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Sommario del 16/11/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa ai giovani per la Gmg di Rio: siate voi il cuore e le braccia di Gesù
  • Udienza del Papa al presidente della Costa d’Avorio: la Chiesa promuove pace e diritti umani
  • Convegno in Vaticano: serve etica e umanizzazione nella medicina
  • Simposio della Penitenzieria. Mons. Nykiel: riscoprire il confessionale come luogo di evangelizzazione
  • Mons. Tomasi: inaccettabili violenze contro i civili nei conflitti
  • Altre udienze e nomine
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Medio Oriente nel caos: il premier egiziano a Gaza. Altri due missili palestinesi a Sud di Tel Aviv
  • Striscia di Gaza. La testimonianza di un sacerdote: cuore lacerato dalla sofferenza
  • Elezioni generali in Sierra Leone: intervista con il direttore della locale Radio Maria
  • Sentenza su diagnosi pre-impianto embrioni. Morresi: legge 40 non prevede selezione eugenetica
  • Jean Vanier: i disabili sono i grandi testimoni di Dio
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Egitto: le Chiese cristiane annunciano il ritiro dall'Assemblea Costituente
  • Terra Santa: nonostante il conflitto i pellegrinaggi Unitalsi si svolgono regolarmente
  • El Salvador ricorda il massacro del 1989 di sei gesuiti
  • Congo: intensi scontri a Goma. La paura dei civili
  • Kenya: nuovo forte appello dei vescovi per le elezioni generali del 4 marzo 2013
  • Filippine: uccisa un’operatrice pastorale cattolica nelle isolette di “Abu Sayyaf”
  • Aiuto alla Chiesa che Soffre distribuirà 500mila catechismi Youcat per la Gmg di Rio
  • El Salvador: iniziativa dei vescovi contro la guerra tra bande criminali
  • Conclusa la visita del patriarca Kirill in Terra Santa
  • Thailandia: dal Sinodo nuove sfide per la Chiesa locale
  • Albania: conclusa l'Assemblea generale dei vescovi
  • Il card. Scola: la comune domanda sull'uomo tra cristiani e musulmani
  • Il card. Tettamanzi su persona, dignità umana e solidarietà
  • Processo Sciarpelletti: la difesa ricorre in appello
  • Italia: Servizio Pubblico radiotelevisivo tra digitalizzazione e crisi dell'editoria
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa ai giovani per la Gmg di Rio: siate voi il cuore e le braccia di Gesù

    ◊   “Non temete di proporre ai vostri coetanei l’incontro con Cristo”: è l’esortazione che Benedetto XVI rivolge a tutti i giovani del mondo, nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, in programma dal 23 al 28 luglio 2013 sul tema “Andate e fate discepoli tutti i popoli!”. Nel messaggio, pubblicato oggi, il Papa indica in Internet uno dei campi principali in cui i giovani devono rafforzare il loro impegno missionario. Il servizio di Alessandro Gisotti, sulle note dell’inno ufficiale della Gmg di Rio:

    Quando si pensa a Rio de Janeiro, la prima immagine che viene alla mente è la grande statua del Cristo Redentore che domina la baia dove sorge la metropoli brasiliana. Proprio questo imponente simbolo di fede, scrive Benedetto XVI, indica la strada ai giovani che il prossimo anno daranno vita alla Gmg di Rio. Come vediamo dalla statua sul Corcovado, afferma, il cuore di Gesù “è aperto all’amore verso tutti, senza distinzioni, e le sue braccia sono tese per raggiungere ciascuno”. Di qui l’esortazione ai giovani: “Siate voi il cuore e le braccia di Gesù”, testimoniate il suo amore, “siate i nuovi missionari animati dall’amore e dall’accoglienza”. Tutto il lungo messaggio del Papa è proprio animato da questo incoraggiamento ai ragazzi ad essere nuovi evangelizzatori, missionari nell’era della globalizzazione che, avverte, deve fondarsi sull’amore e non sul materialismo. “Far conoscere Dio – scrive il Papa – è il dono prezioso che potete fare agli altri”, specie oggi che molti giovani hanno bisogno della “luce della fede” perché “non vedono chiarezza nel loro cammino”. L’uomo che “dimentica Dio – avverte – è senza speranza e diventa incapace di amare il suo simile”. E con le parole del Beato Wojtyla rammenta che “la fede si rafforza donandola”.

    Ma cosa vuol dire, dunque, essere missionari di Cristo, come chiede il tema della prossima Gmg. “Significa anzitutto - risponde il Papa – essere discepoli di Cristo”. Evangelizzare significa allora “portare ad altri la Buona Notizia”, che è una persona: Gesù Cristo. Benedetto XVI mette l’accento sulla responsabilità dei giovani che devono conoscere la fede della Chiesa per essere veri testimoni e missionari. “E’ necessario – soggiunge – conoscere ciò in cui si crede per poterlo annunciare”. E ancora, “più conosciamo Cristo, più desideriamo annunciarlo. Più parliamo con Lui, più desideriamo annunciarlo. Più parliamo con Lui, più desideriamo parlare di Lui”. Il Papa sottolinea due campi in cui l’impegno missionario “deve farsi ancora più attento”: Internet e mobilità. Ai giovani, ribadisce, “spetta in particolare il compito della evangelizzazione” del “continente digitale”, usando Internet “con saggezza”. Il secondo ambito, sottolinea il messaggio, è quello della mobilità giacché oggi sempre più giovani viaggiano per motivi di studio, lavoro o divertimento. Né meno rilevanti sono i movimenti migratori. Anche questi fenomeni, osserva il Papa, “possono diventare occasioni provvidenziali per la diffusione del Vangelo”.

    Il Papa ha parole di speranza e incoraggiamento per i giovani: “Lasciatevi condurre dalla forza dell’amore di Dio, lasciate che questo amore vinca la tendenza a chiudersi nel proprio mondo”. Abbiate, esorta ancora, “il coraggio di partire da voi stessi per andare verso gli altri e guidarli all’incontro con Dio”. Né, aggiunge, bisogna avere timore quando ci si sente “inadeguati, incapaci, deboli nell’annunciare e testimoniare la fede”. Per dare una testimonianza forte, rileva, bisogna però radicarsi “nella preghiera e nei Sacramenti”. L’evangelizzazione, infatti, “nasce sempre dalla preghiera ed è sostenuta da essa: dobbiamo prima parlare con Dio per poter parlare di Dio”. E non manca di ricordare quanti, anche giovani, sono chiamati a “dare prova di perseveranza” e in alcune regioni del mondo non possono “testimoniare pubblicamente la fede in Cristo per mancanza di libertà religiosa”. Il Papa conclude il suo messaggio ricordando ai giovani che “per restare saldi nella confessione della fede cristiana” hanno bisogno della Chiesa. “E’ dunque sempre come membri della comunità cristiana – avverte – che noi offriamo la nostra testimonianza, e la nostra missione è resa feconda dalla comunione che viviamo nella Chiesa”.

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    Udienza del Papa al presidente della Costa d’Avorio: la Chiesa promuove pace e diritti umani

    ◊   Benedetto XVI ha ricevuto, stamani in Vaticano, il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara. Nel corso del colloquio, informa una nota della Sala Stampa vaticana, ci si è trovati concordi “sul contributo che la Chiesa può offrire al bene dell’intero Paese, incoraggiando la pace e promuovendo i diritti umani, il dialogo e la riconciliazione nazionale, unica via per favorire l’unità e lo sviluppo”. Inoltre, è stata sottolineata “la proficua collaborazione tra la Chiesa e lo Stato, tra l’altro nel settore della sanità e dell’educazione” e si è “auspicata la conclusione del negoziato in vista di un Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di Costa d’Avorio”. Nel corso del colloquio, informa ancora la nota, “si sono passate in rassegna alcune sfide regionali che attualmente incontra il Continente africano”, seguite da Ouattara “in qualità di presidente della Comunità economica dei Paesi dell'Africa Occidentale”.

    Dopo l’incontro con il Papa, il presidente della Costa d’Avorio ha incontrato anche il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, accompagnato dal segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti.

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    Convegno in Vaticano: serve etica e umanizzazione nella medicina

    ◊   "Etica e umanizzazione". Questa la direttrice della seconda giornata di lavori della 27.ma Conferenza internazionale sull'"Ospedale luogo di evangelizzazione e missione" in corso in Vaticano. Tanti gli aspetti toccati alla presenza di giuristi, responsabili di strutture di tutto il mondo e di associazioni, guidati da un’unica riflessione: la medicina è rivolta innanzitutto alla persona vista nella sua complessità e unità di corpo, spirito e sfera affettiva. Il servizio di Gabriella Ceraso:

    La carità è la parola chiave per affrontare la crisi economica e le sue conseguenze anche in campo sanitario: solo l’amore a Cristo e la solidarietà possono aiutarci ad operare per il bene di tutti anche in tempi difficili. Ne ha parlato stamane fra' Mario Bonora che, come presidente dell’Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari, si è soffermato sugli ostacoli frequenti oggi tra dimensione dell’essere e dell’agire in sanità: tagli, mancati riconoscimenti, chiusure, rischiano di svuotare di significato la cura degli infermi da parte della Chiesa. Ma quanto la medicina attuale rispetta effettivamente la persona nel suo complesso? A che punto è l’umanizzazione nei confronti del puro scientismo? Il prof. Enrico Garaci, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità.

    “Qualche passo è stato fatto, però questo processo va esteso. Quello che deve prevalere è un modello olistico, in cui il prendersi cura, il dare sollievo, conforto al paziente deve essere integrato al corretto processo terapeutico, che risponde alla scienza medica. L’umanizzazione della medicina serve anche al paziente, perché il paziente che entra in questa procedura sta meglio”.

    L’ospedale è anche il luogo dei dilemmi bioetici, oggi addirittura è sede di una battaglia su come applicare la medicina. Secondo il prof. Francesco D’Agostino, presidente dei giuristi cattolici italiani, a prevalere è la figura del medico tecnico del corpo, manipolatore dell’organismo, che relega la dimensione etica e la delega alla struttura o al personale volontario o ai giudici, come è accaduto anche ieri con la sentenza sulla fecondazione assistita del tribunale di Cagliari. Il commento di Francesco D’Agostino:

    R. - Questo è un altro esempio di come l’etica medica venga svuotata dall’interno: l’etica la fanno i magistrati oppure, cosa altrettanto pericolosa, l’etica la fa il legislatore, il politico, ordinando ai medici cosa possono fare e cosa non possono fare. A me va benissimo la Legge 40 sulla fecondazione assistita, solo se si pensa che la Legge 40 riconosce i limiti intrinseci di carattere etico alla fecondazione artificiale, non se si dice che la fecondazione artificiale è neutra e che se si può fare o se non si può fare lo decide il politico, perché i medici sono eticamente neutri rispetto a questa pratica.

