus del 10 settembre 1978. Il Signore ama ogni uomo, anche coloro – afferma Papa Luciani – che sono “malati di cattiveria”:

    “Noi siamo oggetti da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. E' papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti.”.

    Le parole pronunciate durante l’udienza generale del 13 settembre 1978 sono anche oggi, in questo Anno della Fede, un richiamo forte per ogni uomo:

    “Gesù ha detto: nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira… Ecco che cosa è la fede: arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita. Cosa non sempre facile”.

    Nell’ultimo Angelus, il 24 settembre 1978, Papa Giovanni Paolo I lascia il suo “testamento spirituale”, oggi particolarmente attuale, con un’esortazione ad essere miti di cuore:

    “La gente talvolta dice: ‘Siamo in una società tutta guasta, tutta disonesta’. Questo non è vero. Ci sono tanti buoni ancora, tanti onesti. Piuttosto, che cosa fare per migliorare la società? Io direi: ciascuno di noi cerchi lui di essere buono e di contagiare gli altri con una bontà tutta intrisa della mansuetudine e dell'amore insegnato da Cristo”.

    Di Giovanni Paolo I, il “Papa del sorriso”, restano parole, gesti, insegnamenti. E rimane indelebile il suo sorriso modellato dall’umiltà, dalla preghiera e dalla misericordia.

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    Simposio al Camillianum: la "fantasia della carità" a servizio del malato. Intervista col cardinale Comastri

    ◊   Cento anni e li dimostra. L’Istituto delle Figlie di San Camillo ha festeggiato ieri il centenario di presenza a Roma nell’Ospedale intitolato alla sua fondatrice: la Beata Madre Giuseppina Vannini. Lo ha fatto inaugurando due nuovi reparti e, in tempi di contenimento delle spese, soprattutto in campo sanitario è già questa una notizia. A seguire un Simposio dal titolo eloquente: “La fantasia della carità: il malato al centro dell’esperienza camilliana”. La giornata si è conclusa con la solenne celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Angelo Comastri, vicario generale del Papa per lo Stato della Città del Vaticano e arciprete della Basilica Papale di San Pietro. “La carità sia la vostra divisa”, ha detto il porporato durante l’omelia, facendo proprio uno degli insegnamenti della Vannini. Davide Dionisi gli chiesto come è possibile indossare questo abito in una società segnata da tanta indifferenza:

    R. - Ancora di più c’è bisogno di questo abito. Quando il cristianesimo ha fatto i primi passi nel mondo, c’era tanta crudeltà quanta ce n’è oggi, c’era tanta indifferenza quanta ce n’é oggi, perché la lotta tra l’egoismo e la dedizione appartiene alla storia del mondo. Eppure, i cristiani, fin dall’inizio, si sono chinati sugli ammalati con immenso rispetto e con immenso affetto, perché una parola di Gesù ci ha dato una consegna precisa: “Io ero ammalato”. L’ammalato è una delle presenze privilegiate di Gesù nel mondo, nella società, e noi cristiani lo sappiamo. Per questo, all’interno del cristianesimo sono nate verso gli ammalati tante opere di assistenza e di attenzione. Gli stessi ospedali sono invenzione cattolica, sono nati in Chiesa cattolica. L’organizzazione puntuale, programmata del malato, del sofferente, è un frutto del cattolicesimo. Basti pensare a San Giovanni di Dio, basti pensare a San Camillo de Lellis. Questo è l’ospedale. L’ospedale è nato in casa cattolica e oggi continua evidentemente la nostra attenzione verso gli ammalati e non finirà mai, fino al ritorno di Gesù.

    D. - San Camillo ci ha insegnato che lo strumento diagnostico più prezioso per la medicina è l’ammalato. Può essere ancora così?

    R. – Certamente, lo strumento diagnostico è l’ammalato amato, l’ammalato ritenuto prezioso e non un peso, l’ammalato ritenuto un dono e non un fastidio. Quando l’ammalato si guarda così e si ascolta così, si può fare una diagnosi, altrimenti si può curare il corpo, ma non si cura la persona.

