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Sommario del 11/06/2012
◊ “La fedeltà di Dio è la chiave e la sorgente della nostra fedeltà”: è uno dei passaggi forti del discorso rivolto, stamani, da Benedetto XVI alla comunità della Pontificia Accademia Ecclesiastica, che forma quanti sono chiamati a lavorare nelle nunziature di tutto il mondo. Il Papa ha incentrato il suo discorso sul valore della fedeltà alla Chiesa e al Successore di Pietro, in particolare da parte dei suoi più stretti collaboratori. Non è questa una fedeltà cieca, ha detto, ma illuminata dalla fede nel Signore. Il servizio di Alessandro Gisotti:
La fedeltà al Papa è fedeltà al Signore. Nel suo discorso alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, Benedetto XVI si è soffermato sul “legame tutto particolare che si stabilisce” tra il Successore di Pietro e i suoi collaboratori, specie nella Curia Romana e nelle rappresentanze pontificie:
“Cari amici, nella misura in cui sarete fedeli, sarete anche degni di fede. Sappiamo del resto che la fedeltà che si vive nella Chiesa e nella Santa Sede non è una lealtà ‘cieca’, poiché essa è illuminata dalla fede in Colui che ha detto: ‘Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa’”.
Dal Papa è arrivato, dunque, l’incoraggiamento a “vivere il legame personale con il Vicario di Cristo come parte” della propria “spiritualità”. Si tratta, ha osservato, di “un elemento proprio di ogni cattolico, ancor più di ogni sacerdote”. Tuttavia, ha proseguito, per quanti operano presso la Santa Sede “esso assume un carattere particolare, dal momento che essi pongono al servizio del Successore di Pietro buona parte delle proprie energie, del proprio tempo e del proprio ministero quotidiano”:
“Si tratta di una grave responsabilità, ma anche di un dono speciale, che con il passare del tempo va sviluppando un legame affettivo con il Papa, di interiore confidenza, un naturale idem sentire, che è ben espresso proprio dalla parola ‘fedeltà’”.
Il Papa non ha poi mancato di sottolineare come la fedeltà sia non solo una virtù, ma “anzitutto un attributo divino”. Applicata all’uomo, dunque, la virtù della fedeltà “è profondamente legata al dono soprannaturale della fede, divenendo espressione di quella solidità propria di chi ha fondato in Dio tutta la vita”:
“Nella fede troviamo infatti l’unica garanzia della nostra stabilità (cfr Is 7,9b), e solo a partire da essa possiamo a nostra volta essere veramente fedeli: anzitutto a Dio, quindi alla sua famiglia, la Chiesa che è madre e maestra, e in essa alla nostra vocazione, alla storia in cui il Signore ci ha inseriti”.
Per chi poi serve nelle nunziature, il Papa ha richiamato l’importanza dell’alimentare un rapporto di “stima e benevolenza” anzi “di vera amicizia” verso le Chiese e le comunità alle quali sono inviati. Anche qui, ha affermato, è necessario un “dovere di fedeltà che si concretizza nell’assidua dedizione al lavoro quotidiano, nella presenza in mezzo ad esse nei momenti lieti e tristi, talora persino drammatici della loro storia”. E, ancora, “nell’acquisizione di una conoscenza approfondita della loro cultura, del cammino ecclesiale, nel saper apprezzare quanto la grazia divina è andata operando in ogni popolo e nazione”:
“In questo modo incoraggerete e stimolerete anche le Chiese particolari a crescere nella fedeltà al Romano Pontefice, e a trovare nel principio di comunione con la Chiesa universale un sicuro orientamento per il proprio pellegrinaggio nella storia”.
Inoltre, ha aggiunto il Papa, “aiuterete lo stesso Successore di Pietro ad essere fedele alla missione ricevuta da Cristo, consentendogli di conoscere più da vicino il gregge a lui affidato e di raggiungerlo più efficacemente con la sua parola, la sua vicinanza, il suo affetto”. Dal Papa, infine, un ringraziamento per l’aiuto che riceve “quotidianamente dai molti collaboratori della Curia romana e delle Rappresentanze Pontificie”, come anche per il “sostegno” che gli “viene dalla preghiera di innumerevoli fratelli e sorelle di tutto il mondo”.
Il Papa ai cappellani dell’aviazione civile: negli aeroporti germogli il seme del Vangelo
◊ Gli aeroporti rispecchiano sempre di più la realtà globalizzata e sono luoghi di incontro dove si concentrano anche molte ansie e difficoltà del nostro tempo. E’ quanto ha affermato Benedetto XVI incontrando, stamani in Vaticano, i partecipanti al XV seminario internazionale dei cappellani cattolici e membri delle cappellanie dell’aviazione civile, promosso dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
Indicando l’urgenza di rendere presente la missione della Chiesa “di portare Dio all’uomo e guidare l’uomo all’incontro con Dio”, il Papa ha ricordato che negli aeroporti si incontrano persone diverse per nazionalità, cultura e religione. In questi luoghi sono anche molteplici le situazioni umane “non facili che richiedono sempre maggiore attenzione”:
“Penso, ad esempio, a coloro che vivono un’attesa piena di angoscia nel tentativo di transitare senza i documenti necessari, in qualità di migranti o di richiedenti asilo; penso ai disagi causati dalle misure per contrastare gli atti terroristici. Anche nelle comunità aeroportuali si rispecchia poi la crisi di fede che tocca molte persone: i contenuti della dottrina cristiana e i valori che essa insegna non sono più considerati punti di riferimento, pure in Paesi che hanno una lunga tradizione di vita ecclesiale”.
In questo contesto, i membri delle cappellanie dell’aviazione civile sono chiamati ad annunciare il Vangelo con l’esempio e la testimonianza ben consapevoli che…
"…pur nell’occasionalità degli incontri, la gente sa riconoscere un uomo di Dio e che spesso anche un piccolo seme in un terreno accogliente può germogliare e produrre frutti abbondanti”.
Negli aeroporti la mobilità continua e la tecnologia rischiano anche di oscurare la centralità di ogni essere umano:
“Spesso l’attenzione maggiore viene riservata all’efficienza e alla produttività, a scapito dell’amore del prossimo e della solidarietà, che devono, invece, caratterizzare sempre i rapporti umani. Anche in questo la vostra presenza è importante e preziosa: è una testimonianza viva di un Dio che è vicino all’uomo; ed è un richiamo a non essere mai indifferenti verso chi si incontra, ma a trattarlo con disponibilità e con amore”.
Da qui l'importanza delle cappelle aeroprotuali, come “luoghi di silenzio e di ristoro spirituale”. Il modello di questo servizio pastorale nelle cappellanie – ha osservato il Pontefice – è la Vergine Santa, venerata con il titolo di Madonna di Loreto, patrona di tutti i viaggiatori in aereo in ossequio alla tradizione “che attribuisce agli angeli il trasporto da Nazaret a Loreto della Casa di Maria”. C’è anche un altro “volo” di cui quella Santa Casa è testimone, quello dell’arcangelo Gabriele che porta il lieto annuncio a Maria. Così, "l’Eterno è entrato nel tempo, Dio si è fatto uomo":
“Mentre eravamo ancora peccatori Dio ha mandato il suo Figlio, Gesù Cristo, per redimerci con la sua morte e risurrezione. Egli non è rimasto nell’alto dei cieli, ma si è immerso nelle gioie e nelle angosce degli uomini del suo tempo e di tutti i tempi, condividendo la loro sorte e ridonando loro la speranza”.
