Logo 50Radiogiornale Radio Vaticana
Redazione +390669883674 | +390669883998 | e-mail: sicsegre@vatiradio.va

Sommario del 17/02/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Concistoro: il Papa e i cardinali insieme per una giornata di preghiera sulla nuova evangelizzazione
  • L'arcivescovo Braz de Aviz tra i nuovi cardinali: testimoniare l'amore di Dio nel mondo
  • Concistoro: domani il voto sulle Cause di canonizzazione di sette Santi, tra cui due martiri
  • Honduras. Il dolore del Papa per l'incendio nel carcere di Comayagua. L'editoriale di padre Lombardi
  • Tradizionale incontro Italia-Santa Sede per l'anniversario dei Patti Lateranensi
  • Mons. Chullikatt: il commercio delle armi non regolamentato crea violenza e povertà
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Germania: si dimette il presidente Wulff. Merkel: cerchiamo candidato condiviso
  • L'Onu condanna la repressione in Siria, ma la violenza non si ferma. Padre Samir: situazione insopportabile
  • Un anno fa iniziavano le proteste in Libia. L'esperto: equilibri da ricostruire pena il caos
  • Quattro anni fa l'indipendenza del Kosovo. L'esperienza delle Acli nell'area
  • Dibattito sull'Ici: le riflessioni di Edo Patriarca, Paolo Beni e Giuseppe Frangi
  • 20 anni da Mani pulite. I pm: la corruzione ancora dilaga. Pasini: occorre cambio culturale
  • Le difficoltà delle giovani coppie in un convegno sui primi anni del matrimonio alla Lateranense
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • America Latina: il dramma delle carceri superaffollate
  • Vescovi Africa-Europa: Messaggio finale sulle sfide del mondo
  • Madagascar: dal vescovo di Moramanga un primo bilancio dei danni del ciclone Giovanna
  • Congo: dispersa marcia dei cristiani a Kinshasa nel 20.mo della repressione del '92
  • Niger: il vertice Ecowas in aiuto dei Paesi del Sahel
  • Italia, Germania e Grecia fiduciosi sul via libera agli aiuti ad Atene
  • Usa: prosegue il confronto fra episcopato e governo sulla libertà di coscienza
  • Giappone: i vescovi ricordano le vittime del terremoto e tsunami dell’11 marzo
  • Brasile: la voce dei vescovi sulla situazione degli indigeni
  • Ucraina: i rapporti tra cattolici e ortodossi sono eccellenti
  • Hong Kong: messaggio di mons. Tong per la Quaresima
  • Belgio: i vescovi ringraziano i volontari che hanno soccorso i poveri colpiti dal freddo
  • Berlino: al 62.mo Festival del cinema, l'Africa post-coloniale e lotta al razzismo
  • Il Papa e la Santa Sede



    Concistoro: il Papa e i cardinali insieme per una giornata di preghiera sulla nuova evangelizzazione

    ◊   Si tiene oggi, in Vaticano, nell’Aula nuova del Sinodo, la Giornata di preghiera e riflessione convocata dal Papa per i membri del Collegio Cardinalizio e i nuovi cardinali, in occasione del Concistoro di domani per la creazione di 22 nuovi porporati. La Giornata, informa una nota della Sala Stampa Vaticana, ha avuto inizio stamani con la celebrazione dell’Ora Terza, cui ha fatto seguito il saluto del cardinale decano, Angelo Sodano. Il tema principale della giornata: “L’annuncio del Vangelo oggi, tra "missio ad gentes e nuova evangelizzazione” è stato introdotto da una relazione dell’arcivescovo di New York, Timothy Dolan. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    “La nuova evangelizzazione genera missionari entusiasti”: è quanto affermato dall’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, che nella sua appassionata relazione ha sottolineato che “nessun cristiano” è escluso dal “compito di testimoniare Gesù, trasmettendo ad altri l’invito del Signore nella vita quotidiana”. Il cardinale designato ha quindi sviluppato in sette punti una strategia di evangelizzazione che – ha evidenziato – deve oggi confrontarsi con la secolarizzazione. Siamo, ha soggiunto, “davanti alla sfida di combattere l’analfabetismo catechetico”. Del resto, ha constatato, anche “una persona che si vanta di aderire al secolarismo” riconosce che l’umanità sarebbe un assurdo senza un Creatore. Ed ecco perché anche New York, che dà l’impressione di essere “la capitale della cultura secolarizzata”, è “ciononostante una città molto religiosa”.

    L’arcivescovo Dolan ha quindi esortato la Chiesa a essere sicura ma non trionfalista, giacché anch’essa “ha sempre bisogno di essere evangelizzata”. Ancora, ha ricordato che il Concilio Vaticano II e gli ultimi Papi esortano i fedeli a “pensarsi come una schiera di missionari ed evangelizzatori”. Ma quale stile deve dunque contraddistinguere questo nuovo urgente compito della Chiesa? “La nuova evangelizzazione – ha detto il futuro cardinale – si compie con il sorriso non con il volto accigliato”. E ha ribadito che la nuova evangelizzazione “è un atto d’amore”. L’arcivescovo di New York poi ha concluso la sua relazione affermando che “abbiamo bisogno di dire di nuovo come un bambino la eterna verità, la bellezza e la semplicità di Gesù e della sua Chiesa”.