    San Camillo ci ha insegnato che lo strumento diagnostico più prezioso per la medicina è l’ammalato. Può essere ancora così? Con la superiora generale delle Figlie di San Camillo, Madre Laura Biondo, abbiamo affrontato il tema del giorno, la "fantasia della carità". Le abbiamo chiesto come sia possibile essere creativi lungo le corsie di un ospedale, soprattutto quando si è in stretto contatto con chi soffre:

    R. – Ci deve essere una carica veramente forte di amore per il malato, meglio di carità. Se c’è questa, allora tutto si può inventare per rendere la degenza di un malato più serena, più umana. E allora sì che come San Camillo, o meglio come il Buon samaritano del Vangelo, noi veramente possiamo inginocchiarci davanti a lui per dirgli il nostro affetto e per dirgli che lui per noi è molto importante, perché ci permette di esprimere quella compassione che il Buon samaritano ha avuto per il malcapitato.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Siria: la speranza dei cristiani e di tutti i siriani per la visita della Delegazione del Sinodo

    ◊   “La notizia che una delegazione del Sinodo dei vescovi in corso a Roma verrà in Siria è un motivo di speranza per i cristiani e per tutti gli abitanti della Siria. Tutti ci auguriamo che la visita assuma il profilo di una vera e propria missione di pace, per chiedere la riconciliazione tra le parti che si combattono”. Così dichiara all'agenzia Fides l'arcivescovo di Aleppo degli armeni cattolici, Boutros Marayati. Nella città martire da mesi al centro dei bombardamenti e degli scontri tra esercito governativo e milizie degli insorti, l'eventualità di essere visitati da una delegazione di cardinali e vescovi provenienti da Roma rappresenta già di per sé un segno potente: “La visita annunciata fa capire quanto la Santa Sede e i vescovi di tutto il mondo abbiano a cuore le sorti di tutti i popoli del Medio Oriente. Sarebbe bello che venissero a Aleppo. Li aspettiamo. Se vengono a trovarci saremo contenti” commenta mons. Marayati. Secondo il capo della comunità armeno-cattolica di Aleppo, la missione dei Pastori cattolici in Siria può realisticamente aprire uno spiraglio inedito per la soluzione del conflitto siriano, proprio in virtù del suo profilo sui generis: ”Finora - spiega a Fides l'arcivescovo Marayati - ci sono state perdite terribili, per tutti. Morti, distruzioni, sfollati, vite in fuga. La storia insegna che a volte i nemici possono trovare un'intesa e col tempo riconciliarsi. Anche in Europa i popoli si sono fatti la guerra, e ora sono amici e collaborano in pace. Ma questo chiede un intermediario che sappia parlare anche al cuore ferito delle persone, non usando solo il linguaggio del calcolo politico. La delegazione del Sinodo può avere questa funzione diplomatica, in senso umano. Testimoniando la passione per la dignità umana condivisa da musulmani, ebrei e cristiani, possiamo provare a salvare gli uomini, le donne e i bambini che qui soffrono e aspettano salvezza, in una situazione che sembra senza via d'uscita”. Riguardo ai motivi che alimentano il conflitto, Boutros Marayati invita a evitare letture superficiali e fuorvianti: “l vescovi - spiega a Fides - conoscono bene la situazione. Ormai non è più solo questione di riforme democratiche richieste o osteggiate. In questa situazione disastrosa è entrato di tutto. La situazione è complicata. E tra le altre cose, quello che preoccupa è l'emergere del fanatismo religioso. Quando la religione diventa violenta e si combatte in nome di Dio, viene messa a repentaglio l’intesa con i fratelli delle altre religioni, che qui abbiamo condiviso per tanto tempo. Anche per questo attendo con speranza l'arrivo qui in Siria dei cardinali e dei vescovi provenienti da Roma: tutto quello che si muove in favore del popolo siriano, da qualunque parte venga, sarà benedetto dal Signore”. (R.P.)

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    Commissione Onu: centinaia di jihadisti in territorio siriano

    ◊   In Siria vi sono centinaia di "islamisti radicali o jihadisti", molto pericolosi, che combattono contro Assad per i loro progetti e non in funzione della democrazia nel Paese. Lo afferma Paulo Sergio Pinheiro, a capo di una Commissione Onu per la verifica sugli abusi dei diritti umani in Siria. Nel primo rapporto dopo un mese di verifiche, egli afferma che vi è "una crescita drammatica di tensioni confessionali" causati da combattenti stranieri. Essi - sottolinea Pinheiro - non sono un grande esercito, ma "non combattono per la democrazia e la libertà, ma per una loro agenda". Da tempo diverse fonti mettevano in guardia la comunità internazionale sulla presenza in Siria di centinaia di combattenti islamici vicini ad Al Qaida, provenienti da diverse parti del mondo islamico: Iraq, Libia, Egitto, Afghanistan, Cecenia, Ucraina, Mali e Somalia. Anche il governo di Damasco ha spesso accusato "gruppi terroristi" presenti fra le file del Free Syrian Army, responsabili di molti attentati sanguinari. Secondo il governo ve ne sono almeno migliaia. Pinheiro ha fatto notare che la presenza di jihadisti "può contribuire alla radicalizzazione... e questa presenza è particolarmente pericolosa" nel conflitto. Le preoccupazioni dell'Onu avvengono proprio mentre Lakhdar Brahimi, l'inviato Onu per il processo di pace, sta tentando di varare una tregua che coinvolga tutte le parti in lotta e i loro sponsor. La tregua dovrebbe avvenire per la festa di Eid al-Adha, che si celebra alla fine di ottobre. Il timore è che i gruppi jihadisti non rispondano all'appello e continuino a lottare. Nella comunità internazionale si è pure cauti dopo le rivelazioni del New York Times, secondo cui, molte delle armi che Arabia saudita e Qatar inviano ai ribelli, cadono nelle mani dei jihadisti. (R.P.)