Questa è la missione della Chiesa: annunciare Gesù Cristo unico Salvatore e rinnovare quest’opera di evangelizzazione in un mondo – ha concluso il Papa - in cui “l’abbattimento delle frontiere e i nuovi processi di globalizzazione rendono ancora più vicine le persone e i popoli”.
Le parole pronunciate questa mattina con Benedetto XVI hanno definito i punti tematici del Seminario dedicato alla pastorale nell’ambiato dell’aviazione civile. Ad aprire i lavori è stato il presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei migranti, il cardinale Antonio Maria Vegliò, che ha definito la cappella di uno scalo il “centro spirituale dell’aeroporto”, la cui presenza è “la risposta della Chiesa al desiderio espresso dal Beato Giovanni Paolo II”, il quale pensando a quelle realtà ininterrotte di folla e transito affermò una volta: “Quanto si desidera (…) incontrare un volto amico [nell’aeroporto], ascoltare una parola serena, ricevere un gesto di cortesia e di concreta comprensione!” È proprio, attraverso “questi gesti semplici e apparentemente piccoli”, ha osservato il porporato, che “può iniziare l’opera dell’evangelizzazione”. Il Seminario, che si concluderà giovedì prossimo, dovrà cercare di definire, ha proseguito il cardinale Vegliò, “nuovi modi ed espressioni della Buona Notizia da trasmettere all’uomo contemporaneo con rinnovato entusiasmo”.
Anche il sottosegretario del dicastero pontificio dei Migranti, padre Gabriele Bentoglio, nell’illustrare i vari momenti di dibattito del Seminario è intervenuto soffermandosi, fra l’altro, sulla “dimensione universale e dialogico-missionaria” da sempre coltivata dalla Chiesa nella propria azione pastorale, oltre che su una lettura generale del fenomeno della mobilità umana, considerato dal punto di vista del Magistero ecclesiale. Un fenomeno, ha puntualizzato, che la Chiesa vede nella sua “dimensione positiva”, anche per ciò che riguarda l’aviazione civile. “Siamo tutti consapevoli che l’incontro tra persone e gruppi, per tempi più o meno prolungati, inevitabilmente dà origine a molti problemi che stimolano la creazione di una nuova condivisione degli spazi vitali. Il dialogo – ha detto – è quindi un elemento indispensabile in tale progetto, ed è davvero un requisito non negoziabile, soprattutto perché la circolazione delle persone comporta l’interazione di individui e gruppi a livelli profondamente umani, religiosi e culturali”. Che la Madonna di Loreto, Patrona degli aviatori aiuti i nostri sforzi, ha concluso padre Bentoglio, tesi a individuare “modalità con cui possiamo meglio e più efficacemente svolgere la nostra missione evangelizzatrice nell’ambito dell’aviazione civile”. (A cura di Alessandro De Carolis)
◊ Il Papa ha ricevuto in udienza il signor Miltiadis Hiskakis, Ambasciatore di Grecia, in visita di congedo.
In El Salvador, il Santo Padre ha nominato Vescovo di Sonsonate il Reverendo Constantino Barrera Morales, del clero della diocesi di San Vicente, finora Rettore del Seminario Maggiore Nazionale “San José de la Montaña” a San Salvador.
In Colombia, il Santo Padre ha nominato Vescovo di Garzón S. E. Mons. Fabio Duque Jaramillo, O.F.M., finora Vescovo di Armenia (Colombia).
Stasera Benedetto XVI a San Giovanni in Laterano per aprire il Convegno della diocesi di Roma
◊ Sarà come di consueto Benedetto XVI a inaugurare questa sera il Convegno Ecclesiale Pastorale annuale della diocesi di Roma, dal titolo “Andate e fate discepoli, battezzando e insegnando. Riscopriamo la bellezza del Battesimo”. Il Papa interverrà nella Basilica a San Giovanni in Laterano alle 19.30. Seguirà un intervento di mons. Crispino Valenziano sulla prassi battesimale nella storia della Chiesa.
Nella serata di domani, sarà la volta del cardinale vicario, Agostino Vallini, che terrà una relazione sul tema “Orientamenti per una rinnovata pastorale battesimale”, con la quale in cui indicherà le linee pastorali da adottare. Concluderà l’assemblea diocesana una comunicazione di Mons. Andrea Lonardo nella quale saranno illustrate le proposte per la pastorale post-battesimale. Il terzo giorno, i lavori del Convegno si svolgeranno nelle prefetture per una prima valutazione su quanto emerso nelle serate precedenti.
Padre Lombardi: sul caso dei documenti trafugati assicurate garanzie all'imputato Paolo Gabriele
◊ Il nuovo incontro di padre Federico Lombardi con i giornalisti si è aperto oggi con un pensiero alle violenze che continuano ad avvenire in Nigeria. Il direttore della Sala Stampa vaticana ha espresso dolore e orrore per i nuovi sanguinosi attacchi alle chiese da parte del gruppo fondamentalista Boko Haram. Ha auspicato poi che le autorità nigeriane riescano a risolvere una situazione che colpisce duramente la popolazione locale. Anche altri i temi affrontati in conferenza stampa, tra i quali la vicenda dei documenti vaticani trafugati. Ci riferisce Giancarlo La Vella:
Gli avvocati difensori di Paolo Gabriele, l’ex aiutante di camera del Papa, che rimane l’unico inquisito sulla vicenda dei documenti trafugati in Vaticano, hanno presentato domanda di libertà vigilata al giudice istruttore, che si riserva ora di rispondere. Per adesso, l’imputato rimane in custodia cautelare. Smentite poi da padre Lombardi le notizie apparse sulla stampa di convocazioni di altri personaggi, religiosi e laici. Il tutto comunque - ha affermato il direttore della Sala Stampa vaticana - sta avvenendo con piena garanzia per Paolo Gabriele e con i tempi del caso. A proposito della valutazione del Vaticano da parte di Moneyval, il gruppo di esperti legali e finanziari del Consiglio d’Europa che si occupano dell’analisi dei sistemi antiriciclaggio dei Paesi membri, padre Lombardi ha detto che è positivo che si sia intrapreso un chiaro cammino nell’esporsi alle valutazioni, come nella volontà del Papa, di persone altamente esperte e specializzate.
E’ un confronto sereno - ha sottolineato padre Lombardi - tra le istituzioni della Chiesa, che hanno una loro specificità, e il mondo laico, finalizzato al bene comune e alla legalità internazionali, attraverso la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Infine, a proposito della rogatoria di Trapani alla Città del Vaticano, padre Lombardi ha ribadito quanto già detto in una nota, che riporta quanto detto dalla Procura della città siciliana. Non si tratta di coinvolgimento in fatti di mafia e riciclaggio, ma unicamente di vicende relative ad ammanchi e truffe nell’amministrazione di enti ecclesiastici nella diocesi di Trapani. Un esempio di come il Vaticano, in questo come in altri casi, abbia sempre collaborato prontamente con la giustizia italiana.
