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Sommario del 23/05/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Udienza generale. Il Papa: per Dio non siamo figli anonimi, lo Spirito ci insegna a chiamarlo Padre
  • Trapianto di cuore all'Ospedale Bambino Gesù: le congratulazioni del cardinale Bertone
  • Santa Sede: diritto alla salute per tutti, traguardo ancora lontano
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • RD Congo: scontri e 100 morti in nord Kivu. Mons. Ambongo: la violenza la pagano i poveri
  • Egitto, prime presidenziali nel dopo-Mubarak: ucciso poliziotto presso un seggio
  • Algeria. L’opposizione si divide e pensa alla formazione di un parlamento alternativo
  • Palermo, celebrazioni per i 20 anni di Capaci. Interviste a Maria Falcone e Alfredo Morvillo
  • Assemblea Cei. Mons. Sanna: laici non collaboratori ma corresponsabili
  • Fecondazione eterologa. Carlo Casini: rispettare scelte del parlamento con Legge 40
  • Pellegrinaggio dei giovani di Roma a Lourdes: intervista con mons. Cozzoli
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Siria: tre civili cristiani uccisi nell’area di Homs
  • Indonesia: attivisti di Sumatra chiedono di presentare all'Onu le restrizioni contro i cristiani
  • Africa Australe: i vescovi si impegnano a fornire osservatori nelle elezioni locali
  • Centrafrica. L'arcivescovo di Bangui: contro l'insicurezza dare risposte ai giovani
  • Darfur, limitazioni a Msf: in 100 mila senza assistenza sanitaria
  • Sudan: massacro di profughi eritrei ed etiopi nel campo Onu
  • Egitto: 12 copti condannati all’ergastolo. Critiche dagli esperti di diritto
  • America Latina-Caraibi. Dichiarazione sull'invecchiamento: violati i diritti degli anziani
  • Anche a New York la processione con la Madonna di She Shan
  • Malawi: i primi 50 giorni della nuova presidente Banda
  • Nigeria. I vescovi: rilanciare i valori cristiani per lo sviluppo del Paese
  • Gabon: iniziative della Chiesa per porre fine ai crimini rituali
  • Nepal: le donne chiedono la fine delle molestie sessuali
  • Mauritius: leader religiosi chiedono ai deputati di bocciare la legalizzazione dell'aborto
  • Argentina: i vescovi su terapie per malati terminali e "gender"
  • Cile. Concluso il conflitto a Freirina: chiuso l'inquinante impianto industriale
  • Il Papa e la Santa Sede



    Udienza generale. Il Papa: per Dio non siamo figli anonimi, lo Spirito ci insegna a chiamarlo Padre

    ◊   Imparare a essere “amici di Dio” e a “invocarlo con confidenza”. È stato questo il fine della catechesi che questa mattina, in Piazza San Pietro, Benedetto XVI ha tenuto nel corso dell’udienza generale alle oltre 20 mila persone presenti. Una catechesi incentrata sullo Spirito Santo, definito “il grande maestro della preghiera”. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    La considerazione di partenza della densa riflessione del Papa sul modo di pregare Dio parte da una constatazione realistica, ovvero da quella incolmabile distanza che l’essere umano, e molto spesso anche il credente, avverte tra sé e il cielo:

    “Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola ‘padre’ con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L'assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi”.

    Invece, ha osservato Benedetto XVI citando San Paolo, il cristiano non ha ricevuto uno spirito da schiavo. Può rivolgersi a Dio con la “fiducia” dei bambini, con quella “relazione filiale analoga a quella di Gesù”. Ma per farlo, ha sottolineato, è necessario che sia lo Spirito Santo a insegnargli come parlare, Lui che “è il grande maestro della preghiera”:

    “Lo Spirito Santo è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani (…) Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell'amore al Padre che ci ama”.

    Come Gesù ha aperto all’uomo le porte del cielo, lo Spirito Santo apre le porte dell’anima dell’uomo e lo aiuta a comprendere ciò che non lo sarebbe senza il suo aiuto, l’amore sconfinato che lega il Figlio al Padre e che è modello per il nostro rapporto con Dio:

    “Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio”.

    La “paternità di Dio”, ha proseguito Benedetto XVI, ha “due dimensioni”: quella per cui ogni uomo e ogni donna “è un miracolo” di Dio in quanto Creatore, ma anche l’altra per cui Dio ci ha creati a sua immagine e quindi la sua non è una paternità lontana, distaccata. Per Dio, ha detto il Pontefice, “non siamo esseri anonimi e impersonali, ma abbiamo un nome”:

    “Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita”.

    Infine, Benedetto XVI ha spiegato che non esiste preghiera dell’uomo a Dio se non è lo Spirito a invocare Dio per bocca dell’uomo. La ricerca dell’assoluto nell’uomo, ha osservato, esiste fin dal tempo dell’Homo sapiens. Ma è dopo la Rivelazione di Cristo al mondo e l’istituzione della Chiesa che questa ricerca è entrata in una nuova dimensione:

    “Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Chi parla con Dio non è solo. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio (...) Ogni volta, allora, che gridiamo e diciamo: ‘Abbà! Padre!’ è la Chiesa, tutta la comunione degli uomini in preghiera che sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa”.

    L’udienza generale è poi proseguita con la consueta sintesi delle catechesi in altre lingue ed è stata conclusa dai saluti ai vari gruppi radunati nel colonnato del Bernini, tra i quali quelli provenienti dalle città di Nola e di Enna, dell’associazione “Ragazzi in gamba”, che festeggia i 50 anni di attività, e del Comitato “Cittadini attraverso lo Sport” per l’accensione della fiaccola in partenza per Napoli.

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    Trapianto di cuore all'Ospedale Bambino Gesù: le congratulazioni del cardinale Bertone

    ◊   “Un evento straordinario, che manifesta la passione per la salute dei bambini e la capacità di mettere la tecnologia a servizio della medicina”. Così il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha rivolto le proprie congratulazioni all’equipe medica dell’ospedale Bambino Gesù di Roma che, per la prima volta al mondo, ha eseguito nei giorni scorsi un trapianto cardiaco su un bambino di appena 16 mesi, dopo avergli garantito la sopravvivenza attraverso l’impiego di un minuscolo cuore artificiale. “Garantire un futuro è un dono per tutti noi – ha aggiunto il porporato – e per i tanti bambini e le famiglie che guardano con fiducia ai progressi della scienza”. Il Bambino Gesù si conferma, così, polo d’eccellenza della pediatria e dimostra ancora una volta il proprio ruolo di avanguardia internazionale nell’adozione delle soluzioni cliniche più innovative, “come già espresso nel campo della robotica”, ha ricordato il cardinale. Oltre al grande valore scientifico, il successo dell’esecuzione dell’intervento ha “un forte valore simbolico per dare cuore e anima in un momento così difficile per tutte quelle persone che si sentono colpite e afflitte dal dolore procurato dagli uomini e dagli eventi della natura”, ha concluso il porporato, ribadendo che la fiducia nel futuro attraverso la cura di un bambino incarna “il senso stesso del futuro e della vita nel suo divenire”. (A cura di Roberta Barbi)

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    Santa Sede: diritto alla salute per tutti, traguardo ancora lontano

    ◊   La Santa Sede sostiene “una copertura universale di assistenza sanitaria e servizi” a “tutti i cittadini, sulla base dei principi di equità e solidarietà”: è quanto ha affermato mons. Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio Operatori Sanitari, nel suo intervento oggi alla 65.ma Assemblea mondiale della Salute in corso a Ginevra, in Svizzera. “L’obiettivo della comunità internazionale – ha affermato il presule - è quello di permettere ad ogni persona di fruire dei servizi sanitari senza correre il rischio, per questo, di incorrere in difficoltà economiche”. Purtroppo – ha notato – “nonostante i progressi compiuti in alcuni Paesi, molta strada ci separa ancora da questo traguardo”.

    Mons. Zimowski ha rilevato come i Paesi a basso e medio reddito abbiano dimostrato che “il progresso nell’ambito della copertura universale non è prerogativa degli Stati ad alto reddito. Nondimeno, la maggior parte dei Paesi a basso reddito hanno bisogno del sostegno della comunità internazionale, dei Paesi industrializzati e di altri partner per lo sviluppo per poter superare la mancanza dei fondi necessari”. Per questo il rappresentante vaticano ha ribadito “l’appello a maggiori solidarietà ed impegno nell’aiuto allo sviluppo globale della salute”. E in questa prospettiva ha invitato gli Stati economicamente più sviluppati a fare il possibile “per destinare maggiori quote del loro prodotto interno lordo per gli aiuti allo sviluppo, rispettando gli impegni che su questo punto sono stati presi a livello di comunità internazionale” .

    D’altra parte, sul piano nazionale – ha precisato - il progresso verso la copertura universale non può essere unicamente uno sforzo dell’apparato statale. Esso richiede il sostegno della società civile e delle diverse realtà aggregative e comunitarie, il cui contributo alla fornitura dei servizi sanitari è fondamentale”. In questo contesto – ha proseguito - gli Stati devono, “generosamente riconoscere e sostenere, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto” . E ha ricordato che “le organizzazioni basate sulla fede e gli istituti sanitari della Chiesa, ispirati dalla carità, fanno parte a pieno titolo di queste forze vive che operano nell’ambito della salute. Con oltre 120.000 istituzioni sociali e sanitarie presenti nel mondo, la Chiesa cattolica costituisce, in molti Paesi economicamente svantaggiati, un partner chiave dello Stato nella fornitura di servizi sanitari. Opera infatti anche in aree remote e in favore delle fasce più povere della popolazione, permettendo loro così di accedere a quelle prestazioni che altrimenti sarebbero fuori della loro portata”. Mons. Zimowski ha quindi auspicato che “il grande impegno che consente a tali organizzazioni e istituzioni di contribuire all’accesso universale alle cure” abbia il meritato “riconoscimento e il sostegno tanto dei governi quanto della comunità internazionale; ciò – ha specificato - senza volerle obbligare alla partecipazione in azioni moralmente inaccettabili”. Per questo, il presule ha concluso il suo intervento ricordando come Papa Benedetto XVI abbia chiesto “alle agenzie internazionali” di riconoscerle ed aiutarle “nel rispetto” della loro “specificità e in spirito di collaborazione”.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Il cristianesimo religione della fiducia: all’udienza generale il Papa invita a pregare Dio Padre con lo Spirito di Gesù.

    In rilievo, nell’informazione internazionale, l’Egitto alle urne per il primo turno delle presidenziali.

    Un deficit strutturale: in cultura, stralci dal saggio di Mauro Magatti “La grande contrazione”, che propone una lettura della società contemporanea andando alle radici culturali e spirituali dell’attuale crisi economica.