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    Unicef: la minaccia dell'inverno incombe sui bambini siriani rifugiati

    ◊   Con l'arrivo dell'inverno, l'Unicef accelera i piani per aiutare i bambini e le famiglie fuggite a causa della crisi in Siria, in una regione dove le temperature possono arrivare anche a zero. Circa 1,2 milioni di persone - si legge in un comunicato dell'organizzazione - sono attualmente sfollate all'interno della Siria, mentre più di 300.000 sono state registrate o in attesa di registrazione come rifugiati in Turchia, Libano, Giordania e Iraq. C'è preoccupazione per l'impatto delle basse temperature sulle famiglie fuggite dalla Siria con abbigliamento estivo, che vivono prevalentemente nelle tende, e per gli effetti di pioggia e forti venti. Circa 30.000 profughi siriani - la metà dei quali si stima siano bambini - hanno trovato rifugio presso un campo attrezzato con tende, situato in una zona desertica del nord della Giordania. "L'Unicef sta rafforzando i piani di aiuto per i rifugiati in Giordania settentrionale per affrontare l'inverno che si avvicina e che sarà particolarmente duro per i più piccoli", ha dichiarato Dominique Isabelle Hyde, Rappresentante dell'Unicef in Giordania. "La risposta dell'Unicef comprende vestiti caldi per i bambini, acqua calda per le docce, tende termiche, spazi di protezione dell'infanzia e scuole". Tutti i 90 Centri di acqua e servizi igienici nel campo di Za'atari devono essere coperti con tetti e attrezzati con una fornitura di acqua calda per 450 docce. L'Unicef ha sostituito le tende degli Spazi Amici dei Bambini, a Za'atari e dintorni, con tende a doppio strato utili per l'inverno, dotate di pavimenti rialzati. Lo spazio per le scuole nelle vicinanze di Ramtha è già stato ampliato con 15 prefabbricati. L'Unicef sta inoltre portando avanti piani di preparazione per l'inverno in Siria, Turchia, Libano e Iraq. Le condizioni climatiche rappresentano un grave problema, come emerso nel corso di un incontro al campo profughi di Za'atari tra i leader delle comunità e i direttori generali dei Comitati nazionali dell'Unicef di Regno Unito, Francia, Germania e Paesi Bassi. "I bisogni sono immensi e in aumento non solo in Giordania, ma anche in Siria e nei paesi vicini" - ha detto David Bull, direttore generale del Comitato Unicef del Regno Unito - “Lo staff dell'Unicef e dei partner sta lavorando instancabilmente per poter far fronte al crescente numero di rifugiati, per fornire aiuti essenziali per i bambini come acqua e servizi igienico-sanitari, istruzione e protezione dei bambini. Il nostro compito sarà ora quello di contribuire a raccogliere i fondi per l'Unicef, che ne ha così disperatamente bisogno per continuare ad aiutare i bambini". (R.P.)

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    Pakistan: a Karachi radicali islamici attaccano la chiesa di San Francesco

