Logo 50Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 15/11/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Benedetto XVI: l'Anno della Fede contribuisca al progresso dell'ecumenismo, la divisione è scandalo
  • In udienza dal Papa un gruppo di vescovi francesi in visita "ad Limina"
  • Conferenza operatori sanitari. Mons Zimowski: ospedali luoghi di missione, una sfida per tutti
  • Emirati Arabi: raduno dei giovani cattolici del Medio Oriente. Mons. Hinder: la Chiesa li sostiene
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Violenza a Gaza: morti 15 palestinesi e 3 israeliani. Mons. Shomali: impedire un'altra guerra
  • Cina. il futuro presidente Xi Jinping: riforme e lotta alla corruzione
  • Rapporto del Consiglio d'Europa: in Ucraina abusi e maltrattamenti
  • Il Consiglio italiano per i rifugiati presenta il Rapporto sul diritto all'unità familiare
  • “Facce d’Italia”: Rapporto Unicef sui bambini stranieri senza diritto di cittadinanza
  • Pil ancora in calo. Il ministro Passera annuncia: almeno 1,6 miliardi per la produttività
  • Calano le nascite, anche tra gli immigrati. Forum Famiglie: segnale allarmante
  • Ddl diffamazione, l'Europa preoccupata. Ruzzante: carcere no, sì a sanzioni più severe
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Egitto, Patriarca Tawadros II: rappresentanti copti potrebbero ritirarsi dall'Assemblea costituente
  • Usa: i vescovi chiedono una riforma dell'immigrazione nel 2013
  • Myanmar: per la visita di Obama, il governo birmano libera 450 detenuti
  • Bolivia. I vescovi: “Non possiamo tacere dinanzi ai gravi problemi che affliggono il Paese”
  • Uruguay. Vescovi contro l’aborto: un figlio è scommessa generosa in un Paese invecchiato
  • Ecuador: protesta dei vescovi per la rimozione di immagini religiose da un ospedale a Cuenca
  • Siria: morto direttore delle Pom. Il Patriarca Laham: sua scomparsa sia offerta per la pace
  • Il card. Scola: la crisi economica richiede un "radicale ripensamento antropologico"
  • Congo. Nel Nord Kivu ribelli nel Masisi: pesante bilancio di vittime civili
  • Burkina Faso: l'impegno dei vescovi per la promozione del dialogo tra cristiani e musulmani
  • Ghana: i vescovi chiedono "fair play" alle prossime elezioni politiche a dicembre
  • Uganda: nuova epidemia di Ebola
  • Sud Sudan: a Rumbek incontro delle donne per la pace
  • Kenya: duemila contadini senza raccolto per le inondazioni e a rischio di gravi malattie
  • India. Omicidio suor Valsa John: dopo un anno processo ai colpevoli non è ancora iniziato
  • India: l’Anno della Fede tra i cristiani dell’Orissa
  • Spagna: Campagna dell'Azione Cattolica contro la disoccupazione
  • Il Papa e la Santa Sede



    Benedetto XVI: l'Anno della Fede contribuisca al progresso dell'ecumenismo, la divisione è scandalo

    ◊   Il cammino ecumenico non può ignorare la crisi di fede nel mondo attuale, per questo i cristiani sono chiamati a dare una testimonianza comune nonostante le divisioni: così Benedetto XVI, stamani, nel discorso ai partecipanti alla plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Il Papa ha auspicato anche che l'Anno della Fede possa contribuire al progresso dell'ecumenismo. Ascoltiamo le parole di Benedetto XVI nel servizio di Fausta Speranza:

    “Un autentico cammino ecumenico non può essere perseguito ignorando la crisi di fede che stanno attraversando vaste regioni del pianeta, tra cui quelle che per prime accolsero l’annuncio del Vangelo e dove la vita cristiana è stata per secoli fiorente”.

    Il Papa mette in luce il bisogno di spiritualità e nello stesso tempo la “povertà spirituale” di molti contemporanei:

    “D’altra parte, non possono essere ignorati i numerosi segni che attestano il permanere di un bisogno di spiritualità, che si manifesta in diversi modi. La povertà spirituale di molti dei nostri contemporanei, che non percepiscono più come privazione l’assenza di Dio dalla loro vita, rappresenta una sfida per tutti i cristiani”.

    In questo contesto – spiega - “a noi credenti in Cristo viene chiesto di ritornare all’essenziale, al cuore della nostra fede, per rendere insieme testimonianza al mondo del Dio vivente”. Con le parole del Decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, il Papa ricorda che la divisione tra i cristiani “contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del vangelo a ogni creatura”. Dunque ribadisce: “Non dobbiamo dimenticare che la meta dell’ecumenismo è l’unità visibile tra i cristiani divisi”. In ogni caso, però, - afferma Benedetto XVI “dare testimonianza del Dio vivente è l’imperativo più urgente per tutti i cristiani”, “malgrado l’incompleta comunione ecclesiale che tutt’ora sperimentiamo.”

    “Non dobbiamo dimenticare ciò che ci unisce, cioè la fede in Dio, Padre e Creatore, spiega quindi il Papa, sottolineando che “alla luce della priorità della fede si comprende anche l’importanza dei dialoghi teologici e delle conversazioni con le Chiese e Comunità ecclesiali in cui la Chiesa cattolica è impegnata”:

    “Anche quando non si intravede, in un immediato futuro, la possibilità del ristabilimento della piena comunione, essi permettono di cogliere, insieme a resistenze e ostacoli, anche ricchezze di esperienze, di vita spirituale e di riflessioni teologiche, che diventano stimolo per una sempre più profonda testimonianza”.

    L’unità non può essere solo opera degli uomini ma è dono di Dio. Dunque il Papa chiede impegno e preghiera. Riconosce la positività dello sforzo e chiede di non fermarsi:

    “Il fatto di camminare insieme verso questo traguardo è una realtà positiva, a condizione, però, che le Chiese e Comunità ecclesiali non si fermino lungo la strada, accettando le diversità contraddittorie come qualcosa di normale o come il meglio che si possa ottenere”.

    “Attraverso l’unità visibile dei discepoli di Gesù, unità umanamente inspiegabile, - afferma il Papa - si renderà riconoscibile l’agire di Dio”. E poi aggiunge: l’agire di Dio supera la tendenza del mondo alla disgregazione. Da qui l’invito a comprendere che “ecumenismo e nuova evangelizzazione richiedono entrambi il dinamismo della conversione, inteso – spiega - come sincera volontà di seguire Cristo”.

    inizio pagina

    In udienza dal Papa un gruppo di vescovi francesi in visita "ad Limina"

    ◊   Benedetto XVI ha ricevuto nel corso della mattinata in udienza un gruppo di presuli della Conferenza episcopale di Francia, in Visita ad Limina.

    inizio pagina

    Conferenza operatori sanitari. Mons Zimowski: ospedali luoghi di missione, una sfida per tutti

    ◊   “L’Ospedale luogo della Nuova Evangelizzazione: missione umana e spirituale”. Su questo tema si è aperta stamattina in Vaticano, la XXI Conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Una tre giorni di confronto e testimonianze sulle problematiche legate agli ospedali in rapporto all’etica, alla ricerca, alla missione. Seicento circa i partecipanti da una sessantina di Paesi. “Sarà un contributo specifico all’Anno delle Fede,” ha sottolineato il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Il servizio di Gabriella Ceraso:

    Luogo di annuncio di Cristo e di servizio all’uomo: è questo l’ambiente ospedaliero nelle parole del cardinale Tarcisio Bertone, durante la Messa di apertura dei lavori, celebrata stamattina in San Pietro. Avviando il dibattito, il titolare del Dicastero per la Salute, mons. Zygmunt Zimowski, ha sottolineato che in questi tre giorni si vuole esaminare ogni aspetto dei nosocomi, considerati come spazi privilegiati per adempiere al mandato battesimale e per riconoscere e incontrare il volto di Cristo. Una sfida quasi impossibile da intraprendere – ha detto – senza un’autentica vocazione, senza fede, carità e amore per l’uomo, ma anche senza...

    “...umiltà legata alla consapevolezza della condizione umana e della finitezza delle conquiste scientifiche”.

    I progressi della scienza – ha proseguito mons. Zimowski – se non vengono guidati dall’etica e dall’antropologia cristiana, rischiano di "ridurre" il paziente ad un mero oggetto di studio, di trattamento o di sperimentazione anche eticamente scorretta. Attenzione, dunque, all’uomo nella sua integralità, ma anche contrasto al prevalere del management sui bisogni dei pazienti. Di questo ne ha parlato anche il ministro della Salute italiano, Renato Balduzzi, che ha espresso la necessità, in un tempo di crisi, di unire sostegno e assistenza al rigore: non solo tagli, dunque, semmai riorganizzazione del settore. Ampio spazio in mattinata alla dimensione della nuova evangelizzazione, calata nel contesto degli ospedali, nella vita degli operatori sanitari e dei pazienti. Il tema è stato affidato a mons. Rino Fisichella. “Il Vangelo non esclude nessun ambito della vita”, ha detto il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. La Chiesa, dunque, non può dimenticare nessun luogo umano, specie quello in cui prevale la sofferenza, in cui l’uomo sperimenta il limite e la paura della sua condizione, a fronte dell’illusione dell’immortalità e dell’onnipotenza che riempie i nuovi aeropaghi, e in cui il mistero pasquale può essere illuminante:

    “Da questo mistero, infatti, si diffonde una luce sulle sofferenze e malattie degli uomini che, nella croce di Cristo, possono comprendere e accettare il mistero della sofferenza, che offre loro la speranza nella vita che viene... Nel malato, la sofferenza di Cristo è presente e possiede una forza missionaria. Attraverso il malato, Cristo illumina la sua Chiesa. Ecco perché i malati sono così importanti nella nuova evangelizzazione”.