    In cerca del misterioso Ghiongrat: Antonio Paolucci sulla vita quotidiana degli artisti nei libri parrocchiali romani del Seicento.

    Davanti al “sì” di Maria: la prefazione di Stefano De Fiores al libro di Tommaso Claudio Mineo “Il più bel sì. Iconografia dell’annunciazione”.

    Un articolo del vice direttore dal titolo “Il cardinale che non temeva Pinochet”: Raul Silva Henriquez fu l’unico, vero oppositore del regime dopo la dispersione delle forze politiche diplomatiche.

    Nell’abisso di un sistema perverso: Gaetano Vallini sulla crisi finanziaria nel film “Margin Call” di Jeffrey C. Chandor.

    Da leggi e istituzioni un sostegno reale alla famiglia: nell’informazione vaticana, il cardinale segretario di Stato a un convegno promosso dalla presidenza della Camera dei Deputati italiana.

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    Oggi in Primo Piano



    RD Congo: scontri e 100 morti in nord Kivu. Mons. Ambongo: la violenza la pagano i poveri

    ◊   Nella Repubblica Democratica del Congo, sono stati oltre 100 in una settimana i morti nella regione del nord Kivu, ma ad essere instabile è tutto l’est del Paese. Anche la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) ha da tempo emesso mandati contro vari signori della guerra. Su questa situazione, Davide Maggiore ha raccolto la testimonianza di mons. Fridolin Ambongo Besungu, vescovo della diocesi congolese di Bokungu-Ikela:

    R. – Questo problema non è un problema nuovo: è nato dalla ribellione di Laurent Nkunda e poi, dopo di lui, di un altro, che si chiamava Bosco Ntanganda. Entrambi hanno ricevuto un mandato dalla Cpi. Basterebbe prendere questa gente e mandarla lì, per essere giudicata. Sono criminali e devono essere arrestati, per rispondere di ciò che hanno fatto. Adesso Bosco Ntanganda ha iniziato la guerra nell’est e si è ribellato contro il governo. Dunque, sono sempre i poveri a pagare.

    D. – Ufficialmente, la guerra nella Repubblica Democratica del Congo è conclusa da quasi dieci anni e c’è in corso un processo di pace. Cos’è che però non ha funzionato?

    R. – Si può dire che la guerra sia finita dieci anni fa perché dopo ci sono state due elezioni problematiche, ma ci sono state. Il problema, nell’est del Congo, è sempre stato quello dei gruppi armati che vivono dello sfruttamento delle risorse naturali. Per questo motivo, non vogliono lasciare e qualcuno ne approfitta dandogli le armi per continuare a fare la guerra. E per fare la guerra, devono sfruttare le risorse naturali. E' un ciclo che continua: hanno bisogno della guerra per guadagnare i soldi, quindi per guadagnare hanno bisogno delle armi e per avere le armi hanno bisogno delle risorse naturali. C’è, dunque, una mafia internazionale da noi.

    D. – Cosa cerca di fare la Chiesa per aiutare quanti sono vittime di questo conflitto?

    R. – Noi lavoriamo a due livelli. Il primo livello, è internazionale: per parlare con i capi del mondo siamo stati negli Stati Uniti, a Washington, a New York e poi a Parigi, per quella che chiamiamo “advocacy”. A livello locale, abbiamo un programma che chiamiamo “programma di riconciliazione”, che aiuta il popolo a vivere insieme anche a quelli che “ieri mi hanno fatto male”. E’ un programma che noi portiamo in tutte le diocesi del Congo, per aiutare il popolo a vivere insieme agli altri. Anzitutto nell’est del Paese, lì dove ci sono persone venute dal Rwanda, dall’Uganda, dal Burundi e poi i congolesi. Ma sappiamo anche che, al di fuori di questi conflitti, sono i capi a “mettere fuoco” fra i popoli.

    D. – In questa situazione così grave, che va avanti da tanto tempo, la Chiesa vede un segno di speranza?

    R. – I segni di speranza sono tanti, perché il futuro del Congo è la popolazione: sono le donne, gli uomini, i bambini che sono lì e lottano ogni giorno per sopravvivere. Questa volontà di vivere è un valore enorme. Dopo tanti anni di guerra in Congo, un segno di speranza per il futuro del Congo è il popolo congolese stesso.

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    Egitto, prime presidenziali nel dopo-Mubarak: ucciso poliziotto presso un seggio

    ◊   Elezioni storiche in Egitto. 52 milioni di persone sono chiamati alle urne, oggi e domani, per decidere chi sarà il nuovo presidente della Repubblica nel dopo-Mubarak. 13 i candidati in lizza. Vigileranno sul voto Ong e gruppi pro democrazia internazionali e locali. Se nessuno dovesse ottenere la maggioranza assoluta al primo turno, il ballottaggio si terrà a metà giugno. Stamane, uno scontro a fuoco tra fazioni rivali davanti ad un seggio del Cairo ha causato la morte di un poliziotto. Davide Maggiore ha chiesto ad Ahmed Maher, uno dei leader delle contestazioni di piazza Tahrir, quali sfide attendono chi uscirà vincitore dal voto:

    R. – The next president will have many things to do …
    Il nuovo presidente avrà molto da fare. Dovrà risolvere il problema della sicurezza, dovrà affrontare i problemi economici e dovrà riservare maggiore attenzione all’istruzione: abbiamo bisogno di un nuovo sistema educativo. E’ necessario che nel nostro Paese vengano riconosciuti i principi dei diritti umani, di eguaglianza dei cittadini e della giustizia sociale. Abbiamo diverse situazioni di crisi, e il nuovo presidente dovrà risolvere questi problemi. Noi consideriamo il prossimo presidente come un presidente di transizione: si troverà ad affrontare molte difficoltà; i prossimi cinque anni saranno una sorta di periodo di transizione. Noi pensiamo che i risultati della rivoluzione si vedranno tra cinque anni, dopo il mandato di questo presidente.

    D. – La campagna elettorale ha avuto l’effetto di dividere la popolazione egiziana. Pensa che questa polarizzazione possa influire sulle sorti del Paese, anche dopo il voto?

    R. – For sure! I think now it’s the political life after the revolution, …
    Sicuramente! Penso che ora, però, sia il tempo della vita politica dopo la rivoluzione, anche se ci sono molti estremismi politici. Credo che la divisione, oggi, non sia un fenomeno strano, e credo che nemmeno la divisione tra partiti politici, dopo l’elezione del presidente, sia strana. Credo che la stabilità e la differenziazione dei partiti politici si costruiranno giorno dopo giorno e anno dopo anno …

    D. – Lei pensa che queste divisioni possano avere conseguenze per quanto riguarda le condizioni di vita delle minoranze, in particolare delle minoranze religiose?

    R. – We have many debates on religious issues, …
    Ci sono molte discussioni sull’aspetto religioso, che ha un suo peso nelle elezioni presidenziali; ma non credo che sia un pericolo per l’Egitto. Molti hanno paura di partiti religiosi come i Fratelli Musulmani e i Salafiti, ma penso che questo problema si risolverà un po’ per volta.

    D. – Come le persone che hanno partecipato alle proteste di piazza Tahrir possono far sentire la loro voce? Non hanno un unico candidato alle elezioni presidenziali…

    R. – This problem, that the revolutionary voices are divided …
    Questo problema, che le voci della rivoluzione sono divise tra Sabbahi e Abul Fotouh, si verifica perché i due si sono rifiutati di unirsi. Giorno dopo giorno, abbiamo condotto campagne elettorali contro i candidati del precedente regime e per aumentare la presa di coscienza da parte delle persone. Se il candidato rivoluzionario non sarà eletto, penso che ci sarà una situazione politica molto instabile, un lungo tempo di manifestazioni, ancora, che potrebbe portare ad una nuova, ad una seconda rivoluzione.

    D. – Secondo lei, quali sono i prossimi passi che l’Egitto deve fare per rafforzare il suo sistema democratico?

    R. – The presidential election has been our dream for many years, so …
    Le elezioni presidenziali sono state un sogno per tanti anni, e quindi penso che siano un primo passo – ed un passo giusto – verso una democrazia reale. Come passo successivo, tutti i movimenti rivoluzionari stanno esercitando pressioni per allontanare i militari dai posti di governo e costruire un nuovo sistema politico, e anche perché la società egiziana prenda coscienza, e perché sia aiutata nello sviluppo. Su questo lavoreremo dopo le elezioni presidenziali.

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    Algeria. L’opposizione si divide e pensa alla formazione di un parlamento alternativo

    ◊   Sale la tensione in Algeria. Quattordici dei venti partiti usciti sconfitti dalle elezioni legislative del 10 maggio, hanno deciso di boicottare il nuovo parlamento e hanno dichiarato l’intenzione di crearne uno alternativo. Sul fronte dell’opposizione L'Alleanza verde (che riunisce tre formazioni politiche confessionali) e il Fronte delle forze socialiste si sono, comunque, dissociate. Intanto si attende in giornata il pronunciamento del Consiglio costituzionale sui 167 ricorsi, contro l'esito delle consultazioni che hanno visto la netta conferma del partito Fln del presidente Abdelaziz Bouteflika. Massimiliano Menichetti ha raccolto il commento di Giampaolo Calchi Novati, docente di storia moderna e contemporanea dell'Africa all'Università di Pavia:

    R. – In effetti, ci si aspettava che le elezioni non fossero necessariamente confermative della situazione parlamentare e quindi politica dell’Algeria. Sembrava un po’ scontato che anche l’Algeria si avviasse ad avere un sistema politico in cui gli islamisti avrebbero avuto un ruolo centrale. Non è stato così: gli islamisti hanno avuto molti meno voti, quindi molti meno deputati, di quanto non ci si aspettasse. Però, non sempre il risultato inatteso è risultato frutto di brogli. L’Algeria sta attraversando una fase di transizione; Bouteflika è probabilmente sulla via del tramonto, abbandonerà – probabilmente alla fine dell’ultimo mandato – e ci sarà un po’ di riassetto, dentro il Fln (Front de Libération Nationale) e fuori del Fln, tra gli arabi, i berberi, gli islamici e i non islamici.

    D. – Ma l’Algeria è stata coinvolta dalla Primavera araba?

    R. – Ci sono stati, effettivamente, anche in Algeria dei movimenti politici che però sono stati contenuti e soprattutto sono stati incanalati verso questa istituzionalizzazione del mondo della politica che da parecchi anni è in corso, in Algeria.

    D. – In che contesto, dunque, si sono svolte queste elezioni?

    R. – Queste elezioni sono accadute, forse, in un momento un po’ infelice, nel senso che sono state un po’ condizionate dal contesto generale del Maghreb. L’Algeria ha, come governo, come Paese, come nazione dei contesti di stretta difesa della propria autonomia. Fra tutti i Paesi arabi – sicuramente di tutti i Paesi del Maghreb – è quello che più ha risentito di ciò che è successo in Libia. Per l’Algeria sarebbe un vero problema una Libia troppo filo-francese e quindi l’opinione pubblica potrebbe anche aver dimostrato, in questo voto, questa fase di attesa per segnare, in un certo senso, una certa continuità con il Fln che rappresenta pur sempre il baluardo dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Algeria.