    ◊   La chiesa cattolica di San Francesco, la più antica dell’arcidiocesi di Karachi, nella città vecchia, è stata attaccata da una folla di circa 600 radicali islamici che hanno devastato il cortile intorno, senza però riuscire a sfondare la porta di ingresso. I due frati francescani che vi risiedono, padre Victor Mohan e padre Albert Jamil, e le suore che qui prestano servizio “sono impauriti, temono altri attacchi, ma confidano nella Provvidenza di Dio”, raccontano all'agenzia Fides. L’episodio, che ha destato sdegno e preoccupazione in tutta la comunità cattolica di Karachi, è avvenuto alle 19 di venerdì scorso, 12 ottobre. Un padre francescano racconta a Fides: “Padre Victor aveva appena finito di celebrare un matrimonio, quando ha sentito rumori e grida fuori dal compound della chiesa. Subito tutti i fedeli, le donne e i bambini sono stati messi al sicuro, nella casa parrocchiale. I radicali, urlando grida contro i cristiani, hanno fatto irruzione iniziando a devastare qualsiasi cosa: auto, moto, vasi di fiori. Hanno infranto un'edicola e preso la statua della Madonna. Hanno cercato di forzare il portone della chiesa, tirando sassi contro la chiesa e distruggendo le vetrate”. Gli atti vandalici sono proseguiti per un’ora, poi, all’arrivo della polizia, la folla si è dispersa. Secondo fonti di Fides, l’attacco può essere ancora una reazione al film blasfemo su Maometto o comunque legato alla questione della blasfemia. Nei giorni successivi la Chiesa cattolica di Karachi ha organizzato una manifestazione pubblica di protesta, guidata dall’arcivescovo di Karachi, mons. Jospeh Coutts, con la partecipazione di centinaia di sacerdoti, suore, laici, dei membri della Commissione “Giustizia e pace” e di attivisti per i diritti umani. L’assemblea, riunita in modo pacifico, ha pregato per la pace e il rispetto di tutte le religioni. L’arcivescovo Coutts ha detto a Fides: “La chiesa di San Francesco ha sempre servito i poveri con una scuola e un dispensario medico tenuto dalle suore. Da quasi 80 anni compie un umile servizio all’umanità, senza alcuna discriminazione di casta, etnia o religione. Perchè questi atti? Perché non siamo al sicuro?”. Mons. Coutts chiede la protezione del governo e invita i cittadini del Pakistan “al rispetto di tutte le religioni, perché possiamo vivere nell’armonia e nella pace”. Seguendo il loro specifico carisma di dialogo e accoglienza, i francescani di Karachi collaborano con organizzazioni e leader musulmani in molti campi di servizio sociale. (R.P.)

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    Pakistan: la sentenza sul caso Rimsha rinviata di un mese

    ◊   Due casi di ragazzi cristiani accusati di blasfemia continuano a tenere con il fiato sospeso la comunità cristiana in Pakistan. Sono Rimsha Masih, 12enne accusata falsamente da un imam di Rawalpindi, arrestata e liberata su cauzione; e Ryan Brian Patras, 14enne di Karachi, accusato di aver diffuso un Sms blasfemo. Il ragazzo, ufficialmente denunciato, ora si trova in un luogo nascosto con la sua famiglia. Oggi, riferiscono fonti dell'agenzia Fides, l’Alta Corte di Islamabad, in una udienza lampo, ha rinviato al 14 novembre il suo pronunciamento sul caso di Rimsha. La Corte deve decidere sull’annullamento della denuncia (First Information Report) registrata a carico della ragazza. L’annullamento, richiesto dalla difesa, porterebbe alla piena assoluzione per Rimsha. La richiesta si basa sulle dichiarazioni rese da tre testimoni musulmani che accusano l’imam Khalid Jadoon Chisti, indicandolo come l’uomo che ha fabbricato le prove contro Rimsha. La difesa dell’imam Chisti – notano fonti di Fides – sta cercando di smontare le accuse, facendo ritrattare i tre testimoni, e ha adottato una strategia per dilazionare al massimo i tempi del processo. Nel caso di Ryan Brian Patras, la sua famiglia, dopo aver avuto la casa devastata e bruciata da radicali islamici ed essersi trasferita in un luogo sicuro, ha chiesto l’assistenza legale dell’avvocato e Pastore Mustaq Gill. La famiglia Patras è una famiglia cristiana borghese che viveva nel quartiere residenziale Gulshan-i-Iqbal a Karachi, unica famiglia cristiana in un’area musulmana. Secondo fonti di Fides nella famiglia Patras, il cellulare di Ryan sarebbe stato utilizzato da alcuni suoi amici musulmani che hanno inviato l’Sms blasfemo per colpirlo. Ryan, in un primo momento, aveva detto di non essersi accorto di aver inviato tale Sms o di averlo fatto senza leggerlo con attenzione. Ma, ricostruendo meglio la vicenda, il ragazzo ha ricordato che alcuni amici gli avevano chiesto il telefono in prestito per alcuni minuti. In tal caso Ryan sarebbe del tutto estraneo ai fatti e vittima di una macchinazione. L’avvocato Gill, interpellato da Fides, nota “un trend molto pericoloso, in cui i cristiani sono presi di mira, attraverso la legge sulla blasfemia, a causa della loro fede”. (R.P.)