    Successivamente, il presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, l'arcivescovo Rino Fisichella, ha svolto una comunicazione sull’Anno della Fede, sul suo significato alla luce della Lettera Apostolica Porta fidei. L’obiettivo principale di questo Anno – ha detto – è far riscoprire la gioia dell’incontro con Cristo in un momento di particolare crisi, che vede molti cristiani indifferenti e lontani dalla vita della comunità. L'Anno della Fede – ha osservato ancora mons. Fisichella – diventa così un’occasione propizia perché la Chiesa intera offra una comune testimonianza della sua fede nel Signore Risorto.

    Dopo gli interventi dell’arcivescovo Dolan e dell’arcivescovo Fisichella, hanno avuto inizio gli interventi dei partecipanti alla Giornata. Vi è stato spazio sufficiente per sette interventi di varia tematica fino alla recita dell’Angelus guidata dal Santo Padre. Nel pomeriggio, dopo i Vespri alle ore 17, continueranno gli interventi dei partecipanti. Sul totale dei 213 membri del Collegio cardinalizio, compresi i 22 nuovi cardinali, ne erano presenti 133. Gli assenti si erano scusati per motivo dell’età o della salute o di precedenti impegni inderogabili.

    In un articolo pubblicato dall’Osservatore Romano, mons. Guido Marini informa che sono state apportate alcune piccole modifiche, approvate dal Papa, allo svolgimento del Concistoro di domani. In particolare – spiega il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie – l’anello cardinalizio e la berretta verranno consegnati dal Papa ai nuovi porporati nel Concistoro e non più nel Santa Messa del giorno successivo, che diventa così “una celebrazione di ringraziamento al Signore per il dono dei nuovi cardinali alla Chiesa”.

    Con il Concistoro di domani, il quarto di Benedetto XVI, saranno in totale 213 i componenti del Collegio Cardinalizio di cui 125 elettori e 88 ultraottantenni.

    inizio pagina

    L'arcivescovo Braz de Aviz tra i nuovi cardinali: testimoniare l'amore di Dio nel mondo

    ◊   Tra i nuovi cardinali c’è anche l’arcivescovo brasiliano João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Silvonei Protz lo ha intervistato sul significato di questa nomina cardinalizia:

    R. – Questa nomina cardinalizia non è importante solo per la persona che lo riceve come una missione, ma io la vedo anche come un servizio, come una maturazione di un cammino che Dio ha scelto per alcuni. E’ una strada fatta di molta responsabilità, che ci chiama a dare una testimonianza con il Collegio dei cardinali. Una testimonianza profonda, di comunione, di servizio vicino al Santo Padre, che è la persona che ci riunisce tutti.

    D. Lei diventa cardinale in questo 2012, Anno della Fede…

    R. - Io sono contento di diventare cardinale proprio nell’Anno della Fede: senza la fede questo non ha alcun significato! Sono contento che questo avvenga nell’anno in cui si cerca anche questo rapporto più profondo di luce della nuova evangelizzazione, cioè un’evangelizzazione poggiata più sulla testimonianza, sulla trasparenza, sulla cura pastorale delle persone e poggiata anche su una vita di comunione che deve essere rafforzata nelle nostre comunità, nella Chiesa: si tratta di promuovere sempre di più uno spirito di famiglia.

    D. – La Chiesa ha sempre più bisogno di questa testimonianza della fede e dell’amore vissuto anche al proprio interno …

    R. - Queste sono cose belle, di cui tutti noi abbiamo bisogno. Chissà che rivivendo queste cose - e noi cardinali vogliamo dare il nostro aiuto in questo senso, attraverso le varie mansioni che ci sono affidate qui a Roma e nel mondo - possiamo vedere questa Chiesa brillare di un’esperienza sempre più profonda della luce di Dio, quella luce che è amore per le persone e che è risposta di felicità per le persone.

    D. - E lei come si sente in questo nuovo contesto?

    R. - Io penso di essere un semplice “tassello” tra quanti compongono una cosa più grande. E lì, c’è il mio lavoro, di servizio, di testimonianza che io devo dare. Però c’è un corpo intorno a ciascuna persona che bisogna comporre nella comunione di tutti.

    inizio pagina

    Concistoro: domani il voto sulle Cause di canonizzazione di sette Santi, tra cui due martiri

    ◊   Il Concistoro di domani, come annunciato, sarà per il Papa e il rinnovato Collegio cardinalizio anche l’occasione per procedere al voto su alcune Cause di canonizzazione. Le Cause riguardano tre uomini – tra i quali due martiri – e quattro donne, due di loro laiche. Le loro storie sono ricordate in questo servizio di Alessandro De Carolis:

    La prima storia è lontana nel tempo e riguarda “colei che mette le cose in ordine”. È questo il significato di Tekakwitha, il nome indiano di Caterina, tra qualche tempo la prima Santa pellerossa d’America. Irochese per parte di padre, mentre la madre è una cristiana della tribù algonchina, Caterina nasce a metà del 1600 nell’odierna Albany scampa a un’epidemia di vaiolo che la sfigura e le rovina la vista, condannandola a essere una reietta tra la sua gente. Inoltre lo zio che la prende con sé non tollera poi la sua conversione al cristianesimo, che lei vivrà rifugiandosi nel grande freddo del Canada e immergendosi in una vita di profonda preghiera. La malattia le ha però minato la salute e Caterina si spegne a 24 anni, mentre i segni del vaiolo scompaiono dal suo viso.