    D. – Sabato prossimo ci sarà la prima seduta del Parlamento. I cosiddetti partiti ribelli hanno ottenuto 21 seggi su 462 e minacciano la creazione di un’altra Assemblea …

    R. – Che una pletora di partitini si trovi scontento, mi sembra che non possa costituire veramente una causa di una crisi costituzionale. Se così fosse, sarebbe il segno che le istituzioni dell’Algeria sono molto più deboli di quanto non ci si aspettasse o non ci si aspetti. Il fatto che sia i partiti islamisti, sia il Ffs (Front des Forces Socialistes) non seguono questa deriva di contestazione delle elezioni, mi lascia qualche speranza che l’Algeria resti dentro questi canali politici legittimi che sono in grado di risolvere i problemi.

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    Palermo, celebrazioni per i 20 anni di Capaci. Interviste a Maria Falcone e Alfredo Morvillo

    ◊   “La mafia e le altre espressioni della criminalità organizzata rimangono un problema grave della società italiana e dunque della democrazia italiana”. È una delle affermazioni del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, oggi a Palermo per partecipare alle celebrazioni per il 20.mo anniversario della strage di Capaci, nlela quale persero la vita i giudici Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Il servizio, da Palermo, di Alessandra Zaffiro:

    Quel pomeriggio del 23 maggio del ’92, i palermitani capirono subito che era successo qualcosa di grave. Tante, troppe le auto delle forze dell’ordine che sfrecciavano all’impazzata verso l’aeroporto. L’eco delle sirene – che spezzava la quiete di un caldo quasi afoso quel sabato – non era quella alla quale erano abituati delle auto di scorta, delle quali qualcuno si era pure lamentato perché disturbavano la siesta del primo pomeriggio. Anche i numerosi elicotteri che si erano alzati diretti a nord della città, verso Punta Raisi – che successivamente alle stragi, prenderà il nome di aeroporto “Falcone e Borsellino” – anticiparono il triste presentimento, poi confermato dai telegiornali. Alle 17,58, all’altezza di Capaci, 500 chili di tritolo di Cosa nostra avevano fatto esplodere l’orrore, sventrando l’autostrada e uccidendo i giudici Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani che, in una lotta disperata contro il tempo e la morte, vengono trasportati negli ospedali della città, proprio su quegli elicotteri. A Palermo la notizia della strage accende la resistenza civile della gente che, indignata, scende in piazza e stende sui balconi i lenzuoli bianchi sui quali si leggono le parole di Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.

    Venti anni dopo, oltre 2.600 ragazzi provenienti da tutta Italia, che all’epoca della strage non erano neanche nati, sotto una pioggia battente, accolti da circa 20 mila studenti delle scuole siciliane e dall’inno nazionale eseguito dalla fanfara dei Carabinieri, sono sbarcati a Palermo dalle navi sulle quali erano affisse le gigantografie di Falcone e Paolo Borsellino con il loro carico di entusiasmo, i cartelloni variopinti ma, soprattutto, con la voglia di ribadire il loro “No alla mafia”. Hanno viaggiato un pomeriggio e una notte sulle navi della legalità, ricordando i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, con particolare emozione, Melissa, la studentessa uccisa nell’attentato a Brindisi. “Non abbiamo paura”, ripetono i giovani, tra i quali anche le compagne di classe di Melissa. Una di loro, Aurora, spiega: “Siamo venute qui per ricordare Melissa e per rappresentarla. Ma anche per dire a tutti che la nostra scuola non deve essere un luogo dove andare a curiosare, ma un posto che ricordi quello che è accaduto perché non si ripeta mai più”. Con loro, a bordo, Maria Falcone, sorella del giudice, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il procuratore nazionale Antimafia, Pietro Grasso, e il presidente di Libera, don Luigi Ciotti che, assieme alle scolaresche, si sono riuniti nell’aula bunker del carcere Ucciardone dove si tenne il maxiprocesso a “Cosa nostra”, per assistere alle celebrazioni istituzionali cui hanno partecipato, tra gli altri, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio, Mario Monti, il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, e della Giustizia, Paola Severino, oltre al cardinale arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo.

    All’aula Bunker, anche una rappresentanza dell’Fbi americana che sul proprio sito Internet ricorda Falcone. “La mafia e le altre espressioni della criminalità organizzata rimangono un problema grave della società italiana e dunque della democrazia italiana. Dobbiamo perciò noi tutti proseguire con tenacia e determinazione sulla strada segnata con il loro sacrificio da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, ha detto il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel suo intervento nell’aula bunker dell’Ucciardone. Il presidente ha incontrato i parenti delle vittime della mafia, ha ricordato Melissa Bassi e ha aggiunto: “Una cosa è certa: questi nemici del consorzio civile e di ogni regola di semplice umanità avranno la risposta che si meritano. Se hanno osato stroncare la vita di Melissa e minacciare la vita di altre sedicenni, aperte alla speranza e al futuro – ha detto il Presidente Napolitano – se lo hanno poi fatto a Brindisi, in quella scuola, per offendere la memoria di una donna coraggiosa, di una martire, come Francesca Morvillo-Falcone, la pagheranno, saranno assicurati alla giustizia”. “E se hanno pensato di sfidare questa stessa commemorazione – ha affermato ancora – stanno già avendo la vibrante prova di aver miseramente fallito”. Attenzione, ha poi precisato: “Siamo preoccupati per la persistente gravità della pressione e della minaccia mafiosa, non la sottovalutiamo ma ci sentiamo ben più forti che in quei tragici momenti del 1992. Ben più forti per la crescente mobilitazione di coscienze e di energie che si è venuta realizzando nel nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che cosa è stato il dilagare nelle scuole di tutta Italia dell’educazione al valore della legge, al rispetto della legge e della Costituzione come garanzia di libertà e di pacifica convivenza civile e di ordinato progresso sociale e, come nello stesso tempo, si è venuto affermando nello stesso mondo imprenditoriale siciliano la cultura delle regole”. “Non bisogna mai stancarsi di cercare la verità sulle morti di Falcone e Borsellino – ha dichiarato il presidente del Consiglio, Mario Monti – non esistono ragioni di Stato che possano giustificare ritardi nella ricerca della verità”. “La memoria non ci deve abbandonare – ha detto il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso - Su quella dobbiamo costruire il futuro. Per fare piena luce sulle stragi del ’92 serve la collaborazione di chi sa, di quelli che ancora non hanno detto tutto”.

    Secondo Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta, che ha riaperto le indagini sulle stragi del ’92, “le novità nelle indagini sulla strage di Capaci non metteranno in discussione le verità già acquisite, ma ci consentiranno di individuare responsabilità finora non individuate perché nell’inchiesta restano molti buchi neri. Resta il fondato sospetto, però – ha ribadito – che ci furono talpe nelle istituzioni che diedero informazioni sugli spostamenti di Falcone”. “La società civile nella consapevolezza della legalità è più avanti della politica che non ha ancora fatto piazza pulita”, ha detto Maria Falcone, sorella del giudice antimafia. “Oggi – ha soggiunto – dopo la stagione delle stragi c’è una nuova stagione perché tutto è cambiato”. E ai ragazzi ha inviato questo messaggio. “Non dobbiamo permettere alla violenza di uccidere i vostri e i nostri sogni”. “Più scuola, meno mafia”, è stata l’esortazione del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per il quale quella di oggi a Palermo “è una giornata importante ma sicuramente solo uno di quei 365 giorni l’anno in cui la scuola porta il suo contributo alla legalità”. Nell’aula bunker hanno parlato anche due compagne di classe della studentessa uccisa a Brindisi: “Vivremo per te Melissa – hanno detto Aurora e Chiara – non lasceremo che la tua voce sia stroncata dal niente”.

    Presente all’aula bunker anche il cardinale di Palermo, Paolo Romeo, secondo il quale “ancora oggi vale il monito del cardinale Pappalardo che nel ’92 chiedeva di fare pienamente luce su quanto è accaduto dopo le stragi. Ancora oggi – ha insistito –è ancora valido quel monito: fare pienamente chiarezza sulle ombre di quella terribile stagione”. Il presule si è poi rivolto ai giovani: “Continuate a essere luce, non accettate di cadere nel fango ma fate rinascere la vostra terra”. Per don Luigi Ciotti, presidente di Libera, giunto a Palermo con una delle navi della legalità, “la lotta alla mafia si fa nei vari territori, ma va fatta soprattutto a Roma, con le leggi giuste, attente e puntuali e non mettendosi i bastoni tra le ruote”.

    Tante le iniziative in città per ricordare le vittime della strage di Capaci. Alle 9.30, il Memorial dedicato a tutte le vittime della mafia siciliana promosso dall’Unione nazionale cronisti, nel Giardino della memoria a Ciaculli, in un terreno confiscato al boss Michele Greco, alla presenza del premier Monti, del ministro degli Interni Cancellieri e del capo della polizia, Antonio Manganelli. Il presidente Napolitano si è recato in Via D'Amelio per rendere omaggio al giudice Paolo Borsellino e alla caserma della Polizia di Stato, Lungaro, per deporre una corona di fiori alla lapide del reparto scorte. Alle 17.00, la mostra fotografica dal titolo “Falcone e Borsellino vent’anni dopo. Non li avete uccisi, le loro idee cammineranno con le nostre gambe”, realizzata dall’agenzia Ansa a Palazzo Branciforte, restaurato da Gae Aulenti. Nel pomeriggio, inoltre, partiranno due cortei: uno dall’aula bunker e l’altro da via D’Amelio, in cui 57 giorni dopo morirono Borsellino e gli agenti di scorta, per ricongiungersi sotto l’albero “Falcone” dove, alle 17.58, ora della strage, verrà suonato il “Silenzio” dal trombettiere della Polizia di Stato. Alle 21, infine, la “Partita del cuore” tra la nazionale magistrati e quella dei cantanti.

    Quello di oggi è dunque un anniversario particolarmente sentito e partecipato non solo dalla Sicilia, ma da tutta l’Italia. Francesca Sabatinelli ha chiesto in che modo lo stia vivendo ad Alfredo Morvillo, procuratore di Termini Imerese e fratello della moglie di Giovanni Falcone, Francesca, morta con lui nella strage di Capaci:

    R. – Non lo vivo in maniera diversa rispetto agli altri, ma devo dire che lo vivo con una certa consapevolezza perché in effetti, dopo 20 anni, c’è ancora tanto da fare perché si possa avviare verso il completamento il lavoro iniziato da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e da tutte quelle persone che hanno perso la vita per il loro impegno nella lotta alla mafia. Partecipare a queste celebrazioni e a questi ricordi ha indubbiamente un valore. Però, se ci fermiamo a questi meri rituali, non rendiamo realmente onore alle persone che hanno sacrificato la loro vita. Bisogna andare molto oltre: bisogna seriamente chiedersi se tutti hanno dato quel piccolo o grande contributo che serve per completare il lavoro iniziato da loro.

