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Sommario del 19/06/2012
◊ Martedì 26 giugno Benedetto XVI si recherà in visita presso le zone terremotate dell’Emilia Romagna, colpite dalla fine di maggio da un violento sisma che ha provocato innumerevoli vittime e sfollati, danneggiando anche molte Chiese. Il Papa, informa la Sala Stampa vaticana, partirà in elicottero alle ore 9.00 dall’eliporto vaticano. Alle 10.15 è previsto l’atterraggio nel campo sportivo di San Marino di Carpi (Modena), dove Benedetto XVI sarà accolto dal Prefetto Franco Gabrielli, Capo del Dipartimento della Protezione Civile. Quindi, su un pulmino della Protezione Civile, il Santo Padre si trasferirà verso Rovereto di Novi e passerà all’interno della “zona rossa” (Chiesa di Santa Caterina di Alessandria).
Alle 10.50 è previsto l’arrivo di Benedetto XVI presso l’area degli Impianti Sportivi, dove saranno presenti le autorità civili, vescovi, parroci, rappresentanti delle realtà imprenditoriali, fedeli. Il Papa riceverà il saluto dell’On. Vasco Errani, Presidente della Regione Emilia Romagna e pronuncerà un discorso. Alle 12.00, quindi, la partenza in elicottero verso il Vaticano, dove l’arrivo è previsto intorno alle 13.15. Il sisma, lo ricordiamo, ha colpito l’Emilia Romagna a più riprese a partire dalla fine di maggio, e provocando vittime e sfollati. A loro, il Papa ha dedicato più di un pensiero rivolgendo numerosi appelli alla solidarietà, soprattutto in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie svoltosi a Milano i primi di giugno, durante il quale Benedetto XVI si rivolse direttamente agli sfollati in video collegamento. Il Papa ha inoltre donato 500mila euro alle vittime del sisma.
E subito dopo l'annuncio della visita del Papa, Emanuela Campanile ha sentito il vescovo di Carpi, mons. Francesco Cavina:
“Sono senza parole per l’emozione e anche per la gioia, perché la visita del Santo Padre è un gesto veramente di grande affetto e di grande amore nei confronti delle nostre popolazioni, dei nostri sacerdoti e anche di noi vescovi, che stiamo affrontando questa situazione con grande – non nascondo – fatica e a volte anche sofferenza, pur nella speranza che anche da questa tragedia il Signore sappia trarre il bene. E forse la visita del Santo Padre è proprio uno dei doni che il Signore vuole farci, per rianimarci nella nostra speranza, per godere di un momento di gioia, di serenità e di pace insieme al Pastore supremo della Chiesa. Quindi, non posso che essere veramente contento e felice e credo anche la popolazione; e non posso che ringraziare il Santo Padre per la scelta che ha fatto di venire in mezzo a noi, per toccare con mano la sofferenza di questa terra”.
◊ Promuovere una cultura più profondamente radicata nel Vangelo per offrire una risposta adeguata ai segni dei tempi: questa è la nuova evangelizzazione, tema del 13.mo Sinodo generale ordinario dei vescovi, in programma in Vaticano dal 7 al 28 ottobre prossimi. Stamani, nella Sala Stampa della Santa Sede, la presentazione dell’Instrumentum laboris, ovvero il documento di lavoro dell’Assemblea. Suddiviso in quattro capitoli, il documento è stato pubblicato in latino, italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese e polacco. Per una sintesi dei contenuti, ascoltiamo il servizio di Isabella Piro:
“Non abbiate paura!”: il senso della nuova evangelizzazione è racchiuso qui, in questo versetto del Vangelo di Matteo che conclude l’Istrumentum Laboris. Nei “deserti” mondo contemporaneo, in cui i cristiani sperimentano la sfiducia ed il distacco dalla fede, la Chiesa non abbia paura di trovare “nuovi strumenti e nuove parole” per annunciare la Parola di Dio, guardando anche ad un costante rinnovamento,dopo l’esperienza del peccato dei suoi membri. Di qui, l’invito del primo capitolo del documento sinodale a riscoprire il cuore dell’evangelizzazione, ovvero l’incontro con Cristo, senza farsi fuorviare da quelle false convinzioni che considerano l’evangelizzare un limite alla libertà dell’uomo. Al contrario, la piena adesione a Cristo-verità esalta la stessa libertà umana.
Sono quindi sette gli scenari della nuova evangelizzazione: quello culturale che, soprattutto in Occidente, è segnato dalla secolarizzazione, dall’edonismo e dal consumismo, ma che trova un risvolto positivo nell’attenzione all’umano, importante per avvicinare anche i non credenti e coinvolgerli in iniziative come quella del Cortile dei gentili. Seguono poi gli scenari sociali, economici e politici, i più colpiti dalla crisi finanziaria e dal fenomeno migratorio, che portano allo sgretolamento di valori, ma anche allo sviluppo di una maggiore solidarietà.
Diventa urgente, allora, sviluppare la pace, la convivenza, il dialogo, la difesa dei diritti dell’uomo, anche perché il crollo dell’ideologia comunista e la fine della divisione del mondo occidentale in due blocchi, hanno fatto emergere nuovi attori politici, come l’islam e il mondo asiatico, con il rischio di nuove tentazioni di dominio e potere. E rischi si riscontrano anche negli scenari scientifici e comunicativi, in cui la scienza e la tecnologia assurgono al ruolo di “nuove religioni” e le tecnologie digitali esaltano l’egocentrismo, riducendo l’etica a uno strumento di spettacolo. Infine, lo scenario religioso presenta, sì, l’elemento positivo della rinascita religiosa in molte parti del mondo, ma anche il rischio di fondamentalismo e terrorismo e del moltiplicarsi delle sètte.
Per vivere da cristiani all’interno di questi scenari, il documento sinodale suggerisce innanzitutto l’autocritica, ovvero la denuncia di quella “apostasia silenziosa” che porta i fedeli a distaccarsi dalla prassi cristiana. Gli strumenti della nuova evangelizzazione diventano, quindi, la carità, il dialogo ecumenico inteso non come semplice cooperazione, ma come anelito a lasciarsi trasformare dallo Spirito, poiché la divisione tra i cristiani è uno scandalo al mondo; e ancora il dialogo interreligioso, incentrato però sul binomio verità-libertà; lo sviluppo delle parrocchie e la promozione di una pastorale vocazionale così da risolvere quella carenza di sacerdoti, dovuta ad una debolezza nell’essere fedeli alle grandi decisioni esistenziali. Bisogna avere il coraggio, dunque, di riportare la domanda su Dio dentro il mondo contemporaneo, in particolare in quello Occidentale, obiettivo primario, ma non esclusivo della nuova evangelizzazione.
Anche perché – e qui siamo al terzo capitolo – la trasmissione della fede è compito di ogni cristiano e di tutta la Chiesa e “non si può trasmettere ciò che non si crede e non si vive”. Per questo, il documento sinodale suggerisce un rafforzamento tra fede e liturgia, una maggiore attenzione per i catechisti, con l’ipotesi di creare per loro un ministero all’interno della Chiesa, un maggior sostegno per la famiglia, “luogo esemplare di evangelizzazione”.
Grande risalto viene dato anche alla vita consacrata e contemplativa e ai gruppi e i movimenti, quei “nuovi evangelizzatori”, capaci di vivere le proprie scelte di vita senza paure e falsi pudori. I carismi stessi, dice l’Instrumentum laboris, possono venire integrati nella Chiesa grazie al principio della coessenzialità con le istituzioni. Anche perché in un mondo in cui la sequela di Cristo risulta poco comprensibile, contrastata ed avversata, i cristiani devono superare la frattura tra il Vangelo e la vita quotidiana e vivere con “forza mite” l’identità di figli di Dio, avendo anche il coraggio di denunciare e riconoscere le infedeltà, gli scandali e le colpe delle comunità.
L’ultimo capitolo dell’Instrumentum laboris pone invece l’accento sul come ravvivare l’azione pastorale, guardando ai Sacramenti del Battesimo e della Riconciliazione e promuovendo il primo annuncio tra i non credenti. Centrale anche il legame tra la trasmissione della fede e l’educazione, rispondendo a quell’emergenza educativa denunciata da Benedetto XVI con un’ecologia della persona umana, che guardi all’uomo nell’ottica dello sviluppo integrale e alla complementarietà tra fede e ragione, “due ali che portano a Dio”, secondo le parole di Papa Wojtyla.
L’obiettivo finale della nuova evangelizzazione è comunque quello di essere “un farmaco di gioia e di vita contro ogni paura”, per portare nel mondo la speranza del Vangelo, perché tutti gli uomini, più o meno consapevolmente, hanno bisogno della speranza per poter vivere il presente.
E questa mattina, l’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo è stato illustrato ai media in Sala Stampa Vaticana. Il servizio di Stefano Leszczynski:
Dopo aver ripercorso nella sintesi i punti principali del documento sul quale si incentrerà il lavoro dei padri sinodali nel prossimo mese di ottobre, e avere illustrato ai rappresentanti dei media internazionali il significato e lo scopo della Nuova evangelizzazione, mons. Nikola Eterovic ha risposto alle domande dei giornalisti sottolineando l’importanza della testimonianza di tutti i cristiani e del contatto personale nella trasmissione della fede. Due i settori prioritari:
“Quello della missione ‘ad gentes’, e quello della nuova evangelizzazione nei confronti dei nostri fratelli e sorelle che si sono allontanati dalla Chiesa.”