    Dalla parte opposta del carta geografica, sull’Isola di Guam nel Pacifico, otto anni prima si consuma il martirio del 17.enne filippino, Pedro Calunsgod. Il ragazzo è un catechista al seguito dei missionari gesuiti spagnoli che hanno preso a evangelizzare la zona, accolti con grande favore dagli indigeni. Il loro successo suscita gelosie e una campagna diffamatoria che esplode tragicamente il giorno in cui Pedro e il gesuita padre Diego suscitano le ire di un capo villaggio, un tempo amico dei missionari, per aver battezzato sua figlia. Entrambi cadono sotto i colpi dell’indio e i due cadaveri vengono gettati nell’Oceano.

    Un salto temporale e si arriva al 1838, quando nascono due dei prossimi Santi. Il 23 gennaio viene alla luce in Germania Barbara Cope. Figlia di poveri contadini, emigra a due anni negli Stati Uniti. Da adolescente è già in fabbrica e finché il suo contributo alla famiglia è necessario deve accantonare quello che è il suo vero desiderio: consacrarsi a Dio. Lo realizza a 24 anni tra le Suore del Terz’Ordine Francescano di Syracuse, prendendo da religiosa il nome di Madre Marianna. Intelligenza e generosità la portano ai vertici dell’Istituto, quando dal famigerato lebbrosario di Molokai giunge al vescovo di Honolulu una richiesta: servono infermiere per i malati. Fra loro c’è già padre Damiano de Veuster, ma c'è urgenza di nuove forze. Madre Marianna parte, si immerge con altre compagne in quella terribile realtà fino a prenderne le redini quando padre Damiano muore di lebbra nel 1889. Lei resiste, generosa come sempre, per ben 30 anni. Curando i malati, li istruisce, e fino all’ultimo respiro, nel1918 a 80 anni di età, ricorda loro che avere la lebbra non vuol dire mancare di dignità.

    Intanto, a fine novembre del 1838 è nato anche in Francia Giacomo Berthieu. Diventato sacerdote, entra nei Gesuiti e parte missionario nel Madagascar. Allo scoppio, nel 1894, della seconda guerra dei malgasci contro la Francia si trovava ad Andrainarivo. È catturato dagli insorti mentre accompagna i cristiani evacuati dai villaggi e spinto più volte ad abiurare la fede. Padre Berthieu si rifiuta e paga con la vita. Il suo corpo viene gettato nel fiume Mananara.

    Un quasi contemporaneo di Madre Marianna e padre Berthieu, nasce nel 1841, è il bresciano Giovanni Piamarta. Diventa sacerdote dopo un’infanzia difficile per le precarie condizioni economiche della famiglia. Il suo nome è legato alla fondazione dell’Istituto Artigianelli, dedicato all’aiuto dei giovani che venivano a Brescia per cercare lavoro. Ma il sacerdote non si ferma e crea anche una Pia società di sacerdoti, chierici e fratelli e la Congregazione delle Povere Serve della Sacra Famiglia di Nazareth.

    Sempre negli anni Quaranta dell’800 nasce a Barcellona Carmen Sallés Barangueras. Cresce negli anni che vedono il crescendo di devozione mariana che sfocia nella proclamazione del dogma dell'Immacolata del 1854. L’istruzione è la sua passione e anche la sua vocazione. Prende l’abito delle Terziarie domenicane dell'Annunziata, finché non fonda ella stessa le Concezioniste missionarie dell'insegnamento. Si spegne a Madrid nel 1911 lasciando 166 suore nella nuova Congregazione e il desiderio di inviarle ovunque, oggi realizzato con presenze in quasi tutti i continenti.

    L’ultima storia riguarda Anna Schaffer, futura Santa laica. La sua terra è la Baviera, terza degli otto figli di un umile falegname che provvede da solo a tutti. Le ristrettezze non mettono il freno ad Anna, che sogna di diventare suora e partire missionaria. Poi arriva il 14 febbraio 1901. Anna ha 19 anni ed è operaia in una lavanderia. A causa di un incidente, riporta gravi ustioni alle gambe che la rendono purtroppo un’invalida. Ma non si rassegna, anzi si ribella a questo patire senza speranza, e faticosamente si capisce che ciò che Cristo le chiede e di essere “missionaria” dal suo letto di malata, dove la salute progressivamente peggiora. Consiglia e incoraggia la gente venuta a chiederle aiuto e sostegno, e lei senza forze diventa la forza di chi è sano. Nel settembre 1925, una caduta dal letto le toglie la voce. Si spegne con un sussurro: “Gesù, io vivo in te”.

    inizio pagina

    Honduras. Il dolore del Papa per l'incendio nel carcere di Comayagua. L'editoriale di padre Lombardi

    ◊   Il Papa ha espresso il suo profondo dolore per le vittime dell’incendio che mercoledì scorso ha devastato il carcere di Comayagua, in Honduras. In un messaggio a firma del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, Benedetto XVI eleva le sue “ferventi” preghiere per gli oltre 350 morti, manifestando la sua “vicinanza spirituale” ai familiari auspicando un "rapido e totale recupero dei feriti". Il Papa, in un momento "di così grande tristezza", invoca su tutti “l'amorevole protezione di Nostra Signora di Suyapa”. Su questo drammatico evento ascoltiamo il nostro direttore, padre Federico Lombardi, nel suo editoriale per Octava Dies, il Settimanale informativo del Centro Televisivo Vaticano:

    C'è una notizia, questa settimana, che sfida fino in fondo la nostra capacità di compassione: è il rogo nel carcere di Comayagua in Honduras, dove centinaia di detenuti - più di 300 senza contare i feriti - hanno trovato la morte asfissiati e carbonizzati intrappolati nelle loro celle. Terribile. Uno strazio. Una fitta al cuore. Oltre un terzo dei prigionieri di un carcere sovraffollato all'inverosimile - come troppo spesso avviene soprattutto nei paesi più poveri, ma non solo. E non è la prima volta. Tragedie simili le ricordiamo bene negli ultimi anni. Non sono rare. Ancora in Honduras più' di cento morti a San Pedro di Sula nel 2004. E poi in Cile, Algeria, Repubblica Dominicana, Brasile, Arabia Saudita, Marocco, El Salvador, Tunisia, Argentina, Messico. Se c'è un incendio in un carcere, vi è quasi sempre una strage.

    Attenzione. Il fatto che delle persone abbiano sbagliato non le priva di ogni dignità, non giustifica che vengano abbrutite in un clima di violenza che degrada non solo loro ma spesso anche chi se ne deve occupare e rende praticamente impossibile ogni recupero alla vita sociale.

    Il documento del Sinodo africano pubblicato dal Papa in Benin evoca la condizione terribile dei carcerati in Africa, ma le visite dei Papi nei carceri romani, fino a quella di due mesi fa a Rebibbia, hanno sempre allargato lo sguardo sulle condizioni e sui gravi problemi dei carcerati in tutto il mondo, ricordando come il loro stato è di fatto una misura impressionante del livello di civiltà dei diversi Paesi. Non per nulla il Vangelo ci ricorda senza mezzi termini che anche questo sarà uno dei criteri del giudizio di Dio su di noi: "Ero carcerato e mi avete visitato - ero carcerato e NON siete venuti a trovarmi". I morti sfigurati di Comayagua hanno in realtà per ognuno di noi il volto di Cristo.

    inizio pagina

    Tradizionale incontro Italia-Santa Sede per l'anniversario dei Patti Lateranensi

    ◊   "C'e' un'azione congiunta, direi molto efficace, tra la Santa Sede e la Cei'" che tende a ''un'azione propulsiva dell'impegno dei cittadini cattolici nella vita sociale e politica''. Lo ha affermato il segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, in un'intervista alla Rai. Ieri sera le tradizionali celebrazioni a Roma per i Patti Lateranesi, con il vertice Italia-Vaticano. "Un incontro che è andato benissimo" ha affermato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Oltre a Napolitano, presenti tra gli altri il premier Monti, il cardinale Bertone e il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. Il servizio di Alessandro Guarasci.

    La Chiesa ribadisce il suo apprezzamento per l’operato del governo Monti. Si respirava un clima cordiale, di collaborazione ieri sera all’ambasciata dell’Italia presso la Santa Sede, Palazzo Borromeo. C’erano i massimi vertici della Curia Romana, e tra questi il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone e il presidente dell’Apsa, il cardinale Attilio Nicora. Per parte italiana, oltre al presidente Napolitano e al premier Monti, c’erano, tra gli altri, una decina di ministri, che hanno scelto uno stile austero, arrivando all’ambasciata su tre-quattro auto blu. Comunque si è parlato di tutto, ma non della revisione della normativa sull’Ici, ha detto l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Francesco Maria Greco, al termine dell’incontro. Sulle modifiche alle esenzioni per le attività non pienamente commerciali, modifiche che il governo starebbe mettendo a punto, è intervenuto invece il presidente del Senato, Renato Schifani:

    “Non può essere il problema Ici a mettere in discussione o minimamente ad incrinare gli ottimi rapporti tra Stato e Santa Sede”.

    Oggi, il quotodiano Avvenire, in un editoriale, ribadisce che “è giustissimo far pagare gli immobili commerciali della Chiesa. Solo che pagano già, hanno sempre pagato”. Nei colloqui di ieri sera, spazio anche ai grandi temi internazionali: dall’Europa al Medio Oriente, alle minacce nei confronti dei cristiani.(ap)

    inizio pagina

    Mons. Chullikatt: il commercio delle armi non regolamentato crea violenza e povertà

    ◊   “La comunità internazionale ha bisogno di uno strumento legale forte, credibile ed efficace, in grado di regolamentare e migliorare la trasparenza del commercio delle armi convenzionali e delle munizioni”. E’ quanto ha detto mons. Francis Chullikatt, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, intervenendo lo scorso 13 febbraio alla quarta sessione, in corso a New York, del Comitato preparatorio per la Conferenza dell’Onu, prevista a luglio, sul Trattato sul commercio delle armi. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