    Siano, dunque, i malati i primi evangelizzatori – ha sottolineato mons. Rino Fisichella – che nel suo intervento ha voluto ribadire più volte l’urgenza dell’annuncio oggi. "La Chiesa ha come suo obbligo di ribadire la dignità della pesrona umana in tutte le sue espressioni e di porre la questione sul senso della vita e sulla sua essenza, in un periodo in cui l’ammalato è affidato prima di tutto alla tecnologia, quando non a strutture che speculano sulle sue condizioni, o è oggetto di una cultura che nega il senso della sofferenza:

    “Proprio in forza di questo e per amore della verità, dovremo essere capaci di portare nei nuovi aeropaghi il senso della sofferenza dimenticata e del dolore taciuto”.

    inizio pagina

    Emirati Arabi: raduno dei giovani cattolici del Medio Oriente. Mons. Hinder: la Chiesa li sostiene

    ◊   Oltre 1.500 giovani cattolici residenti in Medio Oriente ma provenienti da diverse nazioni del mondo, si incontrano da oggi, nella Cattedrale di San Giuseppe ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, per tre giorni di riflessione e preghiera. A presiedere l’assemblea, i vicariati apostolici dell’Arabia del Nord e del Sud. Lucia Fiore ha chiesto a mons. Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia del Sud, quale significato assuma per i giovani cattolici mediorientali l’Anno della Fede:

    R. – Noi abbiamo iniziato l’Anno della Fede con celebrazioni ufficiali nelle parrocchie, ma anche a livello di vicariato. La maggioranza dei fedeli sono arabi, ma vivono in questo contesto e il nostro problema – un po’ come ovunque – è come far vivere la fede alla gioventù che è esposta a tutti gli influssi della società che la circonda; studiano nelle scuole, lavorano con gli altri … Non è sempre facile, per loro, mantenere la fedeltà, in questo contesto. Quindi, anche l’incontro che andiamo a fare ha un po’ questo scopo: aiutare la solidarietà tra la gioventù cattolica, sentire che non sono soli nelle difficoltà; siamo tanti che combattiamo un po’ la stessa lotta per la fede in questo contesto sociale nel quale viviamo, nel quale siamo stranieri e dove rimaniamo stranieri, con le diverse nazionalità, e così rafforzarci vicendevolmente nel nostro amore per Cristo, nel nostro vivere nella Chiesa nonostante le difficoltà che possono presentarsi in questa parte del mondo.

    D. – Quali sono le difficoltà e le speranze dei giovani cristiani nel mondo arabo?

    R. – Dove viviamo noi, la preoccupazione di tanti è: "Possiamo rimanere? Troveremo lavoro? Come possiamo studiare? E dove?". E poi ancora: "Qual è il nostro futuro?". Perché per la stragrande parte di questi giovani il futuro non sarà in questi Paesi: loro sono qui temporaneamente e quindi pensano già oltre, al momento in cui lasceranno il Paese. Questo condiziona anche un po’ il loro inserimento o il loro non-inserimento nelle società di questi Paesi dove sanno di non poter rimanere per sempre. L’esperienza della fede, quindi, si vive in questo status di pellegrinaggio esistenziale, e sono soprattutto i giovani che vivono tra mondi diversi e questo non passa inosservato, nemmeno nella loro esperienza di fede. Questo è il nostro lavoro di pastori e di sacerdoti: aiutare la gioventù in questo passaggio.

    D. – Come la Chiesa sta vivendo il cambiamento indotto dalla cosiddetta "Primavera araba"?

    R. – Questa "Primavera araba" si sente poco, dove sono io, negli Emirati Arabi Uniti, o anche in Oman … Forse si sente di più nello Yemen, ma lì c’è una situazione molto particolare, anche storicamente. Inoltre, ci sono pochi cristiani tra la popolazione dello Yemen. Qui, negli Emirati, siamo piuttosto osservatori e meno attivisti in questo processo. Non vedo, per domani, un cambiamento sostanziale. Ovviamente, quando passiamo ad altri Paesi, la situazione è diversa. E’ chiaro che le persone che vengono dalla Siria, o dall’Egitto, o dall’Iraq, o dal Libano vivono questa situazione con una tensione molto maggiore rispetto a chi viene dalle Filippine o dall’India o dall’America Latina …(L.F.)

    inizio pagina

    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   L’ecumenismo al tempo della nuova evangelizzazione: Benedetto XVI alla plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

    In rilievo, nell’informazione internazionale, la sfida cinese alla corruzione: Xi Jinping nuovo segretario del Partito.

    In cultura, Davide Carbonaro, segretario generale dell’ordine dei chierici regolari della Madre di Dio, sui quattrocento anni dalla nascita di padre Ludovico Marracci, primo traduttore del Corano e della Bibbia arabica.

    Dal gregoriano alla contemporanea senza pregiudizi: intervista di Marcello Filotei a Vincenzo De Gregorio, nuovo preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra.

    Terra del fuoco fra i monti del Caucaso: Silvia Guidi sui tesori dell’Azerbaigian in mostra in Vaticano.

    Poche pretese: Emilio Ranzato recensisce “Bullet to the Head”, presentato da Walter Hill al Festival internazionale del film di Roma che gli ha assegnato il Maverick Director Award.

    Una riforma necessaria per i diritti degli immigrati: nell’informazione religiosa, il nuovo appello dei vescovi statunitensi riuniti in plenaria a Baltimora.

    inizio pagina

    Oggi in Primo Piano



    Violenza a Gaza: morti 15 palestinesi e 3 israeliani. Mons. Shomali: impedire un'altra guerra

    ◊   Ancora violenze in Medio Oriente. Nelle ultime 24 ore sono morti almeno 15 palestinesi, tra cui due bambini, e tre israeliani. L’Egitto e la Russia condannano come “inaccettabili” le azioni dello Stato ebraico volte a colpire i vertici di Hamas a Gaza. Per gli Stati Uniti, Israele ha diritto a difendersi contro i razzi sparati dai palestinesi sul proprio territorio. “Profonda inquietudine” è stata espressa in una nota dal Patriarcato di Gerusalemme che invoca una “collaborazione internazionale” per porre fine al conflitto. Benedetta Capelli:

    Torna a preoccupare la situazione mediorientale, già infiammata dallo scenario siriano. Dopo l’uccisione ieri, da parte di Israele, di uno dei più importanti capi di Hamas, Ahmed Al Jaabari, anche oggi non sono mancate le violenze. Un razzo lanciato dai miliziani palestinesi a Kiryat, nel sud di Israele, ha provocato la morte di 3 persone ed il ferimento di diversi civili, tra di loro anche un bambino di 4 anni. Sette i palestinesi uccisi oggi nei raid israeliani. Ieri 8 palestinesi, tra cui due bambini, avevano perso la vita a Gaza negli attacchi israeliani. Duecento gli obiettivi colpiti da Israele dall’inizio dell’operazione. Stanotte il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su richiesta dell’Egitto, si è riunito d’urgenza per discutere di quanto accaduto, nessuna dichiarazione formale ma solo la richiesta che la violenza si fermi. Ad infiammare oggi sono le parole dello stesso presidente egiziano Morsi che ha definito “inaccettabile” l'aggressione contro Gaza. Sproporzionati gli attacchi israeliani: è la posizione della Russia mentre ieri sera gli Stati Uniti hanno ribadito il diritto dello Stato ebraico all’autodifesa. Concetto sottolineato al telefono dal presidente Obama al premier israeliano Netanyahu e reiterato anche allo stesso presidente Morsi. Intanto al Cairo si è tenuta una manifestazione a sostegno del popolo palestinese ed altre sono state annunciate. In Israele la Knesset dovrà decidere sulla richiesta del ministro della difesa Barak di richiamare unità di riserva.

    Sulle nuove violenze israelo-palestinesi ascoltiamo il commento di mons. William Shomali, vescovo ausiliare del Patriarcato Latino di Gerusalemme, al microfono di Thomas Chabolle:

    R. - Quello che succede da qualche giorno è un circolo vizioso di violenza: uno tira, l’altro risponde, senza misura, e si ci sono vittime da entrambe le parti. Specialmente a Gaza, perché Gaza è una città sovrappopolata e là dove arrivano gli attacchi, ci sono innocenti che muoiono. Siamo tristi per quello che accade e adesso possiamo solo accompagnarli con la nostra preghiera, aspettando che le Nazioni Unite, e specialmente gli Stati Uniti, intervengano con forza per impedire un’altra guerra.

    Quali sono i rischi reali di questa nuova esplosione di violenza tra israeliani e palestinesi? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Eric Salerno, esperto di Medio Oriente:

    R. – Il rischio vero è che questa tensione possa estendersi anche alla Siria, perché è evidente che una situazione di questo genere a Gaza, provocata in questo momento sia da Hamas, ovviamente, ma anche da questa accelerazione da parte di Israele, rischia di dare segnali ad Assad e alle persone che stanno dall’altra parte nel conflitto, per cercare di provocare un intervento internazionale.

    D. – Di mezzo, però, c’è anche il Libano…

    R. – Sì, assolutamente. A Israele non interessava un’accelerazione di questo tipo, in questo momento, se non per motivi preelettorali, perché si vota il 22 gennaio in Israele. Nethanyau può aver detto: “Mi serve una cosa di questo genere”. Ma c’è anche un altro motivo da non sottovalutare, che è quello di colpire e distruggere il più presto possibile l’arsenale missilistico di Hamas. Questo significa che Israele, in qualche modo, si vuole preparare a un eventuale attacco contro l’Iran e potrebbe scegliere un motivo qualsiasi per fare la stessa cosa con Hezbollah in Libano.

    D. – Uno dei segnali più preoccupanti riguarda poi l’Egitto, che ha richiamato il proprio ambasciatore da Tel Aviv. Il Cairo perde, dunque, ufficialmente il suo ruolo di mediatore, ricoperto per tanti anni?

    R. – Sì, questo senz’altro. Anche se bisogna ricordare che quello al potere in questo momento al Cairo è un regime, perché è ancora un regime governato dai Fratelli musulmani, guidato da un personaggio apparentemente moderato, che è il presidente Morsi. E’ anche vero che i Fratelli musulmani, che sono gli stessi di Hamas a Gaza, sono decisi ad andare su altre posizioni con Israele, ossia - lo hanno detto ufficialmente - chiedono la revisione del Trattato di pace con Israele per costringere lo Stato ebraico a rispettare quelli che erano gli accordi di Camp David e ad arrivare alla soluzione della questione palestinese.

    D. – Gli Stati Uniti si sono schierati apertamente al fianco di Israele. “Ha diritto all’autodifesa”, dice la Casa Bianca. Ma è un caso che questo attacco mirato su Gaza sia stato organizzato e portato a termine subito dopo le elezioni americane?