    D. – E’ un processo inarrestabile?

    R. – Credo di no. E’ una grande battaglia culturale e va combattuta anche perché non è affatto una battaglia perduta, ma va combattuta con consapevolezza. La medicina ha una sua etica intrinseca. Questo è il principio. La legge, ma anche i grandi sistemi religiosi, operano per riconoscere e valorizzare l’etica intrinseca della medicina.

    Molte delle derive in campo bioetico, in senso per esempio eugenetico, sono legate anche al ricorso alla fecondazione in vitro. Ne ha parlato Riccardo Marana, direttore dell’Istituto internazionale Paolo VI di ricerca sulla fertilità e l’infertilità umana al Policlinico Gemelli di Roma:

    R. - Molte delle indicazioni per cui pazienti con sterilità vengono inviate alla fecondazione in vitro possono trovare una soluzione tramite una precisa diagnosi e una corretta terapia, come veniva indicato dalla Legge 40.

    D. – Altro aspetto, troppa poca informazione sulle forme di tutela della vita?

    R. – Certamente. Prendiamo l’esperienza del Telefono Rosso, l’esperienza dell’ambulatorio Sorge, dove tu ambulatorialmente puoi trattare determinate patologie che sono precipuamente legate alla gravidanza, fino ai casi più difficili dove puoi trovare però un consulto specialistico.

    La riflessione della conferenza internazionale non si ferma. Nel pomeriggio saranno affrontati i temi della spiritualità e della diaconia nel contesto ospedaliero, per chiudere domani con l’intervento di Benedetto XVI.

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    Simposio della Penitenzieria. Mons. Nykiel: riscoprire il confessionale come luogo di evangelizzazione

    ◊   Si è aperto oggi a Roma, presso il Palazzo della Cancelleria, il Simposio organizzato dalla Penitenzieria Apostolica sul tema “La Penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII”. Partecipano studenti delle Università Pontificie e Statali della capitale, cultori di storia della Chiesa, diritto canonico, liturgia e pastorale, autorità ecclesiastiche e civili. Ad aprire i lavori è stato il saluto del cardinale Manuel Monteiro de Castro, penitenziere maggiore, seguito dalla prolusione del reggente, mons. Krzysztof Nykiel. Tra i moderatori il cardinale James Francis Stafford, penitenziere maggiore emerito, e mons. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Patricia Ynestroza ha parlato del tema del Simposio col reggente della Penitenzieria, mons. Krzysztof Nykiel:

    R. - Si tratta di un periodo storico di grande rilevanza politica, ma anche di forte connotazione religiosa poiché maturava sempre di più, nell’animo dei Pontefici, la consapevolezza che fosse necessaria una nuova cristianizzazione del mondo. Un progetto che richiedeva necessariamente una vasta opera di riforma e che assegnava al clero un ruolo di guida nella società. Si voleva un clero capace di destreggiarsi in maniera adeguata, anche e soprattutto nel foro penitenziale, perché di vero e proprio foro ormai si può cominciare a parlare in questo periodo storico, considerando le nuove modalità assunte dalla celebrazione del rito sacramentale. Vennero così moltiplicandosi sia gli appelli ai pastori, affinché evangelizzassero il popolo scristianizzato, sia i moniti a quanti di essi non adempivano al proprio compito. Non vi era, però, soltanto un popolo da muovere a penitenza: in quel popolo vi era pure una moltitudine di gente - uomini e donne - infiammata dall’amore di Dio e impegnata a far risuonare, in ogni luogo, l’invito del Maestro Divino: “Poenitentiam agite”. Questa ansia di salvezza e di redenzione che animava il popolo cristiano fu recepita dapprima da Papa Celestino V e poi, dopo le sue dimissioni, dal suo successore Bonifacio VIII, che nel 1300 promulgherà il primo Giubileo della storia cristiana.

    D. – Qual è il significato della penitenza oggi?

    R. - Il significato della penitenza oggi è, più o meno, questo: il Simposio di quest’anno si inserisce nel contesto del tutto particolare dell’Anno della Fede e si celebra a poco tempo di distanza dalla conclusione della XIII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sul tema della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. In questa occasione è stato opportunamente ribadito da alcuni Padri sinodali che la nuova evangelizzazione passa anche attraverso il confessionale. Il Sacramento della Penitenza è strumento efficace, che rigenera l’uomo dal didentro, perché lo aiuta a cogliere la verità di se stesso: quella cioè di essere figlio prediletto del Padre, ricco di misericordia e sempre disposto a donargli incondizionatamente il suo perdono e la pace.

    D. - Qual è il ruolo e il significato della Penitenzieria Apostolica?

    R. - Quando si parla della Penitenzieria apostolica, in considerazione della sua denominazione, non è da stupirsi se taluni ci chiedono se questo sia un luogo di detenzione, una sorta di prigione della Chiesa cattolica. E’ ovvio che non è assolutamente così. La Penitenzieria, com’è stato anche oggi ribadito, è il dicastero più antico della Curia Romana, infatti la sua fondazione risale alla fine del XII secolo. La Penitenzieria svolge un servizio - si potrebbe affermare - esclusivamente spirituale, una funzione immediatamente collegata alla finalità della Chiesa, la Salus animarum. Il suo scopo è quello di agevolare e di aiutare i fedeli nella loro riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Sappiamo che la riconciliazione del peccatore passa attraverso la mediazione autoritativa della Chiesa. Il peccato - e questo dobbiamo tenerlo fortemente presente - non è un affare che riguarda solo Dio e il penitente: con il peccato viene ferita anche la Chiesa e questa è una verità che, purtroppo, molti cattolici ignorano. L’intervento della Chiesa nel perdono dei peccati appartiene alla stessa volontà di Dio: non si tratta, quindi, di una prassi che si è venuta a sviluppare col passare del tempo; non è una forma con la quale si intende centralizzare o burocratizzare il perdono. La competenza del Tribunale della Penitenzieria Apostolica si riferisce alle materie che concernono il foro interno e quindi l’ambito intimo dei rapporti fra Dio e il fedele.

    D. - Quali sono le vostre sfide e speranze?

    R. - Noi ci auguriamo che in questi due giorni di studio il Sacramento della Penitenza - attraverso l’approfondimento della sua evoluzione storica, canonica, liturgica e pastorale - venga maggiormente riscoperto e apprezzato. Ci auguriamo che i confessionali vengano sempre più frequentati dai nostri fedeli come luoghi privilegiati per fare esperienza dell’amore misericordioso del Padre. Sull’importanza del confessionale e del Sacramento della Penitenza è anche più volte intervenuto il Santo Padre Benedetto XVI. Questo l’ha anche sottolineato nell’omelia pronunciata in occasione della Liturgia eucaristica a conclusione del Sinodo dei Vescovi: riscoprire il confessionale come luogo privilegiato di evangelizzazione e di trasmissione della sacra dottrina.


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    Mons. Tomasi: inaccettabili violenze contro i civili nei conflitti

    ◊   E’ inaccettabile che nei conflitti armati chi paga il prezzo più alto siano le popolazioni civili e spesso i bambini: è quanto ha ribadito ieri mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio dell’Onu a Ginevra, nel suo intervento durante un incontro promosso dalle Nazioni Unite sull’uso delle armi convenzionali. Ascoltiamo mons. Tomasi al microfono di Francesca Sabatinelli:

    R. - Il punto su cui si cerca di porre l’accento è la protezione della popolazione civile, in modo che non soffra due volte: prima a causa del conflitto e dopo a causa dei residui bellici esplosivi, che continuano a far danno quando scoppiano. Ci troviamo di fronte ad una situazione che richiede molta attenzione, soprattutto se si pensa che oggi la maggioranza della popolazione del mondo vive in un contesto urbano e quindi la guerra portata nelle città colpisce soprattutto le persone civili. Dobbiamo - e questo è l’appello che ho fatto alla Comunità internazionale - trovare una strada per bloccare questo tipo di danno che si fa alle persone civili.

    D. - Mons. Tomasi, è stato ripetuto più volte, negli ultimi anni, che in guerra non tutto è permesso e che il diritto umanitario deve prevalere sugli obiettivi militari. Ma, noi a cosa assistiamo?

    R. - Se ci guardiamo attorno vediamo che questa discussione non è teorica. Pensiamo alle città della Siria, che sono oggetto in questo momento di violenti conflitti e dove chi paga il prezzo più alto non sono i militari, ma le famiglie, le donne, i bambini, la società civile distrutta. E’ questa preoccupazione che deve entrare nel prossimo passo dello sviluppo del diritto umanitario internazionale, in modo da trovare una maniera efficace di proteggere questa gente che, altrimenti, rimane continuamente esposta non solo al rischio di essere uccisa o ferita, ma che ha anche l’obbligo di spostarsi forzatamente, di emigrare: bambini che vengono abbandonati e che si trovano soli, in campi profughi o in qualche angolo della città.

    D. - Ci sono delle convenzioni internazionali che, però, dovrebbero regolare in qualche modo dei conflitti. Ma che ne è di queste convenzioni?

    R. - Purtroppo se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che non vengono rispettate. L’evidenza più grande è che le popolazioni civili continuano a portare il peso più grosso, continuano a essere le vittime più numerose: anche oggi e non solo negli ambienti urbani - come le città del Medio Oriente, che sono sotto attacco da gruppi statali e non statali - i civili sono continuamente colpiti e pagano il prezzo più alto.