La Nuova evangelizzazione – ha sottolineato il segretario generale del Sinodo – deve tenere conto dei nuovi scenari in cui la Chiesa si trova a operare e a trasmettere la fede con nuovi strumenti. Punto di forza centrale nella nuova evangelizzazione, è la famiglia cristiana, piccola Chiesa domestica, nell’ambito della quale proprio la figura della donna svolge un ruolo determinante:
“Nell’Instrumentum laboris si mette in rilievo l’importanza dei laici, uomini e donne nella trasmissione della Fede. Molte risposte hanno significato che la maggioranza dei catechisti sono le donne, meritevoli veramente di grandi elogi per la trasmissione della Fede. Anche nella famiglia cristiana, le donne le mamme sono prime evangelizzatrici.”
La Nuova evangelizzazione – ha ricordato mons. Eterovic – va intesa anche nel senso di un profondo rinnovamento interno della Chiesa stessa. Un compito imprescindibile soprattutto alla luce dei recenti scandali che l’hanno colpita.
“La Nuova evangelizzazione non può avere successo se prima non c’è il momento di conversione, di purificazione di tutti i membri coinvolti. Dobbiamo sempre sottolineare l’immagine del sale della terra. Non è tanto la quantità, quanto la qualità dei suoi membri, che sarà anche la forza portatrice della nuova evangelizzazione".
Il Papa e i richiami alla corretta liturgia. Mons. Bux: è un atto sacro, non di intrattenimento
◊ Nel suo videomessaggio per la cerimonia conclusiva del Congresso eucaristico internazionale di Dublino, Benedetto XVI ha affermato che i desideri dei Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico sono stati oggetto di “molte imcomprensioni ed irregolarità”. “La riforma voleva condurre la gente a un incontro personale con il Signore presente nell’Eucaristia - ha detto il Papa - ma la revisione è rimasta ad un livello esteriore”. Ma come e perché è stata fraintesa la riforma liturgica del Concilio Vaticano II? Fabio Colagrande lo ha chiesto a mons. Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni per la Dottrina della Fede e per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti:
R. – E’ avvenuto quello che è accaduto a livello sociale e morale, cioè la caduta in verticale dell’etica e così è accaduto con la liturgia. Cioè, la liturgia è stata intesa non più come il diritto di Dio di essere adorato, come Egli stesso ha stabilito, ma come la nostra pretesa di creare noi un culto e di offrirlo secondo – come dire – i nostri usi e costumi. Il profeta Isaia dice: “Avete reso il mio culto un imparaticcio di usi umani”, per cui la liturgia – come il Papa, quando era ancora teologo, cardinale, ha scritto – è diventata una sorta di intrattenimento. Ecco: questo, credo, che sia il punto. Credo che oggi vada in qualche modo ristabilito, ripristinato il principio che la liturgia non è un bene a nostra disposizione, dove è possibile fare quello che ci piace, ci mettiamo dentro quello che vogliamo e ne togliamo quello che non ci va… bensì, è un atto pubblico della Chiesa, come il Vaticano II stesso ricorda nella Costituzione sulla Liturgia, e pertanto va regolato dalla Santa Sede e, come il Consiglio stesso ricorda nel famoso paragrafo 22 della Costituzione al comma 3, “Nessun altro – assolutamente, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunché di sua iniziativa in materia liturgica”. Quello che è accaduto nel mondo, e che il Papa stesso in qualche modo denuncia, è esattamente quello che il Consiglio non voleva.
D. – Quindi, il rinnovamento liturgico voluto dai Padri conciliari bisogna ancora attuarlo?
R. – E certamente. Il rinnovamento va continuato. A parte che la liturgia, come d’altronde la vita della Chiesa è – come si suol dire in latino – semper reformanda, cioè parleremmo di una riforma continua, ma badi bene: una riforma, non una rivoluzione. Molti, purtroppo, hanno inteso la riforma come una rivoluzione, cioè ribaltiamo tutto, mettiamo al centro della liturgia l’uomo invece che Dio, l’uomo con le sue pretese, con le sue voglie, la sua – diciamolo pure – immancabile volontà di protagonismo, dimenticando invece che il protagonista nella liturgia è un altro: è il Signore, è Dio. “Adora il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me”: questo è il primo dei Comandamenti. Non ci lamentiamo poi che anche l’etica – ahimé – anche l’etica, nella Chiesa, è caduta in verticale. Il Papa ha detto una celebre frase abbastanza forte, e cioè che la crisi della Chiesa dipende in gran parte dal crollo della liturgia. E perché accade questo? Perché quando noi ci facciamo come a immagine nostra Dio, tutti i comandamenti vanno giù a rotoli.
D. – Vuole farci un esempio pratico di questa mancata revisione delle forme liturgiche, del modo in cui è stato travisato il volere dei Padri conciliari?
R. – Faccio un esempio, che il Papa stesso ha richiamato proprio in ordine al Congresso che si sta celebrando: l’adorazione. La liturgia, per sua natura, è un atto di culto, non è un atto di intrattenimento della gente. Oggi i preti, nella liturgia dicono alla fine della Messa: “Buongiorno, buonasera, come state? Mi raccomando, andate a casa, fate questo, fate quest’altro …”. La liturgia, come atto della Chiesa universale, non è un atto di un gruppo che io possa trasformare in una sorta di riunione di famiglia. No, e questo è il punto. Allora, l’adorazione: adorazione significa che la gente viene in chiesa perché deve riconoscere e adorare il Signore. E dunque questa è la cosa fondamentale. Se viene meno questo, è chiaro che ogni altra cosa è possibile. C’è il fraintendimento, c’è – per esempio – il fatto che il tabernacolo oggi, come lamentano molti laici, venga messo in un angolo, non lo si trova nemmeno più, al centro invece troneggia il seggio del prete e questo naturalmente non è scritto da nessuna parte ma, via via, è come uno slittamento progressivo: abbiamo tolto dal centro il Signore nel Santissimo Sacramento e ci siamo messi noi, noi chierici. Ahimé, tra l’altro, in un momento in cui – come si può vedere dalle cronache - proprio noi chierici non brilliamo certo. Faremmo molto bene a stare da un lato, come ministri. D’altronde, la parola "ministro" vuol dire "colui che serve", non certamente colui che è il padrone.
Il cardinale Sandri in apertura della Roaco: alleviare le ferite della Siria
◊ Affidarsi all’Eucaristia e lasciarsi ispirare dalla Divina Parola. Questo l’auspicio per l’85.ma Riunione delle Opere d'Aiuto alle Chiese Orientali (Roaco) espresso questa mattina nell’omelia della Messa d’apertura nella chiesa di Santa Maria in Traspontina a Roma, dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Il porporato ha ricordato la missione della Roaco - levare una voce in difesa degli oppressi - e ha rivolto un pensiero ai fratelli in Siria. Il servizio di Roberta Barbi:
Non solo attività d’informazione, ma un’azione concreta, retta e generosa, per rendere la storia che viviamo un “luogo di speranza, nonostante le immense precarietà”. Con queste parole il cardinale Sandri ha esortato l’assemblea che ha partecipato alla celebrazione d’apertura dei lavori dell’85.ma Roaco a essere “espressione luminosa della carità della Chiesa tra i fratelli e le sorelle orientali”. Questa, infatti, è la missione a cui la Roaco è chiamata dal Vangelo: denunciare ogni ferita inferta all’uomo, alla comunità in cui vive e alla libertà religiosa. Una denuncia che “si nutre dell’amore di Dio e trova vie sempre nuove per diffondere la carità”. Un annuncio, quello della Parola, che fa risorgere la vita “vera ed eterna” laddove tutto sembra votato alla morte.
Il porporato ha rivolto anche un pensiero “all’amata Siria”, un pensiero che si riempie di preghiera e disponibilità ad alleviare il più possibile le sofferenze nel corpo e nello spirito di questi fratelli tanto provati. È nel calice di Cristo che si raccolgono tali sofferenze e solo Cristo può essere la risposta ad esse: il Figlio di Dio che nell’Eucaristia fa tornare la serenità e la vita dove regnavano lamento e disperazione. Infine, il cardinale Sandri ha chiesto l’intercessione di San Romualdo, l’abate fondatore dei Camaldolesi, che fecero da ponte fra le tradizioni monastiche di Oriente e Occidente, di cui la Chiesa ricorda oggi la memoria liturgica e cita un suo insegnamento dalla “Vita dei cinque fratelli”: “Se non puoi giungere a tutto (…) cerca di cantare nello spirito e di comprendere nell’intelligenza ora un punto ora un altro (…) e quando comincerai a distrarti, non smettere ma correggiti (…) e sii contento solo della grazia di Dio”.
Il cardinale Bertello all'Eremo di Camaldoli di Arezzo per celebrare il millennio di fondazione
◊ Giornata solenne oggi, all’Eremo di Camaldoli di Arezzo, dove l’inviato speciale del Papa, il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, presiede le celebrazioni per il millennio di fondazione del Sacro Eremo, ad opera di San Romualdo abate. Il priore generale dell’Ordine, dom Alessandro Barbàn, racconta al microfono di Alessandro De Carolis la preparazione con cui la comunità dei monaci si è apprestata a questo importante traguardo storico e spirituale:
R. – Ci siamo preparati rimanendo fedeli, in qualche modo, alla nostra regola monastica, ravvivando dentro la nostra comunità, dentro le nostre comunità, il senso di appartenenza e di riscoperta del nostro carisma monastico, nella dinamica tra monastero ed eremo: qui a Camaldoli abbiamo il monastero a 800 metri e l’eremo a 1.100 metri. Siamo dunque un’unica comunità e quindi ci ritroviamo in comunità, continuando a pregare insieme, continuando la nostra vita e soprattutto approfondendo il carisma di Romualdo. In qualche modo Romualdo ci ha aiutato a ritrovare il senso del nostro essere monaci camaldolesi.