    R. – Io direi da una parte sì, ma ci sono anche tante altre cose che stanno succedendo. Non bisogna dimenticare che il 29 novembre all’Assemblea generale dell'Onu potrebbe venire presentata la richiesta palestinese di riconoscimento dello Stato palestinese come Stato aderente, non formale. Gli americani hanno già detto che non accettano questa ipotesi e Israele sta minacciando cose terribili, come la defenestrazione, non si sa bene come, del presidente Abbas, la denuncia degli accordi di Oslo e la fine del processo di pace. Può succedere di tutto in questi mesi e in questi giorni.

    inizio pagina

    Cina. il futuro presidente Xi Jinping: riforme e lotta alla corruzione

    ◊   Xi Jinping è il nuovo segretario generale del partito comunista cinese e prossimo presidente del Paese. Sette i membri del Comitato Permanente del partito, nel discorso alla stampa Xi ha ribadito la volontà di crescita della nazione, ha parlato di riforme e lotta alla corruzione. Massimiliano Menichetti:

    Combatteremo per il miglioramento della qualità della vita: così il nuovo segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping, si è espresso nel breve discorso alla stampa dopo la sua elezione. Cinquantanove anni, erede di una famiglia legata direttamente alla rivoluzione di Mao, il "Principe rosso", come viene chiamato, per i prossimi 10 anni traghetterà la seconda economia del mondo attraverso sfide di rinnovamento e globalizzazione. Riforme e lotta alla corruzione le linee da lui tracciate. Il nuovo segretario che oggi ha assunto anche la carica di capo della Commissione militare centrale. In marzo, dovrebbe diventare presidente della Repubblica popolare, mettendo del tutto fine all’era Hu Jintao. Xi Jinping ha indicato Li Keqiang, uomo di Hu Jintao, come ''numero due''. Sette e non nove, come in precedenza, i membri del Comitato permanente del partito, che affiancheranno Xi nel complesso compito di guidare la nazione. Ieri, dopo la conclusione del 18.mo Congresso del Partito che ha chiamato a raccolta 2270 delegati, il nuovo Comitato centrale si è riunito per le nomine del Politburo e del Cpup. Confermate le previsioni dei giorni scorsi: oltre a Xi Jinping e Li Keqiang, ne fanno parte il responsabile della censura, Liu Yunshan, il vicepremier, Wang Qishan, e i segretari del partito di tre metropoli, ovvero Zhang Dejiang, proveniente da Chongqing, Yu Zhengsheng di Shanghai e Zhang Gaoli di Tianjin.

    Sulla svolta impressa dal Congresso di Pechino, Massimiliano Menichetti ha sentito Claudia Astarita, docente di Politica della Cina alla John Cabot University di Roma:

    R. - La Cina ha bisogno di riforme: questo è un dato di fatto. Però, a guidare la Cina ci sarà un Comitato Permanente di orientamento conservatore, che già dice che bisogna fare molta attenzione nell’adottare qualsiasi tipo di cambiamento. Anche i riformisti che sono al suo interno hanno già fatto una serie di dichiarazioni, manifestando la loro preoccupazione su i nuovi problemi della Cina contemporanea come i social network, la libertà rivendicata dagli attivisti, dai giornalisti, dagli studenti…

    D. - Si è ridotto il numero dei componenti del Comitato permanente: perché?

    R. - Sono sempre stati nove, ora sono sette. È evidente che con due persone in meno raggiungere l’accordo è più facile. Questa è stata l’unica ragione per cui si è proceduto in questo senso.

    D. - Secondo alcuni osservatori, dietro questo cambio di vertici ha lavorato molto la mano dell’ex presidente, Jing Zemin. È così, oppure no?

    R. - Sicuramente è così, si vede dai nomi. L’unico compromesso che Xi Jinping ha fatto - aprendo le porte a qualche riformista all’interno del Comitato permanente - lo ha fatto escludendo però i veri fedelissimi di Hu Jintao, il presidente uscente. Questo, secondo me, è molto indicativo anche del ruolo che potrà avere il prossimo premier, Li Keqiang, che quindi non potrà essere spalleggiato dai fedelissimi - due uomini e una donna, per essere precisi - di Hu Jintao, rimasti fuori da questo Comitato permanente. Probabilmente, se il Comitato fosse rimasto a nove posti, almeno due di loro sarebbero entrati.

    D. - Il Comitato permanente del partito è in larga misura costituito da discendenti delle famiglie dei leader storici del Partito comunista cinese. Qual è il volto oggi di questo partito, rispetto al partito di Mao?

    R. - E’ enorme. Mao ha vissuto negli anni ’50, negli anni della rivoluzione, negli anni in cui la Cina andava costruita. Anni in cui il potere della propaganda, ma anche delle idee, del pensiero del partito, erano fortissime e c’era un idealismo di fondo diffuso a tutti i livelli della società, non solo tra i burocrati. I “Principi rossi” - così si chiamano i figli dei grandi burocrati, dei grandi politici del passato - tutto questo non lo hanno vissuto e di conseguenza sono molto più lontani. I politici sono diventati sempre più ricchi e sempre più forti e di conseguenza hanno iniziato a fare un po’ quello che volevano. Quello che bisogna vedere è se si riuscirà ad invertire questo trend: Xi Jinping ha eletto il nuovo paladino dell’anticorruzione, però il vecchio paladino dell’anticorruzione cinese era Bo Xilai. Abbiamo visto poi com’è finito: quando è diventato troppo importante, Bo Xilai è sparito.

    D. - Ma quali sono i problemi maggiori sul fronte interno?

    R. - Sicuramente, la crisi economica. Ppoi - anche se marginalmente, dal punto di vista cinese - è necessario iniziare ad occuparsi della questione ambientale, perché la questione ambientale non riguarda solo la Cina, che dice di avere il diritto ad inquinare, perché i Paesi della prima industrializzazione l’hanno fatto prima di lei. La questione ambientale oggi ha una serie di ripercussioni a livello sociale, perché l’acqua è sempre più inquinata, le città sono diventate invivibili, gli alimenti iniziano a essere nocivi, proprio perché gli allevamenti vengono fatti in zone inquinate… Questo porta ad uno scontento popolare fortissimo. Il Paese ha anche un problema di invecchiamento massiccio della popolazione, tant’è che ultimamente anche i think tank più vicini al partito iniziano a parlare della possibilità di rivedere la “politica del figlio unico” già entro il 2015.

    D. - Secondo lei, cambieranno anche gli scenari tattici nella politica estera della Cina?

    R. - Secondo me, prima di vedere qualche cambiamento a livello di politica estera, dovremmo aspettare il consolidamento interno.

    inizio pagina

    Rapporto del Consiglio d'Europa: in Ucraina abusi e maltrattamenti

    ◊   Desta preoccupazione il Rapporto relativo a maltrattamenti e abusi in Ucraina. In un documento, pubblicato recentemente dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, si parla del degrado nel rispetto dei diritti umani che si sta registrando nel Paese ex sovietico. Alcuni paragrafi riguardano anche la detenzione dell’ex premier, Julia Timoshenko, in sciopero della fame da 16 giorni in segno di protesta contro presunti brogli elettorali. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana, esperto dell’area ex sovietica:

    R. – Questo è un po’ un problema irrisolto nei rapporti tra le democrazie occidentali e le nuove democrazie dell’Est, perché l’adeguamento a quelli che per noi sono standard fondamentali e, in certi casi, addirittura scontati è troppo lento. D’altra parte, questo è un problema che si registra a livello globale, non solo europeo: tutto l’Occidente ha relazioni intense anche con la Cina, che ci ha appena comunicato ufficialmente, e al massimo livello politico, che la democrazia occidentale non rientra nei suoi obiettivi. Quindi, è veramente una questione spinosa e che si trascina pericolosamente.

    D. – Per quanto riguarda l’Ucraina, questo problema, messo in evidenza dal Consiglio d’Europa, è una sorta di retaggio dell’ex regime sovietico, che Kiev si porta dietro?

    R. – Sicuramente. Ma questo vale anche per la Russia come per la Bielorussia, e non parliamo poi delle Repubbliche asiatiche ex-sovietiche. Dappertutto, in questa vasta parte del globo, il concetto di giustizia è per certi versi ancora relativo e, soprattutto, il concetto dell’indipendenza della giustizia rispetto al potere politico è molto indietro rispetto ai nostri standard. E qui, c’è veramente un dissidio difficilmente conciliabile.

    D. – Questo rappresenta un ostacolo insormontabile in vista di un ipotetico ingresso dell’Ucraina in Europa?

    R. – E’ un ostacolo insormontabile, perché tutti i Paesi che sono entrati nell’Unione Europea hanno dovuto affrontare un processo di adeguamento dei propri standard relativi alla tutela dei diritti umani. Quindi, io credo che l’Ucraina – qualora si avviasse questo processo – dovrà veramente imporsi una svolta profonda in questo campo. Ma va anche detto – per essere realisti – che l’Unione Europea non sembra avere alcuna voglia di imbarcarsi in questa avventura dell’integrazione, soprattutto per considerazioni di tipo economico.

    D. – Un caso emblematico, messo in evidenza dal Rapporto, è quello della ex premier, Julia Timoshenko: una situazione che non si è sbloccata, nonostante vari appelli della comunità internazionale…

    R. – Questo è un classico esempio di una sproporzione evidente tra l’accusa e poi la condanna comminata, fermo restando che tutti abbiamo avuto la sensazione che, nel momento in cui era stata formulata l’accusa, fosse stata formulata anche – quasi automaticamente – la condanna. Io ho qualche sospetto che la mobilitazione internazionale, così politicizzata, a favore della Timoshenko vada poi a vantaggio della Timoshenko stessa: ma questo è un altro discorso che, ovviamente, non annulla il fatto che la condanna sia veramente sproporzionata e assurda.

    inizio pagina

    Il Consiglio italiano per i rifugiati presenta il Rapporto sul diritto all'unità familiare

    ◊   In Italia, dall’inizio del 2012, 65.300 cittadini stranieri hanno presentato domanda di ricongiungimento familiare. Il diritto all’unità delle famiglie è particolarmente importante per coloro che chiedono asilo e protezione umanitaria: proprio a loro è dedicato il Rapporto “Ritrovarsi per ricostruire”, presentato oggi dal Consiglio italiano per i rifugiati. Davide Maggiore ha chiesto a Christopher Hein, che ne è il direttore, quale quadro emerge dal dossier:

    R. – Un rifugiato riconosciuto - che si trova quindi regolarmente in Italia ma che ha dovuto lasciare i propri familiari o nel Paese d’origine o in un Paese di transito - trova moltissime difficoltà a procedere alla realizzazione del suo diritto di riformare l’unità della famiglia. Le difficoltà sono innanzitutto dal punto di vista delle procedure amministrative, a volte molto complesse anche solo per evidenziare il vincolo familiare che esiste. Poi, c’è l’altro elemento delle condizioni materiali e sociali: è impossibile pensare che arrivi il coniuge o il familiare del rifugiato riconosciuto e che il rifugiato non abbia una casa, un lavoro e quindi le reali possibilità per accogliere i suoi cari.

    D. – Da questo punto di vista, cosa è stato fatto e cosa si può ancora fare?

    R. – Si è fatto qualcosa, che è però ancora a livello di progetti che riguardano interventi mirati per determinati gruppi di rifugiati. Non c’è un vero programma che faccia sì che i rifugiati abbiano una effettiva possibilità di vivere in Italia.

    D. – Quali sono le conseguenze di un prolungato distacco dalla famiglia, per un rifugiato?

    R. – Il rifugiato tende a guardare verso ciò che ha dovuto lasciare nel Paese di origine e quindi una separazione prolungata fa sì che spesso le persone entrino in uno stato depressivo. La riunificazione della famiglia, invece, potrebbe essere d’aiuto per guardare al futuro, per costruirsi una nuova vita.