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    La “carovana delle madri” alla ricerca dei loro figli emigrati è arrivata in Messico

    ◊   La “carovana delle madri” del Centro America è arrivata in territorio messicano, e proprio nella stessa giornata, secondo le agenzie di stampa, c'è stato il primo incontro di un honduregno con i suoi genitori, dopo nove anni di lontananza e di silenzio. La carovana - riferisce l'agenzia Fides - si tiene ogni anno dal 2006, e raccoglie le madri dei Paesi centroamericani che vanno alla ricerca dei figli emigrati in Messico per raggiungere gli Stati Uniti, di cui non hanno più notizie, nella speranza di ritrovarli. Allo stesso tempo le madri chiedono alle autorità di fermare le aggressioni contro i migranti senza documenti che avvengono in Messico. Quest’anno sono circa 45 le madri provenienti da Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, entrate in Messico dal Guatemala attraverso la frontiera di El Ceibo. Attraversando lo stato messicano di Tabasco (a sud-est), lunedì scorso hanno raggiunto la città di Tenosique. Secondo la testimonianza della rappresentante del "Movimiento de Migrantes Mesoamericano" (Mmm), Martha Sanchez, la carovana è stata accolta da un gruppo di attivisti con "un abbraccio di speranza e di dolore" per gli immigrati clandestini che rimangono vittime della violenza quando attraversano il Messico. Le madri hanno quindi partecipato ad una Messa celebrata dal sacerdote Fray Tomas, responsabile del rifugio per migranti "LA 72", quindi hanno ripreso il viaggio che durerà 19 giorni e attraverserà 23 città di 14 Stati messicani, per concludersi il 3 novembre a Ciudad Hidalgo, nel Chiapas. Nella nota inviata all’agenzia Fides si sottolinea che la carovana prevede una sosta anche negli ospedali, negli obitori e nei luoghi pubblici. Ruben Figueroa, coordinatore della carovana, dopo molte ricerche è riuscito lo scorso anno a rintracciare quattro persone identificate come familiari dei partecipanti all'ultima carovana. “Il risultato premia l'enorme sforzo fatto da queste povere donne, che non hanno esitato a lasciare i loro villaggi in cerca dei loro figli" ha sottolineato Martha Sanchez. (R.P.)

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    Congo: nel Nord Kivu un nuovo gruppo ribelle taglieggia la popolazione

    ◊   Nel Nord Kivu (est della Repubblica Democratica del Congo) è sorto un nuovo gruppo ribelle che taglieggia la popolazione civile. Lo denuncia all’agenzia Fides una fonte missionaria che intende mantenere l’anonimato per motivi di sicurezza. “Come risposta al gruppo M23 (formato da soldati disertori e appoggiato dal Rwanda), è appena nato un nuovo gruppo ribelle che si chiama M 26” afferma la fonte di Fides. “I suoi membri affermano che vogliono assicurare e difendere la popolazione locale, in cambio infatti chiedono a ogni uomo adulto una tassa di 1200 franchi congolesi al mese. O meglio la impongono. A chi paga viene dato un gettone che attesta il pagamento. Chi non paga è considerato essere contro di loro e quindi rischia ritorsioni. Insomma, qui tutti sono costretti a pagare questa tassa” prosegue la fonte di Fides, che aggiunge “è lo stesso schema utilizzato dalle Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda) che danno il gettone alla gente che fa i lavori forzati per loro. Chi viene trovato senza gettone, è costretto a pagare una multa”. La testimonianza della fonte di Fides è un’ulteriore conferma della guerra di predazione in atto nell’est della Rdc, dove diversi gruppi armati sono in lotta tra loro (ma sono anche pronti a formare alleanze temporanee) per il controllo delle immense risorse della regione, come denunciato da diversi rapporti dell’Onu, l’ultimo dei quali è di questi giorni. L’agenzia Reuters ha pubblicato alcune anticipazioni di tale rapporto, elaborato dal gruppo di studio britannico Chatam House, che mettono in luce il coinvolgimento di Uganda e Rwanda nel contrabbando dei minerali (stagno, tantalio, tungsteno e oro) illegalmente estratti nella regione congolese. (R.P.)

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    Solidarietà dei vescovi europei per atti di odio religioso in Russia