    D. - Il punto è che attaccare i civili nei conflitti moderni rappresenta proprio il punto di forza…

    R. - E’ vero! Nella storia, quando si parla di guerre, si fa cenno a vincitori e vinti: i civili, che rappresentano il numero più alto di vittime, sono dimenticati. Anche oggi, nei combattimenti che vediamo! Per procedere e far avanzare un senso di umanità, bisogna andare al di là delle formalità, degli accordi e dei trattati: si deve cioè creare una cultura che rispecchi la dignità della persona umana e che faccia in modo che la persona umana sia al centro dell’attenzione e non venga, invece, utilizzata come mezzo per ottenere i propri fini di potere o politici. Alla radice di tutto c’è la necessità di insistere, affinché si sviluppi un atteggiamento e una mentalità che risolva il problema della violenza e del confronto armato attraverso un’accettazione della dignità della persona e del rispetto di tutte le persone e che, quindi, prevenga - attraverso il dialogo -qualsiasi forma di violenza irrazionale. In questo particolare momento della storia vediamo come i conflitti continuano ad esplodere e impegnano gruppi ufficiali di uno Stato; altre volte gruppi che si formano spontaneamente e altre volte ancora si tratta, invece, di gruppi terroristici: le regole di un minimo di umanità, e quindi l’applicazione del diritto umanitario internazionale, si deve estendere anche a questi gruppi. Non si può giustificare in alcun modo la violenza che viene perpetrata in maniera arbitraria, che non rispetta i civili. Questo mi pare un punto su cui dobbiamo tutti insistere. Che si tratti delle guerre in Africa o in Medio Oriente, oggi ci sono queste espressioni di violenza che cambiano un po’ le regole, ma che non devono dimenticare che si tratta sempre del coinvolgimento di persone umane, verso le quali non tutte le forme di violenza sono permesse.

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    Altre udienze e nomine

    ◊   Il Papa ha ricevuto stamani, in successive udienze, un gruppo di presuli della Conferenza Episcopale di Francia, in Visita "ad Limina Apostolorum" e mons. Grégoire Ghabroyan, vescovo di Sainte-Croix de Paris degli Armeni; visitatore Apostolico per i fedeli Armeni cattolici residenti in Europa Occidentale sprovvisti di Ordinario proprio. Oggi pomeriggio, il Papa riceverà in udienza mons. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Missionari della nuova evangelizzazione: il messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della gioventù 2013.

    Nel servizio internazionale, in rilievo la crisi in Vicino Oriente: non si fermano le violenze tra Gaza e Israele.

    La bimba, la donna, la scrittura: in cultura, Giulia Galeotti sul centenario della nascita di Elsa Morante.

    Una nevicata cambiò tutto: Gaetano Vallini sull'esposizione a Roma delle foto di Mario Giacomelli.

    Predicatori e confessori, istruzioni per l'uso: stralci della prolusione di Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria Apostolica, al simposio «La penitenza tra Gregorio VII e Bonifacio VIII».

    Amici nel segno del Lògos: Leonardo Lugaresi su come Gregorio Nazianzeno descriveva Basilio Magno.

    In dialogo con il mondo contemporaneo: Nicola Gori a colloquio con il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, in visita «ad limina Apostolorum».

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    Oggi in Primo Piano



    Medio Oriente nel caos: il premier egiziano a Gaza. Altri due missili palestinesi a Sud di Tel Aviv

    ◊   Nessuna tregua a Gaza: neppure durante le tre ore di visita del premier egiziano, Kandil, nella piccola enclave palestinese sono cessati il lancio di razzi verso il Sud di Israele e i raid aerei israeliani sulla Striscia. Il bilancio è di altri tre morti palestinesi e il lieve ferimento di una donna israeliana a Ashdod. Un razzo di fabbricazione iraniana è caduto questa mattina in mare davanti a Tel Aviv, senza fare vittime. Kandil ha affermato che l'Egitto farà tutto il possibile per giungere ad una tregua tra Israele e Hamas. Il servizio è di Salvatore Sabatino:

    Una visita-lampo, quella del premier Kandil, durata sole tre ore, ma di grande valore, perché l’Egitto vuole continuare a ricoprire il suo ruolo di mediatore tra Israele ed il mondo arabo; anche dopo la rivoluzione che ha portato al potere Morsi, che appartiene ai Fratelli Musulmani, gli stessi presenti nella Striscia di Gaza. Proprio Morsi ha parlato di "aggressione flagrante contro l'umanità" ed ha assicurato che "Il Cairo non lascerà sola Gaza". C’è chi ipotizza che dietro la visita di Kandil ci sia stata la forte spinta degli Stati Uniti, preoccupati per l’escalation di violenza e per il possibile effetto domino che questa potrebbe avere sullo scacchiere mediorientale. Di fatto il premier egiziano, che ha già fatto ritorno al Cairo, non è riuscito ad imporre la tregua parziale, prevista durante la sua permanenza nella Striscia. Sono, infatti, stati segnalati attacchi diretti sulle città israeliane di Ashqelon e Beer Sheva; due missili sono caduti presso Tel Aviv, senza provocare vittime. Da parte sua l'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, in un comunicato, ha ribadito che ha “il diritto ed il dovere di difendere la sua popolazione”, pur sottolineando che “il popolo palestinese non è nostro nemico, Hamas e le organizzazioni terroristiche lo sono”. Richiamati 16mila riservisti, e c’è già chi teme che l’operazione di terra sia molto vicina. Intanto, si registrano le prime reazioni nel vicino Libano: lo sceicco Nasrallah, leader supremo di Hezbollah, si è detto compiaciuto per il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, parlando di "uno sviluppo estremamente significativo" nel conflitto con lo Stato israeliano.

    L’Egitto, dunque, torna ad essere protagonista dello scacchiere mediorientale. Dopo aver ritirato il suo ambasciatore da Tel Aviv, in seguito all’attacco israeliano su Gaza, oggi gli egiziani sono tornati in prima linea con la visita del premier Kandil nella Striscia. Quale l’importanza, dal punto di vista strategico, di questa missione? Salvatore Sabatino, ha girato la domanda a Francesca Paci, già inviata de “La Stampa” al Cairo:

    R. – L’Egitto è consapevole del fatto di poter giocare un ruolo importantissimo, perché a differenza dell’ultima operazione contro Gaza nel 2008-2009, non c’è oggi alla guida del Paese il presidente Mubarak – filo-occidentale e vicino a Israele – ma c’è il presidente Mohamed Morsi, che viene dai Fratelli musulmani. Quindi, l’Egitto può avere una fortissima influenza su Hamas – che dalla Fratellanza musulmana deriva – pur avendo accesso alle Cancellerie internazionali, trattandosi del nuovo governo legittimamente eletto.

    D. – C’è chi dice anche che dietro a questa visita ci siano forti pressioni da parte di Washington. Se così fosse, Morsi si troverebbe schiacciato tra le spinte “normalizzanti” della Casa Bianca e quelle dei Fratelli musulmani, il suo partito, che invece hanno assunto un atteggiamento di forte critica nei confronti di Israele. Come si muoverà?

    R. – In realtà, certamente ci sono pressioni da parte degli Stati Uniti; ci sono pressioni anche da parte dell’Unione Europea: questa mattina, la cancelliera tedesca Merkel ha chiesto all’Egitto di farsi mediatore; l’Arabia Saudita ugualmente sta facendo pressioni. Però, al di là di questo, c’è qualcosa di più: l’Egitto, con Israele, ha una priorità in comune e non cambia il fatto che al potere in questo momento ci siano i Fratelli musulmani. Questa priorità è il Sinai, in cui è sempre più opprimente la minaccia salafita, la minaccia jihadista che è quella che anche Hamas sta fronteggiando nella Striscia di Gaza.

    D. – C’è poi la questione aperta della delicatissima frontiera del Valico di Rafah, tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, che è un punto delicatissimo anche per Morsi …

    R. – Esattamente. Anche se non è una cosa che può essere ripetuta ad alta voce né ufficialmente in Egitto - perché comunque l’opinione pubblica egiziana resta ostile a Israele - moltissimi mi confermano che la collaborazione tra gli eserciti (tra l’esercito egiziano e quello israeliano) e tra l’intelligence egiziana e quella israeliana è fortissima: continua ad esserlo dopo la caduta di Mubarak e si è probabilmente rafforzata ancora di più da quando, nel momento di transizione e nel momento di vuoto di sicurezza, il Sinai è diventato anche più pericoloso. Quindi, quella è una questione di sicurezza nazionale estremamente importante per l’Egitto e ovviamente anche per Israele.

    Sull’altro fronte del conflitto israelo-palestinese c’è il Libano, un Paese già in grave difficoltà per il vicino conflitto siriano e per una situazione politica interna tutt’altro che normalizzata. Quali sono gli umori che si registrano nel Paese dei Cedri rispetto a quanto sta accadendo nella vicina Striscia di Gaza? Salvatore Sabatino lo ha chiesto al collega Lorenzo Trombetta, raggiunto telefonicamente a Beirut:

    R. – Le reazioni sono molto diverse e contrastanti. Riflettono un po’ le divisioni e la pluralità del panorama sociale e politico libanese. Ci sono i palestinesi dei campi profughi che ovviamente sono, oltre che preoccupati, solidali con la popolazione di Gaza, sostengono la linea massimalista e oltranzista della resistenza da parte di Hamas; ci sono invece quelli che temono che il movimento sciita Hezbollah, che in alcuni casi in passato si è coordinato con gli attori regionali anti-israeliani, possa lanciare operazioni, non si sa se su larga scala o su scala ridotta, nel Nord del Libano verso l’Alta Galilea, per distrarre Israele o comunque per mostrare solidarietà con Gaza. C’è poi invece – e qui la questione siriana ha una sua importanza in Libano – chi guarda a Damasco e chi guarda ai numerosi profughi siriani che da circa un anno e mezzo ormai affollano il Libano; si teme che la guerra di Gaza, o comunque questi intensi raid israeliani su Gaza, possano in un certo senso far dimenticare quello che avviene lì vicino e confondere anche lo sguardo degli osservatori internazionali, che di fatto sostengono i profughi siriani e sono solidali con loro. Quello che accade a Gaza è molto simile a quello che sta accadendo in queste ore – e da 18 mesi e anche più – in Siria.