D. – In questo orizzonte del millenario si colloca la visita che, lo scorso marzo, Benedetto XVI ha voluto rendere alla vostra comunità di San Gregorio al Celio. Cosa conserva di quella giornata?
R. – Sua Santità ha voluto celebrare con noi questo millenario e non potendo venire qui a Camaldoli, ci ha raggiunto nella nostra Basilica a Roma, a San Gregorio al Celio. Abbiamo celebrato insieme i Vespri e poi siamo stati insieme a cena. È stato un momento di grande fraternità e di grande incontro - diciamo così - molto “monastico”, perché il Papa ha dei tratti molto monastici. C’è stata una conversazione molto fraterna, molto sincera e molto profonda tra il Papa e noi e tra noi e il Papa.
D. - Mille anni di storia dello spirito sono un arco di tempo così vasto, che credo molte siano le chiavi di lettura di questo traguardo…
R. – Anzitutto, la tradizione romualdina e camaldolese è ricordata nella Chiesa per la riforma eremitica: accanto al dato cenobitico della vita monastica, Romualdo ha voluto anche aggiungere l’Eremo. Nell’Eremo c’è la dimensione del silenzio, della solitudine, ma non è un eremo staccato, in qualche modo, dalla vita della Chiesa o dalla vita della società. Dobbiamo ricordare che la presenza monastica camaldolese è una presenza incarnata nella storia, accanto agli uomini, ma soprattutto dentro la Chiesa, al servizio della Chiesa, con la preghiera e con l’ospitalità.
D. - Cosa rappresenta il carisma camaldolese nella Chiesa di oggi?
R. - Io credo che la dimensione che ci caratterizza oggi dopo mille anni – già presente sin dall’inizio, anche se in embrione, ma oggi più evidente e rilevante – sia proprio l’accoglienza. In tutte le nostre foresterie, specialmente qui a Camaldoli, noi abbiamo sempre accolto le persone. E non si tratta di accoglienza semplicemente perché diamo una camera e basta: c’è una proposta culturale, c’è un proposta teologica, c'è una proposta di cammino insieme.
D. – Quindi, voi siete testimoni diretti che l’indifferenza religiosa non è quel muro imperforabile, come talvolta si crede…
R. - Noi stiamo registrando un interesse nei confronti della vita monastica. La gente credo che oggi sia sola, abbandonata un po’ a se stessa, smarrita nei valori e ha quindi bisogno di trovare delle radici, di fare delle esperienze di preghiera, di lettura della Sacra Scrittura, di approfondimento, soprattutto un’esperienza di comunità. Queste dimensioni che proponiamo vengono sempre molto apprezzate dalle persone, che quando poi vanno via dicono: ci avete insegnato a pregare, abbiamo capito qualcosa di più del dono di Dio, abbiamo compreso di più qualcosa della nostra fede cristiana. Credo che questi siano elementi molto importanti del nostro servizio.
Il cardinale Filoni per il 150° dei Missionari di Scheut
◊ “Proprio 150 anni fa, un gruppo di preti belgi si offrì a Propaganda Fide per lavorare nelle missioni. Con essi Théophile Verbist fondava a Scheut, Bruxelles, la Vostra Congregazione e prendeva quale terra di missione la Mongolia, dove Verbist morì già nel 1868. Il seme era posto e cominciava a germogliare. Quel seme oggi è una pianta che ha esteso i suoi rami in 23 Paesi sparsi in 4 continenti”. Con queste parole il cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ha ricordato gli inizi della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Cicm) i cui membri sono conosciuti come “missionari di Scheut”, durante la Concelebrazione Eucaristica che ha presieduto nella cappella dei missionari di Marianhill, a Roma, sabato scorso, festa del Cuore Immacolato di Maria a cui è intitolata la Congregazione. “150 anni: un cammino di fede e di grazia in Cristo” è lo slogan scelto dai missionari di Scheut per celebrare questo significativo anniversario. Ricordando il contesto storico di quell’epoca - riferisce l'agenzia Fides - il Prefetto del Dicastero Missionario ha sottolineato: “erano gli anni in cui gli ideali europei si dibattevano tra liberalismo e integralismo e gli Stati nazionali erano tentati tra secolarizzazione, anticlericalismo, regalisti e massoni; parte dell’Europa si apriva al Kulturkampf. Pio IX spingeva la Chiesa nell’opera di evangelizzazione e schiere di missionari partivano dalle vecchie cristianità europee verso Africa, Asia, Oceania. La Cina rappresentava un continente quasi a sé. Fu un’epoca in cui videro la luce innumerevoli congregazioni e istituzioni religiose”. Prendendo poi spunto dal Vangelo del giorno, il ritrovamento di Gesù nel Tempio, il cardinale Filoni ha posto l’accento sul dialogo tra Gesù e i maestri, i Rabbini, i quali “Erano pieni di stupore per la Sua intelligenza e le Sue risposte”. “Gesù – possiamo intuirlo – parla del Padre, parla della rivelazione di Dio, parla della Storia Sacra” ha spiegato il cardinale, sottolineando che in Lui c’è “una passione, un fuoco che già lo divora. C’è in verità un desiderio di ‘parlare’ di Dio! Parlare di Dio è annunciare l’amore e la misericordia; è coinvolgere Dio e renderlo tra noi, e noi lasciarci prendere da Dio. Ciò è evangelizzazione. Questa passione, questo parlare di Dio, questo annunciarlo, fu l’ultimo anelito del padre Verbist e dei suoi primi compagni d’avventura. Questa passione di Gesù, che passa al Padre Théophile e che passa ai missionari del Cuore Immacolato di Maria, è la stessa passione missionaria che ha attraversato questi 150 anni di vita e di storia della Vostra Congregazione.” Dopo aver espresso riconoscenza e stima ai Missionari di Scheut, il cardinale Filoni li ha incoraggiati ricordando che ”l’Opera missionaria nel mondo non è finita, c’è ancora bisogno di passione, di coraggio e di generosità”, e anche se “in 150 anni il concetto e i modi di evangelizzare non sono più gli stessi, l’oggetto dell’evangelizzazione è lo stesso: Gesù, Figlio unigenito del Padre, che ci rivela Dio”. E “il missionario è anzitutto colui che ha questa ‘esperienza’ di Gesù; è colui che è preso da Lui; è colui che aiuta l’uomo ad avere questo incontro con il Signore”. Infine il Prefetto di Propaganda Fide ha messo in luce la coincidenza con l’Anno della Fede, ormai prossimo: “sarà anche per voi, Missionari del Cuore Immacolato di Maria, una straordinaria occasione per riflettere sulla vostra vocazione oggi e sul come partecipare non solo all’Anno della Fede, ma anche alla prospettiva che questo Anno offre”. (R.P.)
70.mo delle relazioni tra Finlandia e Santa Sede. Mons. Sippo: “Entrambe impegnate per la pace”
◊ La pace e la convivenza tra i popoli sono stati al centro dell’omelia pronunciata ieri pomeriggio da mons. Teemu Sippo, arcivescovo di Helsinki, che ha celebrato la Messa nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma, in occasione del 70.mo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Finlandia e Santa Sede, avviate ufficialmente nel 1942. Il presule ha ricordato anche la visita di Giovanni Paolo II nel Paese nel giugno 1989 e ha sottolineato il comune impegno a servizio della pace. “Quando celebriamo l’Eucaristia possiamo ricordare le parole di Gesù che si ripetono a ogni Messa: ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’, che sono allo stesso tempo un augurio e un compito”, ha detto il presule. Al termine della celebrazione, cui hanno partecipato anche l’arcivescovo ortodosso di Carelia e di tutta la Finlandia, Leo, e dell’arcivescovo luterano Kari Mäkinen, presso Villa Lante al Gianicolo si è svolto il colloquio “Finlandia e Santa Sede. Da Alessandro II a Benedetto XVI”, organizzato dall’Ambasciata di Finlandia presso la Santa Sede, alla presenza del segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, mons. Dominique Mamberti. (R.B.)
Il dicastero dei migranti al primo workshop sull’inclusione dei Rom in Europa
◊ “La Chiesa non ha tutte le risposte alle aspettative dei Rom”, ma è fortemente impegnata in favore del miglioramento delle loro condizioni di vita ed esorta tutte le istituzioni a farsene carico. Questo il centro del discorso pronunciato oggi da padre Gabriele Bentoglio, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti al Primo Seminario internazionale sui Progetti di Inclusione dei Rom nell’Europa centrale e orientale, in corso ad Eger, in Ungheria. Ce ne parla Roberta Barbi:
Sono la minoranza più consistente d’Europa, ma anche la più svantaggiata: sono i Rom, che spesso vivono in insediamenti abusivi in condizioni igieniche disastrose, le cui donne in alcuni Paesi sono oggetto di campagne di sterilizzazione forzata e i bambini assegnati a scuole speciali. La Chiesa dedica anche a loro il proprio ministero pastorale e missionario, non occupandosi solo della dimensione strettamente spirituale, ma anche degli aspetti sociali e assistenziali, tra cui spiccano l’emergenza abitativa, la formazione scolastica e professionale. Padre Bentoglio oggi fa il punto su quanto fatto finora dalla Chiesa a vantaggio di zingari, Rom e gagè partendo da quel primo abbraccio a queste popolazioni dato da Paolo VI nella visita effettuata durante il pellegrinaggio internazionale a Pomezia nel 1965, in cui celebrò la Messa e si rivolse loro dicendo: “Voi siete nel cuore della Chiesa”. E in effetti i Rom lo sono, nel cuore della Chiesa, che si occupa di loro non soltanto attraverso il Dicastero vaticano, ma anche attraverso le chiese locali, le diocesi, le comunità religiose e i movimenti, e anche tramite il Consiglio delle Conferenze episcopali europee, che nel 2005 sollecitò l’Europa a una maggiore presa di coscienza sull’identità dei Rom, suggerendo la propria via in merito, non fatta di assimilazione nella cultura dominante, bensì di inclusione, che significa integrare senza assorbire. Non a caso l’appuntamento in corso in Ungheria, organizzato in collaborazione con la Commissione per la Pastorale dei Rom della Conferenza episcopale ungherese e con l’organizzazione caritativa tedesca “Renovabis”, è stata intitolata “Opening Doors”, a suggellare la necessità di aprire quelle porte di solidarietà e aiuto reciproco, rinunciando a generalizzazioni e preconcetti, come disse Benedetto XVI un anno fa nell’udienza privata in cui ricevette una nutrita delegazione Rom in occasione del 75.mo anniversario del martirio del Beato Ceferino Giménez Malla, primo gitano elevato agli onori degli altari nel 1997. In quella giornata il Papa invitò a considerare i Rom non come destinatari di opere di assistenza, bensì come portatori di valori e di risorse, sottolineando, al tempo stesso, l’importanza che questi ricercassero sempre la giustizia e la legalità.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ La presentazione dell'Instrumentum laboris in vista della tredicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi.