    ◊   Solidarietà e preoccupazione sono stati espressi dai vescovi europei al Patriarcato di Mosca per la serie di atti vandalici e aggressioni che hanno preso di mira le chiese ortodosse russe nell’ultimo anno. In una lettera inviata oggi al Metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, la presidenza del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), ha espresso la sua “profonda preoccupazione per le numerose e crescenti manifestazioni di discriminazione contro i cristiani in diversi Paesi, e sul diffondersi del sentimento anti cristiano e contro la Chiesa, soprattutto nella Federazione Russa nel corso degli ultimi mesi”. In effetti - riferisce l'agenzia Sir - si sono intensificati quest’anno gli atti vandalici compiuti ai danni di chiese e simboli sacri nella Federazione Russa: dalla distruzione di croci alla vicenda del gruppo punk femminista Pussy Riot, che a fine febbraio si erano esibite nella Cattedrale di Cristo Salvatore chiedendo alla Vergine Maria di liberare il Paese dal terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin. L’ultimo atto di vandalismo si è compiuto in Svizzera, a Ginevra dove nella notte tra domenica 14 e lunedì 15 ottobre, la facciata della cattedrale dell’Esaltazione della Santa Croce della diocesi dell’Europa occidentale della Chiesa russa fuori frontiera, è stata imbrattata con la vernice rossa. Costruita 150 fa, è la prima volta che la Chiesa subisce una simile aggressione. Nella lettera al metropolita Hilarion, i vescovi europei parlano di “crescenti manifestazioni di odio nei confronti della Cristianità nella Federazione Russa”. Ed aggiungono: “La presidenza del Ccee rifiuta la tendenza a considerare come espressioni di libertà artistica e di espressione, atti di istigazione o strumentalizzazione della religione a scopo di provocazione per compromettere la pace religiosa o per incitare all’odio contro la presenza religiosa nella vita pubblica”. (R.P.)

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    Sud Sudan: l'arcivescovo denuncia immense distruzioni ad Abyei

    ◊   L’arcivescovo Daniel Deng Bul, dell’Episcopal Church of the Sudan (Ecs), è rimasto scioccato al vedere le distruzioni commesse dall’esercito sudanese nella città di Abyei, contesa tra Sudan e Sud Sudan. Lo ha affermato lo stesso arcivescovo, di ritorno da una visita ad Abyei, in un’intervista all’emittente cattolica Bakhita Radio. Secondo mons. Deng i militari di Khartoum, che occupano la città, hanno distrutto uffici pubblici, chiese, scuole ed abitazioni. La moschea - riferisce l'agenzia Fides - è l’unico edificio rimasto in piedi ad Abyei, ha affermato il leader religioso. Mons. Deng si chiede quale sia la ragione per la quale l’esercito sudanese abbia distrutto chiese e scuole lasciando intatta la sola moschea, interrogandosi se i militari di Khartoum intendano trascinare i due Paesi in un conflitto a carattere religioso. Il destino di Abyei, zona ricca di petrolio al confine tra i due Stati, rimane una delle questioni lasciate irrisolte dall’accordo sottoscritto da Sudan e Sud Sudan il 27 settembre ad Addis Abeba (Etiopia), che regola in particolare la divisione dei proventi del petrolio, estratto nel Sud Sudan ed esportato tramite le strutture sudanesi. (R.P.)

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    Kenya: apre l’Università di Dadaab, il primo ateneo per rifugiati

    ◊   Prossima apertura di una sede distaccata della Kenyatta University.“Si tratta del primo progetto per l’apertura di un’università in un campo profughi” racconta all'agenzia Misna il blogger venticinquenne Bashir Sheikh, responsabile di un centro internet a Dadaab, che con i suoi 470.000 residenti costituisce la terza città del Kenya e il più grande campo profughi del mondo. “L’educazione è come il cibo, l’acqua. Deve essere riconosciuta come un diritto”. Afferma il blogger e aggiunge: “creare un’università in un campo profughi ridona la speranza a molti dei giovani che ci abitano di potersi costruire un futuro diverso”. L’ateneo consentirà di conseguire diplomi di laurea e master in campo economico, letterario e sociale. “Speriamo costituisca un incentivo per i ragazzi a continuare a studiare - sospira Bashir Sheikh – e a non abbandonare il sogno di un futuro migliore”. A tal proposito, Mohammed Bashir Sheikh, rifugiato somalo nel campo profughi di Dadaab, racconta che “i corsi cominceranno ufficialmente a gennaio, ma le iscrizioni sono aperte. Io studierò scienze della comunicazione, voglio diventare giornalista”. L’Università di Dadaab accetterà due terzi di iscritti dal campo profughi e un terzo dalle popolazioni dei villaggi locali, per non acuire tensioni già esistenti tra le due comunità, alimentate dalla continua espansione del campo nel territorio. Ai donatori esteri sarà consentito attraverso programmi speciali di pagare le classi ai giovani che mostrino particolare propensione agli studi. (L.F.)