    E sulle conseguenze positive delle riunificazioni familiari per i rifugiati, Davide Maggiore ha sentito il parere di Helena Behr, della sezione protezione dell’Acnur Italia:

    R. – L’integrazione è una conseguenza dell’unità familiare. Grazie all’unità e al ricongiungimento familiare, si può iniziare a pensare a un processo di integrazione. L’unità e il ricongiungimento familiare sono estremamente importanti anche per i componenti della famiglia rimasti nei Paesi di origine o in Paesi di asilo di transito, nei quali possono essersi rifugiati: parliamo dei parenti dei rifugiati, di persone che sono fuggite per motivi di persecuzione o di guerra. Il ricongiungimento familiare, in alcuni casi, è anche un modo per garantire la loro sicurezza.

    D. – Cosa possono fare gli Stati di destinazione, in particolare gli Stati dell’Unione Europea, per garantire al meglio questo diritto?

    R. – Al diritto all’unità familiare corrisponde, chiaramente, un obbligo, una responsabilità degli Stati nel facilitare il più possibile il ricongiungimento familiare. L’Unhcr promuove l’istituzione di procedure che tengano conto delle condizioni specifiche dei rifugiati e delle loro difficoltà, ad esempio, a ottenere documenti - come un documento di viaggio, un visto - o a raggiungere zone sicure come le ambasciate, a dimostrare il legame di parentela… Quindi, procedure che tengano conto di tutti questi ostacoli e di queste difficoltà, così da poter facilitare il più possibile il ricongiungimento familiare.

    inizio pagina

    “Facce d’Italia”: Rapporto Unicef sui bambini stranieri senza diritto di cittadinanza

    ◊   “Facce d’Italia”, tra le più indifese vi sono quelle dei minori stranieri, come documenta un Rapporto dell’Unicef-Italia presentato oggi a Roma, alla presenza del ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, Andrea Riccardi. Il documento è stato elaborato nell’ambito della Campagna “Io come tu”, in vista del 20 novembre, Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia. Roberta Gisotti, ha intervistato Andrea Iacomini portavoce dell’Unicef-Italia:

    D. – Oggi, nel mondo abbiamo 33 milioni di migranti sotto i 20 anni di età, su un totale di 214 milioni di persone che vivono fuori dal proprio Paese d’origine. Dove e come vivono questi bambini e ragazzi?

    R. – Vivono in Paesi i più disparati. Il più delle volte fuggono da terre colpite da fame, carestie, miseria e soprattutto dalle guerre. I Paesi in via di sviluppo detengono la percentuale più alta di bambini e adolescenti migranti: circa 20 milioni ovvero il 60%, quindi, un dato molto forte. Inoltre, circa 13 milioni di bambini e adolescenti migranti risiedono in Paesi industrializzati e quindi sono circa il 40% dei migranti al di sotto dei 20 anni di età. Esistono naturalmente differenze geografiche significative: abbiamo una gran parte dei giovani migranti provenienti dall’Africa – circa il 28% – seguiti poi dall’Asia, con il 21% e poi dall’Oceania e dall’Europa, entrambi con il 10%.

    D. – Una popolazione giovanile che va seguita e non abbandonata a se stessa…

    R. – Soprattutto, una popolazione giovanile che in alcuni Paesi è diventata la popolazione del Paese stesso, che ormai ne ha acquisito gli usi, i costumi, le tradizioni, le usanze… E’ una popolazione che – naturalmente, nel caso di minori accompagnati, cioè di quelli che hanno entrambi i genitori – è diventata parte integrante della società. Ma non dobbiamo dimenticare i minori non accompagnati, che sono invece una fetta di popolazione giovanile che entra dai Paesi che abbiamo citato e che, naturalmente, ha bisogno invece di essere registrata, accompagnata nel percorso di inserimento, ha bisogno di entrare a far parte di case-famiglia, di strutture che la possano ospitare con la più grande, la più ampia attenzione possibile. Questo perché non bisogna lasciare indietro nessun bambino: tutti godono degli stessi diritti e il loro supremo interesse va garantito in tutte le parti del mondo, senza differenza di Paese.

    D. – All’interno della campagna “Io come tu”, nasce la pubblicazione “Facce d’Italia”. Con quale obiettivo?

    R. – “Io come tu” è una campagna importante che l’Unicef lancia da qualche anno: tutti uguali davanti alla vita, tutti uguali di fronte alle leggi, proprio per richiamare l’attenzione sull’uguaglianza dei diritti di tutti i minorenni. Quest’anno, abbiamo deciso di occuparci del diritto di cittadinanza dei bambini che sono italiani a tutti gli effetti, che frequentano le nostre scuole: abbiamo 700 mila studenti nella scuola primaria e secondaria di origine straniera. Con questa iniziativa, noi vogliamo lanciare un concetto fondamentale per cambiare la legge che in Italia disciplina l’acquisizione della cittadinanza – la n.91 del 1992 – i cui principi fondamentali sono incardinati in uno schema ormai abbastanza ‘vecchio’. Noi diciamo: è importante che i bambini nati in Italia acquisiscano la cittadinanza per iure soli: chi vive qui è a tutti gli effetti cittadino italiano. Con la legge attuale, si diventa cittadino italiano al compimento dei 18 anni e si ha un anno di tempo per mettersi in regola. Ma, soprattutto, i nostri bambini stranieri vivono in Italia con un permesso di soggiorno che i genitori devono rinnovare di volta in volta. E questo, per bambini che di fatto vivono esattamente come i nostri bambini italiani, è davvero un fatto abbastanza anacronistico. Noi vogliamo fare un passo avanti: ecco perché ne approfitto per chiedere al parlamento di accelerare, proprio in questo ultimo scorcio di legislatura, per raggiungere un’intesa che fino ad oggi non è stata trovata, proprio sull’estensione del diritto di cittadinanza ai bambini nati in Italia. Non importa quale possa essere poi il punto su cui bisogna mediare un’intesa: può essere la scuola primaria, può essere la scuola secondaria, purché però questi bambini godano degli stessi diritti dei bambini italiani.

    inizio pagina

    Pil ancora in calo. Il ministro Passera annuncia: almeno 1,6 miliardi per la produttività

    ◊   Prodotto interno lordo (Pil) ancora in calo. Secondo l’Istat, nel terzo trimestre 2012 il Pil è diminuito dello 0,2%, rispetto al trimestre precedente, e del 2,4% nei confronti del terzo trimestre del 2011. Il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, assicura però che la fase di ricostruzione del Paese è iniziata e annuncia nuove risorse per la produttività. Il servizo di Alessandro Guarasci:

    L’Istat in sostanza conferma un dato che tutti si aspettavano. Da un anno a questa parte, il Pil è calato del 2.4%. Ma una piccola luce si vede. Il calo della ricchezza lorda a luglio-settembre è inferiore alla diminuzione dei trimestri precedenti dell’anno. Dunque, sembra che la recessione stia rallentando. Gli italiani comunque sono in affanno. Sempre secondo l’Istat, è cresciuta dal 43,7% dello scorso anno al 55,8% del 2012 la quota di famiglie che dichiara un peggioramento della propria situazione economica. Intervenendo all’assemblea della Confederazione nazionale artigianato (Cna), il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ammette che l’anno passato è stato pesante:

    “Per le cose che abbiamo fatto insieme, non è diventato terribile. E’ difficile, difficilissimo, e siamo in una fase di grande stress e pesantezza. La mia sensazione forte è che questa ricostruzione sia iniziata”.

    Passera punta sull’accordo per aumentare la produttività e annuncia che il miliardo e 600 milioni messo a disposizione dal governo potrebbe anche aumentare. Il presidente della Cna, Ivan Malavasi, chiede un piano per la crescita e mette in luce come, secondo la Banca mondiale, in Italia la pressione fiscale sui profitti, sommando tasse e contributi, sia pari al 68,5%:

    “E’ giunto il momento di uscire definitivamente dalla trappola in cui siamo finiti, fatta di grandissima pressione fiscale, elevato numero di controlli e alto, troppo alto, tasso di evasione. Iniziamo a uscirne, destinando la riduzione della tassazione alle risorse recuperate dalla lotta all’evasione”.

    Per Malavasi, è urgente poi continuare a tagliare la spesa pubblica.

    inizio pagina

    Calano le nascite, anche tra gli immigrati. Forum Famiglie: segnale allarmante

    ◊   Aumentano nel 2013 le detrazioni per i figli a carico: 6,4 i miliardi stanziati in tre anni in favore delle famiglie dalla legge di stabilità in discussione alla Camera. In particolare, le agevolazioni riguardano i figli di età compresa tra 0 e 3 anni. Previste anche misure in favore di figli con disabilità. Un segnale positivo, in un momento in cui la famiglia è duramente provata dalla crisi: secondo l’Istat in Italia sono in calo le nascite, 15 mila in meno in un anno, anche tra le donne immigrate. “L’emergenza non va sottovalutata”, spiega Francesco Belletti, presidente del Forum delle Famiglie, al microfono di Paolo Ondarza:

    R. – E’ sicuramente un effetto diretto della crisi e, d’altra parte, conferma la difficoltà del nostro Paese di sperare nel futuro. Il fatto che i giovani non riescano ad avere il coraggio di accogliere una nuova vita e di spendersi sulla nascita di un figlio dovrebbe essere un segnale che allarma tutta la politica, tutta la Chiesa, tutta la società. Quindicimila nascite in meno sembrano poche, ma visto il bassissimo livello di natalità che abbiamo significa andare sempre più a fondo. E’ un segnale gravissimo, che bisognerebbe custodire molto diversamente rispetto a come stiamo facendo.

    D. - Questa volta, nemmeno i figli degli immigrati sembrano risollevare le sorti demografiche dell’Italia e, infatti, è in calo anche la fecondità delle donne straniere presenti nel Paese…

    R. – Sì, questo è un dato che evidenzia come l’Italia non sia un Paese per bambini, anche per quelle culture che sono invece da sempre molto più predisposte all’accoglienza e vedono nel concetto di famiglia numerosa una benedizione. Un valore, questo, che 40 anni fa era ancora vivo in Italia. Avere tanti figli era un segno di forza, di progettualità. Adesso, invece, i nuovi nati sembrano una minaccia e – di fatto – sono un attacco al benessere: alcune famiglie, addirittura, diventano povere alla nascita del terzo figlio. E questo vale soprattutto per gli extracomunitari che si trovano in condizioni molto più precarie della maggior parte degli italiani nativi.

    D. - Tra l’altro, quando si sceglie di avere un figlio, lo si fa sempre più spesso dopo i 40 anni. Come leggere questo dato?

    R. – E' l’esito della cosiddetta "strategia del rinvio". Ci si sposa più tardi, si trova lavoro più tardi, si trova casa più tardi e anche il figlio viene rimandato. Poi, quando si arriva sulla soglia dei 40, ci si rende conto che il tempo corre e si rischia di non essere più in grado di aver figli. C’è una naturalità nella voglia di genitorialità. Noi desideriamo essere genitori: il dato più sconvolgente, da un certo punto di vista, è che in Italia tra i figli desiderati e figli realmente avuti manca un figlio per ogni persona, quindi riusciamo ad avere meno figli di quelli che vorremmo.