    D. – Noi sappiamo quello che, in questi 20 anni, è stato il cammino della lotta alla mafia proprio grazie a Giovanni Falcone ed a Paolo Borsellino. Ma oggi che cosa si può dire del contrasto alle cosche in Italia?

    R. – L’ambito di operatività proprio dei giudici Falcone e Borsellino – cioè il momento del contrasto giudiziario, il cosiddetto “momento repressivo della lotta alla mafia” – è stato brillantemente proseguito dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma la lotta alla mafia non si esaurisce con il contrasto giudiziario. La lotta alla mafia richiede dell’altro, un coinvolgimento di tutti per superare una certa arretratezza culturale e morale. Borsellino diceva che la lotta alla mafia non è soltanto un problema di repressione, ma è un problema di rivoluzione culturale e morale. Tutto questo ancora non c’è. Possiamo sicuramente registrare dei grandi passi avanti fatti da una parte della società civile, però non riusciamo ancora a fare il grande passo, che è quello di incidere seriamente sulle relazioni esterne della mafia: quella, per così dire, “borghesia mafiosa”, l’area “grigia” o come vogliamo definirla. Questo è un ostacolo che, in questo momento, non viene affrontato nella maniera più adeguata. Ed è un ostacolo che consente a Cosa Nostra di continuare a svolgere tutta la sua attività, di infiltrarsi nelle istituzioni, nell’economia, in ambienti degli affari e della politica. Senza queste relazioni esterne, la mafia ben difficilmente potrebbe inserirsi e inquinare la vita di questa terra e, ben al di là della Sicilia, di tutto il Paese e, molto spesso, anche al di fuori di esso. Ecco perché, in qualche occasione, ho auspicato degli interventi legislativi che impediscano alle persone che non sono al di sopra di ogni sospetto di accedere a certe cariche istituzionali, cariche rappresentative del popolo. La società civile dovrebbe quantomeno reagire emarginando queste persone. E invece, qui queste persone vengono “coccolate”, corteggiate… La gente è affascinata da loro perché, spesso, appartengono al mondo del potere, sono persone in vista e così via. La società civile, quindi, non riesce a superare questo problema e la politica nemmeno. Non trova la forza di fare pulizia al suo interno. Si trincera dietro le assoluzioni, alle archiviazioni o alle sentenze di giudici che non sono attendibili. Ecco perché, ormai, non possiamo sperare in altro che in un intervento legislativo, una forza cogente di una norma che impedisca, a certa gente di assumere certe cariche.

    D. – Suo cognato Giovanni, per molto tempo, è stato al centro di forti polemiche e oggetto di veleni. Molti dei suoi detrattori erano proprio all’interno al Palazzo di giustizia di Palermo. Che reazione ha oggi lei nei loro confronti? Sono colleghi che lei incontra regolarmente…

    R. – Questa che lei fa è una considerazione esatta. Io ho vissuto l’epoca in cui questi colleghi, definiti detrattori, di Giovanni non esitavano a manifestare certe loro opinioni sul conto del dottor Falcone, anche in mia presenza. Si figuri dopo il 23 maggio del 1992 che cosa ho provato. Nel tempo, naturalmente, certe forti emozioni del momento iniziano ad affievolirsi. Però, ovviamente, non si dimentica nulla: non è soltanto un problema di detrattori, ma un problema di gente che proprio si è adoperata per mettere, a volte, i bastoni tra le ruote a delle legittime aspirazioni del dottor Falcone. Tutte queste persone sono colleghi che, nel tempo, hanno dato dimostrazione della loro professionalità, ma è tutta gente che non ha mai avuto il coraggio e lo spessore umano, dopo tanti anni, di prendere la parola per dire: ‘Oggi, dopo 20 anni, mi rendo effettivamente conto che abbiamo sbagliato perché il dottor Falcone non avrebbe meritato questi ostacoli ma avrebbe invece meritato il nostro appoggio’. Questo non accade ed è qualcosa di molto triste, perché significa che ci possono essere delle grandi professionalità ma, per essere uomo, serve anche dell’altro.

    Proprio in coincidenza con il 20.mo anniversario della strage di Capaci, Maria Falcone, presidente della "Fondazione Giovanni e Francesca Falcone", sorella del magistrato assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992, ha pubblicato con la giornalista Francesca Barra il libro "Giovanni Falcone, un eroe solo". Fabio Colagrande l'ha intervistata:

    R. – Grandissima fu la lotta contro un sistema che, sino ad allora, nessuno aveva voluto toccare. Un sistema che non significava soltanto mafia, ma anche connubi vari tra pezzi della società e la mafia stessa. Era quindi qualcosa che era rimasto sempre intoccabile: i processi contro i mafiosi spesso, o quasi sempre, finivano con assoluzioni per insufficienza di prove. Quello che invece Giovanni riuscì a fare fu l’inventarsi un metodo, il modo per seguire la mafia: è quello che viene chiamato il “metodo Falcone”, che non è altro che la scrupolosa attenzione a tutte quelle che possono essere le prove per poter incastrare chi è mafioso o chi ha commesso un determinato delitto. Ecco perché il suo metodo è stato tanto apprezzato e celebrato in America dai giudici statunitensi e dall’Fbi americana, con la quale collaborò nel corso della sua vita. E’ stato questo suo nuovo metodo che ha permesso di andare tanto avanti nelle indagini antimafia.

    D. – Parlando nel libro di un eroe solo, parlate però, in qualche modo, di un certo isolamento ed ostracismo che Giovanni Falcone subì negli anni che precedettero l’attentato di Capaci…

    R. – ‘Solo’ è una parola molto delicata, perché Giovanni non fu solo. Fu contrastato, combattuto, venne visto come il nemico numero uno da combattere. E questo, è doloroso dirlo, anche da parte della magistratura stessa, che vedeva in lui l’eccezione: l’uomo che, pur non avendo mai fatto carriera - perché non ebbe alcun beneficio dal proprio lavoro - si pensava che potesse quasi sostituire il merito all’anzianità. E quindi, anche quello doveva essere combattuto.

    D. – Falcone che eredità lascia, oggi, a 20 anni di distanza, a coloro che sono impegnati contro la mafia e ai giovani?

    R. – Ai magistrati credo abbia lasciato tutto un metodo di lavoro. Ha lasciato la possibilità di combattere la mafia in una determinata maniera: ha fatto abbattere il segreto bancario, ha fatto capire cosa significa scientificità nelle indagini, ha fatto capire che bisogna collaborare, essere uniti anche nelle indagini. Aveva creato quella "super-procura" che fu il suo ultimo, grande dolore e, per certi versi, la sua sconfitta, proprio perché diceva sempre che bisognava coordinare le indagini, avere una veduta d’insieme, non considerare i vari fatti come accaduti in un posto e conclusisi in un altro. Era proprio la veduta d’insieme a mancare, prima, nella lotta alla mafia e Giovanni la lascia come possibilità per combatterla meglio. Per i giovani è un patrimonio infinito. A loro lascia soprattutto quella che era la sua ‘religione del dovere’: il dire loro che ognuno deve fare la propria parte, costi quel che costi ed affrontando qualsiasi sacrificio. Questa l’ho definita ‘religione’ non nel senso comune ma perché per lui era fondamentale nella vita di ogni giorno.

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    Assemblea Cei. Mons. Sanna: laici non collaboratori ma corresponsabili

    ◊   “Gli adulti nella comunità: maturi nella fede e testimoni di umanità”. È il tema centrale della 64.ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), in corso in Vaticano fino al 25 maggio prossimo, sul quale oggi ha riferito in conferenza stampa mons. Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano. Il presule ha quindi ribadito che sulla questione degli abusi sui minori c'è una condanna "senza se e senza ma". Il servizio di Marco Guerra:

    I vescovi italiani rivolgono le loro attenzioni al mondo degli adulti e agli elementi che mettono in crisi i suoi modelli di esemplarità, confrontandosi sui temi posti al centro della relazione di mons. Ignazio Sanna: la maturità della fede e la testimonianza di umanità. Ma cosa s’intende per fede adulta? L’arcivescovo di Oristano fuga subito ogni dubbio facendo distinzione fra le stagioni dello spirito e quelle del corpo. A prescindere dall’età, è infatti "adulta" quella fede capace di fare esperienza di Dio e di rendere contemporaneo Gesù come spiega lo stesso presule:

    "Uno può essere erudito o può avere anche scritto una enciclopedia su tutto quello che riguarda lo scibile della fede, ma non vivere la fede. Dunque, qui si parla appunto di esperienza, cioè di far sì che ciò che è una verità diventi uno stile di vita perché altrimenti rimane una pura conoscenza, una pura idea. Occorre far vedere che c’è in qualche modo una visibilità nel suo comportamento e nel suo stile, nelle sue scelte, a partire da una convinzione di fede, da una vita di fede”.

    Per raggiungere questo obiettivo, mons. Sanna esorta a tendere al primato della grazia, al richiamo dell’oltre per superare l’orizzonte materiale finito della vita terrena e a quella che chiama la “santità sociale” rivolta al mondo che soffre. È importante quindi che gli adulti nutrano la loro fede, perché spetta loro trasmetterla alle nuove generazioni attraverso l’esemplarità dei modelli positivi. Per questo, il presule auspica un’alleanza e non la competizione fra le principali agenzie di senso: Famiglia, scuola e comunità.

    Richiamandosi alla parole del pronunciate Papa all’udienza generale, mons. Sanna si è poi soffermato sulla scomparsa della figura paterna che genera problemi a relazionarsi con il “Dio padre”. Più in generale, gli adulti devono ritrovare il coraggio di definirsi tali per non scadere in un giovanilismo esasperato che disorienta i figli. Tutte le stagioni della vita sono importanti – ha aggiunto – e non bisogna mai livellare autorità e reciprocità. Per questo diventa fondamentale seguire il fedele anche dopo l’adolescenza:

    “Attualmente, spesso si ha un indirizzo 'puero-centrico': cioè noi prepariamo i giovani alla prima Comunione, alla Cresima, e poi sembra che diamo il 'congedo'. Non è così, la vita deve essere vissuta in tutte le circostanze, in tutte le stagioni, con l’accompagnamento e con le motivazioni che la fede ti dà”.