In prima pagina, la crisi economica: l'America, l'Europa e l'intesa perduta al G20 messicano.
La Nigeria stretta nella spirale della violenza: appello dei vescovi a non cedere alla tentazione della vendetta.
Parliamo di fede: in cultura anticipazioni dal volume “Le inquietudini della fede” con interviste del regista Salvatore Nocita ai cardinali Angelo Scola, arcivescovo di Milano, e Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, alla storica Lucetta Scaraffia, al cantautore Roberto Vecchioni e al filosofo Salvatore Natoli.
Insieme in difesa dei diritti umani: Dominique Mamberti, arcivescovo segretario per i Rapporti con gli Stati, sui settant’anni di relazioni tra Finlandia e Santa Sede.
Un classico moderno: Emilio Ranzato sul ritorno dei Blues Brothers per due giorni, il 20 e 21 giugno prossimi.
Il vescovo e la montagna del Taburno: Alfonso V. Amarante sui duecentocinquanta anni dell’ordinazione episcopale di sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
La responsabilità di camminare insieme: intervista all’arcivescovo anglicano Jackson dopo il Congresso eucaristico di Dublino.
Grecia verso governo di unità internazionale. Forse già oggi nuovo esecutivo
◊ Grecia verso un governo di unità nazionale. Secondo tutte le indicazioni, non si esclude che il nuovo esecutivo possa prendere forma già oggi; i leader dei tre partiti che ne faranno parte, Antonis Samaras di Nuova Democrazia, Evanghelos Venizelos del Pasok e Fotis Kouvelis di Sinistra Democratica, sono d'accordo sul programma di base. Salvatore Sabatino ha chiesto un commento alla giornalista greca Vassiliki Markaki, raggiunta telefonicamente ad Atene:
R. – E’ la prima volta che c’è un po’ più di ottimismo. C’è un po’ più di ottimismo pensando che i politici senz’altro hanno imparato la loro lezione. I due grandi partiti che hanno governato la Grecia negli ultimi 40 anni hanno avuto un crollo impressionante, anche se hanno vinto le elezioni. Fotis Kouvelis è questa aria nuova di sinistra, che però è abbastanza moderata da potersi mettere d’accordo con gli altri due. C’è un’aria di ottimismo e una voglia di ricominciare.
D. – L’esecutivo, secondo le previsioni, avrà una durata di due anni, durante i quali potrebbe trattare con i rappresentanti dei creditori internazionali le possibili modifiche da apportare al memorandum. Avrà la forza per raggiungere questo risultato?
R. – Nel parlamento avrà un’amplissima maggioranza: arriveranno ad avere 175 parlamentari sui 300 e per di più la parola “rinegoziare” è diventata la parola d’ordine negli ultimi tempi, con modalità diverse per ognuno dei partiti che hanno partecipato alle elezioni. Non c’è dubbio che ci vorranno delle correzioni: sarà un prolungamento nel tempo, saranno le misure di crescita per aiutare l’austerità: qualcosa si deve pur fare.
D. – Può essere, questo, considerato un governo a metà strada tra il tecnico ed il politico?
R. – Non direi proprio un governo tecnico, perché sono puri politici di razza, tutti quanti: sono partiti tradizionali. Però, come ho già detto, credo che i politici abbiano avuto la loro lezione, credo che questa volta ci sarà molta saggezza, se non altro nell’amministrare i soldi pubblici.
D. – Le elezioni greche sono state osservate ovviamente con molto interesse dalle istituzioni europee, con molti appelli alla responsabilità. Il risultato uscito dalle urne è stato, di fatto, rispondente a questi appelli. I greci hanno sentito il peso della responsabilità?
R. – Leggevo diversi commenti che, mentre prima delle elezioni tutti aspettavano un voto di protesta o un voto di speranza, sembra che i greci abbiano votato con disperazione e responsabilità. Non c’è dubbio che questo risultato che ha rafforzato, rispetto a maggio, i partiti tradizionali sia un ordine a fare un governo e a governare: a governare bene per riuscire a dare al Paese almeno un barlume di speranza. E’ veramente pesante, la situazione economica: è veramente pesante avere un 40 per cento di disoccupazione e pensare che un negozio su tre ha abbassato le saracinesche. Significa che c’è una famiglia su tre senza nessun introito.
Nigeria. L’arcidiocesi di Abuja: no alla violenza contro le violenze
◊ Battaglia nelle ultime ore tra i terroristi di “Boko Haram” e l’esercito nella città nigeriana di Damaturu, nel Nord Est del Paese. Imprecisato il numero delle vittime, mentre anche la residenza del governatore è tra i luoghi attaccati dagli islamisti. Intanto, nella città di Kaduna - dopo gli attacchi alle chiese di domenica - la situazione è ora calma secondo quanto riferito dall’arcivescovo locale, mons. Matthew Man-oso Ndagoso. Sulle motivazioni degli attacchi contro i cristiani in Nigeria, Fabio Colagrande ha intervistato padre Patrick Tor Alumuku, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Abuja:
R. - Questo è un mistero: non si sa quale siano i motivi, oltre quelli che abbiamo sempre capito e che sono motivi più politici che non religiosi. I vescovi in Nigeria credono che queste persone devono essere considerate come criminali, anche perché non sono neanche alleati di gruppi musulmani - per così dire - istituzionali: i capi musulmani dicono che queste persone non sono dalla loro parte.
D. - Come mai, secondo lei, il governo nigeriano - nonostante le forze che ha messo in campo - non riesce a fermare, a contrastare questi terroristi?
R. - E’ una domanda molto difficile, perché la Nigeria è molto grande: anche la parte in cui accadono le violenze è molto estesa. Questi criminali vanno ad attaccare un città e il giorno dopo attaccano un’altra città a 600 chilometri di distanza. Il governo cerca di fare maggiore attenzione sulla sicurezza, ma il problema è che non si sa mai dove attaccheranno domani. Quindi, è veramente molto difficile.
D. - Lei prima ripeteva che non si tratta di un conflitto religioso, ma dietro ci sono motivazioni politiche. Motivazioni che arrivano dall’esterno del Paese?
R. - No, dall’interno del Paese. Qualche volta c’è la tentazione di pensare che al Qaeda stia appoggiando questi gruppi, ma forse al Qaeda dà loro soltanto le armi. Chi li spinge però a compiere questi attenti sono i politici del Paese, perché dopo aver perso le elezioni lo scorso anno per il musulmani governo e religione sono la stessa cosa. Ecco qual è il problema. Se un musulmano è il capo del governo, questo va bene perché vuol dire che favorisce la religione musulmana. Ma se al governo c’è un cristiano, questo può essere un problema perché non possono avere come musulmani quel tipo di appoggio.
D. - Pensate che la comunità internazionale debba aiutare in qualche modo il governo per contrastare questi attacchi?
R. - Il governo americano ha già accettato di aiutare il governo nigeriano. Speriamo che altri governo possano dare un aiuto… Percepiamo sempre più la preoccupazione internazionale per questa situazione dai delegati che vengono dagli altri Paesi per aiutarci. La settimana scorsa, ad esempio, c’era una delegazione proveniente dall’Austria giunta in Nigeria per cercare di parlare sia con i gruppi musulmani e cristiani, sia con il governo per trovare una via di uscita.
D. - E’ particolarmente grave il fatto che dopo gli attacchi da parte dei terroristi vi siano state delle rappresaglie anche da parte dei cristiani. C’è qualcuno che vuole creare una vera e propria guerra civile?
R. - Non credo proprio che qualcuno voglia creare una guerra civile. C’è tensione e i vescovi parlano ogni settimana per cercare di calmare i cristiani del Paese e i cristiani non sanno più cosa fare. Ecco perché c’è stata quella reazione a Kaduna. Ma la Chiesa mantiene la sua posizione cristiana e dice: noi non dobbiamo rispondere mai alla violenza con la violenza.