    D. – C’è il timore tra la gente che il conflitto possa allargarsi fino ad un coinvolgimento del Libano?

    R. – Il timore c’è, anche se sul terreno il movimento sciita Hezbollah che sarebbe, di fatto, il primo attore coinvolto in un eventuale allargamento, non sembra avere interessi regionali e politici ad "infilarsi" in una guerra più o meno aperta con Israele. Perderebbe molto consenso all’interno del Libano, perché il Libano e il suo governo, in generale, ma anche la gente non hanno certo interesse a ritrovarsi sotto le bombe, come accadde nel 2006; e, in generale, non è chiaro quanto Hezbollah in questo senso preferisca dare la priorità alla sua agenda regionale, e quindi coordinarsi con l’Iran e con il suo alleato Hamas, e quanto invece preferisca dare priorità alla sua agenda politica interna. Anche qui, l’anno prossimo, nella primavera del 2013, ci saranno le elezioni e quindi anche in questo caso – e non soltanto nel caso di Israele e di Hamas – i conti con l’elettorato vanno fatti.

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    Striscia di Gaza. La testimonianza di un sacerdote: cuore lacerato dalla sofferenza

    ◊   Un appello per la fine delle violenze tra israeliani e palestinesi era stato lanciato qualche giorno fa dal Patriarcato Latino di Gerusalemme. Proprio nella città santa vive don Mario Cornioli, sacerdote fidei donum della diocesi di Fiesole, che ogni venerdì, da anni ormai, celebra la Messa presso gli ulivi di Cremisan e recita il Rosario sotto il muro del check point di Betlemme. Al microfono di Benedetta Capelli, don Mario racconta come stanno vivendo i cristiani nella Striscia di Gaza:

    R. – Conosco Gaza perché, prima di tutto, lì abbiamo una parrocchia, un piccolo gruppo di cristiani, due sacerdoti, quattro congregazioni di suore con 14 sorelle del Verbo Incarnato. Abbiamo diverse scuole e diverse attività, ma soprattutto abbiamo questa piccola comunità che, quando possiamo, andiamo a trovare perché è una comunità che sta soffrendo. Una cosa che spesso non viene raccontata è che questi bombardamenti, iniziati un paio di mesi fa, sono continui. È un popolo di disperati. Io, quando entro a Gaza, dico sempre: “Questa è una discesa all’inferno”. Abbiamo il cuore lacerato dal dolore e dalla sofferenza. Inoltre, qui dove viviamo facciamo anche fatica ad avere notizie dai nostri religiosi... da Betlemme o da Gerusalemme. Ieri ho parlato con le suore che fortunatamente stavano bene: erano preoccupate, impaurite; i nostri fratelli cristiani le chiamano tutti i giorni, dicendo: “Non ci abbandonate, non lasciate la Striscia di Gaza”. Molte delle nostre suore sono straniere, a parte le suore del Rosario che sono locali. I cristiani hanno chiesto loro la possibilità di usufruire delle sale parrocchiali, ritenendo la parrocchia un luogo più sicuro. Le suore stanno preparando le sale sotto la parrocchia per accogliere i cristiani, se le violenze dovessero – come purtroppo tutti temiamo – continuare ad aumentare.

    D. – Il Patriarcato Latino di Gerusalemme ha espresso inquietudine, in una nota, davanti a questa escalation di violenze ed ha espresso l’auspicio che si possa trovare una soluzione al conflitto, attraverso una collaborazione internazionale. Lei, da religioso, che appello si sente di lanciare?

    R. – Chiediamo che tutta questa violenza termini perché questa non è assolutamente la strada. Questi bombardamenti stanno creando terrore, la gente è terrorizzata. Io quando entro a Gaza, vedo il terrore negli occhi dei bambini, e questo ti segna ...

    D. – Le suore cosa le hanno raccontato: quali sono i bisogni che hanno in questo momento e cosa chiedono di più?

    R. – Ci chiedono di pregare, chiedono di non essere lasciate sole nella preghiera. Umanamente in questo momento sembra non esserci via di uscita, ma noi sappiamo bene che al Signore tutto è permesso anzi dobbiamo "far pressione" sul cielo, perché ridoni un po’ di calma. In questo momento, la Terra Santa non ha bisogno di altri massacri.

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    Elezioni generali in Sierra Leone: intervista con il direttore della locale Radio Maria

    ◊   Sierra Leone domani alle urne. Oltre due milioni e 700 mila i cittadini chiamati a scegliere il nuovo presidente, rinnovare il parlamento e le amministrazioni locali. Nove i partiti in lizza, ma i due principali schieramenti sono l’All People’s Congress e il Sierra Leone People’s Party. Massimiliano Menichetti:

    La Sierra Leone continua il cammino verso la democrazia. Dopo 10 anni dalla fine di una guerra civile tra le più sanguinose della storia recente, 120mila morti, il Paese si appresta a rinnovare tutto l’arco politico. Nove gli schieramenti, ma il duello elettorale si tiene di fatto tra l’attuale presidente Ernest Bai Koroma dell’All People’s Congress e l’ex generale Julius Maada Bio, candidato del Sierra Leone People’s Party. Massiccia la presenza di osservatori internazionali per seguire le terze elezioni libere del Paese africano. Nel 2002 vinse il Sierra Leone People’s Party, nel 2007, poi, il cambio pacifico al governo e la vittoria di Ernest Bai Koroma. Serviranno circa quattro giorni, dopo il voto di domani, per conoscere l’esito delle consultazioni. Se nessuno supererà il 55% dei consensi si andrà ad una seconda tornata elettorale. Ai nostri microfoni il padre saveriano Luigi Brioni, da 30 anni in Sierra Leone, oggi direttore a Makeni dell’emittente Radio Maria:

    R. – Posso dire che c’è soddisfazione per il buon processo elettivo che si sta svolgendo nel Paese. Sono le elezioni più esemplari, per il rispetto reciproco, che abbiamo visto da sempre, a parte qualche piccolissima scaramuccia qua e là. Speriamo che questa pace, questa serenità nel processo elettivo continui sia domani, sia nei giorni in cui si conosceranno i risultati. Noi continuiamo a dirlo in radio, nelle nostre chiese, nella lettera pastorale dei vescovi che in queste elezioni non ci deve essere spazio per le violenze e di contrasti, ma devono essere consultazioni di buon senso e soprattutto nell’interesse del bene comune.

    D. – La Chiesa come aiuta nel processo di democratizzazione del Paese?

    R. – E’ presente moltissimo, prima di tutto nelle strutture educative, nelle scuole. Prepara al rispetto reciproco dell’unica famiglia di Dio, dei diritti umani… Poi, da un punto di vista più pastorale, ha veramente creato una mentalità nuova, una pagina di una nuova cultura ed ha contribuito a far capire alla politica che non c’è bisogno di essere violenti.

    D. – Il 50 per cento della popolazione è musulmana, il 40 per cento appartiene a culti tradizionali, i cristiani sono il 10 per cento. C’è integrazione nel Paese?

    R. – Molta integrazione e molto rispetto. Qui usano in genere la parola “tolleranza”. Quando parlano di “tolleranza religiosa” perfino da esportare in altri Paesi, come la Nigeria, il Niger e così via, parlano veramente di convivenza, di un’ottima relazione basata sui diritti umani e sul rispetto.

    D. – L’elettorato dei due principali partiti del Paese – il Sierra Leone People’s Party e l’All People’s Congress – è di fatto diviso tra il Nord e il Sud. Questa divisione rimane tuttora?

    R. – Adesso il Sud e il Nord non sono così distinti come elettorato. Quindi, speriamo che questa maturità politica sorpassi le divisioni tribali o locali sia nel Nord, sia nel Sud, e vada veramente verso un “manifesto”, verso un programma politico che cambi la Sierra Leone in meglio. Abbiamo tantissime risorse e dobbiamo usarle, soprattutto per i poveri. Quindi speriamo che le promesse che stanno facendo tutti, poi vengano mantenute.

    D. – Quali le sfide che il Paese deve affrontare?

    R. – Un grande problema è quello del sistema scolastico, che ha bisogno di un rifacimento, di un investimento, di un impegno veramente straordinario. Secondo l’indice dello sviluppo umano, siamo uno dei Paesi più poveri al mondo e questo accade anche per lo scarso accesso all’istruzione che hanno i bambini della Sierra Leone. Un’istruzione poco valida, poco competitiva anche a livello internazionale. Assieme a questo ovviamente c’è la povertà: c’è gente che vive alla giornata, non ha elettricità, casa, acqua. Sono state fatte tante cose negli ultimi cinque anni dal governo dell’Apc, ma molto c’è ancora da fare. E adesso che abbiamo la possibilità di vendere le risorse del Paese – minerali, ferro e così via – dovrebbe esserci un impegno più evidente per risollevare i poveri dalla loro miseria.

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    Sentenza su diagnosi pre-impianto embrioni. Morresi: legge 40 non prevede selezione eugenetica

    ◊   Per la prima volta dall'entrata in vigore della legge 40 sulla fecondazione assistita, un giudice del Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto ad una coppia, lei malata di talassemia e lui portatore sano, di poter fare la diagnosi pre-impianto presso l’Ospedale Microcitemico della città. I Centri pubblici italiani specializzati in procreazione medicalmente assistita – si legge nella sentenza - devono offrire la diagnosi pre-impianto alle coppie che la richiedono perché affette da malattie genetiche. Ma la legge prevede realmente questa possibilità? Al microfono di Adriana Masotti risponde la prof.ssa Assuntina Morresi del Comitato nazionale di Bioetica:

    R. – Innanzitutto, la legge 40 dà solo l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita ed è pensata per le coppie sterili o infertili; non è pensata per selezionare gli embrioni sani, rispetto ai malati. Tant’è vero che in alcune parti – sia nella legge, sia anche nelle linee guida – è esplicitato il divieto alla selezione eugenetica degli embrioni. Quindi, di per sé è una forzatura, cioè la legge non consente questo tipo di procedure.

    D. – Però, la legge prevedere il diritto dei pazienti, delle coppie di essere informate, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni da trasferire nell’utero…

    R. – Certamente. Questo viene fatto, per esempio, per via osservazionale. La legge non dice con quali tecniche gli operatori sanitari debbano andare a verificare la salute dell’embrione. La legge dice che, su richiesta, i genitori possono essere informati e dice anche che ogni tipo di intervento sull’embrione deve essere finalizzato solamente alla tutela della sua salute e del suo sviluppo, non per essere scartato. Quello che fanno gli operatori sanitari, cioè la ratio della legge, è che, una volta fecondato l’ovocita, si osserva l’embrione al microscopio per vedere se ci sono condizioni – per esempio forti anomalie visibili – per cui si sa già che quell’embrione non si svilupperà. Questo perché non si vuole trasferire un embrione che non potrà svilupparsi in gravidanza. Ma la ratio è tutt’altra.