Folla al Congresso eucaristico di Dublino. Intervista con padre Vittore Boccardi
◊ “L'Eucaristia: Comunione con Cristo e tra di noi”: entra nel vivo il 50.mo Congresso eucaristico internazionale che ha luogo a Dublino, in Irlanda, fino a domenica prossima. Con l’ausilio di 2000 volontari, all’Arena della Royal Dublin Society, migliaia di pellegrini provenienti da 120 Paesi del mondo, dall’Albania fino allo Zimbabwe, celebrano l’Eucaristia, pregano insieme, partecipano alle Conferenze generali tenute da 18 oratori internazionali e ascoltano decine e decine di testimonianze, oltre a riunirsi in uno degli oltre 150 laboratori e gruppi di confronto. Fausta Speranza ha chiesto alla nostra inviata, Emer McCarthy, cosa sia emerso dalla conferenza stampa che ha tenuto poco fa l’arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin:
R. – L’arcivescovo Martin ha espresso la sua contentezza per questo inizio: il primo giorno, un lunedì, che è pieno, strapieno di persone. Penso che non avevano previsto così tanta gente: hanno dovuto rifiutare l’ingresso ad alcune persone che chiedevano di assistere ad alcuni interventi di testimonianze, ma non c’era proprio posto. Tanto dunque è l’interesse suscitato da questo Congresso eucaristico internazionale.
D. – Emer, che cosa dire del tema principale di oggi, che è l’ecumenismo?
R. – Infatti, oggi gli interventi sono concentrati sul tema della comunione nel battesimo ma di tutti i cristiani, non solo dei cattolici. Oggi il 50.mo Congresso internazionale ha aperto le porte a tutte le Chiese presenti in Irlanda, delle quali sono presenti i rappresentanti. E’ da sottolineare che l’arcivescovo anglicano di Dublino, Michael Jackson, presiede nel pomeriggio una Liturgia della Parola, all’insegna dell’ecumenismo. Ovviamente, questo è un tema molto sentito in particolare qui, in Irlanda, dove non sempre in passato i rapporti tra le varie Chiese sono stati facili. E questo segna un momento di svolta importante nella vita religiosa della fede cristiana qui, in Irlanda.
Si tratta del 50.mo Congresso eucaristico e cade a 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II. Nell’intervista di Emer McCarthy, padre Vittore Boccardi, della segreteria del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali, spiega il profondo legame:
R. – L’ecclesiologia eucaristica di comunione è il "filo rosso" che sta alla base di tutti i lavori del Concilio Vaticano II e che, a partire dal Concilio stesso, è entrata poi come idea comprensiva generale nella vita della Chiesa. Altro non è se non il tentativo di comprendere che la Chiesa si costruisce a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia.
D. – Ci si aspetta qui a Dublino una settimana ricca di appuntamenti. Ci può parlare brevemente del programma?
R. – Oggi, per esempio, è dedicato all’ecumenismo. Le celebrazioni del mattino sono presiedute dal vescovo anglicano della città di Dublino. E’, dunque, una celebrazione ecumenica battesimale per ricordare la radice comune dei cristiani, che è quella del Battesimo. Poi, il metodo dei Congressi eucaristici ormai sperimentato prevede che diversi temi entrino nell’agenda del Congresso: testimonianze di persone che sanno interpretare il Vangelo attraverso, soprattutto, i gesti della carità e dell’evangelizzazione in ogni parte del mondo. Poi, altri gesti che si compiono giorno dopo giorno, come quelli della celebrazione eucaristica, che sta sempre al centro. Non celebrazioni private o per nazioni, ma celebrazioni comuni, in cui tutti i delegati presenti, tutti i pellegrini provenienti da ogni parte del mondo vivono un’unica Eucaristia per mostrare veramente il senso della comunione ecclesiale. E ci sono di contorno tante altre cose: avvenimenti di tipo culturale, mostre e stand. Alla fine, domenica 17, ci sarà la grande Statio Orbis, la riunione di tutti i presenti nell’unica celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal legato pontificio, all’interno della quale ci sarà anche l’intervento di Benedetto XVI, che con il suo messaggio porterà non soltanto il suo saluto, ma la sua riflessione e indicherà poi la nuova tappa: il luogo in cui si terrà il prossimo Congresso eucaristico internazionale, il 51.mo, tra quattro anni.
D. – Che idea si è fatto dell’impegno della Chiesa locale, della Chiesa d’Irlanda? Teologi e professori della Chiesa locale sono intervenuti nel Simposio che ha preceduto il Congresso...
R. – La mia impressione è che la Chiesa locale, come ogni Chiesa locale, abbia le sue particolarità. E’ chiaro che l’Irlanda è sempre stata una Chiesa leggermente a parte, separata - se vogliamo - dal continente e quindi ha sviluppato alcune sue particolarità, che sono in fondo anche la sua ricchezza. Basti pensare alla tradizione della storia d’Irlanda. Comunque, celebrare un Congresso eucaristico in Irlanda significa in qualche modo non continuare a fissare lo sguardo solo sui problemi e sulle difficoltà di questa Chiesa, che sono poi i problemi e le difficoltà di tutte le Chiese dei Paesi avanzati. Certo, è una Chiesa piena di problemi, tuttavia è una Chiesa capace di andare avanti, che smette di piangere su se stessa ed è capace di volgere lo sguardo verso il futuro, sapendo che innanzi ha una sfida enorme: la sfida della nuova evangelizzazione, che si può compiere a partire dalla celebrazione dell’Eucaristia.
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Il coraggio della fedeltà: nel discorso alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, Benedetto XVI sottolinea la grave responsabilità che unisce al Papa i suoi collaboratori.
In rilievo, nell'informazione internazionale, i nuovi, sanguinosi attacchi contro i cristiani in Nigeria.
Quel Crocifisso sotto le macerie: all'Angelus il Papa si unisce spiritualmente ai terremotati dell'Emilia.
Una voce per le grandi domande: in cultura, sul contributo di Benedetto XVI alla riflessione etica sull'economia, anticipazione della lectio magistralis del cardinale segretario di Stato per l'inaugurazione - oggi pomeriggio a Bydgoszcz, in Polonia - del centro universitario di studi del pensiero di Joseph Ratzinger, e l'omelia tenuta ieri dal porporato nella cattedrale della Santissima Trinità a Lodz.
Un unico Corpo per questi tempi turbolenti: nell'informazione religiosa, l'omelia del legato pontificio, cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, al cinquantesimo Congresso eucaristico internazionale a Dublino, e un'intervista dell'inviato Mary Nolan all'arcivescovo Diarmuid Martin.