Egitto. Attesa per l'esito delle presidenziali. I militari varano il Cnd
◊ Resta alta la tensione in Egitto dopo il ballottaggio per le elezioni presidenziali di sabato e domenica. Sia il candidato dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, sia l’uomo del vecchio regime, ovvero l’ex premier Ahmed Shafiq, si sono dichiarati in vantaggio. Intanto, anche se il Consiglio supremo delle Forze armate ha assicurato che cederà il poteri al neopresidente il 30 giugno, è scontro istituzionale con i militari che definiscono i contorni dei poteri del nuovo Capo dello Stato, del nuovo parlamento e dell'Assemblea costituente. Ieri, il capo del Consiglio militare egiziano, Hussein Tantawi, ha adottato un decreto per la formazione di un "Consiglio nazionale di difesa" composto dal capo di stato maggiore delle forze armate e da nove comandanti interforze, dal capo dei servizi militari e delle operazioni militari. Massimiliano Menichetti ha parlato della situazione con il prof. Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento:
R. - Sin dall’inizio, i militari hanno cercato di condizionare il processo rivoluzionario e hanno cercato di incanalarlo in binari che fossero di difesa del vecchio regime e delle vecchie strutture di potere. Quello che stanno facendo i militari è un vero e proprio colpo di Stato, che priva la rivoluzione egiziana della sua capacità di modificare effettivamente le strutture istituzionali e costituzionali dello Stato in nome di una stabilità che sa di vecchio e di stantio. Questo lascia spazio ai Fratelli musulmani per affermare - in primo luogo - di essere loro i protagonisti effettivi del cambiamento e di poter rivendicare la possibilità di agire su quelle leve che potrebbero imprimere allo Stato egiziano una vera svolta dal punto di vista istituzionale.
D. - Professore, molti sottolineano che i militari hanno un peso non soltanto politico, ma in realtà detengono anche dei gangli vitali dal punto di vista economico…
R. - L’esercito in Egitto è una grande potenza economica, soprattutto dal punto di vista industriale e commerciale. Quindi, certamente, una delle motivazioni più forti che guidano i militari è quella di difendere e confermare questo tipo di privilegi.
D. - C’è spazio per le forze laiche di sinistra in questo contesto?
R. - Direi di no, anche perché “la Piazza Tahrir” si è svuotata e quelli che erano stati i protagonisti di quei tumulti che avevano prefigurato la democrazia diretta sono stati superati dalla forza e dall’evoluzione degli avvenimenti. Forza ed evoluzione degli avvenimenti che non hanno soltanto un’energia intrinseca, ma che sono - secondo me - assolutamente determinati dalla volontà popolare. Il popolo egiziano è un popolo fondamentalmente conservatore e il fatto di aver portato al ballottaggio Shafiq da una parte, che è un volto del vecchio regime, e Mursi dall’altra, che garantisce una continuità intellettuale, religiosa, morale con l’anima egiziana, secondo me è assolutamente indicativo che, se la rivoluzione c’è stata, ha fatto il proprio tempo.
D. - E qual è il ruolo dei copti?
R. – Stupisce che certe forze interne preferiscano tornare al passato, piuttosto che rischiare il nuovo. E’ evidente che i copti abbiano timore che una presa del potere dei Fratelli musulmani trasformi l’Egitto in uno Stato islamico. Però, rischiare di tornare assolutamente al passato, a un regime di polizia - come era quello dell’epoca di Mubarak - senza dare una chance ai musulmani moderati di tenere in mano le redini del governo dell’Egitto, mi sembra una scelta di retroguardia che per il futuro del Paese potrebbe essere perdente. Forse, se avessero un po’ più di coraggio, potrebbe essere anche l’occasione di una svolta autentica all’interno della vita politica del Paese.
D. - C’è l’eventualità, secondo lei, di una nuova Piazza Tahrir, di nuovi sommovimenti?
R. - Ora, le forze che sono già emerse - cioè i militari e tutte quei gruppi che sostengono un blocco comunque evolutivo del processo politico e, dall’altra parte, i Fratelli musulmani - potranno essere loro a occupare la piazza. Non tanto quei rappresentanti che avevano fatto di Piazza Tahrir un simbolo delle rivolte arabe nello scorso anno. Io credo che una nuova Piazza Tahrir, come quella di febbraio-marzo 2011, non la vedremo più.
Mons. Lahham: i cristiani del Medio Oriente attendono con speranza la visita del Papa in Libano
◊ Si chiudono oggi a Tunisi i lavori del convegno “La religione in una società in transizione. Come la Tunisia interpella l’Occidente”, promosso dalla rivista “Oasis” fondata dal cardinale Angelo Scola. A sottolineare l’importanza dell’evento, stamani ha fatto visita al convegno il presidente tunisino, Moncef Marzouki. Tra i relatori principali all'incontro, mons. Maroun Lahham, vicario del Patriarca di Gerusalemme dei Latini per la Giordania e già arcivescovo di Tunisi. A mons. Lahham, Alessandro Gisotti ha chiesto quali sfide pone la “primavera araba” alle comunità cristiane:
R. - I cristiani dei Paesi del Maghreb - intendo la Libia, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco - nella stragrande maggioranza sono stranieri che non sono stati toccati in modo diretto dalla "rivoluzione araba": l’hanno, però, seguita con tanto interesse, specialmente quei cristiani che provengono da Paesi democratici, e si sono rallegrati di questa trasformazione. Per quanto riguarda invece i Paesi nei quali ci sono cristiani arabi - quindi Egitto, Giordania, Siria, ecc. - la rivoluzione ha toccato i cristiani come tocca i musulmani e quindi con le stesse paure, le stesse preoccupazioni e la stessa incertezza del futuro. Bisogna vedere cosa succederà ora in Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno vinto le elezioni e bisogna anche vedere come reagirà la comunità copta. Speriamo che le promesse fatte dai Fratelli musulmani siano mantenute.
D. - La Tunisia è stato il primo Paese arabo a dar vita a questo grande cambiamento. Oggi ci sono più paure o speranze?
R. - Più speranze. La Tunisia è il Paese arabo che finora ha fatto più passi in avanti verso la democrazia. Certo è che non si cambia da una dittatura a una democrazia, come si cambia una camicia. Il processo è lungo. Stiamo avanzando bene, però: sono state fatte le elezioni, è stata fatta la Costituente, si sta scrivendo la nuova Costituzione. Speriamo entro ottobre 2013 di fare le elezioni per i prossimi cinque anni. Il Paese sta andando con passo sicuro verso la libertà e verso la democrazia.
D. - Come si guarda alla drammatica situazione in Siria, anche dalla vicina Giordania?
R. - Non so più distinguere chi dice la verità e chi dice le menzogne, ma so una cosa per certo: in Siria tutti i giorni muoiono 40-50 persone… Adesso il regime è forte, il regime è duro e i giovani protestano. In Occidente, poi, la politica è sempre ambigua, per non dire ipocrita... Bisogna avere veramente dei profeti per poter dire quello che potrà ancora succedere in Siria.
D. - Quanto è importante, in questo contesto, il viaggio apostolico del Papa in Libano a settembre?
R. - E’ importantissimo per tutte le comunità cristiane del Medio Oriente, che vivendo queste rivoluzioni hanno un po' di paura. Penso che la presenza del Santo Padre, per noi, sarà un messaggio di incoraggiamento, di speranza e di richiamo a vivere la nostra fede, dove Dio ci ha posti - quindi nel mondo arabo - nel contesto arabo musulmano dei Paesi arabi. Se Dio ci ha voluti arabi cristiani è per vivere la nostra fede laddove ci ha voluti e non in Francia, in Italia o in Germania.
La figura femminile protagonista al Festival Francescano di Rimini
◊ Le donne come portatrici di pace e accoglienza. E’ il tema che quest’anno sarà al centro della quarta edizione del Festival Francescano, che si svolgerà in diverse piazze di Rimini da 28 al 30 settembre prossimi, con appuntamenti, dibattiti, spettacoli. Spunto di partenza, l'ottavo centenario della consacrazione di Chiara D’Assisi, figura femminile chiave del messaggio francescano. Il presidente del Festival, Alessandro Caspoli racconta il senso e gli appuntamenti del festival al microfono di Paola Simonetti:
R. - Parlando di Santa Chiara, e parlando della sua originalità nella figura del mondo religioso femminile, abbiamo voluto porre l’accento su come il femminile sia di grande importanza nel mondo religioso, nel mondo cattolico e di come le sue declinazioni sono varie, partendo dai privilegi e dalle specificità che il mondo femminile ha nella sua singolarità. Ed è per questo che il femminile non si può declinare solamente in una maniera ma in tante. Questo plurale esplicita proprio questo: generare, essere madre e generare non solamente la vita, ma anche la pace, il bene. In questo, penso che le figure di maggiore riferimento del mondo francescano siano state molto significative, non solo religiose ma anche laiche. Hanno portato, nella loro specificità e unicità, il femminile nella costruzione di un mondo più giusto e più pacifico.
D. - Lei ritiene però che oggi nel mondo sia ancora così? La figura femminile è ancora così importante in questo senso?
R. - La figura femminile è molto importante perché ancora oggi ci sono delle figure che rappresentano questo. Sono figure che magari non hanno la stessa importanza degli esempi alti di cui parleremo – Chiara stessa – ma che, in qualche modo, danno unicità. La differenza con il mondo maschile è netta, è chiara, soprattutto in questa capacità di accogliere "a braccia aperte", che secondo me è più tipicamente femminile che maschile.
D. - Quali saranno gli appuntamenti che quest’anno proporrà l’evento?
R. - Ci saranno alcuni appuntamenti: conferenze con alcuni personaggi come Jacques Dalarun, Felice Accrocca, Valeria Piccari, Susanna Camusso e Tiziana Ferrario, che parleranno di queste figure del femminile. E poi c’ è tutta la parte degli spettacoli. Quest’anno porteremo al Festival uno spettacolo che si chiama "Chiara e Francesco in musical. L’amore è quello vero". Si tratta di una nuova realizzazione del Festival che cercheremo di portare avanti.