    D. – Cosa significa allora, chiedere ad un ospedale di attrezzarsi per poter fare una diagnosi, una procedura che va contro la legge?

    R. – E’ una forzatura della legge. Tra l’altro, è un precedente pesante, perché se, come dicono le agenzie, addirittura con questa ordinanza si obbliga una struttura sanitaria ad eseguire un certo specifico esame e addirittura a dotarsi di strumentazioni e competenze per eseguire quell’esame, questo vuol dire che a decidere i requisiti minimi per i centri di fecondazione in vitro nonché le modalità con cui i medici fanno le diagnosi ai loro pazienti, vuol dire che a fare questo non sono i medici, le regioni o le Asl, ma i tribunali. Anche perché, se fosse così, cioè se per dare informazioni alle coppie che si rivolgono alla fecondazione assistita, dovesse essere obbligatorio disporre di diagnosi preimpianto, questo significherebbe che il 95% dei centri italiani non è in regola, perché il 95% dei centri Pma (Procreazione medicalmente assistita) italiani non ha di questa strumentazione e non ha le competenze.

    D. – Qual è la situazione nel privato, invece?

    R. – E’ la stessa, perché il privato fa parte del servizio sanitario nazionale; non è che il privato è sottoposto a leggi diverse. Quindi, il privato non dovrebbe dare un servizio di diagnosi preimpianto, perché da noi non è consentita. Altro sarebbe se ci fosse un tipo di diagnosi che consentisse di diagnosticare una malattia curabile, una patologia curabile dell’embrione, cioè: se si potesse fare nell’embrione, quello che si fa nei feti con la spina bifida, per esempio, per cui ci sono delle operazioni che si possono fare in utero, allora tutte quelle indagini sarebbero nello spirito della legge, cioè a tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione. Adesso la diagnosi preimpianto non risponde a questo criterio, quindi sono forzature ideologiche.

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    Jean Vanier: i disabili sono i grandi testimoni di Dio

    ◊   Jean Vanier, 84enne fondatore de "L'Arca", ha incontrato ieri nella Basilica di San Giovanni in Laterano i sacerdoti della diocesi di Roma, inaugurando il ciclo di incontri a loro dedicati per l'Anno della Fede. L’Arca, fondata negli anni '60, raggruppa oltre 130 comunità nel mondo per l'accoglienza di persone con disabilità. Ascoltiamo la testimonianza di Jean Vanier al microfono di Xavier Sartre:

    R. - Notre mission est de rencontrer…
    La nostra missione è di incontrare un mondo di estrema debolezza, povertà e sofferenza, persone che spesso sono state rifiutate. Il ruolo dell’Arca è annunciare la buona notizia ai poveri: a loro certo diciamo “Dio ti ama”, ma diciamo anche “Io ti amo, tu se importante per me”. E’ accogliere in piccole case persone che hanno molto sofferto e rivelare loro che sono qualcuno. Amare qualcuno è semplicemente rivelargli che ha un valore, non tanto fare cose per lui – certo, anche questo – ma stare insieme, mangiare insieme. Gesù nel Vangelo dice: “Quando date un banchetto non invitate i vostri amici ma poveri, storpi, ciechi e zoppi”. Questa è una beatitudine. Il nostro scopo è mangiare alla stessa tavola, è diventare amici. Tutta l’opera dell’Arca è dare la possibilità di una vita profondamente umana attorno alla tavola, attorno alle feste, al lavoro, alla preghiera. Così l’Arca è un luogo di riconciliazione dove persone di religioni e culture molto diverse possano incontrarsi e questo trasforma la vita delle persone con disabilità, ma trasforma anche i volontari. L’Arca, in fondo, è un luogo di festa dove il fine è che tutti siano felici.

    D – Quindi, il fondamento dell’Arca è la relazione …

    R. – Nous disons tous, chez nous, que le fond…
    Noi, qui, diciamo tutti che il fondamento dell’Arca è una relazione che trasforma e che diventa un segno per il mondo. In fondo, tutto il mistero del Vangelo è che Gesù faceva segni: segni di cosa? Segni che l’amore è più forte dell’odio, che l’amore è possibile. Noi vogliamo essere un segno dell’importanza delle persone disabili, perché hanno un messaggio da dare, ma pochi lo sanno: loro, infatti, sono stati scelti per essere i grandi testimoni di Dio.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Egitto: le Chiese cristiane annunciano il ritiro dall'Assemblea Costituente

    ◊   I rappresentanti delle Chiese cristiane egiziane hanno annunciato il loro ritiro dall’Assemblea Costituente incaricata di redigere la nuova Costituzione del grande Paese nordafricano. La decisione, già ventilata nei giorni scorsi dal nuovo Patriarca copto ortodosso Tawadros II e sollecitata da molti membri autorevoli delle comunità cristiane, è stata presa ieri in un incontro avvenuto nella cattedrale copta di San Marco al Cairo, a cui hanno preso parte anche il vescovo copto cattolico Yohanna Qulta e il dr. Safwat al-Bayaadi, capo della Chiesa anglicana in Egitto, membri della Costituente. La scelta dei rappresentanti delle Chiese cristiane - riporta l'agenzia Fides - non è isolata: nelle stesse ore, anche altri membri del comitato incaricato di redigere la nuova Carta costituzionale – tra i quali anche Ahmed Maher, fondatore del movimento 6 Aprile e leader della rivolta anti-Mubarak – hanno annunciato la propria autosospensione. Da molti è venuta anche la richiesta di prolungare la fase istruttoria di almeno tre mesi (la pubblicazione della bozza definitiva del nuovo testo costituzionale era prevista per la fine di novembre). Il clamoroso forfait collettivo rappresenta un tentativo estremo di resistere alle pressioni esercitate soprattutto dai settori estremisti salafiti per improntare in chiave islamista la nuova Costituzione egiziana. La scorsa settimana, i rappresentanti delle sette Chiese cattoliche presenti in Egitto hanno organizzato al Cairo alcuni seminari di studio con giuristi cristiani e islamici sulla questione della nuova Costituzione. “La scelta delle Chiese egiziane” dichiara all'agenzia Fides il vescovo Adel Zaki, vicario apostolico di Alessandria “non è una battaglia confessionale: in gioco c'è l'identità stessa dell'Egitto, e quello che l'Egitto ha sempre rappresentato nel coro delle nazioni arabe, con la sua esperienza di convivenza millenaria tra comunità di fede diversa. Le nuove correnti, che strumentalizzano il senso religioso del popolo, provengono dall'esterno del Paese, e negli ultimi tempi hanno infiltrato anche da noi idee estranee al tessuto della Nazione. Non rispettano i diritti di noi cristiani d'Egitto, che siamo tutti figli di Chiese autoctone, nate e cresciute in questo Paese. E con le loro manovre settarie, rischiano di portare alla divisione di tutto il Paese. Non a caso, sento circolare con crescente insistenza l'idea di separare il Sinai, o di dividere l'Alto Egitto dal Basso Egitto”. (R.P.)

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    Terra Santa: nonostante il conflitto i pellegrinaggi Unitalsi si svolgono regolarmente

    ◊   Nessun cambiamento di programma per i pellegrinaggi Unitalsi in Terra Santa, nonostante le notizie di questi giorni in Terra Santa. “I pellegrinaggi si svolgeranno regolarmente - dichiara Salvatore Pagliuca, presidente nazionale - l’ufficio tecnico è in stretto contatto con i nostri referenti logistici in Terra Santa, a partire dall’ufficio del turismo locale e dalla compagnia di bandiera israeliana, e attualmente dalle prime indicazioni non esiste nessun rischio per cancellare il pellegrinaggio programmato”. Il riferimento - riporta l'agenzia Sir - è al prossimo pellegrinaggio in programma a partire dal 21 novembre 2012, organizzato dalla sottosezione Unitalsi di Roma, cui parteciperà anche il Sindaco di Roma, Gianni Alemanno insieme a 90 partecipanti fra volontari, disabili e pellegrini. Il pellegrinaggio toccherà tutti i luoghi simbolo del cristianesimo, spostandosi fra le città di Nazareth, Gerusalemme e Betlemme. In particolare, il giorno 23 novembre, i pellegrini faranno tappa sul lago di Tiberiade, fermandosi anche al Primato di Pietro. Qui Alemanno apporrà una targa, suggellando così un simbolico gemellaggio fra questo luogo e la città di Roma. “L’Unitalsi prega per tutte le vittime, che in queste ore il conflitto arabo-israeliano sta provocando”, afferma Pagliuca che auspica che il pellegrinaggio rappresenti un segnale per le più alte autorità Internazionali, le uniche in grado di far cessare queste violenze”. (R.P.)

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    El Salvador ricorda il massacro del 1989 di sei gesuiti