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    Hong Kong: ricordato il Beato padre Allegra, apostolo della Parola di Dio in cinese tra i cinesi

    ◊   “Dobbiamo imparare il suo grande amore per il Signore e il suo spirito di evangelizzazione”: così il cardinale John Tong, vescovo della diocesi di Hong Kong, ha esortato i fedeli durante la Messa di ringraziamento per la beatificazione del padre francescano Gabriele Allegra, beatificato il 29 settembre ad Acireale, in Italia. Secondo quanto riferisce Kong Ko Bao (il bollettino diocesano in versione cinese che dedica ampio spazio all’evento ripreso dall'agenzia Fides), oltre 800 fedeli hanno partecipato alla Messa di ringraziamento presieduta dal cardinale Tong prima della sua partenza per Roma, per partecipare al Sinodo dei vescovi, che è stata concelebrata da una cinquantina di sacerdoti il 4 ottobre, festa di S. Francesco d’Assisi. La diocesi e i fedeli sono in trepidante attesa di accogliere le reliquie del nuovo Beato il prossimo 26 gennaio, giorno della sua memoria liturgica. I francescani, le suore e i fedeli laici che hanno avuto l’onore di vivere o lavorare accanto a padre Allegra, hanno condiviso la loro esperienza personale presentando un’immagine ancor più viva di questo missionario appassionato della Parola di Dio e della missione dell’evangelizzazione con la Parola di Dio, soprattutto tra il popolo cinese. In concomitanza con la beatificazione, celebrata nel suo paese di origine, in Italia, oltre 350 fedeli di Hong Kong hanno partecipato ad una veglia di preghiera nella parrocchia di San Bonaventura il 29 settembre, esprimendo il più sentito ringraziamento e la riconoscenza di Hong Kong a padre Allegra. Mons. Domenico Chan, vicario diocesano, che ha presieduto la preghiera, ha incoraggiato i fedeli ad imparare da padre Allegra “usando la sua traduzione della Sacra Scrittura per diffondere il Vangelo”. Padre Gabriele Allegra, nato il 26 dicembre 1907 a S. Giovanni La Punta, in provincia di Catania, venne ordinato sacerdote francescano nel 1930 e inviato alla missione cinese nel 1931. Ancor prima dell’ordinazione, già nutriva il sogno di tradurre la Parola di Dio in lingua cinese, sogno che realizzò nel 1968, pubblicando l'intera Bibbia in cinese. Nel 1945 fondò a Pechino lo Studium Biblicum Franciscanum, che oggi si trova a Hong Kong. Nel 1971 pubblicò anche un Dizionario biblico in cinese. Mori ad Hong Kong nel 1976, e il cardinale J. B. Wu, allora vescovo di Hong Kong, nel 1984 aprì la fase diocesana della causa di beatificazione. Nel 1994 vennero riconosciute le sue virtù eroiche, e proclamato venerabile. Il 23 aprile 2002 è stato promulgato il decreto riguardante un miracolo attribuito alla sua intercessione. (R.P.)

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    Sri Lanka. Cardinale Ranjith: nell’Anno della Fede le responsabilità dei cattolici

    ◊   "L'Anno della Fede è un'opportunità per cercare a fondo quale sia, come cattolici, la nostra responsabilità verso questa società, e capire cosa fare per renderla un luogo migliore". Così il cardinale Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, ha dichiarato aperto l'Anno della Fede, nel corso di una messa speciale celebrata nella cattedrale Kotahena. Nel corso della celebrazione -riferisce l'agenzia AsiaNews - il porporato ha esortato sacerdoti, suore, religiosi e laici cattolici a "rafforzare la propria fede", presentando una serie di iniziative che andranno avanti per l'intero anno. "La fede - ha spiegato il cardinale Ranjith - è un prezioso dono di Dio a noi. Essa ci conduce alla scoperta della pienezza del mistero di Dio, a noi rivelato grazie al Suo amato Figlio, Gesù Cristo. Questo stesso mistero ci invita a una nuova esistenza, in profonda comunione con il Signore attraverso Cristo, per mezzo dello Spirito Santo". L'arcivescovo di Colombo ha poi indicato quali sfide attendono i cristiani: "Rafforzare il sacerdozio; sviluppare una coscienza cattolica nei bambini, rafforzando la loro vita spirituale; essere attenti ai bisogni delle altre comunità che vivono con noi, rispettandole e mostrando loro la nostra solidarietà; porre maggiore attenzione alla crisi della nostra società e impegnarci per estirparle, come per l'aborto; migliorare alcuni programmi già in corso, per frenare il consumo di droga e altri fenomeni, che oggi conducono i giovani a vivere in miseria". Sulla base di queste indicazioni, scuole, istituti, parrocchie, centri e associazioni di vari livelli dovranno promuovere programmi e attività, per rendere "vivo" l'Anno della Fede. Per parte sua, ogni sabato e domenica il card. Ranjith visiterà tutte le parrocchie dell'arcidiocesi, per spiegare, discutere e chiarire gli aspetti teologici più complessi del Catechismo. (R.P.)