Per la pace in Siria il Patriarca Gregorios III invoca il dialogo nazionale
◊ Per uscire dalla crisi siriana e porre fine al conflitto, “urge che tutti i siriani unifichino gli sforzi per un autentico dialogo nazionale”: è quanto ha detto il Patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, Gregorio III Laham, inaugurando il Sinodo della Chiesa Greco cattolica melkita in corso in Libano, alla presenza di Vescovi e rappresentanti da Medio Oriente, Europa, America, Australia. Come riferito all'agenzia Fides, il Patriarca ha dichiarato: “Esprimiamo solidarietà al nostro popolo siriano, tenace nella sua ricerca di vita, di dignità e di unità del suo Paese”, auspicando “la convergenza di tutte le componenti sociali e religiose nella ricerca di una riforma globale del paese”, che va realizzata “in tutti i campi della realtà politica, sociale, culturale e amministrativa, attraverso gli sforzi di tutti i siriani: del governo, dei partiti politici, degli intellettuali, dell’opposizione costruttiva”. Il Patriarca, ribadendo la posizione della Chiesa cattolica in Siria, ha detto: “Chiediamo con forza a tutte le parti coinvolte, nel Paese e all’estero, di partecipare alla costruzione di una nuova Siria, sul modello di una democrazia plurale”, dato che “la violenza ha superato ogni limite” e “sta distruggendo la nazione”. Il Patriarca ha lanciato un appello “a non spingere cittadini innocenti nel conflitto politico” e “a non terrorizzare i civili con rapimenti, omicidi, estorsioni, distruzione e sequestro dei loro beni”, esprimendo la vicinanza della Chiesa a tutti i cittadini siriani vittime della spirale di violenza. (R.P.)
La Chiesa in Siria: i civili intrappolati a Homs utilizzati come scudi umani
◊ Gli 800 civili intrappolati a Homs sono stretti fra il fuoco incrociato, impossibilitati a uscire, strumentalizzati nel conflitto, ora utilizzati come scudi umani: è l’allarme che giunge all’Agenzia Fides da esponenti della Chiesa locale impegnati a cercare una soluzione per la salvezza delle loro vite. Una fazione dell’esercito ribelle asserragliato in città - riporta l'agenzia Fides - non vuole farli evacuare per impedire all’esercito siriano di assumere posizioni favorevoli con i mezzi militari. Come ha riferito a Fides il sacerdote cristiano ortodosso padre Boutros Al Zein, “fra loro vi sono circa 400 civili cristiani, per la maggior parte anziani e donne, vittime di un autentico sequestro, bloccati nelle strade di Al Bustan Diwan e Hamidiyyeh. I civili – spiega – sono stati raccolti e diretti verso il confine di queste due strade, divenendo scudi umani per evitare l'assalto delle forze siriane regolari”. Nei giorni scorsi due sacerdoti cristiani ortodossi, padre Maximos Al Jamal e padre Boutros Al Jamal, hanno cercato di negoziare per liberare gli ostaggi, ma l'iniziativa è fallita. Ora l’esercito siriano ha detto ufficialmente di “concedere l’evacuazione dei civili, senza precondizioni” e di aver predisposto un corridoio di uscita. Il Ministero degli esteri siriano ha dichiarato di “aver ordinato al governatore di Homs di provvedere all’uscita di tutti i cittadini dalle aree di conflitto”. Gli esponenti della Chiesa locale chiedono a tutti i gruppi armati di “non utilizzare i civili innocenti, facilitare la loro evacuazione, rispettare la loro vita e la loro libertà”. (R.P.)
Sudan: confiscate scuole cattoliche nella regione di Khartoum
◊ Le autorità sudanesi hanno confiscato due scuole cattoliche nella regione di Khartoum: lo dice all'agenzia Misna mons. Daniel Adwok, il vescovo ausiliario, sottolineando che la misura è legata al ritorno di centinaia di migliaia di migranti nello Stato del Sud divenuto indipendente l’anno scorso. “Con il sostegno del ministero dell’Istruzione – sottolinea il vescovo – le autorità locali hanno confiscato con la forza due grandi scuole proprietà della Chiesa che si trovano nell’area di Mayo”. Il provvedimento è scattato nonostante rappresentanti della diocesi avessero discusso di recente della questione con alcuni esponenti del governo. Secondo mons. Adwok, la decisione va letta nel contesto dei cambiamenti determinati dall’indipendenza del Sud Sudan. “Dall’anno scorso – sottolinea il vescovo – si sono svuotate molte delle scuole costruite dalla Chiesa o da privati per accogliere i bambini delle famiglie costrette a riparare a Khartoum dopo l’inizio della guerra civile nel 1983”. La confisca decisa dalle autorità sudanesi, dicono alla Misna, sarebbe legata sia alla carenza di strutture a disposizione del ministero dell’Istruzione sia a dinamiche politiche. “Molto di quello che sta accadendo a Khartoum – sottolinea mons. Adwok – può essere compreso seguendo l’andamento dei negoziati tra i due Sudan sulla demarcazione delle frontiere e le tariffe per il transito del petrolio negli oleodotti di Khartoum”. A preoccupare è soprattutto il destino di migliaia di migranti originari del Sud a rischio espulsione. “In molti – sottolinea mons. Adwok – stanno cercando di ottenere una nuova carta d’identità e sul futuro c’è grande incertezza”. (R.P.)
Indonesia: ad Aceh estremisti islamici attaccano una casa di preghiera cristiana
◊ Una folla di estremisti islamici ha attaccato una casa di preghiera cristiana nella provincia di Aceh, danneggiando l'edificio e costringendo i fedeli a interrompere le funzioni. Testimoni locali, che chiedono l'anonimato, raccontano che l'aggressione è avvenuta durante le celebrazioni di domenica scorsa. Il luogo di culto appartiene alla comunità protestante Indonesian Bethel Church. Dietro l'assalto dei fondamentalisti pare vi sia la mancanza - accusa respinta dai cristiani - del permesso di costruzione della casa, il famigerato Imb (Izin Mendirikan Bangunan). A gettare ulteriore sconforto e paura fra i membri della chiesa, il fatto che la vicenda sia accaduta sotto gli occhi della polizia che non è intervenuta durante l'attacco e, in un secondo momento, ha posto i sigilli alla struttura. L'attacco contro i cristiani della Indonesian Bethel Church è avvenuto a Peunayong, capoluogo della provincia di Banda Aceh. La folla ha colpito mentre era in corso la preghiera domenicale: centinaia di assalitori hanno scagliato pietre e sassi contro l'edificio, causando gravi danni. Testimoni oculari confermano che la polizia ha assistito alla scena senza intervenire, mentre i fedeli hanno dovuto evacuare la zona e cercare rifugio in un luogo più tranquillo. Attivisti per i diritti umani e associazioni condannano il raid estremista, sottolineando il fatto che è avvenuto in un "ambiente pluralista", conosciuto in passato per la relativa calma. La provincia di Aceh, la più occidentale dell'arcipelago di Indonesia, è anche l'unica in cui vige la Shariah; il rispetto delle regole è inoltre assicurato dalla presenza per le strade della "polizia della morale", un corpo speciale che punisce le violazioni al costume. In passato sotto la guida del governatore Irwandy Yusuf - capo della guerriglia - vigeva una relativa calma e armonia interreligiosa fra maggioranza musulmana e "stranieri" di diverse confessioni non islamiche. Tuttavia, negli ultimi tempi la situazione è cambiata: sono iniziati gli attacchi contro le minoranze religiose, l'ala fondamentalista ha guadagnato sempre più potere e libertà di azione. Alle elezioni dello scorso aprile ha trionfato Zaini Abdullah, anch'egli leader della guerriglia separatista a lungo in esilio in Svezia, che ha promesso lotta alla corruzione e applicazione della legge islamica. A testimonianza della crescente tensione interreligiosa, nel recente passato l'area è stata teatro di attacchi e violenze contro le comunità cristiane, che hanno portato alla chiusura dei luoghi di culto. L'Indonesia è famosa per le sue campagne di moralizzazione, in nome della Shariah e del costume islamico, che assumono una connotazione particolarmente marcata ad Aceh: fra queste, la recente proposta di legge volta a proibire l'uso della minigonna, la campagna di moralizzazione degli ulema contro yoga e tabacco e i raid della polizia contro jeans e gonne attillate. (R.P.)
Appello di Save the Children al G20: i governi sviluppino sistemi di protezione sociale
◊ In occasione dell’avvio dei lavori del G20 in Messico, Save the Children ha pubblicato il rapporto “Una possibilità per crescere”, che descrive la situazione dell’aumento della povertà nei Paesi economicamente avanzati. A causa della crisi economica sale di 6 milioni il numero delle persone che devono fare i conti con la fame. Se dovesse verificarsi il fallimento dell’economia di Spagna e Italia le previsioni sarebbero peggiori, e si potrebbe arrivare a 33 milioni di persone che patirebbero la fame, ritrovandosi in condizioni di povertà e nell’impossibilità di reperire gli alimenti di base. Il direttore generale di Save the Children Italia, Valerio Neri, sostiene che “in un mondo che sta già combattendo la fame di milioni di bambini questa notizia è devastante. È comprensibile – prosegue il direttore generale – che i leader del G20 dedichino un ampio dibattito all’economia europea ma il solo fatto che i bambini più poveri non hanno voce a quel tavolo, non significa che a loro debbano essere lasciate le briciole”. I governi si trovano a fare i conti con la necessità di mettere in salvo l’Europa da una crisi e allo stesso tempo evitare che le ricadute pesino sui Paesi meno sviluppati. Il rapporto di Save the Children suggerisce come soluzione quella di aiutare i Paesi poveri a sviluppare sistemi di protezione sociale, come sovvenzioni economiche, cibo o altri beni, come reti di sicurezza nel periodo di crisi. La proposta avanzata è quella di creare un Fondo di Rapida Risposta Sociale, gestito dalla Banca Mondiale, per aiutare i Paesi a basso reddito. Dall’inizio della crisi economia nel 2008, ricorda l’Ong, 75 milioni di persone in più si sono ritrovate senza sufficiente cibo, e il numero di persone a rischio fame a livello globale è salito da 850 milioni ad almeno 2 miliardi. (A.C.)