    L’appello di mons. Sanna all’assunzione di responsabilità si conclude chiamando in causa il laicato come corresponsabile della vita della Chiesa:

    “Far sì che ogni fedele si senta non solamente responsabile, ma corresponsabile. Non è un collaboratore, ma lo slogan è: passiamo dalla collaborazione alla responsabilità. Uno che collabora è in una situazione di dipendenza, perché chi decide è uno e l’altro collabora. Se io parlo di corresponsabilità, ci mettiamo tutti attorno a un tavolo, decidiamo insieme. Occorre avere questo senso di corresponsabilità e di condivisione”.

    Al termine della conferenza stampa, mons. Sanna ha ribadito che da parte dei vescovi sulla questione degli abusi sessuali sui minori, ''non c'è nessuna indulgenza, c'è una condanna senza se e senza ma. Sono reati che vanno puniti e sanzionati in modo esemplare''.

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    Fecondazione eterologa. Carlo Casini: rispettare scelte del parlamento con Legge 40

    ◊   Si valuti la sentenza della Grande chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo dello scorso 3 novembre, secondo cui il divieto di fecondazione eterologa non viola la Convenzione dei diritti dell’uomo. Questa l’esortazione con cui ieri la Corte Costituzionale ha restituito gli atti ai tre tribunali che avevano sollevato la questione della legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Tale articolo fissa il divieto di fecondazione eterologa, ossia con ovociti o gameti non appartenenti alla coppia. Su questo pronunciamento della Corte Costituzionale, Amedeo Lomonaco ha chiesto un commento all’europarlamentare Carlo Casini, presidente nazionale del Movimento per la Vita:

    R. – Resta il divieto di fecondazione eterologa. La Corte fa riferimento alla sentenza della Grande camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: gli Stati possono legiferare come credono. Anzi, fa anche l’esempio di divieto assoluto di ogni forma di fecondazione eterologa oppure di un divieto parziale, come in Austria e in Germania. Questo significa che non c’è violazione dei diritti umani, perché se ci fosse una violazione, certamente gli Stati non sarebbero liberi.

    D. – Si lascia agli Stati la valutazione sulla fecondazione artificiale. Questa posizione legittima quindi le scelte fatte in Italia con la legge 40…

    R. – E’ chiaro, questa è la soluzione razionale di queste decisioni, che del resto deriva in modo diretto da ciò che ha detto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La valutazione – se c’è una violazione dei diritti del bambino o dei genitori – la deve fare il parlamento e il parlamento l’ha fatta. E bisogna rispettarla.

    D. – Un diritto che dobbiamo ribadire, quando si affrontano tali questioni, è quello di un’identità genetica, giuridica, affettiva, rispettando sempre il principio della certezza delle relazioni familiari…

    R. – Infatti, in tutta questa vicenda ciò che mi rattrista è che nessuno tiri fuori il tema del bambino nascituro. La legge 40 dice che “bisogna tener conto degli interessi di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Ci sono dei suoi interessi, dei suoi diritti o no? Cos’è il meglio per un bambino che si va, oltretutto, a generare artificialmente, cioè attraverso una possibilità di controllo totale? Qual è il meglio per questo bambino? Avere dei genitori che sono dei genitori tutti e due, anche biologicamente? Sapere quali sono le sue origini? Non rompere il nesso che lo lega, non solo ai genitori, ma ai nonni, ai bisnonni, agli zii, ai fratelli? E’ un nesso genetico: in ogni bambino che nasce, è riassunta – attraverso il genoma – tutta la linea ascendente e collaterale, che gli conferisce un’identità precisa. Rompere tutto questo artificialmente, è un bene o un male? E quando c’è una paternità e maternità legale, zoppicante – perché uno è la madre biologica e l’altro è padre non biologico, o viceversa – cosa succede in caso di crisi familiare? Sono tutta una serie di questioni complicate che è bene siano risolte dal legislatore, come ha fatto già il legislatore italiano e lo ha fatto bene.

    D. – Anche per questo, l’interesse del nascituro deve sempre avere la precedenza su quelli che sono i desideri degli adulti…

    R. – Ma è normale. Faccio anche un altro esempio: quando c’è un disastro in mare, si salvano prima i bambini e poi gli adulti, è sempre così. E’ inutile che ci vengano a dire che le coppie, poverette, devono andare all’estero... Certo, il desiderio di avere un figlio è un fatto positivo, però con la procreazione eterologa si pretende invece che un padre ed una madre - entrambi o l’uno o l’altro - generino un figlio e l’abbandonino subito, quindi è proprio un caso di abbandono legale del figlio. La nostra Costituzione, all'art. 30, afferma che i genitori hanno l’obbligo di mantenere il figlio, e non di "regalarlo" ad altri. C’è poi un altro argomento, che non è venuto fuori ma è molto importante: la legge sui trapianti dice che si può trapiantare tutto, purché non si provochi la morte del donatore, ma che non si può fare trapianti di cervello e di organi genitali, di gonadi. Perché non si possono donare? Perché alterano una linea germinale, perché cambiano l’identità delle persone. Quindi, il principio è questo: prima di tutto, guardare ai diritti ed agli interessi del figlio – come dicono le carte sui diritti del bambino – dopodiché, se si può armonizzare con l’interesse, giusto e lodevole, di avere un figlio, si cerca di armonizzarlo, ma non sacrificando i diritti e gli interessi del bambino.

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    Pellegrinaggio dei giovani di Roma a Lourdes: intervista con mons. Cozzoli

    ◊   In vista del pellegrinaggio dei giovani di Roma a Lourdes, dal 27 al 31 agosto, si terrà questa sera, presso l’aula Tiberiade del Pontificio Seminario Romano Maggiore, la catechesi sul tema “Il sì del giovane di oggi”. L’incontro, guidato dal cardinale Angelo Comastri, conclude l’iter preparatorio all’evento agostano, cui parteciperanno circa 200 giovani. Si tratta del primo pellegrinaggio organizzato dal Servizio diocesano per la pastorale giovanile di Roma che impegnerà i ragazzi in un particolare “ritiro spirituale” fatto di meditazioni, preghiera personale, catechesi e riflessioni, nei luoghi di Bernadette Soubirous. Gina Maradei ha intervistato uno dei relatori delle catechesi introduttive, mons. Mauro Cozzoli, docente di teologia morale alla Pontificia Università Lateranense e direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano Maggiore:

    R. – Questo percorso verso Lourdes, che parte dal ‘sì’ di Maria, il ‘sì’ originario, fontale, che viene delineato davanti alla coscienza del giovane, è un modello che dice di una relazione dialogica del giovane con Dio. Dio, quindi, non è il giudice o, addirittura, il padrone che si impone arbitrariamente, ma l’esperienza di vita di Maria dice come Dio è il Padre che chiama. Dio ha un disegno e fa conoscere questo disegno. Non lo impone ma lo propone. Proponendolo, chiama, e chiamando, attende una risposta. Ecco la risposta di Maria: un ‘sì’ che dice consenso, che dice adesione, che dice fedeltà, che dice ubbidienza a Dio. Dal ‘sì’ di Maria all’esperienza propria dell’evento di Lourdes, dove troviamo Bernadette: questa giovane, umile, semplice e piccola pastorella a cui si rivolge Maria. Maria è mediatrice del disegno di Dio e allora Bernadette si rapporta alla mediazione e all’annuncio di Maria, Bernadette dice il suo ‘sì’ a Maria. Il ‘sì’ detto da Bernadette a Maria ci fa scoprire il ruolo di Maria nella Chiesa, e quindi nella vita di ogni cristiano. Maria è la madre di Gesù e in Gesù diventa la madre nostra. E’ una madre che viene a porsi tra Dio e noi.

    D. – Ripercorrere i luoghi di Bernadette significa ripercorrere, quindi, i luoghi di una fedeltà forte e di un coraggio sempre gioioso. In un momento, come quello di oggi, di spaesamento e di grandi incertezze, si riesce a discernere e ad accettare la propria vocazione?

    R. – Bisogna innanzitutto sentirla questa vocazione, sentirla questa chiamata. E allora, aiutare i giovani a concepire la vita cristiana, a concepire la fede, a concepire la vita tout court, in se stessa, come vocazione e come chiamata. L’esperienza di Lourdes, anche l’esperienza fisica di Lourdes con tutto ciò che quei luoghi evocano, può essere fortemente significativa per i giovani, nel comprendere questa dinamica dialogica della nostra fede. In Dio c’è un’iniziativa e l’iniziativa è sempre di Dio. Ma la sua iniziativa di grazia e di dono non è mai senza la libertà con cui noi ascoltiamo, accogliamo e rispondiamo. E’ una grande scuola: la libertà onnipotente di Dio si è fermata di fronte alla libertà di Maria. La libertà onnipotente di Dio si ferma davanti alla nostra libertà.

    D. – La figura di Maria quanto è vicina ai giovani?

    R. – Maria é tanto più vicina a noi, ai giovani, quanto più la umanizziamo. Non è una dea, è una creatura divina su cui Dio ha avuto un grande disegno. Lei, però, si è posta in dialogo con Dio, ed è questo che i giovani vogliono percepire e sentire, oggi: un Dio vicino non nella legge o nel giudizio della condanna. Ecco, da questo punto di vista Maria è icona: è nella sua forte umanità che i giovani si riconoscono.

    D. – Secondo lei, l’esperienza intensa che tanti ragazzi si daranno al possibilità di vivere come si porta, poi, nella quotidianità?

    R. – Cercando di far capire come la chiamata di Dio si concretizza giorno per giorno, facendo capire come c’è una chiamata, una vocazione unica e globale da parte di Dio, come c’è stata per Maria. E poi c’è una chiamata, una vocazione nella serialità, nella quotidianità di quello che avviene e di quello che capita. Allora è importante suscitare, nei giovani, uno sguardo, suscitare gli occhi della fede che aveva Maria, che significa saper leggere gli avvenimenti della vita giorno per giorno, con gli occhi stessi della fede con cui li ha letti Maria. E’ profondamente diverso interpretare, giudicare e decidere con occhi puramente mondani, secolari e decidere con gli occhi della fede, come Maria ci ha insegnato a fare in tutti gli eventi della sua vita, dai più gioiosi fino alla Croce.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Siria: tre civili cristiani uccisi nell’area di Homs

    ◊   I civili cristiani innocenti sono vittime del conflitto in corso in Siria. Nella cruenta zona di Homs, dove prosegue il conflitto armato, alcune famiglie cristiane hanno abbandonato il villaggio di Dmeyneh, interamente cristiano, che si trova sulla strada fra Qusayr e Homs. Come appreso dall’agenzia Fides, il villaggio è presidiato dalle forze dell’esercito siriano ma nei giorni scorsi colpi di mortaio di milizie ribelli lo hanno colpito, uccidendo tre civili cristiani: Hanna Skandafi, 60 anni; suo nipote George Skandafi, 14 anni, e Jessica Layyous, di 13 anni. Dopo i bombardamenti, una ventina di famiglie cristiane sono fuggite da Dmeyneh, sono attualmente sfollate e non sanno dove andare. Intanto alcune famiglie cristiane, che erano state cacciate dal villaggio Al Borj Al Qastal, nella provincia di Hama, sono tornate nel loro villaggio. Le forze dell’esercito siriano, infatti, hanno preso possesso della zona e gli abitanti cristiani del villaggio sono potuti rientrare nelle loro case. Lo riferiscono fonti nella comunità greco-cattolica locale. Come riferito a Fides, padre George Hosh, sacerdote greco-ortodosso, ha detto che “i fedeli hanno ripreso a pregare”, mentre “fedeli musulmani sunniti e alawiti dei villaggi circostanti hanno espresso la loro solidarietà, condannando tale incidente”. Abitanti locali affermano che “gli occupanti erano stranieri ed erano radicali islamici armati, che hanno sequestrato case in tutto il villaggio e requisito la chiesa per renderla il loro quartier generale”. Secondo padre George Hosh “erano militanti armati venuti dalla Turchia, ed altri estremisti islamici di Tunisia, Libia e Pakistan”. (R.P.)