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    Terra Santa. Il patriarcato latino: Pasqua 2013 sarà celebrata con gli ortodossi

    ◊   Fra due anni, tutti i cattolici di rito orientale e latino delle diocesi di Terra Santa adotteranno il calendario giuliano, quello seguito dagli Ortodossi, dopo la redazione, da parte dell‘Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa (Aocts), di un decreto definitivo posto all’approvazione della Santa Sede. Nel frattempo, i vescovi delle Chiese cattoliche di Terra Santa hanno la possibilità di iniziare l‘esperimento nel 2013, come nel caso del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Secondo quanto riportato dallo stesso Patriarcato, questa “decisione - che fa seguito ad una direttiva dell’Aocts - segna un concreto passo avanti nell‘ecumenismo e risponde anche ad una richiesta di molti fedeli, dal momento che sono numerose le famiglie cristiane in Terra Santa nate da matrimoni misti tra cattolici, ortodossi e protestanti. Molti dei loro membri - riferisce l'agenzia Sir - non possono celebrare la Pasqua nello stesso giorno dal momento che i cattolici seguono il calendario gregoriano e gli ortodossi quello giuliano”. In concreto “la novità riguarda principalmente le parrocchie del Patriarcato che sono in Israele, dal momento che quelle in Giordania, Cipro e in Palestina (la maggioranza), hanno già unificato le date sul calendario giuliano”. Per la Pasqua 2013, “la maggior parte delle chiese cattoliche dovrebbero applicare questa decisione e celebrarla il 5 maggio. Eccezion fatta per Gerusalemme e la regione di Betlemme, in ragione dello Statu quo”. Per la Pasqua 2015 e quelle seguenti, spiega ancora il Patriarcato latino, “sarà sopposto all’approvazione della Santa Sede un decreto in cui si stabilisce che tutte le Chiese cattoliche di Terra Santa adotteranno il calendario giuliano per celebrare la Pasqua, con il conseguente adeguamento del calendario liturgico per l‘inizio della Quaresima e la festa di Pentecoste. La direttiva prevede che la decisione venga rispettata da tutti i cattolici di rito orientale e latino compresi gli stranieri residenti nelle nostre diocesi”. Per coincidenza di date la Pasqua 2014 sarà festeggiata da cattolici e ortodossi, insieme, il 20 aprile. (R.P.)

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    Cile: mons. Chomali incontra i 4 giovani mapuches in sciopero della fame da 50 giorni

    ◊   Mons. Fernando Chomali, arcivescovo di Concepción, in Cile, ha incontrato, sabato scorso, i 4 giovani reclusi di etnia mapuche che da 50 giorni sono in sciopero della fame per chiedere giustizia per la loro comunità e la fine di ogni persecuzione politica. Come richiesto da diversi leader mapuches, il presule si è recato all’ospedale regionale di Concepción dove adesso si trovano i 4 giovani a causa della loro precarie condizioni di salute. I detenuti sono stati trasferiti dal carcere di Angol dopo che la Corte di Appello di Temuco ha autorizzato venerdì l’alimentazione forzata. “Una persona dopo 47 giorni senza alimenti, è debole” ha riferito il presule cileno ai giornalisti dopo la visita, mostrando grande preoccupazione per i 4 giovani. Per questa ragione, ha aggiunto che la Chiesa sta lavorando insieme all’Istituto di Diritti Umani per fare ritornare i detenuti ad Angol - la loro città di provenienza - e trovare una soluzione ai tanti problemi della comunità mapuche. Tuttavia, ha chiarito, che in quest’occasione non è stata richiesta la mediazione della Chiesa. Domenica scorsa migliaia di persone hanno manifestato nelle strade di Santiago, per sostenere le etnie indigene e in particolare i 4 ventenni mapuche che chiedono la nullità del processo nel quale sono stati condannati. Da anni, le comunità mapuche lottano per riconquistare la loro autonomia e i loro diritti sulla terra - a volte attraverso l’occupazione forzata - toccando in questo modo gli interessi di proprietari terrieri e dello stesso Stato su vaste aree del Paese. Ogni loro protesta è neutralizzata con forti repressioni delle forze dell’ordine e giudicata dalla “legge antiterrorista” approvata durante la dittatura e che prevede, tra l’altro, il giudizio presso tribunali militari e il raddoppiamento della pena per i “nemici dello Stato”. I mapuches dal canto loro reclamano al governo del presidente Sebastián Piñera, il mancato riconoscimento di un giusto processo, la presunzione d'innocenza e il rispetto degli accordi internazionali ratificati dal Cile per la protezione delle comunità indigene di tutta la nazione. (A cura di Alina Tufani)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 291

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