    Un commercio delle armi “non regolamentato e non trasparente a causa dell’assenza a livello internazionale di sistemi efficaci di monitoraggio” provoca sul piano umanitario molteplici conseguenze: lo sviluppo umano – osserva mons. Chullikatt - viene rallentato, il rischio di conflitti aumenta, i processi di pace sono messi in pericolo e si facilita “il diffondersi di una cultura di violenza e di criminalità”. Per questo – spiega mons. Chullikatt – è necessaria “un’azione responsabile, condivisa da tutti i membri della comunità internazionale” al fine di promuovere “il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. Ricordando che questa azione responsabile chiama in causa Stati, Organizzazioni internazionali e Organismi non governativi, l’osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite sottolinea che il principio fondante del Trattato sul commercio delle armi deve essere la ricerca di “un mondo più rispettoso della dignità della persona e del valore della vita umana”. I criteri di applicazione del Trattato – aggiunge mons. Chullikatt – devono mantenere riferimenti ai diritti umani, al diritto umanitario e allo sviluppo, campi in cui “l’impatto del mercato illecito delle armi è particolarmente forte”. Si deve infine porre “attenzione alla proliferazione illecita delle armi, attraverso la riduzione della domanda”. In quest’ottica – conclude mons. Chullikatt – sembra opportuno introdurre nel Trattato “riferimenti a processi educativi e programmi che coinvolgendo tutti i settori della società, incluse le organizzazioni religiose, siano volti a promuovere una cultura della pace”.

    inizio pagina

    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   La Giornata di preghiera e di riflessione convocata da Benedetto XVI per i membri del Collegio Cardinalizio e per i nuovi cardinali in vista del Concistoro.

    In prima pagina, un articolo di Lucetta Scaraffia dal titolo “L’uomo religioso: Julien Ries e il centro della ricerca antropologica”.

    Nell'informazione internazionale, in rilievo la Siria: l’Assemblea generale approva una risoluzione non vincolante.

    Ricordati a Palazzo Borromeo i Patti Lateranensi: l'incontro fra le delegazioni dell'Italia e della Santa Sede.

    Insidie per il futuro della Libia: Giuseppe Petrone sul rischio rappresentato dalle milizie armate dopo il conflitto.

    Teologia dei misteri: Inos Biffi su Tommaso d’Aquino e il Gesù storico.

    Pittore dal cuore trafitto: Timothy Verdon sul Beato Angelico.

    Quando la prudenza non è mai troppa: Augusto Pessina su cellule staminali e sperimentazioni cliniche.

    Siamo brutti ma ci siamo: Gaetano Vallini sulla mostra a Lugano delle foto di Roberto Stephenson su Haiti e i suoi drammi.

    inizio pagina

    Oggi in Primo Piano



    Germania: si dimette il presidente Wulff. Merkel: cerchiamo candidato condiviso

    ◊   Siamo alla ricerca di un candidato condiviso con l’opposizione. Lo ha detto la cancelliera tedesca, Angela Merkel, dopo le odierne dimissioni del presidente, Christian Wulff, presentate a causa del suo coinvolgimento in uno scandalo riguardante presunti favori di carattere economico. Il servizio di Eugenio Bonanata:

    "La fiducia dei cittadini nei miei confronti è venuta a mancare e per questo non posso fare altro che abbandonare la carica della presidenza federale". Con queste parole, Christian Wulff ha annunciato una decisione che era nell’aria, pur dicendosi certo che sarà scagionato nonostante qualche errore – ha detto – commesso in buona fede. Dallo scorso dicembre, era finito al centro di una bufera per presunti favori, tra i quali un prestito a tasso agevolato, ottenuti quando era presidente del land della Bassa Sassonia. Ieri, inoltre, la Procura di Hannover aveva chiesto la revoca dell'immunità per poter aprire un'inchiesta, passando la parola al parlamento che dovrà decidere il via libera sull’inquisizione. Le sue dimissioni aprono un fronte interno per la Merkel dopo quello economico europeo. In mattinata, la cancelliera ha espresso dispiacere e rispetto per la decisione, ribadendo che ora l’obiettivo è risolvere la successione in tempi brevi. In particolare, ha detto che si cercherà un candidato comune che goda del sostegno di maggioranza e opposizione. Già domani cominceranno gli incontri tra i partiti, mentre il presidente di turno della Camera alta, Seehofer, ha assunto l’incarico di capo dello stato pro-tempore. Angela Merkel, inoltre, ha annullato la sua visita prevista per oggi a Roma, nella quale avrebbe dovuto incontrare il premier italiano, Mario Monti, in vista dell’Eurogruppo di lunedì 20 a Bruxelles.

    Dunque, la cancelliera tedesca Merkel ha garantito il dialogo con tutte le forze politiche al fine di trovare la più presto un candidato comune per la presidenza. Come interpretare questa presa di posizione? Eugenio Bonanata lo ha chiesto ad Angelo Paoluzzi, esperto di Germania:

    R. – Possiamo interpretarla nel senso che la Merkel sa benissimo di non avere una maggioranza tra il parlamento che il Bundestag, cioè il Consiglio degli Stati, perché avendo perso nei mesi scorsi alcune situazioni regionali, a questo punto è necessario arrivare ad un compromesso con l’opposizione.

    D. – Questo momento di passaggio cosa significa per l’economia tedesca?

    R. – Per l’economia tedesca, non vuole dire molto. Per la politica tedesca, invece, significa qualcosa: è un esempio di serietà, di consapevolezza che certe situazioni non vanno sopportate e che dunque vanno cambiate. In tre mesi si è risolta una crisi istituzionale. Questo fa ben sperare per il futuro della Germania e, diciamo, anche per la solidità delle istituzioni tedesche.