    D. – Se da una parte, quindi, è opportuno chiedere più attenzione nei riguardi della famiglia, arriva però un segnale positivo dalla Camera, dove si discute la legge di stabilità nella quale si prevedono 6,4 miliardi in tre anni per le famiglie. In particolare, le detrazioni per figli di età inferiore ai tre anni passano da 900 a 1220 euro, per i figli più grandi da 800 a 950 euro. Aumentano anche le detrazioni per i figli con disabilità: fino ad un massimo di 1.620 euro per quelli di età inferiore ai tre anni. Un dato positivo?

    R. – Viene fuori una maggiore attenzione ai figli più piccoli. Credo che questo sia un passo virtuoso. Dobbiamo renderci conto che è proprio all’inizio della genitorialità che le persone sono più in difficoltà. Finalmente, vediamo un intervento di politica familiare che non riguarda solo i poveri, le fasce deboli, ma che è, come devono essere le politiche familiari, in funzione del semplice fatto di avere figli: questo è ciò che è sempre mancato nel nostro Paese.

    D. – Il Forum delle famiglie non si stanca mai di dirlo e vogliamo quindi ribadirlo ancora una volta: perché è importante investire sulla famiglia?

    R. – Perché è il luogo che genera i nuovi cittadini, è il luogo che garantisce la coesione sociale. Basterebbe pensare a quale impatto avrebbe avuto la crisi, in questi cinque lunghi anni, se non ci fosse stata la capacità della famiglia di assorbire le fragilità del mercato del lavoro, le colpe della politica, le difficoltà delle banche, delle imprese, ecc. Quindi, mi sorprende che gli economisti non vedano il valore economico di sistema della famiglia per il futuro dello sviluppo economico del Paese, oltre al grande grande valore di umanità che essa porta con sè.

    inizio pagina

    Ddl diffamazione, l'Europa preoccupata. Ruzzante: carcere no, sì a sanzioni più severe

    ◊   Il ddl sulla diffamazione a mezzo stampa tornerà all'esame dell'Aula martedì prossimo. Lo ha stabilito la Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama dopo il voto del parlamento che ha reintrodotto la pena detentiva per questo tipo di reato. Il Pd ha ribadito che il gruppo presenterà una questione di sospensiva, ritenendo che non vi siano più le condizioni politiche per portare avanti il provvedimento. Di parere opposto il Pdl che sta studiando nuove modifiche al testo. Intanto, il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, fa sapere di seguire con ''grande preoccupazione'' l'iter legislativo del ddl in questione e di ritenere che mantenere il carcere per i giornalisti sarebbe un ''grave passo indietro'' per l'Italia e non solo. Quasi unanime l’opinione che prevedere il carcere per un giornalista colpevole di diffamazione sarebbe gravemente lesivo della libertà di stampa. Adriana Masotti ne ha parlato con Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma:

    R. – Credo sia una misura eccessiva. Credo debba essere cancellata, perché il giornalista deve essere libero di esercitare la libertà di informazione e di critica, che quindi vuol dire anche esprimere un’opinione. Detto questo, però, va detto anche che le persone lese da informazioni diffamatorie devono ricevere un’adeguata riparazione. Credo sia eccessiva la pena detentiva, ma che sia necessario predisporre un apparato sanzionatorio molto robusto per evitare che la libertà di informazione diventi licenza di insulto e di linciaggio mediatico.

    D. – Molti sostengono che una soluzione potrebbe essere stabilire regole più rigide per quanto riguarda la rettifica …

    R. – Io non sono d’accordo con chi dice che la rettifica debba essere esaustiva del risarcimento. Ci sono dei casi nei quali la rettifica non basta a riparare il danno provocato. Se passasse l’idea che basta una rettifica per risolvere il problema, io credo ci sarebbe il rischio che molti giornalisti potrebbero utilizzare l’arma della rettifica per modificare uno stato d’arte, cioè una opinione espressa, dopo aver danneggiato gravemente il soggetto. Mi spiego: ci sono danni che non sono riparabili. Se una persona viene diffamata su un giornale ed è in lizza per un incarico che viene assegnato il giorno dopo, e per ragioni di opportunità l’incarico non viene più assegnato a questa persona, se poi la rettifica arriva giorni dopo non ripara un bel nulla, perché questa persona è stata comunque danneggiata.

    D. – Dunque, il carcere è spropositato come pena, la sola rettifica non basta: come si può risolvere questa questione?

    R. – Robuste sanzioni pecuniarie per i casi più gravi e quindi necessità che le diffamazioni davvero gravi vengano punite in modo esemplare, e sanzioni disciplinari. Io non ho difficoltà a dire che l’Ordine dei giornalisti potrebbe riacquistare molta della sua autorevolezza se riuscisse a comminare sanzioni fino alla radiazione, ma anche semplicemente la sospensione per alcuni mesi – che mi sembra più equilibrata e ragionevole come sanzione – per i casi riguardanti giornalisti che dovessero diffamare pesantemente dei cittadini.

    inizio pagina

    Nella Chiesa e nel mondo



    Egitto, Patriarca Tawadros II: rappresentanti copti potrebbero ritirarsi dall'Assemblea costituente

    ◊   Il nuovo Patriarca copto ortodosso Tawadros II si augura che la nuova Costituzione in via di stesura conservi senza modifiche l'articolo 2 del precedente testo costituzionale - che riconosceva i principi della Sharia come fondamento preminente della legislazione - e chiederà il ritiro dei rappresentanti copti dall'Assemblea costituente se persisteranno i tentativi di forzare in senso islamista la nuova Carta costituzionale egiziana. Il Patriarca, che verrà intronizzato domenica prossima, 18 novembre, ha esposto le sue considerazioni sul lavoro dell'Assemblea costituente in un incontro con una delegazione dei sindacati dei giornalisti e degli avvocati avvenuta il 12 novembre scorso nel monastero di San Bishoi (Deir Amba Bishoi). Nell'occasione, il capo della più grande comunità cristiana del Medio Oriente ha anche confermato che la Chiesa copta ortodossa sta coordinandosi con i rappresentanti dell'Università islamica di Al Azhar per condividere un discernimento comune sui singoli articoli in discussione. Tra i 100 membri dell'Assemblea costituente, i cristiani sono una quindicina. Quattro di loro - due copti ortodossi, un protestante e il vescovo copto cattolico Yohanna Qulta – sono stati designati direttamente dalle rispettive Chiese e comunità ecclesiali. Secondo il vescovo ausiliare di Alessandria dei copti cattolici, Botros Fahim Awad Hanna, l'approccio deciso e equilibrato del Patriarca Tawadros può avere un effetto positivo sul dibattito costituzionale in corso in Egitto, contrastando le manovre dei gruppi salafiti che puntano alla totale islamizzazione della carta costituzionale. “Anche la gran parte dei musulmani” spiega all'agenzia Fides il vescovo Hanna, “non condivide questa linea così gretta e rigida. Mentre tutti possiamo essere concordi sul fatto che i principi di pace e giustizia coltivati anche dalla giurisprudenza islamica ispirino il diritto e la legislazione, in maniera conforme alla legge naturale”. (R.P.)

    inizio pagina

    Usa: i vescovi chiedono una riforma dell'immigrazione nel 2013

    ◊   L'arcivescovo di Los Angeles, mons. José Gomez, che presiede la Commissione per le migrazioni della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti d’America (Usccb), ha sollecitato il rieletto presidente Barack Obama e il Congresso a fare una riforma dell'immigrazione nel 2013. "Invito il Presidente e il Congresso a cogliere l'attimo e ad iniziare il difficile processo di creazione di un accordo bipartisan" ha detto mons. Gomez durante la riunione annuale della Usccb a Baltimora, nel Maryland. Nella nota inviata all’agenzia Fides, si leggono queste parole di mons. Gomez: “Milioni di persone rimangono nell'ombra, senza protezione legale ed emarginate. Come questione morale, questa sofferenza deve finire". Dopo le elezioni del 6 novembre, sia il presidente della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano John Boehner, come il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, hanno sottolineato la necessità di una riforma globale dell'immigrazione. “Sono entusiasta delle recenti dichiarazioni pubbliche da parte dei leader dei due partiti politici che sostengono l'esame della riforma dell'immigrazione nel nuovo Congresso" ha detto l'arcivescovo di Los Angeles. Mons. Gomez ritiene che la riforma dell'immigrazione debba sostenere lo Stato di diritto, preservare l'unità della famiglia, la tutela dei diritti umani e la dignità delle persone, e quindi ha esortato i cattolici a far sentire la loro voce a sostegno della riforma dell'immigrazione. "L'Immigrazione: un problema di 50 Stati" era stato il tema su cui avevano discusso i vescovi nel dicembre 2011. Secondo dati del Pew Hispanic Center, alla fine del 2011 si parlava di 11.2 milioni di immigrati senza documenti. (R.P.)

    inizio pagina

    Myanmar: per la visita di Obama, il governo birmano libera 450 detenuti

    ◊   Il governo riformista birmano ha ordinato la liberazione di 450 prigionieri, che verranno rilasciati nella giornata di oggi. Analisti ed esperti di politica interna sottolineano che l'amnistia è un gesto di buona volontà, in vista della storica visita ufficiale del presidente statunitense Barack Obama - da poco confermato al secondo mandato - in Myanmar in programma la prossima settimana. Al momento non vi sono conferme sulla presenza di detenuti politici fra i detenuti che lasceranno oggi la cella, ma in passato i provvedimenti di grazia emessi dal presidente riformista Thein Sein hanno riguardato prigionieri di coscienza e criminali comuni. Il rilascio di parte dei detenuti politici è uno dei punti caratterizzanti il cammino di democratizzazione impresso al Paese dall'attuale capo di Stato, dopo cinque decenni di regime militare che hanno oppresso l'ex Birmania. Fra le altre vi sono anche l'abolizione della censura preventiva sulle pubblicazioni, la promulgazione di leggi che consentono manifestazioni pacifiche di piazza e il libero associazionismo sindacale. Fonti dell'agenzia AsiaNews nel Paese confermano la sensazione di "maggiore libertà che si respira", in un Paese in "rapida evoluzione nel breve volgere di un anno". Più possibilità di spostamento e meno controlli, una rapida diffusione dei telefoni cellulari, quando in passato erano riservati solo alle élite, la crescita dell'economia sono ormai un dato di fatto. I cambiamenti hanno spinto i governi occidentali, fra cui Washington, a cancellare o rimuovere in parte le sanzioni economiche e commerciali al Myanmar, dando vita a una nuova fase nei rapporti con Naypyidaw. Fino all'aprile 2011, quando si è assistito al passaggio dei poteri fra la giunta militare e il governo semi-civile - sebbene controllato dall'esercito che detiene la maggioranza in Parlamento fra propri rappresentanti ed ex militari - nel Paese vi erano 2mila detenuti politici. I movimenti di opposizione e gli attivisti all'estero sottolineano che "vi sono ancora almeno 330 prigionieri di coscienza" nelle carceri birmane. Tuttavia, non mancano le voci critiche come quella di Ko Ko Gyi, ex detenuto politico, secondo cui Thein Sein ha attuato un "uso strategico" del rilascio dei prigionieri, giudicata come "una merce di scambio" se si considera "la tempistica" dei provvedimenti di amnistia. Il precedente risale al settembre scorso, a pochi giorni dallo storico viaggio del presidente negli Stati Uniti per partecipare all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Sulla situazione in Myanmar è intervenuta anche la leader dell'opposizione e Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, la più famosa fra i detenuti politici birmani, che ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni agli arresti domiciliari. Nel contesto del viaggio in India, la "Signora" ha chiesto cautela nel giudicare le riforme promosse dal governo birmano, sottolineando che il Paese "non ha ancora raggiunto l'obiettivo di una piena democrazia". (R.P.)