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    Indonesia: attivisti di Sumatra chiedono di presentare all'Onu le restrizioni contro i cristiani

    ◊   Le restrizioni al culto, gli abusi della libertà religiosa, le crescenti intimidazioni verso i credenti perpetrate da gruppi radicali islamici in Indonesia, meritano di essere presentate al Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani: è quanto affermano attivisti per i diritti umani nell’isola di Sumatra, nel Nord dell’arcipelago. Di recente gruppi radicali islamici hanno costretto alla chiusura 17 fra chiese e sale di preghiera ad Aceh (nel nord di Sumatra), provincia in cui è in vigore la legge islamica. Episodi simili si registrano, come riferiscono fonti locali dell'agenzia Fides, anche nel Sud di Sumatra: nell’arcidiocesi di Palembang la comunità cattolica del villaggio di Muara Enim si è vista negare dalle autorità civili il permesso di costruire una chiesa, a causa del mancato benestare dei leader musulmani locali. In occasione della “Giornata del Risveglio nazionale” celebrata il 20 maggio, che in Indonesia è una festività nazionale in cui si ricordano i “Cinque Principi” (Pancasila) alla base della convivenza civile, gli attivisti lanciano l’allarme sul crescente numero di intimidazioni e restrizioni al culto verso i credenti delle minoranze religiose, soprattutto cristiani. “Oltre a violare i diritti umani, i divieti imposti arbitrariamente dagli estremisti dovrebbe essere affrontati penalmente. E’ necessario presentare reclamo al Consiglio Onu per i Diritti Umani” ha detto John Agus, attivista per i diritti umani di Medan, poco a sud di Aceh. “Siamo preoccupati perchè il governo e la polizia chiudono gli occhi, consentendo la violenza da parte di gruppi radicali. Questa è una macchia sulla leadership del presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono”. La polizia infatti, avrebbe tutti i mezzi per fermare minacce e attacchi contro le chiese, spiega Agus, ma spesso ci sono legami fra gli agenti e tali gruppi, che quindi agiscono indisturbati. “Le azioni intraprese da alcuni gruppi superano il teppismo: sono autentiche minacce alla sicurezza dei cittadini che praticano la loro religione. I funzionari governativi e di polizia che non intervengono sono anch’essi complici delle violazioni dei diritti umani” denuncia il leader. “Questo problema – conclude – se non affrontato in tempo, potrebbe minacciare la democrazia nel Paese. Tutti dovrebbero opporsi alla violenza dei gruppi radicali”, per preservare la Pancasila, il pluralismo e la tolleranza in Indonesia. (R.P.)

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    Africa Australe: i vescovi si impegnano a fornire osservatori nelle elezioni locali

    ◊   I vescovi dell'Africa australe uniscono le forze per monitorare le elezioni che si terranno in breve tempo in vari Paesi della regione. Lo afferma un comunicato inviato all’agenzia Fides dall’Assemblea inter-regionale dei vescovi dell'Africa Australe (Imbisa) che riunisce i vescovi di Sudafrica, Botswana, Swaziland, Lesotho, Mozambico, Angola, Sao Tomé e Principe, Namibia e Zimbabwe . “Chiediamo ai governi, in occasione delle elezioni che si terranno nella regione, di garantire condizioni che assicurino che il voto sia libero, equo e pacifico. Abbiamo visto nelle nostre comunità come la violenza e l'insicurezza incidano sulla vita quotidiana della gente comune, negando loro lo sviluppo tanto necessario e la capacità di condurre una vita decente” afferma mons. Franklyn Nubuasah, vicario apostolico di Francistown, in Botswana, e presidente dell'Imbisa. In occasione delle elezioni che si terranno in diversi Paesi della regione il prossimo anno, i vescovi dell'Imbisa hanno dunque preso l’impegno di operare come osservatori elettorali. I vescovi ricordano inoltre che è un dovere dei governi e dei partiti politici creare e mantenere la pace prima, durante e dopo le elezioni. Essi invitano la Southern African Development Community (Sadc) ad operare per garantire che i principi democratici da essa affermati e i suoi orientamenti sullo svolgimento delle elezioni, siano pienamente rispettati. Mons. Nubuasah sottolinea che “le elezioni sono un momento difficile e, come testimoni sul campo, la nostra speranza è che i nostri governi si adeguino a queste linee guida, in modo che la vita e la dignità di ogni singolo individuo possono essere rispettate”. “La Chiesa prega continuamente per la regione, mentre siamo chiamati ad agire in modo solidale e a lavorare per il rafforzamento della democrazia. Non possiamo permetterci di indietreggiare sui risultati che abbiamo ottenuto fino a questo momento” conclude mons. Nubuasah. (R.P.)


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    Centrafrica. L'arcivescovo di Bangui: contro l'insicurezza dare risposte ai giovani

    ◊   “Gli ultimi fatti violenti di Bafondo e Gofo sono emblematici di una situazione sempre incerta nelle regioni settentrionali del Centrafrica, nonostante la dissoluzione di uno dei principali gruppi armati. Ci sono ancora centinaia di giovani che non intendono deporre le armi, rappresentano mine vaganti per sé stessi e per le popolazioni delle zone rurali povere: vivono di racket e saccheggi ai danni dei civili. Dal punto di vista dei giovani armati è l’unico modo per sopravvivere senza un’alternativa solida e concreta per il loro reinserimento sociale”. Ad esprimere all'agenzia Misna la preoccupazione della Chiesa centrafricana per l’instabilità persistente di un’ampia area del territorio confinante con il Ciad è il nuovo arcivescovo di Bangui, mons. Dieudonné Nzapalaïnga. Domenica, secondo la ricostruzione dei fatti diffusa dall’emittente locale ‘Radio Ndeke Luka’, ribelli del generale ciadiano Baba Ladé, alla guida del Fronte popolare repubblicano, e pastori noti come Mbarara hanno attaccato due villaggi della regione di Batangafo, uccidendo quattro persone e rapendone altre due. Nell’assalto hanno saccheggiato cibo e altri beni di prima necessità oltre ad avere appiccato il fuoco a una cappella cattolica e a raccolti di cotone. Un migliaio di persone sarebbe fuggita in direzione del capoluogo di Batangafo. Un deputato locale, Ninga Wong Mallo, sostiene che la lotta per il possesso della terra, in un contesto globalmente insicuro, sta rendendo più difficile la convivenza tra pastori e agricoltori. Inoltre, negli ultimi mesi si è verificato un rincaro generalizzato dei prezzi del cibo, un fatto che ha reso ancora pù urgente la necessità di rilanciare l’agricoltura. “In una zona considerata il granaio del Paese, l’insicurezza quotidiana alimentata da innumerevoli gruppi armati ha acuito tensioni già latenti ma soprattutto continua a costringere le popolazioni ad abbandonare le attività agro-pastorali, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e ipotecando lo sviluppo economico di intere regioni” denuncia mons. Nzapalaïnga, che invita il governo del Presidente François Bozizé e tutte le formazioni ribelle a “dare prova di maggiore volontà nel dialogo e nel ristabilire la sicurezza nell’interesse globale” del Centrafrica. Negli ultimi mesi, “un po’ per mancanza di mezzi un po’ anche per minore volontà politica”, si è bloccato il programma per il disarmo e il reinserimento (Ddr) degli ex ribelli. “Anche se i capi dei movimenti decidono lo scioglimento, come nel caso dell’Esercito popolare per la restaurazione della democrazia (Aprd) di Jean Jacques Demafouth, – continua l’arcivescovo – non è detto che la base li segua e aderisca al programma. Purtroppo per molti giovani che hanno sempre vissuto con le armi in mano, continuare a impugnarle rappresenta la certezza di un guadagno maggiore rispetto alle indennità versate dalle autorità”. Secondo mons. Nzapalaïnga, serve “un progetto a medio-lungo termine che passi attraverso l’istruzione e la formazione professionale invece che attraverso una lotta per la sopravvivenza quotidiana che in tempi brevi priverà il Paese della sua risorsa principale: la gioventù”. (R.P.)

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    Darfur, limitazioni a Msf: in 100 mila senza assistenza sanitaria

    ◊   Almeno 100mila persone sono rimaste senza assistenza sanitaria nel nord del Darfur, la turbolenta regione sudanese dove da anni imperversa il conflitto tra i separatisti e le truppe di Khartum. In seguito alle crescenti limitazioni imposte dalle autorità sudanesi, l‘organizzazione Medici Senza Frontiere (Msf) è stata infatti costretta a sospendere gran parte delle attività mediche nello Jebel Si, nello stato del Darfur settentrionale. Msf è l‘unica organizzazione che fornisce assistenza sanitaria in quella zona. Negli ultimi tempi nessun invio di farmaci o di forniture mediche è stato più autorizzato, e Msf ha avuto sempre più difficoltà nell‘ottenere i permessi di lavoro e di viaggio per i propri operatori, ha riferito all'agenzia Sir Alberto Cristina, responsabile delle attività di Msf. Contemporaneamente, le possibilità di trasporto da e verso Jebel Si sono state interrotte. Attualmente Msf è in grado di garantire solo assistenza nutrizionale limitata, consulenze prenatali ed educazione sanitaria. “Se non ci viene permesso di garantire l’approvvigionamento di farmaci e forniture mediche al nostro ospedale e ai piccoli centri sanitari - avverte Cristina -, presto potrebbero scoppiare epidemie e aumentare i decessi di madri e neonati durante il parto, rischiando di raggiungere livelli di emergenza”. Msf chiede al governo del Sudan di garantire il supporto necessario a riprendere il lavoro svolto finora e fornire assistenza medica alla popolazione. (M.G.)