Attentati anticristiani in Nigeria. L'arcivescovo di Jos: la gente ha paura di andare in chiesa
◊ Sono stati rivendicati dall’organizzazione terroristica "Boko Haram" i sanguinosi attentati contro la comunità cristiana della Nigeria, che ieri hanno provocato 8 morti e 50 feriti a Jos e Biu. Netta la condanna dell’Unione europea, il cui Alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, ha affermato che il terrorismo non prevarrà mai, e che la cooperazione con la Nigeria prosegue da vicino. A preoccupare particolarmente le comunità cristiane minoritarie dell’Africa sub-sahariana è il crescente impulso all’islamizzazione che alcuni gruppi estremisti portano avanti in Paesi come Niger, Mali e Nigeria. Sul clima che si respira nel Paese africano, Gabriella Ceraso ha intervistato l’arcivescovo di Jos, mons. Ignatius Kaigama:
R. – C’è ancora una grande preoccupazione, perché quando pensiamo che le cose si siano calmate, succede qualcosa di terribile. L’autorità civile dice che i problemi si risolveranno fra poco, ma le cose continuano a ripetersi.
D. – Alla sua comunità cosa ripete lei in queste circostanze?
R. – La settimana scorsa abbiamo fatto una preghiera nazionale per tutti i cattolici in Nigeria. Noi pensiamo che la preghiera sia la cosa più forte adesso. Abbiamo delle agenzie di sicurezza, ma secondo me fanno molto poco. Le agenzie di sicurezza devono scoprire chi sono queste persone, da dove vengono, dove trovano i soldi, che macchine e che bombe usano. Fino adesso non c’è stato progresso.
D. – C’è anche il rischio che i fedeli abbiano paura ad andare in chiesa...
R. – E’ normale che la gente abbia paura, essendoci questa ostilità verso la Chiesa. Vedono la Chiesa come simbolo della cultura occidentale. "Boko Haram" vuol dire far sparire la cultura e l’educazione occidentale. I valori occidentali, infatti, secondo loro, non aiutano i musulmani a vivere come musulmani.
Siria: il nuovo capo dell'opposizione anti-Assad invoca defezioni e intervento internazionale
◊ In Siria non si arresta la violenza. Ancora sotto bombardamento la città di Homs tutt’ora in mano ai rivoltosi, che sono riusciti a penetrare comunque nella provincia filo-Assad di Lattakia. L'Osservatorio siriano dei diritti umani denuncia che, in tre giorni, 83 civili sono morti a causa degli scontri, oltre 14mila dall'inizio della rivolta, 15 mesi fa. E mentre la Comunità Internazionale, sempre più allarmata, è divisa su un intervento militare, c’è la conferma che il capo della diplomazia russa, Serghiei Lavrov, si recherà dopodomani in Iran per discutere con i dirigenti del Paese anche della situazione in Siria. Intanto, il nuovo leader del Consiglio nazionale siriano, il curdo Abdel Basset Sayda, eletto ieri, chiede ai responsabili delle istituzioni di abbandonare il regime e invoca l’uso della forza da parte della Comunità Internazionale. Massimiliano Menichetti ha parlato del ruolo dei curdi e del neoeletto Sayda con Alberto Rosselli giornalista ed esperto dell’area:
R. – Il ruolo dei curdi è duplice, nel senso che si intreccia in qualche modo con quelli che sono i rapporti fra Siria e Turchia, e sono circa un milione i residenti sul territorio siriano, quindi una presenza del 10% della popolazione. Sayda è un esponente che ha avuto dei rapporti piuttosto duri con i regimi siriani, in quanto è stato in esilio in Svezia diversi anni. Si appellerà in qualche modo agli organismi internazionali, ma ha anche aggiunto che sarà una sua priorità quella di intraprendere colloqui con altre figure dell’opposizione curda - che è molto variegata, - per includerle nel Consiglio nazionale siriano (Cns).
D. – Cns, che al proprio interno non ha proprio una situazione stabile…
R. – E’ accusato da molti curdi di essere praticamente dominato dalla fazione islamica filo-turca, e sappiamo anche che tra gli 11 partiti curdi - che non hanno aderito al Consiglio nazionale siriano, una piattaforma fatta praticamente in Turchia - c’è anche il cosiddetto Pyd – sezione siriana del Pkk - che è il partito dei lavoratori del Kurdistan. Il problema è la variabile Pkk: è considerata un’organizzazione terroristica, come si sa in Turchia e non accetta alcuna forma di collaborazione con Ankara.
D. – Se da una parte i curdi vivono questa frammentarietà, dall’altra Damasco ha giocato una carta di alleggerimento.
R. – Damasco ha alleggerito leggermente la mano su quella che è la minoranza curda - residente nella zona nordorientale - nonostante ci siano stati attentati e via dicendo. Ma questo fa parte anche un po’ di questo gioco a scacchi, che c’è fra la Siria e la Turchia. Diciamo che i rapporti fra i curdi delle varie fazioni, sia quelle che hanno aderito al Cns, sia quelle che sono rimaste fuori dal Cns, dipendono anche in qualche maniera, o si intrecciano, nei rapporti fra Damasco ed Ankara. E’ una situazione estremamente complicata.
D. – Questa situazione, in estrema evoluzione, potrebbe portare anche ad ulteriori spezzettamenti sul fronte curdo?
R. – Il frazionamento è già avvenuto con la nuova adesione degli 11 partiti curdi al Cns. Potrebbe avvenire un’ulteriore spaccatura, all’interno degli 11 partiti che non hanno aderito al Cns, in merito ad un possibile ricucire dei rapporti con il nuovo neo eletto, che sta facendo un lavoro - pare in queste ultime ore - di ricucitura, anche con gli esponenti dei partiti che non hanno aderito.
D. – Nei confronti del regime Assad; Sayda ha preso una posizione abbastanza netta: da una parte chiede defezioni, chiede di lasciare Assad solo, dall’altra invoca nella comunità internazionale, un’azione di fatto che metta in campo la forza. Sarà poi verosimile un intervento armato?
R. – Un intervento armato lo reputo abbastanza remoto per il momento: nessuno vuole "scottarsi le dita" in Medio Oriente: né gli Stati Uniti, né la Russia, né la Cina e neanche lo stesso Israele. Io credo che in questo momento gli analisti di questi Paesi stiano studiando abbastanza al microscopio quella che è la situazione, cercando di trovare un bandolo della matassa che possa evitare un intervento. Certo è che se dovessero scoppiare di nuovo delle repressioni, come la violenza degli ultimi mesi, la Comunità Internazionale in Siria dovrà fare qualcosa. Lì bisogna vedere quale sarà il ruolo che vorrà ogni singola potenza, che è in qualche modo interessata all’arena mediorientale e quale rischio vorrà anche accollarsi. E’ una situazione immobile e bisognerà attendere le prossime settimane per vedere uno spiraglio, posto che ci sia uno spiraglio.