    inizio pagina

    Bolivia. I vescovi: “Non possiamo tacere dinanzi ai gravi problemi che affliggono il Paese”

    ◊   I vescovi boliviani hanno ribadito le loro preoccupazioni e hanno dichiarato che saranno attenti e non rimarranno in silenzio dinanzi ai seri problemi che minacciano il Paese. Il loro proposito è contenuto nel Messaggio letto a conclusione della XCIV Assemblea della Conferenza episcopale boliviana (Ceb), tenutasi a Cochabamba. "Non possiamo chiudere gli occhi né mettere a tacere la nostra voce dinanzi ai gravi problemi che affliggono il nostro paese, come la corruzione, l'insicurezza, l'aumento del narcotraffico e la povertà persistente" affermano i vescovi nel documento che è stato presentato dal segretario generale della Ceb, mons. Eugenio Scarpellini, vescovo ausiliare di El Alto. La Conferenza stampa - riferisce l'agenzia Fides - è stata guidata dal nuovo direttivo della Ceb per il periodo 2012-2015, composto, oltre che da mons. Scarpellini, da mons. Oscar Aparicio, vescovo ausiliare di La Paz, presidente, e da mons. Ricardo Centellas, vescovo di Potosi, vicepresidente. Il documento presenta il lavoro svolto in Bolivia dalla Ceb nei suoi 50 anni di vita. "Anche con i suoi limiti, ha cercato di avere uno sguardo attento ai segni dei tempi nel paese, ha riflettuto e illuminato, trasmettendo messaggi di orientamento per i cattolici e le persone di buona volontà, su temi che riguardavano la vita del Paese, motivando solidarietà, speranza e, quando le circostanze lo hanno richiesto, pronunciando la sua parola profetica e scomoda" affermano i vescovi. Il documento aggiunge poi che alla "luce del Vangelo" la Ceb ha affrontato problemi sociali e politici "nelle loro implicazioni etiche e morali, producendo, in alcuni casi, reazioni negative e perfino attacchi dalle sfere di potere". La Ceb è stata presente nei momenti di crisi sociale ed economica e di calamità naturali, impegnandosi a creare solidarietà verso i poveri e i bisognosi, denunciando le strutture ingiuste di emarginazione e di esclusione presenti nella società. (R.P.)

    inizio pagina

    Uruguay. Vescovi contro l’aborto: un figlio è scommessa generosa in un Paese invecchiato

    ◊   “Accettare la morte di creature umane innocenti ferisce la tradizione del nostro Paese e non risolve i problemi”. E’ quanto afferma la Conferenza episcopale dell’Uruguay, in una nota diffusa al termine della Assemblea plenaria in merito alla nuova legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. “Un figlio che viene al mondo è sempre una benedizione di Dio, una speranza e una scommessa generosa in un Paese invecchiato - affermano i vescovi uruguaiani, in riferimento al calo dell’indice di natalità, il più basso dell’America Latina. Nella nota l’episcopato uruguaiano esprime in sette punti il suo rammarico per il provvedimento “che non tutela la donna in difficoltà alla quale viene proposta la peggiore decisione: quella di eliminare la vita del proprio figlio e di portare il peso delle sue gravi conseguenze”. La moralità degli atti – sottolineano - non dipende dalle leggi umane e “il solo fatto di essere stata approvata non rende questa legge moralmente buona”. I diritti umani e questo primordiale diritto alla vita non possono essere soggetti alle maggioranze parlamentari e elettorali contingenti, affermano i vescovi, che allo stesso tempo esortano le autorità a varare con attenzione i regolamenti attuativi per non aggiungere altri danni. Inoltre, l’episcopato invita a rispettare la coscienza dei medici e degli operatori sanitari e a non discriminare gli obiettori di coscienza. In conclusione, la Conferenza episcopale - come parte di una “società pluralista” – ribadisce il diritto di esprimere la propria opinione nella “serena convinzione che difendendo la vita umana resta fedele a se stessa e alle radici della storia come nazione”. (A.T.)

    inizio pagina

    Ecuador: protesta dei vescovi per la rimozione di immagini religiose da un ospedale a Cuenca

    ◊   “Profonda preoccupazione e dolore, perche in uno Stato laico che riconosce, protegge e garantisce il diritto alla libertà religiosa, non è giusto, né sensato che si stabiliscano questo tipo di norme”. Queste le parole del vicepresidente della Conferenza episcopale dell’Ecuador, mons. Luis Cabrera, arcivescovo di Cuenca nella lettera al governatore della provincia di Azuay per chiedere di ricollocare le immagini religiose rimosse nei giorni scorsi dai corridoi dell’Ospedale Regionale “Vicente Corral Moscoso” per disposizione del Ministro della Salute. Il presule ha affermato che questo gesto potrebbe essere interpretato come una “discriminazione dei cattolici negli spazi pubblici” e per questo, chiede che le immagini siano rimesse al loro posto. “Non chiediamo nessun privilegio per la Chiesa - aggiunge l’arcivescovo - ma il rispetto del suo diritto di esprimere la propria fede anche negli spazi pubblici, che appartengono a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro convinzioni politiche e religiose”. Nella lettera - la cui copia è stata indirizzata al Presidente della Repubblica, al presidente dell’Assemblea nazionale e al sindaco di Cuenca, mons. Cabrera - ricorda che uno Stato laico significa “aconfessionale” non “antireligioso”, il che “ci permette la convivenza pacifica e rispettosa tra credenti di diverse religioni e non credenti, ma anche, di evitare qualsiasi forma di proselitismo, fanatismo e fondamentalismo religioso o antireligioso”. Nella lettera, l’arcivescovo di Cuenca fa riferimento al paragrafo 8 dell’articolo 66 della Costituzione che garantisce “il diritto a praticare, conservare, cambiare, professare nel pubblico e nel privato, la propria religione e le proprie credenze, e di diffonderle individualmente o collettivamente”. Inoltre, ricorda che lo Stato deve proteggere la libera pratica religiosa cosi come chi non pratica alcuna religione, favorendo cosi un clima di pluralismo e tolleranza. Il vicepresidente dell’episcopato dell’Ecuador ha affermato che la disposizione di rimuovere le immagini religiose dall’Ospedale di Cuenca non ha considerato “ la sensibilità religiosa del popolo, in maggioranza cattolica, né il diritto di professare la propria fede nei momenti più difficili dalla vita, come quelli della malattia e della morte”. Mons. Cabrera ha riferito che qualche mese fa, lo stesso ospedale, ha persino chiuso la Cappella senza tenere conto della sua storia e, soprattutto, delle convinzioni religiose del personale e dei pazienti. (A cura di Alina Tufani)

    inizio pagina

    Siria: morto direttore delle Pom. Il Patriarca Laham: sua scomparsa sia offerta per la pace

    ◊   E’ deceduto ieri a mezzogiorno, in seguito a un improvviso attacco cardiaco, padre Jules Baghdassarian, 55 anni, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie (Pom) in Siria, incarico che ricopriva dal 2003. Padre Jules era un sacerdote greco cattolico (melkita) e risiedeva ad Aleppo. I funerali saranno celebrati sabato prossimo nella chiesa di San Giorgio di Aleppo, da mons. Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo greco cattolico della città. Padre Jules aveva sofferto molto per la tragica situazione del conflitto siriano, giunto fino al cuore di Aleppo. Negli ultimi mesi, data la grave situazione umanitaria di migliaia di rifugiati nella città, si era dedicato anima e corpo alle attività caritative, all’assistenza, alla sistemazione di famiglie sfollate, all’organizzazione degli aiuti, alla risoluzione dei tanti problemi che sorgevano in quest’opera. Probabilmente – riferiscono a Fides dall’Ufficio delle Pom ad Aleppo – le preoccupazioni, la situazione di stress psico-fisico, l’ansia e la fatica gli sono state fatali. Il patriarca greco cattolico Ignazio III Laham, esprimendo all’agenzia Fides il suo cordoglio alla famiglia di padre Baghdassarian e alla comunità greco cattolica di Aleppo, lo ricorda con queste parole: “Era un grande amico dei poveri, era animato da grande zelo per la carità. I suoi verbi erano amare e servire”. “Speriamo – aggiunge – che la sua morte sia un’offerta per la pace e per la riconciliazione in Siria, per l’avvenire della comunità cristiana in Siria, per il trionfo della carità in Siria e in Medio Oriente”. (R.P.)

    inizio pagina

    Il card. Scola: la crisi economica richiede un "radicale ripensamento antropologico"