    ◊   “Lo stesso odio che ha ucciso mons. Romero è il responsabile di questo nuovo massacro”. Così mons. Arturo Rivera Damas, reagì all’uccisione di sei religiosi gesuiti, di una loro collaboratrice e della figlia adolescente il 16 novembre del 1989, in piena guerra civile (1980-1992). I soldati del battaglione anti-guerriglia Atlacatl, addestrato negli Stati Uniti, fecero irruzione nella ‘Universidad Centroamericana José Simeón Cañas’ (Uca), assassinando il rettore, il gesuita spagnolo Ignacio Ellacuría, insieme ai confratelli spagnoli Ignacio Martin Baro, Segundo Montes, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, e al salvadoregno Joaquin Lopez, oltre alla cuoca Elba Julia Ramos e a sua figlia quindicenne Celina Mariceth Ramos. Inizialmente - riferisce l'agenzia Misna - il governo tentò di attribuire la responsabilità dell’eccidio alla guerriglia del ‘Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional’ (Fmln), oggi partito al potere. Carlos Ayala Ramírez, direttore dell’emittente universitaria Radio Ysuca, “uno dei progetti più amati dal nostro rettore martire Ellacuría”, ricorda in un articolo pubblicato dall’agenzia ‘Adital’ che mons. Damas “definì la strage un duro colpo per la Chiesa – i gesuiti avevano dedicato parte della loro vita alla formazione del clero – per la Compagnia di Gesù – perché alla luce del Concilio Vaticano II, Medellín e Puebla avevano scelto l’opzione preferenziale per i poveri – e per la cultura del Paese – erano analisti acuti che portavano allo scoperto l’ingiustizia sociale e facevano proposte per la sua trasformazione. Così, la storia che nasceva in quei giorni era segnata dal dolore e dalla desolazione”. Il novembre del 1989 “fu per la Uca un mese di profondo dolore” aggiunge Ayala, “ma, paradossalmente, anche il tempo del più grande omaggio all’evangelista Giovanni: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici!». Ovvero, la consegna totale di un essere umano libero e generoso, per amore, a un popolo di poveri”. Il tema scelto quest’anno per commemorare i martiri della Uca – Un ritorno ai poveri per amore è un ritorno al Vangelo – “rende attuale questa consegna radicale. A 23 anni dai fatti – conclude Ayala – è ancora aperta la riflessione sull’università che i martiri della Uca ci hanno lasciato, “una forza sociale al servizio della verità, della giustizia, della liberazione e dell’umanizzazione. Quella il cui fine essenziale è l’eccellenza e in cui l’accademia è necessaria e molto importante, ma che non è l’ultima finalità. Portare avanti questo modo di essere universitario è un impegno che richiede responsabilità e creatività, sia istituzionale che personale. Per l’eccidio alla Uca, un colonnello, due tenenti, un sottotenente e cinque soldati furono processati nel 1991: sette furono assolti; i due condannati – al colonnello Guillermo Benavides e al tenente Yusshy Mendoza furono comminati 30 anni di carcere – beneficiarono in seguito di un’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani (1989-1994), poche ore prima della pubblicazione di un rapporto della Commissione della Verità dell’Onu che attribuì agli alti vertici militari la responsabilità della strage. L’amnistia chiuse di fatto la vicenda in Salvador, riaperta nel 2009 in Spagna sulla base di una denuncia presentata dalla ‘Asociación Pro Derechos Humanos’ iberica e dall’organizzazione statunitense ‘Center For Justice & Accountability’. La Uca continua a chiedere che venga fatta piena luce sui mandanti della strage. (R.P.)

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    Congo: intensi scontri a Goma. La paura dei civili

    ◊   Dopo tre mesi circa di tregua informale, intensi scontri sono in corso da ieri nei pressi di Kibumba, 30 chilometri a nord di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, tra forze armate regolari (Fardc) e ribelli del Movimento del 23 marzo (M23). La conferma arriva dall’emittente locale ‘Radio Okapi’ ma sia sui bilanci delle vittime che sulla dinamica delle violenze sono in circolazione versioni contrastanti. Il governatore dell’instabile provincia orientale, Julien Paluku - riferisce l'agenzia Misna - ha annunciato che 113 ribelli sono rimasti uccisi e pochi soldati feriti. Poche ore prima, da Kinshasa, il portavoce dell’esecutivo Lambert Mende ha confermato la morte di 51 miliziani. “I corpi senza vita che sono stati recuperati avevano tutti divise dell’esercito ruandese” ha precisato la fonte governativa, aggiungendo che un leader del M23, senza precisarne l’identità, ha perso la vita e che ingenti quantità di armi sono state sequestrate. Da Goma, il luogotenente colonnello Olivier Hamuli ha invece deplorato l’uccisione di un comandante delle Fardc.In comunicati diffusi dall’esercito regolare e dalla ribellione, le due parti rivali si accusano a vicenda per la ripresa degli scontri. “Non siamo stati noi ad attaccare. E’ un pretesto. Da due settimane sapevamo che si stavano rafforzando – ha dichiarato Hamuli – Siamo stati attaccati e ora stiamo solo recuperando le nostre posizioni”. Il portavoce dell’esercito a Goma ha poi precisato che “il piccolo gruppo ha lanciato l’offensiva dal Rwanda”, ma senza specificare se si sia trattato di soldati di Kigali o di ribelli con la divisa ruandese. Dalla nascita della nuova ribellione del M23, sette mesi fa, diversi rapporti dell’Onu hanno evidenziato la responsabilità diretta del Rwanda e dell’Uganda, Paesi confinanti con l’Est congolese, che fornirebbero sostegno politico, militare e logistico al M23. Dal canto loro i miliziani hanno avvertito che “siamo obbligati a difenderci dopo che siamo stati aggrediti e che la tregua è stata interrotta” ha detto il loro portavoce Vianney Kazarama. Sul terreno la situazione militare rimane confusa ed incerta. L’esercito sostiene che gli scontri sono terminati mentre un’operazione di rastrellamento sarebbe in corso nella zona di Kibumba e Rubari, confinante con il Rwanda, in cerca di ribelli. L’M23 denuncia invece “bombardamenti” in atto, blindati in azione sul terreno e l’apertura di tre nuovi fronti di combattimenti da parte delle Fardc. Per ora sembra però esclusa ogni minaccia diretta al capoluogo di Goma, attorno al quale da mesi sono stati allestiti campi che hanno accolto migliaia di sfollati. “La gente vive nella paura quotidiana e nell’incertezza per quanto potrebbe succedere” ha detto Omar Kavota, portavoce delle Ong della società civile del Nord-Kivu. Il riaccendersi delle violenze giunge mentre a New York è riunito il Comitato delle sanzioni dell’Onu che sta valutando misure individuali ai danni di responsabili ruandesi e ugandesi. Tra questi ci potrebbero essere il ministro della Difesa di Kigali, James Kabarebe, e il capo di stato maggiore dell’esercito ruandese Charles Kanyonga. Martedì Washington ha iscritto il capo del M23, Sultani Makenga, sulla lista nera delle persone coinvolte, fisicamente o moralmente, nel conflitto nell’Est del Congo. La decisione è stata annunciata poco dopo che l’Onu aveva disposto nei confronti dell’uomo – accusato di omicidi, stupri e vessazioni – un’interdizione a viaggiare e il congelamento dei beni. Solo 24 ore fa il governo di Kampala ha deciso, senza preavviso, di chiudere il confine di Bunagana, principale posto di frontiera con il Congo, fino a nuovo ordine. (R.P.)

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    Kenya: nuovo forte appello dei vescovi per le elezioni generali del 4 marzo 2013

    ◊   Impegnarsi per uno scrutinio corretto, pacifico e trasparente e scegliere candidati degni di assumere l’incarico di governare. E’ il nuovo appello rivolto ai cittadini keniani dai vescovi del Paese in vista delle prossime elezioni politiche, fissate per il 4 marzo 2013. In una dichiarazione diffusa al termine della loro recente assemblea plenaria a Kabula, i presuli esprimono preoccupazione per la situazione del Paese nell’approssimarsi dell’importante appuntamento elettorale, il primo dopo il varo della nuova Costituzione. Per cominciare, i vescovi chiedono il rispetto delle scadenze per garantire a tutti i cittadini la possibilità di iscriversi nel nuovo registro elettorale e quindi di partecipare al voto. Ma a preoccupare l’episcopato è soprattutto la scelta dei candidati: “Non possiamo aspettarci nessuna buona leadership da persone la cui integrità morale è compromessa”, ammoniscono. Per i vescovi i candidati indegni di assumere un incarico pubblico sono: persone che non hanno alcun rispetto per Dio; che non rispettano la legge; condannate per corruzione e altri reati connessi; persone che predicano la violenza e l’odio; coinvolte nel traffico di stupefacenti e in altre attività illecite o che inducono altre a commettere reati e persone che cambiano continuamente posizione su importanti questioni di interesse nazionale. La nota denuncia poi il crescente clima di insicurezza e violenza, alimentata anche dall’eccessiva circolazione di armi, che in questi ultimi tempi colpisce in modo particolare la comunità cristiana, vittima di ripetuti attacchi terroristici contro chiese e persone. I presuli si rivolgono quindi alle forze dell’ordine affinché combattano in modo più energico le violenze e la criminalità e si appellano alla correttezza della magistratura. Quanto ai partiti, i vescovi keniani si dicono preoccupati dalle alleanze elettorali che si stanno profilando che rispondono solo a “logiche tribali” ed esortano quindi i leader politici “a non costituire gruppi che isolano alcune comunità dal resto del Paese”. Un’esortazione speciale viene poi rivolta ai giovani affinché non si facciano “manipolare da individui mossi solo da interessi egoistici contro i loro concittadini”. Infine, l’appello “a tutti i keniani e alle persone di buona volontà affinché contribuiscano a un voto pacifico. Facciamo in modo – concludono - che la nostra fede in Dio si manifesti nelle nostre decisioni, in particolare in queste elezioni generali perché possa esserci una transizione serena e un Kenya prospero e timoroso di Dio”. La Conferenza episcopale del Kenya ha rivolto ripetuti appelli affinché il Paese non riviva più la drammatica esperienza delle elezioni del 2008 finite nel sangue. L’ultimo risale a una lettera pastorale pubblicata lo scorso mese di aprile. (L.Z.)