    D. – Quindi, in sostanza, le conseguenze di questo avvicendamento sulla politica tedesca possono essere non eclatanti...

    R. – Possono essere non clamorose. Comunque, sono un esempio di serietà. E poi hanno questa caratteristica: si risolvono rapidamente.

    D. – Spostando l’attenzione a livello europeo, la Germania è impegnata in prima linea nella situazione economica. Quali possono essere le ripercussioni sul lavoro della Merkel?

    R. – Possono esserci se va alla presidenza un socialdemocratico, un verde o un indipendente un po’ grintoso. Però, in genere, il presidente della Repubblica tedesca è una personalità che regna e non governa: porta all’estero il buon nome del suo Paese. (bi)

    inizio pagina

    L'Onu condanna la repressione in Siria, ma la violenza non si ferma. Padre Samir: situazione insopportabile

    ◊   Dopo la denuncia, ieri, da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon di “crimini contro l’umanità” in Siria, questa notte l’Assemblea Generale ha approvato una risoluzione di condanna per la repressione in atto; il documento è stato definito “una vittoria della rivolta” da parte del Consiglio nazionale siriano che riunisce buona parte dell'opposizione all'estero al presidente Bashar al-Assad. L’interesse della comunità internazionale, però, non sembra corrispondere ad una normalizzazione. Il regime, infatti, non placa l’offensiva contro le roccaforti della protesta. Coinvolte, dopo Homs, Hama e Idlib, anche la regione meridionale di Daraa. Ed il bilancio delle vittime è davvero drammatico: almeno 70 i morti nelle ultime ore. Salvatore Sabatino ha parlato della situazione nel Paese con il padre gesuita Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba e Islamologia all’Università Saint-Joseph di Beirut:

    R. – Di fatto la Comunità internazionale può soltanto esercitare pressioni: già questo, però, aiuta la gente che protesta, perché gli dà coraggio. Però concretamente è poi il regime che farà quello che dovrà fare. Questa pressione internazionale indebolisce la posizione del regime e, forse, questo può aiutare a fargli prendere la decisione di ritirarsi, perché non si può continuare così! Il governo ha promesso che fra 15 giorni ci saranno elezioni, ma è un modo per prendere tempo e continuare intanto la guerra! La guerra è fra le due parti, ma è una guerra diseguale: l’opposizione non ha i carri armati, non ha le stesse armi che ha il governo.

    D. – Padre Samir, questo tipo di guerra va ad agire soprattutto sulla popolazione - abbiamo visto moltissimi morti civili – e soprattutto va ad agire dal punto di vista economico. Il Paese sta pagando un prezzo enorme…

    R. – Una lettera dei padri gesuiti arrivata in questi giorni da Homs dice che una gran parte della popolazione non trova da mangiare o ha paura di uscire per comprarlo, perché rischia la vita. Ci sono cecchini dappertutto, dalle due parti: chiunque può morire! E’ una situazione umanamente insopportabile! Adesso soprattutto nella città di Homs, ma anche in diverse località della Siria, la guerra si è generalizzata: stiamo passando a una guerra civile.

    D. – Bisogna anche dire che la Siria è un Paese molto particolare e questa situazione così drammatica che sta vivendo potrebbe avere degli effetti anche nei Paesi limitrofi: sappiamo dei rapporti delicati con il Libano; sappiamo che i rapporti si sono complicati molto anche con la Turchia, ultimamente, per la questione dei profughi…

    R. – In Libano temono questa situazione, a causa della vicinanza, perché parecchi profughi valicano la frontiera. La Turchia di fatto non la teme, perché è un Paese grande e forte. Quello che può succedere o piuttosto ciò che si teme che possa succedere è all’interno del Paese stesso e cioè la guerra tra fazioni.

    D. – Padre Samir, volevo parlare con lei della quotidianità che si vive in questo Paese: è una quotidianità difficile, perché piegata dalle violenze, ma anche da una grossissima crisi economica derivata da queste proteste. Ci può raccontare come si vive una giornata in Siria in questo periodo?

    R. – La gente che può fugge: questa è la prima soluzione. Rimanere nei punti caldi significa rischiare la morte: senza accorgersene, semplicemente il passo più banale può essere l’ultimo. Per evitare questo la gente si protegge come può, ma anche le case non sono sicure… Proteggersi vuol dire non uscire, ma questo vuol dire anche soffrire la fame. Tutto è diventato precario.

    D. – E’ una guerra che coinvolge davvero tutti: abbiamo sentito dati impressionanti sul coinvolgimento dei bambini, ne parla l’Unicef, ne hanno parlato il Papa e Ban Ki-moon…. Insomma una situazione drammatica anche questo punto di vista...

    R. – Lo è perché non si fa più differenza. Arrivati a questo punto non c’è più umanità: c’è solo la violenza per arrivare a vincere a tutti i costi. Questa è la vera tragedia! Da tempo doveva esser fatto qualcosa e non si è fatto nulla! Il governo non ha ceduto e l’unico metodo che ha è quello della repressione.

    D. – Padre Samir, quale potrebbe essere la chiave di volta per fare un passo indietro, per far sì che questo Paese non scivoli verso la guerra civile?