Myanmar: condannati a morte i responsabili dell'omicidio all'origine delle violenze nel Rakhine
◊ Due uomini sono stati condannati a morte per lo stupro e omicidio in una vicenda che ha riacceso la tensione e le violenze tra comunità buddiste e musulmane nello stato occidentale di Rakhine. Lo riferisce il quotidiano ‘New light of Myanmar’, ripreso dall'agenzia Misna, secondo cui un terzo imputato si è suicidato in carcere poco prima del pronunciamento della sentenza. Il giudice ha stabilito che gli imputati potranno presentare ricorso entro sette giorni. Le violenze e rappresaglie provocate dalla vicenda, secondo la stampa birmana, avrebbero causato finora almeno 300.000 sfollati tra i buddisti di etnia rakhine e musulmani della minoranza dei Rohingya che abitano nella regione al confine con il Bangladesh. L’intera zona è stata posta sotto coprifuoco dal presidente Thein Sein, mentre le associazioni umanitarie lamentano le difficoltà a cui gli sfollati andranno incontro non appena, a breve, inizierà la stagione dei monsoni. Molti musulmani Rohingya, oggetto di persecuzioni da lungo tempo e una delle minoranze più discriminate al mondo secondo Amnesty International, hanno cercato di attraversare la frontiera a bordo di battelli che sono stati respinti sistematicamente dai guardiacoste del Bangladesh. Diversi osservatori hanno sollevato il timore che le violenze nell’ovest possano gettare un’ombra sul percorso di democratizzazione intrapreso dalle autorità di Naypyidaw con lo svolgersi di elezioni e la liberazione di migliaia di prigionieri anche politici. È di oggi l’annuncio del presidente Thein Sein della seconda parte del programma di riforme economiche che – ha detto – porterà il Paese a triplicare il prodotto interno lordo pro capite entro i prossimi anni. (R.P.)
Pakistan: i cristiani sostengono la nuova legge su conversioni e matrimoni forzati
◊ Le conversioni e i matrimoni forzati sono “contrari alla dignità umana, ai diritti umani, alle libertà fondamentali di ogni individuo, inscritte da Dio in ogni essere umano”. Per questo “come cristiani, sosteniamo con vigore il progetto di una nuova legge che impedisca tali abusi, che colpiscono specialmente le minoranze religiose indù e cristane”: lo dice all’agenzia Fides il domenicano padre James Channan, direttore del “Peace Center” di Lahore, in prima linea nel promuovere il dialogo interreligioso e i diritti delle minoranze religiose in Pakistan. Secondo padre Channan – in passato segretario della Commissione episcopale per il Dialogo e Consultore del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso – “l’iniziativa della Commissione nazionale per le Minoranze Religiose sul nuovo progetto di legge per fermare le conversioni e i matrimoni forzati è molto importante e rappresenterebbe un passo avanti per l’armonia e la pace in Pakistan”. Per questo la comunità cristiana “la sostiene con vigore, nell’ottica di contribuire allo sviluppo, al progresso e alla costruzione di una nazione tollerante, pacifica, pienamente rispettosa dei diritti dell'uomo”. Il progetto di legge proposto dalla Commissione prevede, fra l’altro, che i convertiti all’islam non possano sposarsi per almeno sei mesi dopo la conversione e che un magistrato, non un agente di polizia, sia incaricato di registrare, in modo indipendente, le dichiarazioni dei presunti convertiti. La questione sta agitando il Paese a tutti i livelli. Nei giorni scorsi il politico indù Bherulal Balani ha denunciato che un parlamentare membro del Pakistan Peoples Party (Ppp), il partito di governo, è coinvolto nel rapimento e nella conversione di ragazze indù, notando “l’indifferenza del partito di fronte al fenomeno delle conversioni forzate”, tornato alla ribalta della cronaca nei mesi scorsi per il caso di Rinkle Kumari, Asha Kumari e Lata Fumari, tre ragazze indù convertite a forza all’islam. La comunità indù ha anche minacciato una “emigrazione di massa dal Paese, se non saranno presi immediati provvedimenti per fermare le conversioni forzate”, come ha asserito di recente il Consiglio Indù del Pakistan, davanti ad una assemblea di oltre 400 leader della comunità indù delle province di Sindh e Beluchistan. Anche i rappresentanti del “Pakistan Dalit Solidarity Network” hanno chiesto al governo di prendere atto del rapimento di ragazze dalit e della loro conversione forzata all'Islam, denunciando la discriminazione sociale ed economica contro le comunità più povere ed emarginate. Secondo Paul Bhatti, Consigliere Speciale del Primo Ministro per l’Armonia Nazionale, le cause principali delle conversioni forzate sono povertà, analfabetismo, ignoranza e ingiustizia sociale. (R.P.)
India: nell'Haryana iniziative contro aborti selettivi e feticidi femminili
◊ Circa 225 donne, membri del primo consiglio di villaggio (gram sabha) tutto al femminile dell'Haryana, hanno deciso di istituire comitati di vigilanza per fermare gli aborti selettivi e i feticidi femminili. In base alla loro proposta, ciascuna delle 14 circoscrizioni del villaggio di Bibipur (distretto di Jind) avrà una sua commissione, formata da tre donne e un uomo, con il compito di seguire e tenere sotto controllo le donne incinte. La mossa è significativa - riferisce l'agenzia AsiaNews - anche perché l'Haryana è uno degli Stati indiani in cui è più diffusa la pratica della selezione di genere. Le donne hanno avanzato la proposta al cospetto del sarpanch (capo villaggio), Sunil Jaglan, che ha dato piena approvazione al progetto. "Da questo momento - spiega l'uomo - le anganwadi (sorta di operatrici sanitarie) dovranno registrare ogni donna al secondo mese di gravidanza. Fino a oggi, lo Stato per legge registra già le donne incinte a partire dal quarto mese. La nostra speranza è che abbassare il limite possa servire come deterrente, e che altri villaggi prendano esempio da noi". Gli aborti selettivi femminili sono aumentati con il miglioramento e la diffusione dei test per determinare il sesso del nascituro. La legge indiana considera illegali questi esami, ma medici senza scrupoli allestiscono cliniche private abusive, dove a prezzi molto alti praticano interruzioni di gravidanza. A proposito di queste strutture, Birmati, una donna di 50 anni, spiega: "Una famiglia deve dare 5mila rupie (circa 70 euro) per effettuare questi test, e poi altrettanti per abortire. Questo, solo per non avere il 'problema economico' di una bambina. Se gli stessi soldi venissero invece depositati in un deposito fisso alla nascita della piccola, la famiglia non avrebbe bisogno di preoccuparsi del suo futuro. Quando sarà grande, la banca potrà fornire loro sostegno finanziario sufficiente per i suoi studi e per un buon matrimonio". La piaga degli aborti selettivi e dei feticidi femminili affonda le sue radici in un retroterra culturale che privilegia l'erede maschio. Quella indiana è una società patriarcale che considera le figlie femmine un peso economico: una ragazza deve essere istruita e data in moglie, ma può trovare marito "solo" se ha a disposizione una dote consistente. In molte comunità, anche una volta sposata la donna non sarà rispettata finché non dà alla luce un bambino. Secondo l'ultimo censimento nazionale (Census 2011), l'Haryana è uno degli Stati peggiori in termini di aborti selettivi femminili. Nel tempo, questo ha portato ad alterare la composizione della popolazione, che oggi conta 877 donne ogni 1000 uomini. Ma lo squilibrio tra numero di nascite maschili e femminili (sex ratio) scende ancora considerando la fascia sotto i sei anni: 830 bambine ogni 1000 bambini. (R.P.)
Cina: gravi inondazioni delle province costiere per la tempesta tropicale Talim
◊ La provincia nordorientale cinese di Harbin sta subendo gravi inondazioni a causa della tormenta tropicale Talim che ha portato forti piogge. Si tratta della quinta tempesta di quest’anno e l’allerta ora è anche per le zone dell’est e del sud del Paese. Localizzata a 740 chilometri dal distretto di Zhaoan, provincia orientale di Fujian, si trovava a 160 chilometri dalla città di Wenchang, nella provincia insulare di Hainan, all’estremo sud, con venti fino a 64 chilometri all’ora. La tormenta tropicale e la precedente depressione - riporta l'agenzia Fides - hanno causato pesanti piogge in varie parti del Fujian, fino alla zona continentale dello stretto di Taiwan. Un totale di 24 distretti hanno avuto acqua fino a 50 millimetri, altri dieci tra 50 e 100 millimetri. Secondo il centro provinciale di prevenzione e controllo delle alluvioni, l’acqua ha raggiunto il metro di altezza, il traffico automobilistico è stato sommerso e si aspettano precipitazioni tra moderate e forti nelle città di Zhangzhou, Xiamen, Longyan, Sanming, Nanping y Quanzhou. (R.P.)