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    Filippine: uccisa un’operatrice pastorale cattolica nelle isolette di “Abu Sayyaf”

    ◊   L'operatrice pastorale cattolica Conchita Francisco, 62 anni, vedova e madre di due figli, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco da uomini non identificati davanti alla cattedrale cattolica di Bongao, nella provincia filippina di Tawi-Tawi, nel Sud dell’arcipelago. Lo conferma all’agenzia Fides padre Eliseo Mercado, degli Oblati di Maria Immacolata, docente all’Università Notre Dame di Cotabato, che si trovava in visita nella provincia, raccontando che l’omicidio è avvenuto il 13 novembre, mentre la donna era appena uscita dalla chiesa, dove aveva guidato la recita del Rosario e aveva partecipato alla Santa Messa. La provincia di “Tawi-Tawi” (nei pressi dell’isola di Jolo) è fatta da una piccola corona di isolette che, insieme alle Sulu, sono dispiegate verso l’isola del Borneo malaysiano, all’estremo Sud delle Filippine. Si tratta di una zona dove la presenza di ribelli musulmani, pirati, formazioni terroristiche e criminali da anni tiene sotto scacco l’esercito filippino. Le isole sono infestate dalle cellule di “Abu Sayyaf”, gruppo terrorista di matrice islamica, responsabile di numerosi attentati e assassini. Come riferito a Fides, la comunità cattolica, che conta il 2% della popolazione locale, tutta musulmana, è sotto shock per l’accaduto. Il vicario apostolico di Jolo, mons. Angelito Lampon, ha espresso tutta la sua amarezza per l’omicidio che “ha privato la comunità di una autentica testimone del Vangelo”. Il vicario apostolico ha celebrato ieri i funerali di Conchita, detta “Ching”, che era un pilastro nelle attività pastorali della piccola Chiesa locale. Conchita aveva perso dieci anni fa suo marito, anch’egli ucciso in modo violento, e portava nella sua carne i segni della sofferenza e delle tensioni che attraversano le Filippine Sud. La donna era Preside della scuola di secondo grado all’interno del campus della “Mindanao State University” (Msu) a Bongao e, secondo alcune fonti, l’omicidio potrebbe essere legato a questioni inerenti il suo lavoro nella struttura. La polizia sta indagando e non ancora ha fatto luce sul crimine. Padre Mercado ricorda che altre due persone operanti nella Msu sono state uccise nel campus di Marawi City (sull’isola di Mindanao), il 25 ottobre scorso: il prof. Otello Cobal e il suo assistente Erwin Diaz, di 24 anni. Una banda di teppisti è penetrata nel campus, li ha freddati e ha appiccato il fuoco agli uffici. “I colpevoli di tali crimini sono in libertà e continuano a minacciare la comunità civile impunemente” denuncia a Fides il missionario. La Msu, spesso paragonata a un “microcosmo della emergente regione musulmana Bangsamoro” è divenuta “un laboratorio del crimine” e per questo alunni e docenti hanno chiesto l’intervento del governo per garantire la legalità. Il gesuita padre Albert Alejo, impegnato nella società civile a Zamboanga City, spiega a Fides: “La violenza a Mindanao e nelle isole Sulu è una realtà diffusa. Le provincia di Tawi-Tawi è militarizzata, vi sono molti soldati e molte armi anche fra i civili. Violenze e omicidi a volte si possono ricondurre a motivi elettorali, in altri casi alle rivendicazioni di gruppi e fazioni musulmane. Ad esempio, un gruppo molto forte nella zona, il ‘Moro National Liberation Front’ non ha accettato il recente accordo di pace siglato con il governo filippino dal ‘Moro Islamic Liberation Front’, e questo crea ulteriore tensione”. (R.P.)

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    Aiuto alla Chiesa che Soffre distribuirà 500mila catechismi Youcat per la Gmg di Rio

    ◊   Su richiesta di numerose diocesi latinoamericane, Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) distribuirà 500mila copie del celebre catechismo Youcat, sintesi per i giovani del Catechismo della Chiesa Cattolica. Già all’inizio di ottobre la Fondazione pontificia ha finanziato 500mila Youcat in portoghese per il Brasile, dove migliaia di giovani desiderano arrivare preparati all’incontro con Benedetto XVI in occasione della prossima Giornata Mondiale della Gioventù. E altri 12.500 esemplari in lingua spagnola sono stati distribuiti in diverse diocesi del continente. «Probabilmente ne stamperemo presto dei nuovi – afferma Rafael D’Aqui, responsabile internazionale di Acs per l’America Latina – il catechismo è gettonatissimo tra i ragazzi». Tantissimi vescovi latinoamericani - riferisce l'agenzia Zenit - hanno infatti chiesto aiuto alla fondazione pontificia per pubblicare ulteriori copie. Solo la Conferenza episcopale boliviana ne riceverà 25mila e altre decine di migliaia andranno alle diocesi di Cuba, Colombia e Venezuela. «Il successo di Youcat – continua D’Aqui – era evidente sin dall’appuntamento di Madrid. E dopo poco più di un anno è ormai un supporto insostituibile per la pastorale giovanile». Per la scorsa Gmg, Acs ha contribuito alla stampa di 700mila sussidi al catechismo - in inglese, francese, tedesco, italiano, spagnolo e polacco - che tutti i partecipanti hanno trovato nella loro «sacca del pellegrino». Poi lo scorso settembre la fondazione ha finanziato 50mila volumi tradotti in arabo per le migliaia di giovani che hanno accolto Benedetto XVI in Libano. E già si pensa a nuove edizioni, ad esempio in cinese. L’alto valore di Youcat è stato attestato anche nel corso dell’ultimo Sinodo dei vescovi. I padri sinodali hanno definito il volume, al pari delle Giornate Mondiali della Gioventù, uno strumento indispensabile per la Nuova Evangelizzazione. Apprezzamento testimoniato dalle numerose lettere che Acs continua a ricevere, in particolare dall’America Latina. Mons. Tomás Jesús Zárraga Colmenares, vescovo di San Carlos in Venezuela, loda «l’enorme contributo del catechismo al rafforzamento della fede dei nostri ragazzi». Mentre dalla diocesi di El Alto in Bolivia, monsignor Jesús Juárez Párraga sottolinea l’alto valore educativo «non solo in vista della prossima Gmg a Rio de Janeiro, ma anche durante questo Anno della Fede». «Youcat riesce a motivare i giovani – scrive poi mons. Ricardo Tobón Restrepo, aricivescovo di Medellín in Colombia – spronandoli a vivere apertamente la propria fede in Gesù e ad adoperarsi per la Nuova Evangelizzazione. Due priorità che noi vescovi dell’America Latina e dei Caraibi abbiamo evidenziato già nel 2007, in occasione della nostra Vª Conferenza generale ad Aparecida». (R.P.)

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    El Salvador: iniziativa dei vescovi contro la guerra tra bande criminali

    ◊   "Noi Vescovi e pastori di diverse confessioni, ci incontreremo domani, 17 novembre, per una iniziativa pastorale per la vita e per la pace. Saranno presenti le famiglie dei membri delle bande e i membri delle nostre comunità, insieme alla popolazione in generale. Si tratta di un evento ecumenico che mira a sostenere lo sforzo per la pace che la Chiesa cattolica ha avviato con la tregua tra le bande": sono le parole che mons. Fabio Colindres, Ordinario Militare, ha inviato all’agenzia Fides per annunciare l'iniziativa a sostegno della tregua di pace fra le bande, che si svolgerà durante il fine settimana, con celebrazioni e momenti di riflessione in tutto il Paese. L'evento si chiama "Uniti per la vita e per la pace" e, secondo i promotori, intende rispondere ad una precisa richiesta della società, che chiede l’unione di tutti per combattere la situazione di violenza e di intolleranza che colpisce i salvadoregni. In questo modo viene manifestato pubblicamente il sostegno al processo di pace che ha avuto inizio nel mese di marzo scorso. Mons. Colindres Abarca, i mediatori - membri delle bande - e il governo hanno fatto sapere che nelle prossime settimane potrebbero essere annunciati nuovi gesti di buona volontà da parte delle bande, oltre alla riduzione in atto degli omicidi nel Paese, malgrado continuino a verificarsi sia pure in misura minore. "La cosa importante è che abbiamo iniziato il processo, e che questo ha consentito una riduzione degli omicidi. Ci sono alcuni gruppi che non hanno ancora deciso di partecipare a questo processo, ma stiamo tutti lavorando con impegno anche per questo motivo, così da integrare anche questi gruppi" riferisce mons. Colindres. (R.P.)

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    Conclusa la visita del patriarca Kirill in Terra Santa

    ◊   Il ritorno del patriarcato di Mosca in Terra Santa "avrà un effetto benefico e conseguenze positive sia per la vita spirituale del nostro popolo, che per quella degli ortodossi in Terra Santa". A riassumere così il significato della sua storica visita in Israele, Territori palestinesi e Giordania (9-14 novembre), è stato lo stesso Kirill, recatosi nella regione per la prima volta, da quando nel 2009 è diventato il leader della Chiesa russo-ortodossa. Il ministero degli Esteri israeliano aveva annunciato la visita, definendola la più importante nel suo genere, dopo quella di Benedetto XVI nel 2009. La missione - riferisce l'agenzia AsiaNews - ha avuto un suo peso a livello religioso se si considera che i russi emigrati in Israele negli anni '90, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, sono circa 1.200.000. Una minoranza culturale molto influente nella zona. Di questi, circa 300mila sono cristiani ortodossi, che hanno il patriarcato di Mosca come punto di riferimento. Con tappe a Betlemme, Nazareth, Tiberiade e sul fiume Giordano, Kirill ha donato campane alla chiesa di San Giovanni Battista a Jaffa, consacrato quella di Ognissanti a Gerusalemme e fatto intendere che, con l'aiuto dei governi locali, promuoverà in ogni modo i pellegrinaggi di russi in Terra Santa, già aumentati di 600mila persone l'anno, dopo l'abolizione del regime dei visti con Israele. In occasione della visita in Giordania alla 'Casa del pellegrino russo', il Patriarca ha detto che l'obiettivo "è aumentare la presenza della Chiesa russo-ortodossa in Terra Santa". Nel suo viaggio - definito "non politico" dal portavoce del patriarcato - oltre alle autorità religiose di Terra Santa, il patriarca Kirill ha incontrato le massime cariche di Stato: dal presidente palestinese Abu Mazen, a quello israeliano Shimon Peres, fino al re Abdullah II di Giordania. (R.P.)

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    Thailandia: dal Sinodo nuove sfide per la Chiesa locale

    ◊   Rafforzare l'opera delle Comunità ecclesiali di base (Bec), modello di condivisione delle fede e di nuova evangelizzazione, e promuovere il dialogo interreligioso e culturale in tutto il mondo per favorire la pace e l'armonia. Sono le due proposte che mons. Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, arcivescovo di Bangkok, ha avanzato durante il recente Sinodo dei vescovi, che si è tenuto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre. Il prelato ha preso parte alla 13ma Assemblea sinodale in qualità di rappresentante della Conferenza episcopale thai (Cbct) durante la quale ha incontrato papa Benedetto XVI, vescovi, cardinali, personalità cattoliche di tutto il mondo. Nei giorni scorsi mons. Kovithavanij ha voluto condividere questa esperienza privilegiata con tutti i fedeli della Thailandia, con una riflessione affidata alle colonne del settimanale cattolico thai Udomsarn Weekly, partendo dalla cerimonia di apertura che definisce "elegante". Prendendo spunto dal piano pastorale 2010-2015 della Chiesa thai - riferisce l'agenzia AsiaNews - l'arcivescovo ha ricordato ai presenti al Sinodo il valore delle Comunità ecclesiali di base e del dialogo interreligioso, che vale per la Thailandia come per i cattolici di tutto il mondo. "Vi sono elementi relativi al Sinodo - scrive il prelato - che la Chiesa thai deve conoscere", il primo dei quali è il "Messaggio al popolo di Dio" mentre il secondo è "la lista finale delle proposte" che il Papa "ci ha concesso di diffondere". Le tre settimane di incontri e riflessioni, aggiunge, hanno reso più "vivida l'opera di evangelizzazione della Chiesa cattolica" e permettono di rafforzare "l'amore" per l'annuncio del Vangelo. "Suggerisco ai cattolici thai di iniziare subito ad annunciare la Buona Novella e, quando usciranno i documenti post-sinodali, si capirà subito quale sia la giusta traccia da seguire". Al termine della riflessione, mons. Kovithavanij ha voluto sottolineare la "grandissima opportunità" che si è presentata di "scambiare idee con gli altri vescovi" di tutto il mondo e capire "i problemi che devono affrontare le altre Chiese". "La Chiesa universale allarga la sua visione - conclude il prelato - per favorire l'ascolto reciproco, in special modo fra rappresentanti di altre denominazioni cristiane come il vescovo anglicano Rowan Douglas Williams e i rappresentanti delle Chiese ortodosse". (R.P.)