    R. – Se il governo riconosce che la situazione così com’è non è più vivibile e decide di rinunciare al potere - come hanno fatto i presidenti della Tunisia, dell’Egitto… - allora ci potrebbe essere una soluzione. Sembra, però, che questo passo non lo vogliano fare.

    D. – Ho sentito più volte in questi giorni parlare di una “sindrome irachena”, che coinvolge soprattutto i cristiani: i cristiani che sono presenti in Siria hanno paura poi di dover fuggire e che quindi la loro comunità scompaia dal Paese…

    R. – Io spero che questo non avvenga. I cristiani erano e sono un elemento di stabilità di questo Paese: danno un contributo economico, anche politico. Al di là del numero, della loro proporzione - i cristiani rappresentano il 10 per cento – hanno un peso certamente più grande rispetto a quello che è il loro numero. Partire sarebbe una perdita non soltanto per i cristiani, ma per la nazione: per quanto è possibile, noi cristiani abbiamo il dovere di rimanere finché si può. L’esilio sarebbe catastrofico per tutto il Medio Oriente: in Palestina ormai i cristiani non torneranno più; in Iraq, lo stesso; in Giordania, i cristiani sono pochi… In tutta questa zona, fatta eccezione per il Libano, e dopo il Libano è la Siria che può dare forza ai cristiani di tutta questa parte, che va dall’Iraq alla Palestina. (mg)

    inizio pagina

    Un anno fa iniziavano le proteste in Libia. L'esperto: equilibri da ricostruire pena il caos

    ◊   E' un Paese dall'animo diviso quello che oggi celebra il primo anniversario della rivolta che ha portato alla caduta di Gheddafi, con la sobrietà osservata del governo transitorio in memoria delle vittime che fa da contraltare all'esultanza spontanea registrata in molte città, senza poi dimenticare il malcontento degli sconfitti. A Bengasi, città-simbolo della Libia dove le contestazioni ebbero inizio, si è svolta stamani una breve cerimonia pubblica, mentre per domani, è programmata la Festa nazionale. Massimiliano Menichetti ha chiesto un commento sull'attuale situazione libica a Cristiano Tinazzi, giornalista testimone della primavera araba in questi giorni in Libia:

    R. – Sia a Tripoli che a Bengasi, è ancora tutto fermo. Lo scenario è tutto da ricostruire ma sono tutti ottimisti e fiduciosi, anche se stanno ancora vivendo questa “ubriacatura” della vittoria e forse non pensano con chiarezza e con lucidità a quello che sarà il loro futuro. Gli scontri tribali stanno comunque continuando, perché non esiste più un governo centrale o comunque, essendo ancora un governo molto debole, non esiste una polizia nazionale o un esercito nazionale forte. Soprattutto al sud, continuano le prevaricazioni di una tribù sull’altra e ci sono anche delle città - come quelle del Jebel Garbi, che sono di origine berbera - che sono state tagliate fuori dal gioco politico più importante, nonostante abbiano dato un fortissimo contributo alla caduta del regime di Gheddafi.

    D. – Ci sono notizie preoccupanti che affermano che decine di migliaia di ex ribelli, che hanno combattuto contro le forze di Gheddafi, ora formano potenti brigate che difendono un proprio territorio. E’ così?

    R. – Da una parte, sì. Non voglio esagerare, ma le brigate più potenti – che sono quelle di Misurata e Zintan – dettano un po’ legge nel loro territorio. E’ lo stesso motivo per cui le milizie non vanno via da Tripoli, per cui le milizie di Zintan occupano l’aeroporto, così come quelle di Misurata occupano altre zone della città. E’ un problema che dovevano risolvere entro il 15 febbraio, perché era l’ultima data per la registrazione di tutti gli ex ribelli e la consegna delle armi. Quindi, la scelta da parte delle migliaia di ribelli di una carriera – se continuare gli studi, entrare nella polizia o nell’esercito – in realtà non è stata ancora fatta e le armi non vengono consegnate.

    D. – L’ultimo Rapporto di Human Rights Watch, quello del 2012, denuncia che sono in aumento i casi di attacchi di rappresaglia contro chi è sospettato di aver sostenuto Gheddafi. E, nel mirino, ci sarebbero proprio le milizie di Misurata…

    R. – Sì. Tra l’altro c’è la ferita, ancora aperta, della cittadina di Tauarga – che si trova a pochi chilometri da Misurata – che era apertamente filo-gheddafiana. Questa città viene periodicamente depredata e vengono sistematicamente distrutte tutte le case. Prima c’era un cartello con l’indicazione: “Tauarga – 30 km da Misurata” ed ora qualcuno ha scritto “150 mila chilometri”, come a voler dire che bisogna dimenticarsi di questa città, perché non esisterà più sulla carta geografica della Libia.

    D. – L’intervento della comunità internazionale fu decisivo per la caduta di Gheddafi. Tu che ora sei in Libia, hai percezione di pressioni internazionali, della presenza internazionale in questa ricostruzione del Paese, oppure come viene visto l’Occidente?

    R. – L’Occidente viene visto in senso positivo. La gente, chiaramente, desidera che vengano puniti quei Paesi – come Russia e Cina – che hanno in qualche modo frenato l’intervento internazionale. C’è un fortissimo attivismo da parte francese, ma la ricostruzione non è ancora partita. Tutte le grandi costruzioni, che erano in mano alle aziende straniere, sono ancora bloccate.