    ◊   Se la crisi economica “è il sintomo di una concentrazione sull’utile immediato che inaridisce la comunicazione e rende precaria la convivenza, la soluzione non potrà venire da un semplice maquillage etico, ma richiederà un radicale ripensamento antropologico”. Lo ha detto questa mattina a Londra il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, presentando a Westminster (House of Lords) la Fondazione internazionale Oasis, www.fondazioneoasis.org, da lui fondata e presieduta. Secondo il porporato - riferisce l'agenzia Sir - in questo ripensamento, che “dovrà rimettere al centro la questione della verità, nel suo nesso vitale con la libertà”, risiede “la rilevanza culturale e il contributo che gli uomini delle religioni, e cristiani e musulmani in particolare, possono offrire oggi: gli uni agli altri e, insieme, gli uni con gli altri, per il bene comune”. Credo si possa affermare - ha osservato l’arcivescovo - che la presenza musulmana pone, molto più di altre, una sfida all’attuale assetto dell’Occidente”. Due “le ragioni principali di questa difficoltà. Prima di tutto, l’Islam, pur richiamandosi con chiarezza alla tradizione biblica, se ne distanzia su diversi punti, non potendo essere inteso come una variante interna al cristianesimo”. D’altra parte esso “mantiene ferma una 'pretesa’ veritativa universale che la maggior parte delle religioni orientali non esprime con uguale forza. Tale connubio tra una tensione universalistica analoga a quella cristiana e una differente visione del mondo - ha spiegato il cardinale Scola - costituisce la peculiarità della condizione dei credenti musulmani nell’Occidente contemporaneo”, la cui presenza pone “il problema della convivenza di differenti mondovisioni universali nella sfera pubblica”. Se finora, ad avviso del cardinale, è stato privilegiato “un approccio pragmatico” volto a “confinare la diversità” e a “limitare i conflitti”, per Oasis “il punto di partenza” per impostare la relazione tra soggetti personali e comunitari in una società plurale “risiede nel principio di comunicazione” inteso come “un fondamentale mettere in comune’”. Di qui la necessità di “riconoscere l’altro come interlocutore a pieno titolo”. “Questo genere di comunicazione - ha assicurato il cardinale Scola - permette un incontro profondo, nel quale ciascuno può presentarsi per quello che è”. Tuttavia, ha avvertito, “quando si parla di queste cose in Occidente, l’effetto, a pelle, è diverso: si registra una diffusa sfiducia”. Secondo il porporato, ciò dipende “dal fatto che in diversi settori della società attuale è stato del tutto rimosso il problema della verità in se stessa e nel suo rapporto con la libertà, ovvero di ciò che ci riguarda in profondità come esseri umani”. Questo pomeriggio il cardinale Scola interverrà a una conferenza presso l’Heythrop College. (R.P.)

    inizio pagina

    Congo. Nel Nord Kivu ribelli nel Masisi: pesante bilancio di vittime civili

    ◊   Tra lo scorso aprile e settembre in più di 70 attacchi almeno 264 civili, di cui 83 bambini, sono stati uccisi da gruppi armati attivi nel territorio di Masisi, a sud della turbolenta provincia orientale del Nord-Kivu. Il pesante bilancio - riferisce l'agenzia Misna - è contenuto in un rapporto dell’Onu diffuso ieri, frutto di sei missioni d’inchiesta realizzate dall’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani in Congo nel corso delle quali sono state raccolte più di 160 testimonianze. Nei villaggi bersagliati gli investigatori hanno riscontrato che “le vittime sono spesso le persone che non possono o hanno difficoltà a fuggire agli assalitori, in particolare bambini e anziani”. Le Nazioni Unite puntano il dito contro la milizia di autodifesa Raia Mutomboki e gruppi alleati Mayi Mayi in rivalità con i ribelli Nyatura (hutu). Il rapporto evidenzia che i crimini sarebbero stati commessi anche su base etnica in quanto “i civili uccisi dai Raia Mutomboki erano per la maggior parte di origine etnica hutu, mentre le vittime dei Nyatura principalmente tembo”. Il documento sottolinea “l’estrema brutalità” degli aggressori che hanno ucciso le vittime “a colpi di machete” o “sono state bruciate vive nelle proprie abitazioni”, commesso stupri e violenze alle donne ma anche saccheggi su vasta scala, provocando lo sfollamento massiccio e forzato dei civili. Di scena anche le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr, hutu), che in alcuni casi hanno sostenuto i Nyatura. L’ultimo episodio risale a tre giorni fa, quando almeno otto villaggi del Masisi sono stati incendiati, portando alla morte di alcuni residenti e allo sfollamento di 5000 famiglie. “Le autorità congolesi devono prendere provvedimenti immediati per proteggere le popolazioni, a cominciare dai bambini, e lottare all’impunità persistente che non fa altro che incoraggiare gli assassini” ha dichiarato l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay. “Deploriamo il fatto che interessi politici ed economici alimentino conflitti etnici legati a dispute per il controllo della terra. Raccomandiamo al governo di far processare i responsabili di quei crimini” ha insistito Scott Campbell, rappresentante dell’Alta commissione Onu per i diritti umani. A lanciare l’allarme sul deteriorarsi della sicurezza e della situazione umanitaria nel Masisi è anche il Jesuit Refugees Service (Jrs), che dal 2010 presta assistenza nella zona in cinque campi sfollati. “Qui la popolazione si sente abbandonata dalle forze della Monusco, la locale missione Onu, che ha fallito nella sua missione” si legge in un comunicato del ‘Jrs’, evidenziando che “negli ultimi mesi lo spostamento delle truppe regolari congolesi verso il nord della provincia ha lasciato spazio ai numerosi gruppi che commettono violenze quotidiane”. Dallo scorso aprile la nuova sfida per le Forze armate regolari congolesi (Fardc) è rappresentata dalla ribellione del Movimento del 23 marzo (M23), costituita da ex ribelli del Congresso nazionale di difesa del popolo (Cndp, tutsi) integrati nell’esercito nel 2009 dal quale hanno disertato sette mesi fa. Da alcune ore pesanti combattimenti sarebbero in corso nella zona di Rugari, a 30 chilometri da Goma, capoluogo provinciale, tra truppe regolari e l’M23. (R.P.)

    inizio pagina

    Burkina Faso: l'impegno dei vescovi per la promozione del dialogo tra cristiani e musulmani

    ◊   I vescovi del Burkina Faso sono soddisfatti degli sforzi compiuti nelle diocesi del Paese per la promozione del dialogo interreligioso tra cristiani e musulmani. E’ quanto è emerso dalla prima sessione annuale della Commissione episcopale per il dialogo islamo-cristiano svoltosi nei giorni scorsi a Thangin. Alla sessione, presieduta da mons. Joachim Ouédraogo, vescovo Koudougou e presidente dell’organismo, hanno partecipato delegati delle varie sotto-commissioni diocesane per il dialogo islamo-cristiano che hanno fatto il punto sulla situazione dei rapporti tra le due principali comunità religiose del Paese. Ne è emerso un quadro piuttosto incoraggiante rispetto a realtà come quella del vicino Mali e di altre nazioni africane dove si assiste invece a un’accresciuta conflittualità religiosa legata al fondamentalismo. Tra i segni visibili dei progressi di questo dialogo sono state segnalate in particolare le visite reciproche di cortesia tra musulmani e cristiani in occasione delle feste religiose delle rispettive comunità o in altre occasioni speciali come battesimi, funerali e matrimoni. Giudizio positivo anche sulle sessioni di formazione al dialogo interreligioso organizzate da diverse commissioni diocesane. Alla chiusura dei lavori mons. Ouédraogo ha esortato i partecipanti a rispettare i valori di altre religioni per costruire una società che onori l’uomo e Dio e per camminare insieme nella giustizia, nella pace e nell’amore. In Burkina Faso la comunità musulmana rappresenta circa la metà della popolazione, mentre i cristiani sono il 40%, di cui il 10% cattolici. Il cattolicesimo vi è giunto nel XIX secolo durante la dominazione francese e la prima chiesa fu costruita nel 1900 a Koupéla. Oggi la Chiesa locale è composta da 13 diocesi, più le tre arcidiocesi di Ouagadougou, Bobo-Dioulasso e Koupéla. (L.Z.)

    inizio pagina

    Ghana: i vescovi chiedono "fair play" alle prossime elezioni politiche a dicembre

    ◊   Il 7 e il 28 dicembre i cittadini ghanesi saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente e Parlamento del Paese. In vista dell’importante tornata elettorale, la Conferenza episcopale (Gcbc), riunita nei giorni scorsi in plenaria a Koforidua, ha diffuso una nota per esortare tutti i candidati al fair play e ad accettare l’esito del voto, quale che esso sia. “E’ necessario che i partiti politici e i candidati rispettino la correttezza elettorale informando i propri sostenitori sui rischi che corrono se non seguono le regole”, si legge nel comunicato, firmato dal presidente dei vescovi mons. Joseph Osei-Bonsu . “In particolare, dovrebbero scoraggiare il voto multiplo o in sostituzione di persone defunte”. Quindi l’appello ai leader politici a “dimostrare senso dello Stato impegnandosi ad accettare i risultati dichiarati dalla Commissione elettorale. In elezioni libere e giuste, sottolinea la nota, “i candidati e i partiti perdenti devono riconoscere la sconfitta con orgoglio. I buoni perdenti sono anche operatori di pace, impongono rispetto. I partiti sconfitti diventano una minoranza parlamentare che ha il compito di controllare le politiche e l’operato del governo con critiche costruttive. Sia la minoranza e la maggioranza in Parlamento – continua il documento - devono perseguire un unico obiettivo che è il bene comune dei cittadini ghanesi e quindi rispettare il responso della Commissione Elettorale”. I presuli si rivolgono anche ai media affinché permettano alla suddetta Commissione di svolgere il suo lavoro. In particolare, si ricorda il dovere di tutti “di astenersi dal dichiarare risultati non riconosciuti dai funzionari della Commissione”, in quanto essa è l’unico organismo autorizzato a dichiarare i vincitori ufficiali. Nella nota si invitano inoltre i partiti politici a seguire le procedure previste dalla legge per eventuali contestazioni. Infine, l’appello a tutti i cittadini a continuare, dopo l’annuncio dei risultati, ad adoperarsi insieme “con spirito di unità e solidarietà” per la Patria . I sospetti di brogli elettorali da sempre aleggiano sulle elezioni in Ghana. Per scongiurare il ripetersi di situazioni analoghe a quelle verificatesi nelle precedenti consultazioni (elettori che votavano più di una volta o che assumevano l'identità di parenti defunti, ma ancora presenti nel registro elettorale), la Commissione elettorale ha introdotto alcune significative novità, tra le quali un registro elettronico dei cittadini aventi diritto al voto. (L.Z.)

    inizio pagina

    Uganda: nuova epidemia di Ebola

    ◊   Una nuova epidemia di Ebola, che ha già causato due vittime, è stata dichiarata ad appena un mese dalla fine dell’ultimo focolaio che, nell’ovest del paese, aveva provocato 17 morti. Lo ha reso noto il ministro della Sanità Christine Ondoa secondo cui l’epicentro sarebbe una cinquantina di chilometri a nord di Kampala. È qui che due membri di un stessa famiglia sono deceduti tra sabato e lunedì e le analisi effettuate sui resti hanno confermato il caso di febbre emorragica. Cinque persone entrate in contatto con le vittime - riporta l'agenzia Misna - sono state messe in quarantena e sono attualmente sotto osservazione di un’equipe di medici dell’ospedale Mulago, della capitale. Un terzo uomo era deceduto a ottobre dopo aver presentato sintomi riconducibili all’Ebola – riferisce la stampa – ma il suo caso non era stato segnalato alle autorità e su di lui non sono state effettuate le analisi necessarie. Non esiste alcun trattamento specifico all’Ebola, virus manifestatosi per la prima volta nel 1976 nell’allora Zaire e che si ripresenta ciclicamente in diversi paesi dell’Africa centrale, tra cui Uganda, Kenya, Rwanda e Tanzania. L’epidemia più letale risale al 2000, quando 225 persone persero la vita. L’Ebola, che sfocia in una grave febbre emorragica con un indice di mortalità fino al 90%, si trasmette attraverso il contatto diretto con persone infette, in particolare durante i riti funebri. (R.P.)