Indagine sulla condizione dei rom in Italia: poveri ma con grande voglia di integrazione
◊ Mancata inclusione sociale, elevata dispersione scolastica, alti tassi di disoccupazione e precarie condizioni abitative. È il quadro tratteggiato dalla prima indagine nazionale sulla condizione di rom e sinti in Italia, realizzata dalla "Casa della carità" nell’ambito del progetto europeo “EU Inclusive”. I risultati della ricerca saranno approfonditi in una due giorni che si apre oggi a Milano e che vede la presenza di religiosi, operatori sociali, studiosi ed esperti. Il servizio di Marco Guerra:
Dopo sette anni di lavoro sociale, con numerosi nuclei di rom e sinti e circa due di ricerca in cui sono state intervistate oltre 1600 persone in 60 diversi insediamenti di 10 regioni italiane, la "Casa della carità" di Milano, guidata da don Virginio Colmegna, presenta oggi i dati della prima indagine sulle condizioni di vita di Rom e Sinti in Italia. I risultati, da un lato confermano la situazione di povertà, esclusione e discriminazione di questa minoranza; dall’altro vanno contro i pregiudizi consolidati e rivela che la maggior parte di questi è venuta in Italia per trovare una casa e un’occupazione stabili. I numeri parlano dunque di una situazione drammatica: l’analfabetismo sfiora il 20%, oltre la metà della popolazione si ferma alla licenza elementare e il 34% non ha alcuna occupazione. E ancora tra i rom con più di 50 anni solo il 27% dichiara di essere in buona salute. Dall’indagine emerge che il tipo di insediamento influenza in modo determinante le chance di inclusione nel tessuto della società italiana. Gli abitanti degli insediamenti irregolari sono, infatti, nettamente svantaggiati rispetto a chi abita in casa o in insediamenti regolari. Da qui la necessità di un intervento basato sul principio dell’integrazione, come ci spiega don Virginio Colmegna:
In Italia, abbiamo bisogno di scogliere questo nodo, del cosiddetto “piano Maroni”, che l’ha visto sulla sicurezza, con una serie di risorse che sono ancora imprigionate in questa dinamica. Abbiamo bisogno, evidentemente, di sollecitare questa strategia che è uscita dai campi nomadi con tutta la gradualità, regolarizzazione, forte inserimento sul piano del lavoro, sul piano delle donne - che devono evidentemente entrare come protagoniste in questo cambiamento - la scuola. Qui ricordo che “Casa della carità” porta 17 e più dei loro minori al conservatorio, e bisogna anche sviluppare le esperienze positive di eccellenza.
Fondazione Sussidiarietà: 12.3 miliardi di euro di cibo sprecati ogni anno in Italia
◊ Ogni anno in Italia vengono buttati via 12,3 miliardi di euro di cibo consumabile, pari a 5,5 milioni di tonnellate. Si tratta di 42 kg a persona di avanzi non riutilizzati e alimenti scaduti o andati a male, per uno spreco procapite di 117 euro l’anno. E’ la fotografia scattata dall’indagine “Dar da mangiare agli affamati. Le eccedenze alimentari come opportunità” realizzata da Fondazione per la Sussidiarietà e Politecnico di Milano. Secondo la ricerca, presentata oggi a Milano, oggi quasi un miliardo di euro di cibo viene recuperato, l’obiettivo è recuperarne altri sei miliardi per far fronte alla crescente povertà. Il servizio è di Paolo Ondarza:
Disallineamento tra domanda e offerta e non conformità di prodotti agli standard di mercato provocano in Italia eccedenze alimentari che si trasformano in uno spreco di circa sei milioni di tonnellate di cibo ogni anno. Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione Sussidiarietà:
“L’81% di queste eccedenze diventa spreco. Quindi prima di tutto il problema è di migliorare la situazione sotto il profilo di ciò che viene venduto. Però va detto che le eccedenze costituiscono purtroppo un aspetto fisiologico. Allora, visto che si producono le eccedenze, almeno facciamo in modo che non diventino spreco!”.
Nonostante il 50% delle eccedenze generate dalla filiera agroalimentare sia recuperabile per l’alimentazione umana, facilmente e nel rispetto della sicurezza, solo poco più del 6% di queste viene donato a food banks ed enti caritativi. Troppo poco: occorre maggiore collaborazione tra filiera, no-profit e istituzioni. Ancora Vittadini:
“Le eccedenze non devono essere necessariamente distrutte, come avviene attualmente, ma possono essere – come avviene almeno già per il 20% – recuperate attraverso reti no-profit come quella del Banco Alimentare in rapporto con 8 mila realtà sociali; in questo modo diventa possibile distribuire le eccedenze recuperabili ai poveri intervenendo sul fenomeno della povertà, una delle più grandi emergenze del nostro Paese”.
Evitare gli sprechi significa risparmiare economicamente e fare una scelta eticamente valida oltre che solidale:
“Assolutamente! Prima di tutto per la famiglia stessa che si educa a capire di che cosa ha effettivamente bisogno; e secondo, perché in questo modo tutti possono contribuire al bene comune: le cose più belle nella nostra società sono quelle in cui al bene comune contribuisce l’intera collettività”.
La testimonianza di un parroco dell’Aquila: la fede più forte del terremoto
◊ A più di tre anni di distanza dalla notte del 6 aprile 2009, il centro dell’Aquila è ancora zona morta, una ferita profonda nel cuore di una città che fa fatica a risollevarsi. All’interno di questa "area fantasma", che in gergo si definisce “zona rossa” c’era anche la parrocchia di Santa Maria di Roio, guidata da don Salvatore Fasulo, che al microfono di Roberta Barbi racconta com’è la situazione adesso:
Ci vogliono anni a costruire, una pietra dopo l’altra, la vita di una comunità; poi, una notte, in pochi secondi quelle pietre crollano e si portano via vite umane, ma anche la vita della comunità. È questa la testimonianza di don Salvatore Fasulo, che era il parroco di Santa Maria di Roio, parrocchia al centro dell’Aquila a 200 metri dal Duomo, e amministratore di San Silvestro, splendida chiesa del XIV secolo, che contiene il gioiello architettonico della Cappella Camponeschi. Entrambe sono inagibili e la comunità non esiste più:
“A livello di comunità non si può più parlare di comunità perché tutta la popolazione fin dall’inizio è stata dispersa in diversi posti. Ho provato, più di una volta, nel periodo natalizio, nel periodo pasquale, ad incontrarli, anche per essere insieme e stare un po’ insieme. Alla fine sono riuscito a riunire 30 persone al massimo, perché ormai chi era impegnato, a livello parrocchiale, ha cercato di impegnarsi nei posti dove era stato trasferito”.
Macerie, crepe, il telefono che suona a vuoto: è questo ciò che rimane della comunità di Santa Maria di Roio, parrocchia che esiste ormai solo come titolo. Ci vorranno almeno 10 anni prima che tutto possa tornare come prima. Nel frattempo, don Salvatore vuole mantenere viva nei suoi ricordi la parrocchia com’era un tempo:
“Era una parrocchia piuttosto anziana, però per la posizione che aveva, trovandosi in una zona di passaggio, davo immancabilmente la mia disponibilità dalle 9 alle 11 tutti i giorni. Studenti universitari o impiegati di passaggio c’era sempre qualcuno che veniva a confessarsi. Era un punto di riferimento. Poi avevo la collaborazione di un istituto di suore, le suore del Preziosissimo sangue, che mi aiutavano per i canti e con l’animazione. Eravamo riusciti, con l’aiuto del Signore, a creare una bellissima comunità; e in un attimo, venti secondi, è stato distrutto tutto”.