Africa Occidentale: nasce l’unità di pace e sicurezza per rispondere alla crisi
◊ La nascita di un’Unità di pace e sicurezza per gestire la situazione di instabilità dell’Africa Occidentale: è quanto hanno deciso i presidenti di Guinea, Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio, riunitisi in un vertice a Conakry. L’iniziativa – riferisce l’agenzia Misna – è stata presa per fronteggiare le diverse crisi che stanno affliggendo i Paesi della zona, in particolare quella del Nord Mali, della Guinea Bissau e il conflitto al confine tra Liberia e Costa d’Avorio. Una delle altre iniziative, infatti, è stata quella di attivare pattuglie miste per rendere più sicure le frontiere. Proprio lo scorso 9 giugno, dopo l’attacco al villaggio ivoriano di Taï, il governo liberiano ha chiuso le frontiere e deciso di arrestare e rimpatriare ogni persona coinvolta negli attacchi. Secondo l’Onu e il governo ivoriano, delle ultime violenze sono responsabili alcuni gruppi armati legati all’ex presidente Gbagbo. A tali accuse risponde Laurent Akoun, portavoce del Fronte popolare ivoriano (Fpi), l’ex partito al potere, affermando che le violenze farebbero parte di “un complotto orchestrato dal potere per accelerare l’espropriazione dei contadini autoctoni e completare la colonizzazione burkinabé per consegnare le risorse nazionali alle multinazionali”. Il ministro della Difesa ivoriano ha, tuttavia, avviato un censimento per identificare tutti gli ex combattenti in circolazione e procedere al disarmo, alla smobilitazione e al reinserimento. (A.C.)
Costa d'Avorio: a ovest si raccolgono armi e munizioni ma le violenze continuano
◊ E’ partita ieri dalla località di Danané (ovest) un’operazione di raccolta armi e munizioni gestita dalla Commissione nazionale di lotta alle armi leggere e di piccolo calibro dopo la crisi elettorale del 2011, conclusasi con 3000 vittime soprattutto nell’ovest. A Guigno, la commissione ha svolto una campagna di sensibilizzazione per spingere la gente in possesso illegale di armi a consegnarle in modo volontario. Agli ex combattenti è stata assicurata l’impunità e una “tessera da smobilitati” utile per il loro reinserimento socio-economico. L’operazione, sostenuta dalla locale missione Onu, è cominciata mesi fa ad Abidjan e nei principali capoluoghi per contrastare la proliferazione d’armi e il perdurare dell’insicurezza. Secondo gli ultimi dati ufficiali, finora 2.000 ex combattenti hanno partecipato alla campagna e consegnato 1.500 armi e 50.000 munizioni. Nonostante l’iniziativa, l’ovest ivoriano, principale regione produttrice di caffè e cacao, è stata nuovamente teatro di violenze. Nel villaggio di Déhiba, nel dipartimento di Duékoué, almeno due persone sono rimaste uccise e diverse altre ferite, di cui tre sono gravi, in un attacco notturno verificatosi tra domenica e lunedì, attribuito a non meglio identificati uomini armati. La dinamica di questo assalto ricorda quelli degli scorsi 8 e 11 giugno ai danni delle località di Taï e Para, dove sette caschi blu dell’Onuci e 11 civili hanno perso la vita. I fatti di sangue sono stati attribuiti a miliziani giunti dalla confinante Liberia, presumibilmente uomini legati all’ex presidente ivoriano Laurent Gbagbo, sotto processo alla Corte Penale Internazionale (Cpi). Le accuse sono state respinte dall’ex partito al potere (Fronte popolare ivoriano, Fpi) che denuncia invece un “complotto e una diversione macabra” orchestrata dall’attuale presidente Alassane Dramane Ouattara, per “accelerare l’espropriazione dei contadini autoctoni e favorire la colonizzazione burkinabé già avviata, consegnando le risorse nazionali alle multinazionali”. Se l’Ovest sta pagando il prezzo più alto della diffusa insicurezza, in realtà è già da decenni la regione più instabile del Paese a causa di antichi conflitti tra elementi locali e stranieri, soprattutto burkinabé, per il controllo delle piantagioni di cacao e delle terre fertili. Nonostante l’avvio di pattuglie miste tra forze ivoriane e liberiane sostenute dai caschi blu, molti dei villaggi situati lungo il poroso confine con la Liberia si sono svuotati dai propri abitanti che temono nuovi attacchi e vendette, interrompendo anche le attività agricole con gravi conseguenze per l’economia locale. Fonti dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli Affari umanitari (Ocha) hanno riferito di aver registrato almeno 12.000 sfollati che vivono in condizioni difficili. (R.P.)
Zimbabwe: continuano gli abusi dei diritti umani nonostante gli appelli dei leader
◊ Elezioni truccate, libertà di parola e di stampa limitate, censura dei media o intimidazioni e tentativi di controllo delle attività della società civile e delle Ong continuano a violare il rispetto dei diritti umani in molti Paesi del mondo. Nello Zimbabwe la situazione è particolarmente grave. Secondo il rapporto 2011 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Tutela dei Diritti Umani, rispetto all’anno precedente, gli abusi nel Paese sono stati causati dai sostenitori dell’Unione Nazionale Africana Zimbabwe - Fronte Patriottico (Zanu-Pf) che continuano a colpire i membri degli altri partiti politici, i giornalisti e gli attivisti della società civile con violenze, arresti e abusi di natura fisica che spesso portano alla morte. Nonostante gli appelli del Presidente Mugabe e degli altri leader per fermare la violenza politica, le forze di sicurezza continuano ad agire impunemente. Gruppi di criminali sotto la bandiera Zanu-Pf hanno invaso proprietà private, demolito abitazioni e piccoli mercati. Per il bene della nazione, è fondamentale che tutti i protagonisti politici e del settore della sicurezza seguano le direttive del presidente e sospendano immediatamente tali violenze, oltre ad essere altrettanto importante che il Presidente Mugabe insista sul fatto che il governo imponga la sua direttiva. Gli Stati Uniti sono impegnati a promuovere i diritti universali, la creazione di partenariati che favoriscano lo Zimbabwe e aiutino uomini, donne e bambini a vivere in condizioni di vita dignitose, e che i diritti umani siano rispettati e tutelati. (R.P.)
Eritrea: l’Onu denuncia abusi e torture sui prigionieri
◊ Drammatica la situazione dei diritti umani in Eritrea, dove – riferisce l’agenzia Misna – abusi e torture sono all’ordine del giorno. L’alto commissario Onu per i diritti umani Navi Pillay, sostiene che nelle prigioni del Paese ci sono tra i 5.000 e i 10.000 prigionieri politici. “Informazioni credibili – afferma il rappresentante Onu – indicano che gli abusi includono la detenzione arbitraria, le torture, il lavoro forzato, la leva obbligatoria e ampie restrizioni alla libertà di espressione, assemblea e religione”. Secondo le associazioni per i diritti umani, sono migliaia le persone che cercano di fuggire all’estero per sottrarsi alla leva obbligatoria prevista per tutti i cittadini tra i 18 e i 48 anni. Ci sarebbero inoltre centinaia di migliaia di detenuti nelle carceri sotterranee, soprattutto giornalisti e dissidenti, che subiscono torture e maltrattamenti. (A.C.)
El Salvador: in 100 giorni di tregua tra bande criminali, salvate decine di vite umane
◊ Il patto tra le bande criminali, la “Mara Salvatrucha” (MS-13) e la “Mara 18” (M-18), ha ridotto gli omicidi giornalieri da 14 a 5, secondo dati forniti dal vicario castrense mons. Fabio Colindres, che è stato il primo a proporre la tregua insieme all'ex comandante della guerriglia Raul Mijango. Per festeggiare i risultati dell'accordo, mons. Colindres ha presieduto una cerimonia religiosa nel carcere di Quezaltepeque, circa 25 chilometri a nordovest della capitale. "I risultati sono evidenti, più di 800 vite sono state salvate, siamo lieti che questo processo di pace vada avanti lentamente", ha detto mons. Colindres in una nota inviata all'agenzia Fides. "Sono solo passato a salutarvi e a dirvi che la tregua vale la pena", ha detto mons. Colindres ai membri delle bande detenuti, alcuni dei quali accompagnati da mogli e figli piccoli. "Questo giorno è speciale. Il 16 giugno abbiamo compiuto i primi 100 giorni dall'inizio della tregua, un processo che ha dato ottimi risultati ed è stato molto utile per il Paese, perché sono state salvate oltre 800 vite" ha detto l'ex comandante della guerriglia Raul Mijango. Oggi sarà la volta delle carceri di Ciudad Barrios (est del Paese) e di Izalco (ad ovest) di celebrare i 100 giorni di tregua per la pace. Secondo dati raccolti dall'Agenzia Fides, nelle carceri di El Salvador sono detenuti circa 10.000 membri delle bande criminali, mentre 50.000 sono ancora liberi. (R.P.)
Polonia: ad agosto prima visita di un Patriarca della Chiesa ortodossa russa
◊ Il segretario dell’episcopato polacco mons. Wojciech Polak ha reso noto – secondo quanto riferiscono le agenzie Ansa e Afp – che il patriarca della Chiesa ortodossa russa, Kirill, sarà in visita in Polonia dal 16 al 19 agosto. Invitato dal metropolita della Chiesa ortodossa polacca, mons. Sawa, il patriarca firmerà, insieme all’arcivescovo Jozef Michalik, presidente della conferenza episcopale polacca, un documento che invita alla riconciliazione tra le due Chiese. Il documento “sarà prima di tutto un appello indirizzato ai fedeli delle due Chiese, ortodossa di Russia e cattolica di Polonia”, spiega mons. Polak, che sottolinea l’importanza di cercare la riconciliazione per un nuovo avvenire fra le due nazioni. Kirill visiterà, inoltre, il sacro monte di Grabarka, importante luogo di culto ortodosso. (A.C.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 171