    inizio pagina

    Sud Sudan: a Rumbek incontro delle donne per la pace

    ◊   “Le donne e la costruzione della pace” è il tema di un seminario in corso a Rumbek, una delle città principali del Sud Sudan, un Paese divenuto indipendente l’anno scorso dopo una lunga guerra civile: lo dice all'agenzia Misna suor Cleonice Salvadeo, una missionaria comboniana che è tra le organizzatrici degli incontri. Al seminario stanno partecipando 125 donne provenienti da tutte le parrocchie della diocesi insieme a dirigenti e rappresentanti delle amministrazioni locali. A una prima giornata dedicata al tema della pace e della preghiera è seguito ieri un confronto sulla “dignità delle donne”. Oggi, prima di una preghiera alla quale parteciperanno anche esponenti della comunità musulmana, si discuterà di come le donne possano diventare “agenti di pace”. Secondo suor Cleonice, una delle animatrici dell’associazione interreligiosa Voice of Women for Peace and Faith, tra ieri e oggi a Rumbek si è discusso soprattutto delle difficoltà delle donne nell’ottenere il riconoscimento di diritti essenziali. “A molte ragazze – sottolinea la missionaria – è impedito di frequentare la scuola, mentre altre sono costrette a sposarsi giovanissime e sono escluse dall’eredità di famiglia”. Secondo suor Cleonice, queste limitazioni sono il frutto delle culture “ancestrali” dominanti non solo a Rumbek ma anche in molte altre regioni del Sud Sudan. “I diritti delle donne sono riconosciuti dalla Costituzione provvisoria entrata in vigore dopo l’indipendenza – sottolinea la missionaria – ma le parole non bastano: servono impegni concreti da parte delle amministrazioni locali e, soprattutto, un cambiamento sul piano della mentalità”. Il Sud Sudan è divenuto indipendente dal Sudan nel luglio 2011, circa sei anni dopo la fine di una guerra civile durata oltre 20 anni. Prima e dopo l’indipendenza, la lotta per le risorse naturali ha alimentato in più occasioni scontri tra comunità che hanno assunto una connotazione etnica. (R.P.)

    inizio pagina

    Kenya: duemila contadini senza raccolto per le inondazioni e a rischio di gravi malattie

    ◊   Le piene improvvise hanno spazzato via il raccolto di riso di circa 2 mila agricoltori nel Kenya occidentale, inondando alcune delle loro case e scaricando le latrine nei corsi d’acqua. I funzionari del Ministero dell’Agricoltura hanno detto che gran parte del riso era stata raccolta ed era ancora nelle fattorie ad essiccare. I contadini che sono stati danneggiati vivono negli 870 ettari delle risaie di Kano Plains, nel distretto di Kisumu. Le piogge - riferisce l'agenzia Fides - hanno distrutto l’unica fonte di sostentamento di questa popolazione e minacciano di far spostare anche loro verso altre terre. Nel mese di ottobre, il dipartimento metereologico ha emesso un avviso su possibili inondazioni in alcune parti del paese, dopo l’inizio di brevi piogge nel periodo ottobre-dicembre, che può essere esacerbato da El Niño. Il riso è il terzo alimento principale in Kenya, dopo il mais e il frumento. Secondo il Ministero delle Politiche Agricole, la produzione nazionale di questo alimento è pari a 50 mila tonnellate all’anno, mentre il consumo annuale è di 350 mila tonnellate. Il solo Pakistan, ogni anno, esporta 200 mila tonnellate di riso in Kenya. Le inondazioni non solo hanno spazzato via i raccolti e le fattorie, ma hanno anche allagato le latrine che potrebbero diventare focolaio di malattie trasmesse dall’acqua. Molti contadini tengono i raccolti nelle abitazioni e quando sopraggiungono le alluvioni perdono tutto. I vari tentativi fatti in passato da parte del governo per la costruzione di lance e canali per agevolare la popolazione in caso di inondazioni, sono stati abbandonati dopo che la gente del posto ha chiesto un indennizzo in quanto le strutture dovevano essere costruite nelle loro aziende. Nei mesi di aprile e maggio di quest’anno diverse zone della regione occidentale e di Nyanza hanno subito gravi inondazioni che hanno causato più di 15 mila sfollati. I Centri di evacuazione costruiti quest’anno con l’aiuto del governo giapponese nella zona possono ospitare solo 12 mila persone. (R.P.)

    inizio pagina

    India. Omicidio suor Valsa John: dopo un anno processo ai colpevoli non è ancora iniziato

    ◊   A un anno dalla morte di suor Valsa John, la religiosa delle Suore della Carità di Gesù e Maria uccisa nello stato indiano di Jarkhand il 15 novembre 2011, “il processo per i colpevoli non è ancora iniziato”. E ci sono “forti pressioni della politica e dei poteri economici che ostacolano la trasparenza e la giustizia”: è quanto denuncia all’agenzia Fides il gesuita indiano padre Tom Kavala, che conosceva direttamente suor Valsa e la aiutava nell’opera di promozione e sviluppo delle comunità tribali. La religiosa - riporta l'agenzia Fides - uccisa nella sua abitazione, nel distretto di Pakur, aveva sensibilizzato i tribali per contrastare lo sfruttamento minerario illegale della zona. “Il suo è stato un martirio: Valsa ha dato la vita per la causa dei poveri e delle comunità emarginate” ricorda padre Kavala, notando che “la sua esperienza oggi ispira tutte le persone impegnate nella promozione sociale dei più poveri in India”. Il gesuita riferisce che, nonostante le sette persone arrestate dalla polizia un anno fa con l’accusa di omicidio, il processo in tribunale non è ancora iniziato, per lentezze burocratiche e soprattutto per l’opposizione di “poteri forti nella politica e nell’economia”: “Siamo certi che quelli siano i veri colpevoli. Ma in tali casi – nota allarmato padre Kavala – la trasparenza è ad alto rischio, un processo giusto diventa difficile e si fa strada l’impunità”. Questa mattina, nel primo anniversario della morte di suor Valsa, è stata celebrata a Dumka, nella chiesa dei gesuiti, una Santa Messa in suffragio della religiosa. Hanno partecipato 25 sacerdoti, 80 religiose e oltre 500 laici, fra cristiani e non cristiani, che condividono lo spirito e l’impegno di suor Valsa. A celebrare la Messa, padre Louis Prakash, direttore dell’Indian Social Institute di Delhi, che ha applicato a suor Valsa il passo del Vangelo “Se il chicco di grano non muore non porta frutto”. Padre Prakash ha ripercorso la storia di suor Valsa, definendola “autentica testimone del Vangelo”. (R.P.)

    inizio pagina

    India: l’Anno della Fede tra i cristiani dell’Orissa

    ◊   Prendere l'eroica testimonianza dei cristiani del Kandhamal (Orissa) come modello di vita e zelo missionario per l'Anno della Fede. È l'esortazione che padre Faustine Lucas Lobo, direttore nazionale delle Pontificie Opere missionarie in India, ha rivolto a sacerdoti, religiosi e laici, nel corso di una serie di visite tra le comunità colpite durante i pogrom anticristiani del 2008. "La Chiesa - ha spiegato il sacerdote - esiste per evangelizzare la gente". Il primo programma tenuto da padre Lobo - riferisce l'agenzia AsiaNews - si è svolto all'Utkal Jyothi Regional Pastoral Centre (7-8 novembre) di Jharsuguda, dove ha parlato delle diocesi di Rourkela e Sambalpur. Qui, la presenza cattolica è in costante crescita, grazie al lavoro dei missionari della Società del Verbo divino (Svd). Al secondo raduno, tenutosi al St. Vincent's Retreat Centre (9-10 novembre) a Goplapur-on-Sea, hanno partecipato i catechisti delle parrocchie di Cuttack-Bhubaneswar, Balasore e Berhampur. Gli animatori si sono detti "felici" dell'incontro, che li ha aiutati a trovare "maggior forza" per dedicarsi alla missione, in particolare verso i bambini. Nel notare la crescita delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nello Stato dell'Orissa, padre Lobo ha ricordato: "Non esiste alcuna Chiesa al mondo tanto ricca da non poter ricevere, né alcuna tanto povera da non poter dare. La missione ha bisogno di sostegno, preghiera e aiuti economici. Tutti insieme dovete nutrire e promuovere questa cooperazione missionaria". (R.P.)

    inizio pagina

    Spagna: Campagna dell'Azione Cattolica contro la disoccupazione

    ◊   “Per la dignità umana, lavoro per tutti” è il motto scelto per la Campagna contro la disoccupazione lanciata dall’Azione Cattolica spagnola lo scorso febbraio e che si chiuderà sabato 17 novembre in tutte le diocesi, parrocchie o comunità in cui è presente l’organizzazione. Con l’evento si è voluto richiamare l’attenzione sul diritto e il bisogno delle persone di avere un lavoro stabile e, allo stesso tempo, esortare le autorità ad intervenire con urgenza contro il drammatico aumento della disoccupazione provocato dalla crisi economica. “L’aspirazione cristiana è una vita dignitosa e avere un lavoro costituisce uno dei pilastri per poterla raggiungere”, si legge nel documento che accompagna l’iniziativa, in cui l’Azione Cattolica denuncia l’attuale concezione del lavoro come “un semplice strumento al servizio della produttività o della concorrenza” e succube dei grandi interessi economici e perfino speculativi. Nel corso della Campagna, l’organizzazione ha potuto constatare il dramma della disoccupazione, non solo nelle statistiche, ma nella vita concreta delle persone, delle famiglie e dell’intera società. “Stiamo assistendo – si legge nel documento - a istituzioni e organizzazioni assistenziali piene e alla crescita esponenziale di intere comunità a rischio di esclusione: immigranti; persone che non hanno il sostegno economico delle famiglie; pensionati con i figli a carico; giovani che non accedono al mercato del lavoro; intere famiglie senza lavoro, spesso sfrattate dalle loro case, e infine, al peggioramento generale delle condizioni di salute”. Oltre che un dramma sociale, rileva l’Azione Cattolica spagnola, la mancanza di lavoro è un dramma personale che provoca incertezza e insicurezza, che distrugge progetti di vita e può anche degenerare in violenza, indignazione, rabbia e paura. Il manifesto “Per la dignità umana, lavoro per tutti” conclude con l’impegno dei membri dell’Azione Cattolica ad “esercitare una cittadinanza attiva, collaborando e partecipando all’interno delle istituzioni (sindacati, partiti politici, enti pubblici) per metterle a servizio dell’essere umano alla luce del Vangelo. (A.T.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 320

    inizio pagina
    E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.