Oggi don Salvatore è viceparroco di San Mario, nella frazione della Torretta, dall’altro lato della città. Qui sta ricostruendo la sua vita – ha perso casa sua – e la sua attività pastorale. Nella giornata in cui ci ha dedicato qualche minuto del suo tempo, in parrocchia ci sono state le Prime comunioni, con una sorpresa speciale:
“Nella parrocchia dove adesso svolgo questo ministero di viceparroco mi dedico alle confessioni, celebro la Messa del sabato sera e cerco di dedicarmi, quindi, anche alla predicazione. Oggi mi sono ritrovato, senza volerlo, con due famiglie, che facevano parte della mia parrocchia - i loro nipotini facevano la prima comunione - ed è stata una gioia incontrarci”.
L’Aquila è oggi una città che vive nell’attesa di un futuro. Molti sono riusciti a tornare a casa, altri no, soprattutto coloro che vivevano in centro. Don Salvatore ci spiega come si può portare alla popolazione una parola di conforto e di speranza:
“Come riusciamo? Innanzitutto, con la nostra esperienza, perché guai se non ci fosse stata quella forte esperienza di fede. Sono stati momenti terribili; quando ti crolla tutto e non hai più niente. Io posso parlare in prima persona. Ho perso tutto, però la Fede è rimasta, ed è stata di grande aiuto”.
A Londra il cardinale Koch riafferma l'urgenza di lavorare per l'unità
◊ “La nostra divisione indebolisce e addirittura minaccia la nostra testimonianza”. Lo ha detto il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, rivolgendosi ieri mattina ai fedeli anglicani riuniti per la solenne celebrazione Eucaristica che si è svolta nella cattedrale di Canterbury. Il responsabile del dicastero vaticano è in visita a Londra, ospite dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, per conoscere più da vicino la Comunione anglicana. Prendendo la parola per una riflessione, il cardinale ha ricordato che proprio nella cattedrale di Canterbury , nel 1982, papa Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Robert Runcie hanno pregato l’uno accanto all’altro” dando così “un esempio ed una testimonianza che continua ad ispirare tutti coloro che lavorano per l’unità dei cristiani”. Il cardinale Koch ha quindi parlato della “urgenza” e dell’“obbligo di lavorare per l‘Unità dei Cristiani”. Ed ha aggiunto: “L‘unità che cerchiamo, si trova solo in Gesù Cristo, pertanto i nostri sforzi ecumenici non si compiono solo a livello umano, ma devono far ambire a partecipare più pienamente e più perfettamente in Cristo. Quando abbiamo l‘unità con Lui, avremo l‘unità con l‘altro”. “Questo compito - ha proseguito il card. Koch - non sarà facile e richiederà la rinuncia e il sacrificio anche di cose che ci stanno a cuore. Papa Benedetto XVI, due anni fa, ha sottolineato che il percorso di unità esige fedeltà alla parola di verità, che richiede che ci liberiamo dalla conformità allo spirito del tempo. Tale testimonianza può sembrare un sacrificio, anche una forma di martirio, ma come mostrano gli stessi martiri, tale rinuncia ci apre alla volontà liberatrice e creatrice di Dio”. La riflessione si è conclusa con l’esortazione a non “avere paura di mettere da parte tutto ciò che nuoce alla predicazione del Vangelo vero". (R.P.)
Onu: 215 milioni i bambini lavoratori in tutto il mondo
◊ Si celebra domani l’XI Giornata Mondiale contro il Lavoro Minorile, e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro, la sicurezza e la dignità umana per tutti, pubblica i dati aggiornati della situazione nel mondo. Sono 215 milioni i bambini che vengono sfruttati lavorativamente, spesso in condizioni pericolose, e di questi più della metà in Asia e nelle regioni del Pacifico. In Africa – riporta l’agenzia Fides – sono 65 milioni, mentre in America Latina tra i 5 e i 14 milioni. Anche i Paesi industrializzati sono inclusi nei dati: in Italia, per esempio, il lavoro minorile riguarda 500.000 bambini, appartenenti a famiglie indigenti. Oltre allo sfruttamento lavorativo, i minori sono coinvolti in drammatiche situazioni come lavori forzati, schiavitù sessuale, bambini soldato, nel traffico di stupefacenti o vengono venduti e abusati. Attraverso queste attività sono privati anche di istruzione e cure sanitarie. Sono 72 milioni, infatti, i bambini che non frequentano la scuola, e tra gli obiettivi dell’Onu c’è proprio la promozione della scolarizzazione per sradicare la povertà infantile entro il 2016. (A.C.)
Mali: colloqui tra tuareg e mediatori, ma la situazione resta incerta
◊ Mentre resta alta la tensione nei territori nord del Mali, occupati dagli islamici di Ansar Al Din, tre rappresentanti del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad hanno avuto un incontro con Blaise Compaorè e con Djibril Bassolé, rispettivamente presidente e ministro degli esteri del Burkina Faso, mediatori per la crisi in atto. Nulla si sa sull’esito dei colloqui, mentre nel frattempo cresce la corrente politico-diplomatica a favore dell’intervento militare nel Nord, sostenuto da esponenti politici maliani, da membri del governo di transizione di Bamako e da numerosi cittadini. I capi di Stato guineano, Alpha Condé, e nigerino, Mahamadou Issoufou, nel fine settimana hanno concordato che “se l’ideale sarebbe trovare una soluzione negoziata, nel caso contrario bisogna tenersi pronti all’intervento militare per cacciare le forze islamiche dal Nord”. Padre Thimotée Diallo, parroco della cattedrale di Bamako, ha riferito all’agenzia Misna che tra la gente “cresce l’impazienza di vedere risolta la situazione del Nord: la maggior parte dei maliani si aspetta dal governo di transizione e dai militari di porre fine alle liti per il potere e di accelerare i preparativi di un intervento armato, presentato da alcuni giorni come imminente”. Il portavoce del governo di transizione, Hamadoun Touré, infatti, ha annunciato la nascita di una nuova entità che dovrebbe assorbire anche la giunta militare, con l’obiettivo di formare “un gruppo consultativo che potrebbe aiutare l’esecutivo a portare avanti con successo la sua missione” di risoluzione della situazione. (A.C.)