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    Sudan: massacro di profughi eritrei ed etiopi nel campo Onu

    ◊   È di almeno venti morti e un numero imprecisato di feriti, di nazionalità eritrea ed etiope, il bilancio provvisorio del massacro di rifugiati perpetrato ieri nel campo profughi di Scegarab, in Sudan, da parte delle forze dell’ordine incaricate di sorvegliare la struttura. La denuncia, raccolta dall'agenzia Sir, arriva da don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, al quale sono giunte testimonianze drammatiche dal campo gestito dall’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per rifugiati) in Sudan, tristemente noto perché qui vengono spesso rapiti i profughi eritrei poi venduti nel deserto del Sinai per chiedere un riscatto alle famiglie. Secondo la ricostruzione di don Zerai circa 300 persone accolte nel campo si sono presentate davanti agli uffici dell’Unhcr per chiedere “maggiore protezione contro i trafficanti”. La polizia avrebbe disperso il gruppo con gas lacrimogeni e proiettili veri, “uccidendo una ventina di persone. Molti i feriti gravi, ai quali sono state perfino rifiutate le cure mediche negli ospedali. Da tempo riceviamo segnalazioni di una collaborazione tra alcuni poliziotti sudanesi e i trafficanti che vengono a sequestrare le persone - denuncia don Zerai. Una risposta così violenta non aiuta ad allontanare il sospetto di complicità e connivenza. In un campo profughi sotto il mandato dell’Unhcr - afferma il sacerdote eritreo - non è accettabile un massacro del genere”. (M.G.)


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    Egitto: 12 copti condannati all’ergastolo. Critiche dagli esperti di diritto

    ◊   Ha sollevato le critiche di molti esperti di diritto e di attivisti per i diritti umani la sentenza di un tribunale egiziano che ha condannato 12 cristiani copti all'ergastolo e prosciolto otto musulmani. Il verdetto è arrivato ieri al termine di un procedimento chiamato a far luce sulle violenze interconfessionali dello scorso anno nella provincia di Minya, nel sud del Paese, a circa 220 km dal Cairo. Ishak Ibrahim, ricercatore e profondo conoscitore della giurisprudenza egiziana, sottolinea all'agenzia AsiaNews che "il proscioglimento degli otto imputati musulmani" mostra che "le indagini avviate fin dall'inizio dalla procura generale sono ingiuste e sbagliate" perché vi erano "prove evidenti di colpevolezza a loro carico, per aver dato alle fiamme proprietà cristiane". Gli imputati cristiani sono stati condannati per aver fomentato il disordine pubblico, possesso illegale di armi e l'omicidio di due musulmani. L'episodio è avvenuto nell'aprile del 2011 e ha contribuito ad acuire una situazione di profonda tensione interreligiosa nella zona dell'Alto Egitto, poi continuata nelle settimane successive. Le violenze sono iniziate quando un autista di minibus musulmano, innervosito per la presenza di limitatori di velocità all'esterno di una villa di proprietà di un ricco cristiano, si è scontrato con le guardie preposte alla sicurezza dell'abitazione. Al rientro nel villaggio di origine, il guidatore musulmano ha riunito un gruppo di persone per vendicarsi del presunto torto e delle violenze subite. Alla rappresaglia si sono uniti anche gruppi di estremisti islamici, che hanno circondato le case dei cristiani copti con il proposito di sferrare un attacco. Nel timore di venire sopraffatti, gli abitanti hanno aperto il fuoco dai tetti degli edifici uccidendo due persone fra la folla e ferendone altre due. Nei giorni seguenti, gruppi musulmani hanno incendiati dozzine di case e di negozi cristiani per vendicare i morti. Gli otto musulmani a processo erano imputati per possesso illegale di armi e per aver bruciato gli edifici cristiani. Tuttavia, il tribunale ha deciso per il proscioglimento dalle accuse. La sentenza emessa dai giudici del Tribunale per la sicurezza dello Stato non è appellabile e i 12 cristiani rischiano di trascorrere il resto della loro vita in prigione. Solo il Consiglio dei militari potrebbe - in una ipotesi peraltro assai remota - chiedere una revisione del procedimento. (M.G.)

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    America Latina-Caraibi. Dichiarazione sull'invecchiamento: violati i diritti degli anziani

    ◊   “I diritti delle persone anziane sono costantemente violati, nonostante tutte le questioni sollevate fino ad oggi. Alla gestione sociale che riguarda la vecchiaia e l'invecchiamento, manca la coerenza tra l’affermazione dei diritti e la loro applicazione. In questo contesto, gli anziani continuano a soffrire di molteplici discriminazioni, diversi tipi di abusi e violenze, povertà e mancanza di accesso alla giustizia”. E’ quanto afferma la “Dichiarazione di Tres Rios”, che solleva la necessità di considerare gli anziani come soggetti di diritti e promuove la creazione di una convenzione internazionale per i diritti delle persone anziane. Il documento scaturisce dalla riunione regionale sul tema “Invecchiamento Madrid +10: dal progetto all’azione”, che si è tenuta a San José, Costa Rica, dal 6 all’8 maggio, a cui hanno partecipato i rappresentanti del Programma Regionale per gli anziani in America Latina e nei Caraibi, Pram-Caritas; il Coordinamento delle Organizzazioni della Società Civile in America Latina e nei Caraibi in materia di invecchiamento (Corv); le Organizzazioni della società civile in Costa Rica. Un altro punto saliente della dichiarazione finale afferma: “Le politiche per la vecchiaia mancano di priorità e di budget stabili che le rendono inefficaci nella loro applicazione, quindi non è possibile seguire un piano preciso e neanche fare un controllo su di esse”. All'incontro - riporta l'agenzia Fides - hanno partecipato i rappresentanti di 19 Paesi che hanno cercato di dare un vero ruolo agli anziani, oltre ad avere l'opportunità di esprimere le proprie preoccupazioni, esigenze e proposte. I governi firmatari, nel frattempo, si sono impegnati a rafforzare la tutela dei diritti umani attraverso un trattamento differenziato e preferenziale, l'adozione di leggi speciali di protezione, un'attenzione prioritaria alla trasformazione dei processi amministrativi e giudiziari, oltre a fornire vantaggi e altri benefici per gli anziani. La dichiarazione sarà presentata alla Commissione per lo Sviluppo Sociale delle Nazioni Unite nel 2013. (R.P.)

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    Anche a New York la processione con la Madonna di She Shan

    ◊   Nelle diverse comunità della diaspora cinese sparse nel mondo, la devozione mariana viene vissuta con particolare intensità durante il mese di maggio, con iniziative spirituali e manifestazioni pubbliche, orientate al 24 maggio, Festa di Maria Ausiliatrice, particolarmente venerata nel Santuario di She Shan a Shanghai, e Giornata Mondiale di Preghiera per la Chiesa in Cina stabilita da Papa Benedetto XVI nel 2007. La venerata immagine di Nostra Signora di She Shan - riferisce l'agenzia Fides - ha quindi percorso anche le strade di New York, accompagnata da oltre 600 fedeli cattolici della comunità della diaspora cinese di New York e degli Stati Uniti d’America. La solenne processione mariana si è svolta il 6 maggio ed è durata oltre tre ore. Per la quarta volta consecutiva, la parrocchia di St. John Vianney RC Church di New York, detta anche Our Lady of China Chapel, nel quartiere Flushing, dove si trova la maggiore comunità cinese ed asiatica della città, ha organizzato quindi l’annuale processione della Madonna di She Shan. Secondo gli organizzatori, la processione ha visto la partecipazione non solo dei fedeli della parrocchia, ma anche di quelli di altre parrocchie, come la parrocchia della Trasfigurazione. Inoltre è stata un’opportunità di evangelizzazione, un invito a tutti gli immigrati e no, ad avvicinarsi alla Chiesa e a Cristo attraverso sua Madre. La comunità di Our Lady of China Chapel a New York è stata fondata nel 1978, ed è uno dei Centri religiosi più importanti ed attivi di New York, dove vivono centinaia di famiglie di cattolici cinesi immigrati. (R.P.)

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    Malawi: i primi 50 giorni della nuova presidente Banda

    ◊   È trascorso un mese e mezzo dal 7 aprile, quando l'allora vice Presidente della Repubblica del Malawi, Joyce Hilda Banda, aveva prestato giuramento ed era stata nominata primo Presidente donna del Malawi (e seconda donna in tutta l'Africa) a ricoprire tale carica, dopo l’improvvisa scomparsa del Presidente Bingu wa Mutharika, avvenuta il 5 aprile. Padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano che vive da decenni in Malawi, ha inviato all’agenzia Fides alcune considerazioni sulle prime settimane del mandato della nuova Presidente. “Per ogni Presidente eletto, i primi 100 giorni sono considerati i più importanti per le scelte che vengono fatte. A quasi 50 giorni dal suo insediamento, si sta delineando un percorso della Presidenza di Banda che ha quasi completamente smantellato il precedente regime. I primi passi compiuti dal nuovo Capo dello Stato sono stati la rimozione di quelle personalità che più rappresentavano il potere del precedente Presidente, dal ministro dell'informazione Patricia Kaliati, al capo della polizia Peter Mukhito, dal direttore della Reserve Bank al capo dell'Anti Corruption Bureau Alex Namphota,, fino alla nomina del nuovo direttore della Commissione Elettorale. In un secondo momento si è proceduto alla revisione delle leggi varate negli ultimi anni considerate liberticide: dalla legge che dava poteri repressivi alla polizia o che concedeva ad un ministro la facoltà di chiudere un giornale, fino alla legge sul vestire in modo indecente”. Padre Gamba sottolinea però che è urgente raddrizzare il quadro economico del Paese: “occorre fermare subito l'inflazione, creare posti di lavoro, garantire i salari, nel mezzo di una serie di scioperi annunziati da tanti gruppi e compagnie che chiedono di aggiornare i salari all’aumento dei prezzi”. Il missionario sottolinea comunque l’esempio dato dal Malawi: “un Paese che è riuscito a cambiare in modo pacifico, riappropriandosi del proprio futuro. Questo è frutto della saggezza dell'Africa capace di attendere e di un popolo che nella sua povertà, mantiene alta la dignità delle scelte e della condotta di vita. Una dignità che giunge anche ad accettare di avere un Presidente che sbaglia e lo rispetta come uno della propria tribù e allo stesso tempo è capace di inseguire e ritrovare la strada della democrazia e dello sviluppo”. “Se è possibile per un Paese poverissimo restare ancorato alla dignità e alla democrazia, come non può avvenire questo nel resto dell'Africa e del mondo?” conclude padre Gamba. (R.P.)