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    Albania: conclusa l'Assemblea generale dei vescovi

    ◊   “La celebrazione dei 100 anni dell’indipendenza del Paese sarà per la Chiesa cattolica un momento di ringraziamento e preghiera per la nostra patria e per tutti quelli che hanno contribuito alla sua costruzione e sviluppo in questi 100 anni”. È quanto si legge nel comunicato finale dell’assemblea generale della Conferenza episcopale albanese (Cea), riunita dal 13 al 15 novembre a Tirana. I vescovi - riferisce l'agenzia Sir - annunciano che domenica 25 novembre, solennità di Cristo Re, in ogni parrocchia del Paese “sarà un giorno di preghiera per la nostra patria” nel ricordo delle ultime parole dei martiri uccisi dal comunismo: “Viva Cristo Re, viva l’Albania”. Durante la plenaria si è parlato anche della celebrazione dell’Anno della fede, nel quale sono previste iniziative volte a “far rinascere nelle persone la fede”. Tra queste un simposio, il 27 aprile 2013, per ricordare i 1700 anni dell’Editto di Milano, e la visita e la benedizione delle famiglie. La Cea ha inoltre approvato il nuovo Messale tradotto secondo la “Editio Typica II”. Ora si attende l’approvazione della Santa Sede. Accompagnati dal ministro della Cultura, i vescovi hanno visitato l’esposizione che contiene l’esemplare del cosiddetto Messale di Gjon Buzuku (1555), primo documento che testimonia la lingua scritta albanese. Alla fine dell’incontro i presuli hanno scritto una lettera a Benedetto XVI per esprimergli riconoscenza e vicinanza, e chiedergli la benedizione apostolica. (R.P.)

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    Il card. Scola: la comune domanda sull'uomo tra cristiani e musulmani

    ◊   “Che uomo vuol essere l’uomo del terzo millennio?”. Da tale interrogativo si è mossa ieri pomeriggio allo Heythrop College di Londra la riflessione del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano e presidente della Fondazione internazionale Oasis. In particolare - riferisce l'agenzia Sir - per quel che riguarda i rapporti tra cristiani e musulmani, sono quattro, secondo il porporato, gli ambiti “in cui la comune domanda sull’umano si esprime oggi con particolare forza”: il nesso verità-libertà, il confronto sulla crisi economico-finanziaria, la pratica religiosa e la secolarizzazione, le urgenze etiche. Su questi nodi, ha osservato il cardinale Scola, si può “parlare legittimamente di un interpellarsi reciproco di cristiani e musulmani, che chiama in causa le diverse interpretazioni culturali che essi hanno elaborato”. In tal senso, ha aggiunto, “mi pare che le rivoluzioni arabe rappresentino un importante segnale. Nonostante il rischio di una deriva ideologica, sempre più evidente, non si può dimenticare il fatto che esse sono state originate da una serie di richieste (lavoro, dignità, libertà) che si trovano in piena consonanza con l’attuale evoluzione dell’Occidente. Il processo di meticciato - è la conclusione del presidente di Oasis - costringe ormai a recepire le domande che vengono dalla storia senza più distinguere il mondo musulmano dal ‘nostro’ mondo”. (R.P.)

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    Il card. Tettamanzi su persona, dignità umana e solidarietà

    ◊   Persona, dignità umana e solidarietà come virtù nel tempo della crisi. Sono stati i tre fulcri attorno ai quali si è articolata la “lectio magistralis” tenuta ieri pomeriggio dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano, al congresso congiunto dell’Associazione medici cattolici italiani e della Federazione europea delle associazioni dei medici cattolici sul tema “Bioetica ed Europa cristiana”. Ribaditi “il primato della persona sull’interesse della società e della scienza” e l’uguale “dignità di ogni essere umano per tutto il corso della vita”, il cardinale ha proposto “l’idea del mutuo soccorso” a fronte della crisi che fa emergere “i bisogni fondamentali della persona, la cui risposta non può essere ricercata solo nell’assistenza pubblica”. Quella proposta dal cardinale - riferisce l'agenzia Sir - è la solidarietà “come via di realizzazione del bene comune, attraverso la condivisione dei beni individuali in una prospettiva sociale. Solo collaborando al bene degli altri possiamo conseguire il nostro stesso bene”. La solidarietà, dunque, “non è un problema di carità ma di giustizia”, e dalla fraternità è possibile trarre lo “slancio per superare le difficoltà. Dall’incontro con il cristianesimo - ha proseguito il cardinale Tettamanzi - per l’uomo europeo si è dischiuso un mondo nuovo”. Per questo, le radici cristiane dell’Europa non sono “un semplice riferimento storico” ma “rappresentano la sorgente di un’ulteriore azione di riconoscimento e tutela della vita e della salute di ciascuno”. Il cardinale ha parlato poi del “filo sottile e tenace che lega la concezione antropologica cristiana” alla possibilità di “rispondere alle attuali questioni circa la vita umana che la ricerca pone con estrema urgenza a ciascuno di noi”. La “ricerca di Dio” e “la disponibilità ad ascoltarlo - ha concluso - rimangono il fondamento di ogni vera cultura: non abbiamo bisogno di tante riflessioni, ma di preghiere e di persone” che testimonino queste esigenze “attraverso la propria profezia”. (R.P.)

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    Processo Sciarpelletti: la difesa ricorre in appello

    ◊   Prosegue in Vaticano il processo a carico di Claudio Sciarpelletti. Il tecnico informatico della Segreteria di Stato, condannato la scorsa settimana per favoreggiamento nell’ambito delle indagini per furto aggravato di documenti riservati, ha presentato ricorso contro la sentenza, come già annunciato dal suo legale. Ricordiamo che Sciarpelletti è stato condannato a quattro mesi di reclusione, pena ridotta a due con il beneficio della condizionale. Il processo d’appello vedrà la costituzione di un nuovo collegio giudicante. Il promotore di giustizia d’Appello sarà il professor Giovanni Giacobbe. (M.M.)

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    Italia: Servizio Pubblico radiotelevisivo tra digitalizzazione e crisi dell'editoria

    ◊   Una riflessione sul Servizio Pubblico radiotelevisivo italiano, alla prova della digitalizzazione e di una recessione che investe anche l’editoria: l’ha proposta ieri il convegno ''Rai, la sfida al servizio pubblico'' promosso dal mensile ''Il Domani d'Italia'', diretto dal sen. Lucio D’Ubaldo, assieme al Centro di Studi parlamentari “Criticalia”, presso la sede dell’Anci, l’Associazione dei Comuni Italiani. Nell’ambito di una crisi che è contemporaneamente macroeconomica, europea e valoriale, ha spiegato l’ing. Alberto Perotti, segretario generale di Criticalia, anche il ruolo dei servizi pubblici essenziali va ridefinito, al passo con le trasformazioni indotte dalle tecnologie elettroniche e digitali. E agli utenti che chiedono, con Annalisa Mandorino di Cittadinanzattiva, di concorrere ai processi di formazione delle coscienze, dando maggiore spazio nel servizio pubblico al mondo dell’associazionismo e del volontariato, e mediante forme di partecipazione alla Governance della Rai, hanno cercato di rispondere parlamentari, giornalisti ed esperti, da Giorgio Balzoni, Tg1, a Nino Rizzo Nervo, ex membro del Cda Rai, da Sergio Bellucci, massmediologo, ad Andrea Melodia, presidente dell'Ucsi, l'associazione dei giornalisti cattolici italiani. Un dialogo teso a costruire, pur da diverse posizioni politiche, un orizzonte comune per il servizio pubblico in Italia, ribadendone la necessità - confermata dalle scelte nel panorama europeo - e gli obiettivi, da centrare attraverso una rimodulazione dell’offerta informativa che razionalizzi le testate, una valorizzazione del rapporto con il territorio e la scelta decisa verso un modello digitale multipiattaforma, che sancisca anche il passaggio dal broadcasting all’interattività. ''Nella frammentazione dell'offerta, continuo a vedere nel servizio pubblico un momento unificante. La Rai e' una sorta di grande agenzia informativa. Ed e' venuto il momento di affinare il giornalismo di inchiesta'' ha dichiarato Giorgio Merlo, deputato del Pd e vicepresidente della Commissione Bicamerale di Vigilanza. Due le priorità indicate da Roberto Rao, Udc, anch’egli in Vigilanza: ''Liberarci dalle faziosità, lasciando mani libere all'attuale dirigenza in ogni questione, dalle nomine alla riduzione dei costi; secondo, far pagare il canone, la cui evasione, pari al 41%, è la più alta in Europa”. Sul canone ha concordato anche Giorgio Lainati, Pdl, vicepresidente della Commissione di Vigilanza che ha chiesto però di esentare le categorie deboli, come gli anziani meno abbienti, mentre ha aperto agli altri partiti sulla riforma della Governance. Intanto, ha annunciato il Presidente della Vigilanza Sergio Zavoli, la Bicamerale si confronterà in tempi rapidi con i vertici Rai ''anche per rafforzare le strategie aziendali” e per restituire al Servizio Pubblico “piena credibilità ed efficacia, secondo la sua identità istituzionale”. (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 321

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    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.