Congo: Kinshasa accusa Kigali sulle violenze nel nord Kivu
◊ “Prove schiaccianti che sollevano un problema serio da risolvere con urgenza nella sinergia tra Stati della regione dei Grandi Laghi impegnati nella lotta contro le forze negative” ha dichiarato da Goma il portavoce del governo, Lambert Mende Omalanga. Il suo intervento - riporta l'agenzia Misna - conferma in modo ufficiale informazioni diffuse da giorni da altre fonti in merito alla presenza di 200/300 uomini ruandesi tra gli ammutinati del Movimento del 23 giugno (M23). “Sono elementi reclutati in territorio ruandese da una rete attiva nel Paese confinante. Sono cittadini ruandesi reclutati e poi infiltrati nell’est congolese dove hanno ricevuto un veloce addestramento prima di essere dispiegati al fronte per combattere contro le Forze armate regolari (Fardc)” ha aggiunto Mende al termine di una missione ministeriale nella provincia del Nord-Kivu, guidata dal primo ministro Augustin Matata Ponyo. Inoltre fonti governative di Kinshasa hanno riferito di un “netto potenziamento in armi del M23 appena arrivato nel triangolo Runyoni-Chanzu e Mbuzi – al confine tra Congo e Rwanda – anche se in fuga dal Masisi avevano abbandonato 38 tonnellate di armi recuperate dalle Fardc” ha ancora detto il portavoce del governo. Dal canto suo il primo ministro ha annunciato che “dobbiamo continuare a combattere contro gli ammutinati. Siamo stupiti nel vedere che la forza del nemico sta aumentando” ma d’altra parte “dobbiamo cercare di esplorare le vie diplomatiche col Rwanda”, assicurando che “il pieno ritorno della pace rappresenta l’obiettivo supremo” del presidente Joseph Kabila. La scorsa settimana la locale missione Onu (Monusco) e l’organizzazione internazionale Human Rights Watch (Hrw) avevano mosso le stesse accuse nei confronti del Rwanda e espresso preoccupazione per il deteriorarsi della situazione nell’Est congolese, che ha provocato più di 120.000 sfollati. Kigali ha già respinto questa versione dei fatti e argomentato che “i primi a trarre vantaggio dell’insicurezza sono i ribelli hutu terroristi delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr)”, fuggiti nel confinante Congo dopo il genocidio del 1994. Per molti osservatori la nuova ribellione che ha visto la luce nel Nord-Kivu – ricollegata al generale latitante Bosco Ntaganda dell’ex movimento ribelle del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), ricercato dalla Corte penale internazionale (Cpi) – col sostegno del Rwanda ricorda la crisi del 2008, conclusasi con la firma di un accordo di pace tra Kinshasa e il Cndp che tre anni dopo sta mostrando tutti i suoi limiti. (R.P.)
Costa d'Avorio: civili in fuga dal sud-ovest dopo l’uccisione di 7 Caschi Blu
◊ La popolazione è in fuga dai villaggi del sud-ovest della Costa d’Avorio dopo l’agguato dell’8 giugno che è costato la vita a 7 “Caschi Blu”, originari del Niger, della Forza Onu in Costa d’Avorio (Onuci). Nell’assalto, compiuto nei pressi della cittadina di Tai, sono stati uccisi anche 8 civili ed un militare dell’esercito ivoriano. “Sui giornali locali si parla apertamente delle azioni di mercenari liberiani reclutati da persone appartenenti all’entourage dell’ex Presidente Gbagbo” dicono all’agenzia Fides fonti della Chiesa locale. “L’ovest ivoriano fin da tempi della guerra civile (che è durata a fasi alterne dal 2002 al 2011) vive una profonda instabilità, per la presenza di gruppi armati reclutati a cavallo del confine tra Liberia e Costa d’Avorio”. Secondo alcune fonti, le milizie liberiano-ivoriane inquadrano nelle loro file anche diversi bambini-soldato. Nell’aprile 2011 Gbagbo è stato deposto e arrestato dalle truppe Onu (appoggiate da quelle francesi) dopo un lungo contenzioso con l’attuale Presidente Ouattara sui risultati delle elezioni presidenziali. Il quotidiano britannico “The Guardian” riporta l’opinione di alcuni ufficiali ivoriani secondo i quali i fondi per reclutare ed armare le milizie che agiscono nell’ovest del Paese proverrebbero dal Ghana, dove si sono rifugiati diversi membri del regime di Gbagbo. “È difficile verificare queste informazioni. Ricordo che al tempo dello scontro tra l’attuale Presidente Ouattara e Gbagbo, qualcuno affermava che il Ghana appoggiava quest’ultimo per destabilizzare la Costa d’Avorio, in modo da attrarre investimenti stranieri nell’industria petrolifera ghaniana e non in quella ivoriana, Ma sono solo voci, che finora non hanno trovato conferma” concludono le fonti di Fides. (R.P.)
Hong Kong: in 25mila chiedono un'inchiesta sulla morte di Li Wangyang
◊ Decine di migliaia di persone hanno marciato verso gli uffici del governo cinese a Hong Kong per esigere un'inchiesta sulla morte sospetta di Li Wangyang, dissidente pro-democrazia dei tempi di Tiananmen, trovato impiccato in una stanza di ospedale a Shaoyang nello Hunan. Pur essendoci molte discussioni in Cina e all'estero sulla sua morte, il 9 giugno le autorità hanno cremato il cadavere, dicendo di averlo fatto "con il consenso" della famiglia Li. Oltre 30 organizzazioni erano presenti alla protesta: sindacati, associazioni femminili, cattolici, protestanti, studenti e gruppi politici. Secondo gli organizzatori almeno 25mila hanno preso parte alla marcia dal distretto di Central, fino all'ufficio del Liaison Office del governo di Pechino, nel Western district. La polizia afferma invece che i partecipanti erano solo 5.400. I dimostranti, quasi tutti vestiti a lutto, hanno espresso doloro per la scomparsa di Li e chiesto giustizia per la sua morte. Essi hanno anche gridato per il rilascio di tutti i dissidenti politici e perché si fermi la repressione contro il movimento democratico in Cina, rivalutando pure il movimento del 4 giugno 1989. Molti dei presenti hanno portato fiori e incenso da bruciare per Li. Nel caldo del giorno - almeno 32 gradi - la marcia si è aperta con una grande foto di Li Wangyang e uno striscione con sopra scritto il carattere cinese "dian" (che significa "liberazione"), che i cinesi usano tradizionalmente per i funerali. Li, 62 anni, ha passato 21 anni in prigione, in seguito alla repressione contro il movimento di Tiananmen. Nei giorni prima del massacro, era giunto a Pechino da Shaoyang (Hunan) come rappresentante sindacale. Rilasciato nel 2011, egli aveva perso la vista e l'udito e acquisito alcune disabilità a causa delle torture subite in prigione. All'inizio di giugno, per commemorare i 23 anni dal massacro del 4 giugno, Li è stato intervistato da un giornale di Hong Kong. Nel dialogo, Li afferma che egli sperava di vedere una Cina democratica e la fine del partito unico; che non rimpiangeva di aver preso parte al movimento democratico. (R.P.)
Myanmar: chiesto lo stato di emergenza. Il presidente invita alla calma
◊ In seguito alle violenze razziali che si stanno susseguendo negli ultimi giorni in alcune zone del Myanmar, il presidente Thein Sein – riferisce l’agenzia Misna – ha deciso di proclamare lo stato di emergenza. Concretamente ciò vorrà dire ampi poteri alle forze di sicurezza e il divieto di assembramento per più di cinque persone, che già era stato imposto, insieme al coprifuoco, nei territori ovest del Paese, dopo le violenze esplose lo scorso venerdì. Il presidente, in un discorso in televisione, ha anche invitato alla calma la popolazione, dicendosi seriamente preoccupato del fatto che tali episodi possano minacciare il processo di riforme avviato nell’ultimo anno. Sein ha, inoltre, chiesto a tutte le istituzioni e alla società civile di cooperare per riportare la situazione alla normalità. All’origine di questa situazione di conflitti, che coinvolgono particolarmente buddisti e musulmani, c’è lo stupro e l’omicidio di una giovane donna. Le forze dell’ordine hanno già fermato i responsabili, tuttavia le violenze, che finora hanno causato 17 morti, decine di feriti e parecchie abitazioni distrutte, continuano tra le comunità. “La situazione è drammatica – ha affermato mons. Thomas Htun Myint, vicario generale della diocesi di Pyay, in un’intervista all’agenzia Fides – la tensione è molto alta fra la comunità etnica maggioritaria dei rakhine e la popolazione dei musulmani rohingya. Speriamo che le autorità civili possano ristabilire la pace. Come Chiesa ci appelliamo a tutti, sperando e pregando per la pace. Alcune famiglie cristiane – ha proseguito il prelato – si sono rifugiate nella nostra chiesa a Settwe per la paura. Come cristiani siamo pochissimi, e non siamo in alcun modo coinvolti nella violenza. Ma i fedeli temono di rimanere vittime degli scontri, anche per sbaglio, e dunque fuggono”. A causa della situazione, l’Onu ha disposto un’evacuazione temporanea del suo personale presente nella regione. (A.C.)