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    Nigeria. I vescovi: rilanciare i valori cristiani per lo sviluppo del Paese

    ◊   Puntare sui valori cristiani per rendere migliore la vita dei nigeriani: è l’invito lanciato nei giorni scorsi da mons. Emmanuel Badejo, vescovo di Oyo. In particolare, il presule ha condannato l’insaziabile avidità che la maggior parte della popolazione prova nei confronti della ricchezza e del potere ed puntato il dito contro l’attenzione esagerata per gli aspetti mondani della vita, atteggiamento che “ha gravemente ritardato lo sviluppo spirituale e socio-economico delle persone e della nazione”. Richiamando, quindi, alla necessità di “un esame di coscienza”, mons. Badejo si è appellato ai fedeli per “una conversione del cuore” e li ha esortati a “tornare sulle strade di Dio”. “È tempo di rilanciare i valori cristiani e di riorganizzare le priorità del Paese – ha spiegato il vescovo di Oyo – Non possiamo continuare a scivolare nella corruzione, nell’ingiustizia e nella menzogna, ricercando solo gli interessi personali”, poiché “gli stili di vita negativi perpetrati dai leader della politica e della società non migliorano la cultura del Paese”, danneggiando soprattutto i giovani. Infine, mons. Badejo ha richiamato l’attenzione sulle drammatiche condizioni delle famiglie nigeriane, “colpite da tradimenti, divorzi, malattie dei bambini, tratta e omicidi rituali”. Di qui, l’auspicio che i valori del nucleo familiare siano rilanciati, evitando così “gravi rischi” per l’intera società. (I.P.)

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    Gabon: iniziative della Chiesa per porre fine ai crimini rituali

    ◊   Corsi di educazione al diritto alla vita nei programmi scolastici ed universitari, diffusione di programmi di sensibilizzazione nelle lingue locali attraverso i media, ascolto e accompagnamento spirituale delle famiglie delle vittime, attenzione particolare per i gemelli e gli albini: sono le proposte emerse alla conferenza dibattito organizzata a Libreville, in Gabon, dalla Commissione diocesana Giustizia e Pace sul tema “ Proteggiamo la vita rifiutando i crimini rituali in Gabon”. L’incontro, riferisce il portale www.eglisecatholique.ga, si è svolto sabato scorso all’Istituto Immacolata Concezione e ad esso ha preso parte anche l’Associazione di lotta contro i crimini rituali. Ad illustrare le origini dei crimini rituali è stato l’antropologo Ludovic Mba Ndzeng che ha inoltre spiegato come sono cambiate, nel tempo, le motivazioni di questi abomini, oggi legati alla ricerca di captazione e potere in vista di un contro-dono per un obiettivo di elevazione sociale. “Il cristiano, e ogni uomo di buona volontà, ha il dovere di difendere la dignità umana e i diritti dell’uomo” ha sottolineato il coordinatore diocesano di Giustizia e Pace padre Simon Nguele Eyene. “La vita è un dono di Dio, nessuno ha il diritto di attentare alla vita altrui - ha aggiunto padre Eyene richiamando l’esortazione apostolica Africae Munus -. Uccidere un essere umano costituisce una colpa molto grave di fronte a Dio e alla società. La morte di una persona per crimine di sangue è abominevole. Gli autori di questi atti, che restano ancora per lo più impuniti, ne rispondono davanti a Dio, che ha il potere di giudicare l’omicida”. Attraverso la conferenza dibattito di sabato scorso, la Commissione Giustizia e Pace dell’arcidiocesi di Libreville ha voluto attirare l’attenzione dell’opinione nazionale ed internazionale sulla recrudescenza dei crimini rituali in Gabon e sulle ripercussioni che possono avere sulla stabilità e la pace nazionale. Fra le tematiche sviluppate l’ordinamento giuridico di fronte ai crimini rituali, i processi su tali crimini, piste d’azione per strategie nazionali di lotta. (T.C.)

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    Nepal: le donne chiedono la fine delle molestie sessuali

    ◊   In Nepal le molestie sessuali sono all’ordine del giorno per le donne, particolare nelle zone urbane. Sebbene non ci siano dati precisi, gli attivisti sostengono che il fenomeno sia in aumento e che occorre intervenire al più presto. Nel Paese asiatico, di tipo patriarcale, 30 milioni di abitanti, non esiste una legge che tuteli i diritti delle donne né le protegga, inoltre le disparità di genere sono tradizionalmente molto rigide e le iniziative per i diritti femminili molto limitate. Nel mese di aprile, circa 500 donne hanno marciato per le strade del centro di Kathmandu per promuovere i loro diritti, con l’obiettivo, reso noto in un documento, di sensibilizzare i giovani e tutte le altre persone su questo grave problema. Nel documento - ripreso dall'agenzia Fides - riferiscono di molestie verbali, stupri, violenze e botte, e fanno appello alle poche leggi che le tutelano, come il Nepal Public Offences and Penalties Act of 1970, secondo il quale costituisce violenza qualsiasi azione di natura sessuale, verbale o fisica. La pena prevista è di US $120 di multa più, qualche volta, il carcere ma la legge viene raramente applicata. Un nuovo decreto, proposto nel 2012, è in attesa di essere discusso: prevede 3 mesi di carcere e una multa di circa $300 per le molestie sul lavoro. Molti legislatori del Paese himalayano sostengono che la colpa della crescita del fenomeno sia dovuta principalmente alle donne e al loro modo di vestirsi. (R.P.)

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    Mauritius: leader religiosi chiedono ai deputati di bocciare la legalizzazione dell'aborto

    ◊   Ancora un appello dei leader religiosi dell’isola di Mauritius ai deputati dell’Assemblea nazionale perché boccino il progetto di legge che autorizza l’interruzione volontaria della gravidanza. Domenica scorsa, per difendere i nascituri, la Piattaforma per la vita ha manifestato al Jardin de la Compagnie, dove hanno parlato, tra gli altri, il vescovo di Port-Louis, mons. Maurice Piat, il capo della diocesi anglicana Ian Ernest e l’imam Fanoowan. Mons. Piat, riferisce il portale lexpress.mu, ha affermato che lo Stato non ha il diritto morale di permettere alla società di scegliere circa l’aborto, mentre il leader anglicano, che ha annunciato l’imminente pubblicazione del documento “La santità della vita”, ha aggiunto che “non si può presentare una legge unicamente allo scopo di far piacere ad alcune organizzazioni o ad un gruppo di persone, poiché si tratta della vita umana”. Il progetto di legge che prevede l’autorizzazione all’interruzione volontaria della gravidanza in casi specifici è stato presentato dal governo all’Assemblea nazionale era prevista ieri. (T.C.)

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    Argentina: i vescovi su terapie per malati terminali e "gender"

    ◊   In merito alla recente approvazione da parte del Parlamento argentino di due disegni legislativi che fissano le regole per le terapie da somministrare ai malati terminali e la cosiddetta libertà di scelta dell’identità di genere, la Commissione esecutiva della Conferenza episcopale ha diffuso una dichiarazione per precisare il pensiero dei vescovi su questa delicata materia. Nel documento – ripreso da L’Osservatore Romano – i presuli affermano di condividere l’obiettivo della “Legge sulla morte dignitosa” di evitare forme di accanimento terapeutico. “Mantenere una vita con metodi artificiali — si legge - non è sempre moralmente obbligatorio. Va sottolineata anche l’importanza attribuita alla volontà del paziente e a quella dei componenti della sua famiglia, come parte dei diritti personali del paziente. Il rifiuto di questi mezzi artificiali non è solo una scelta valida, ma può divenire consigliabile”. Tuttavia i presuli ribadiscono il loro “netto rifiuto dell’eutanasia”. In questo senso essi si rammaricano del fatto che la nuova normativa ammetta l’eventuale rifiuto da parte del paziente dell’idratazione e dell’alimentazione assistita, come se si trattasse di una forma di accanimento terapeutico. In realtà – afferma la nota - la sospensione dell’idratazione e alimentazione assistita andrebbe considerata come una forma di eutanasia passiva. Per quanto riguarda la nuova legge sull’identità di genere, i presuli argentini ricordano che “la diversità sessuale non dipende solo da una decisione o da una convinzione di tipo culturale, ma affonda le sue radici in un fatto della natura umana che ha un suo linguaggio e un suo significato. Non riconoscendo il valore e la portata di questo fatto — sottolinea la nota - si indebolisce il senso della sessualità nella diversità e complementarità che devono guidare sia la vita delle persone sia il lavoro educativo e legislativo”. Per i vescovi è molto grave “che la nuova legge consenta di manipolare l’identità sessuale dei bambini e di colpirla in modo dannoso, forse irreversibile, anche contro la volontà dei genitori”. La nota tiene a precisare che “con queste affermazioni non si vuole ignorare la realtà delle persone che soffrono per questi motivi. La legge, in quanto ordinamento della comunità, dovrebbe considerare tutti i casi nell’ambito di un quadro giuridico adeguato e con le garanzie che questo implica”. Nella parte finale della dichiarazione si sottolinea l’importanza di “rispettare l’obiezione di coscienza nell’applicazione di queste leggi da parte di coloro che hanno diverse convinzioni”. (L.Z.)

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    Cile. Concluso il conflitto a Freirina: chiuso l'inquinante impianto industriale

    ◊   La protesta della popolazione di Freirina per l’inquinamento ambientale, la mancanza di acqua pulita e l’aria irrespirabile, causati dall’attività dell’impresa Agrosuper ha ottenuto il suo effetto: l’impianto verrà chiuso fino a quando non rispetterà le norme ambientali. In una riunione alla quale erano presenti tutte le autorità del Paese, autorità regionali, rappresentanti degli agricoltori, organizzazioni sociali, due ministri del governo (della Sanità e dell’Ambiente), le autorità della Chiesa (mons. Gaspar Quintana, vescovo di Copiapo', il vicario generale, padre Alejandro Castillo, il vicario della zona Sud, padre Mario Campillay, il parroco del paese, padre Franklin González), sono stati approvati due punti. Primo: l'intervento ufficiale delle autorità nei riguardi dell'impianto Agrosuper. Secondo: la chiusura immediata dell'impianto perché non in regola con le norme ambientali, fino a quando non sarà garantito il corretto funzionamento secondo le leggi vigenti. La nota inviata all'agenzia Fides riporta il commento di mons. Quintana: “è un grande passo aver raggiunto questo obiettivo, dobbiamo ora chiederci che cosa impariamo da questo fatto, per saper discernere sempre a favore del bene comune, valorizzando la dignità della persona, il dialogo e l'incontro tra le autorità e la popolazione”. Poi il vescovo aggiunge: "la persona umana è la misura di tutte le decisioni, che devono essere guidate dal bene comune, la cosa più importante è che le persone vivano con dignità, nella pace e nella serenità". (R.P.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 144

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    E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sulla home page del sito www.radiovaticana.org/italiano.

    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Vera Viselli e Barbara Innocenti.