Indonesia: a West Java la legge imporrà obbligo del velo, dure proteste dalla società civile
◊ Entro la metà di luglio, prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, le autorità del distretto di Tasikmalaya, in Indonesia, prevedono di introdurre nuove leggi ispirate alla sharia, la legge islamica. Tali norme – riferisce l’agenzia AsiaNews – imporranno a tutte le donne, musulmane e non, l’obbligo di indossare il velo chiamato jilbab. Dura la reazione da parte della società civile e delle donne, le quali affermano con forza che l’imposizione del velo “non è una questione di stato” ma una scelta personale. Ad intervenire da Jakarta, anche il politico nazionalista Eva Kusuma Sundari, sostenendo che le leggi ispirate alla sharia sono “incostituzionali e discriminatorie”. La legge, oltre all’imposizione del velo, prevede anche di regolare la vita dei non sposati: tutti, infatti, avranno il divieto di uscire di casa da soli. Questa regola dovrebbe prevenire, secondo le autorità locali, i comportamenti contrari alla morale come i rapporti prematrimoniali tra adolescenti. È dal 2009 che le nuove norme vengono discusse dalla municipalità di Tasikmalaya. Il sindaco Syarif Hidayat ha affermato che l’intenzione è quella di stabilire un regolamento locale che definisca i costumi della tradizione islamica che tutti sono tenuti a rispettare. Per garantire il rispetto delle nuove norme verrà istituita una “polizia della morale” che denuncerà i colpevoli alla giustizia civile. Come punizione per i trasgressori sono previste multe o ammende. (A.C.)
Pakistan: la scelta delle famiglie povere è mangiare o mandare i figli a scuola
◊ “Valori come uguaglianza, giustizia e istruzione possono e dovrebbero portare il Pakistan fuori dal vortice infernale di povertà e sfruttamento che vede coinvolti adulti e bambini”. E’ la testimonianza inviata all’agenzia Fides da un missionario pakistano impegnato a favore dei diritti umani del paese, di cui non citiamo il nome per motivi di sicurezza. “Il fenomeno nel Paese continua a crescere in maniera sproporzionata. I ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri – continua il missionario -. Questi ultimi soffrono in maniera eccessiva, a malapena riescono a mangiare tre volte al giorno. In Pakistan - aggiunge - dove dominano povertà, instabilità politica, leader impegnati a curare solo ed esclusivamente i propri interessi e non quelli a favore del bene comune, i poveri sono costretti a fare una drammatica scelta: mandare i propri figli a scuola e permettere loro una educazione che possa garantire dignità e un futuro migliore, oppure scegliere di mangiare. In questo secondo caso soddisferebbero il loro fabbisogno fisico ma non la loro sete di sapere. In una società impoverita come questa non c’è compassione per i poveri, serve giustizia e uguaglianza per tutti” conclude il missionario. (R.P.)
El Salvador: preoccupazione della Chiesa per la scoperta di fosse comuni
◊ L'arcivescovo di San Salvador, mons. José Luis Escobar Alas, ha manifestato durante la sua consueta conferenza stampa della domenica, la propria preoccupazione per il numero delle persone scomparse segnalato in aumento negli ultimi mesi e per la scoperta di corpi sepolti in fosse comuni in diverse parti del Paese, come nel caso dell'atleta Alison Renderos, notizia che ha provocato molto stupore nell'opinione pubblica. Secondo le informazioni pervenute all’agenzia Fides, l’arcivescovo ha sottolineato che, sebbene ci siano sempre state sparizioni nel Paese, ora preoccupa il fatto che sembra aumentato il numero delle persone scomparse, benché sia diminuito il numero degli omicidi. L'arcivescovo di San Salvador ha chiesto quindi alle autorità di approfondire le loro indagini per stabilire se queste pratiche criminali siano realmente aumentate. “Io ho l'impressione che il bilancio delle vittime sia diminuito, e questo è molto buono, ma tutto deve migliorare - ha detto mons. Escobar Alas -, e occorre vigiliare perché gli omicidi non vengano mascherati come scomparse". (R.P.)
Repubblica Domninicana: appello di pace del cardinale Lopez Rodriguez
◊ Il cardinale Nicolás de Jesús López Rodríguez, arcivescovo di Santo Domingo, ha parlato ancora una volta della situazione che vive il Paese e ha pregato per il nuovo governo. “Chiediamo a Dio di assistere il Presidente eletto in questo momento difficile per organizzare il nuovo governo” ha detto l'arcivescovo durante la celebrazione della Messa per la solennità del Corpus Domini seguita dalla processione eucaristica, cui hanno partecipato più di 20 mila persone riunite nello Stadio Olimpico nella capitale. Il cardinale ha segnalato alcune priorità che, secondo il parere di molte persone, dovrebbero essere prese in considerazione dal nuovo governo: l'insicurezza, la creazione di posti di lavoro, l'equità dei salari dei dipendenti pubblici, l'istruzione pubblica, la migliore formazione e uno stipendio più adeguato per gli insegnanti delle scuole. Secondo le informazioni pervenute all’agenzia Fides, lo stesso arcivescovo di Santo Domingo, partecipando il 9 giugno ad uno degli eventi programmati per i 50 anni di fondazione della Pontificia Universidad Católica Madre y Maestra (Pucmm), nel suo intervento ha ribadito che il Paese ha bisogno di pace e di riconciliazione. Subito dopo ha sottolineato la necessità e la convenienza che il Partito Revolucionario Dominicano (Prd) si mantenga unito, perché "le liti non conducono a niente di positivo", e ha chiesto questo “per il bene della democrazia dominicana”. Il Prd infatti vive una crisi interna dopo le elezioni del 20 maggio, quando il suo candidato, Mejia, è stato sconfitto dal candidato del Partito della Liberazione Dominicana, Danilo Medina. Il cardinale López Rodríguez ha presieduto l'atto di consegna dei titoli della Pucmm nel campus di Santiago: è la terza cerimonia di questo anno per celebrare mezzo secolo del più importante Centro di Studi della nazione. Con i 984 nuovi laureati di questo anno, sono ormai 63mila 982 le persone che hanno conseguito un titolo di istruzione superiore presso questa Università fondata nel 1962. (R.P.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 163