    D. – Qual è la situazione sul fronte umanitario?

    R. – All’interno della Libia, ci sono alcune situazioni di questo tipo: si parla di decine di migliaia di persone che sono state portate in una sorta di "campo profughi" a Tripoli, ci sono alcune tribù delle montagne che sono state cacciate dalle zone delle montagne del Jebel Nafusa e ci sono africani che si trovano ancora nel campo profughi di Shousha, che si trova al confine con la Tunisia. E poi, c’è più di un milione di persone uscito durante la guerra e che non è più rientrato. Erano lavoratori stranieri che si trovavano nel Paese.

    D. – Solo pochi giorni fa, il leader del Cnt, Jalil, ha ribadito che la caduta del Consiglio nazionale di transizione sarebbe la fine per la Libia. Cosa dovrà fare per ricompattare il Paese?

    R. – Dosare, a livello millesimale, ogni competenza e distribuzione per riequilibrare quello che, in fondo, aveva fatto Gheddafi. Il suo era comunque un regime in cui il potere era in mano alla famiglia Gheddafi e al suo clan, ma era anche distribuito alle varie tribù, proprio per cercare di compattare e creare un equilibrio all’interno dello Stato. Questo equilibrio è stato distrutto ed ora dev’essere ricostruito, altrimenti potrebbe esserci il caos. (vv)

    inizio pagina

    Quattro anni fa l'indipendenza del Kosovo. L'esperienza delle Acli nell'area

    ◊   Quattro anni fa, il 17 febbraio 2008, avveniva la proclamazione unilaterale dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia. Oggi, a Pristina, le celebrazioni per la ricorrenza, con la partecipazione della presidente Atifete Jahjaga del premier Hashim Thaci. Nei giorni scorsi, il referendum nel quale i serbi del nord del Kosovo si sono espressi – con il 99,74% delle preferenze – contro l'autorità, il governo della maggioranza albanese e le strutture di potere di Pristina. In questo quadro, il prossimo 21 febbraio riprenderanno i negoziati fra Serbia e Kosovo, fortemente voluti dal governo di Belgrado per un graduale avvicinamento all’Unione Europea, in vista di un’eventuale concessione alla Serbia dello status di candidato. Ma oggi il Kosovo che Paese è? Giada Aquilino lo ha chiesto a Paola Villa, presidente della ong delle Acli "Ipsìa", presente in Kosovo con progetti di cooperazione e sviluppo dal 1999:

    R. - Oggi, il Kosovo è un Paese in bilico tra un ritorno al nazionalismo e ai conflitti del passato e un futuro europeo di integrazione economica e sociale.

    D. - Nei mesi scorsi si sono avute tensioni ai confini, quando si è insediato il personale albanese nei posti doganali: dalla guerra del ’99 cosa è cambiato?

    R. - Sostanzialmente, è rimasta una situazione di divisione territoriale ed etnica, un po’ sul modello di "cantonizzazione" ripreso dalla Bosnia, ma non è ripresa una convivenza reale, se non in piccole situazioni dove non ci sono le grandi enclave. Ed è rimasta sospesa tutta la questione della zona nord.

    D. - Mitrovica, una della città in cui i serbi hanno votato nei giorni scorsi, è un po’ il simbolo del Kosovo, divisa dal fiume Ibar tra comunità serba e comunità albanese. Rimane quindi una parcellizzazione del territorio? Che rischi ci sono?

    R. - Rimane soprattutto un futuro incerto, perché il rischio in questo momento è cosa avverrà dopo il referendum dei giorni scorsi e dopo i quattro anni di indipendenza. Bisognerà capire nei prossimi colloqui di mediazione di fine febbraio come la comunità internazionale prenderà in considerazione il risultato, dopo aver dichiarato che il referendum è illegale e quindi nullo ma - dal punto di vista simbolico e politico - è impossibile non considerarlo. Bisognerà poi vedere cosa avverrà ai primi di marzo, quando l’Unione europea dovrà decidere sulla candidatura della Serbia ad un ingresso nell’Unione stessa.

    D. - Come ha accennato, nei prossimi giorni ripartiranno i negoziati tra Belgrado e Pristina. La spaccatura che si è creata tra i serbi del nord e il governo del presidente Tadić peserà in qualche modo?

    R. - Sicuramente. Il messaggio dei serbi del nord è più un messaggio rivolto alla Serbia che al Kosovo. Quello che le persone di Mitrovica e degli altri comuni del nord hanno comunicato a Tadić è che non sono disponibili a essere offerte in “scambio” per l’entrata in Europa.

    D. - Quindi, una via di mediazione dove si può trovare?

    R. - È molto difficile, perché in questo momento non esistono delle proposte concrete. Ogni tentativo che tocca la ridefinizione dei confini apre contenziosi su altre zone e potrebbe, a ricaduta, toccare altre parti dei Balcani. Dal nostro punto di vista, l’unica soluzione è una Unione Europea che intervenga in maniera più politica, più uniforme, e che tratti l’entrata in Europa dei singoli Paesi dei Balcani in maniera unitaria e non frammentata, offrendo quindi un’integrazione che può avvenire solo in una ricomposizione reale dei conflitti.

    D. - "Ipsìa" è presente dal ’99, quindi dai giorni della guerra in Kosovo. Ci sono esempi che voi avete visto e vissuto sul terreno, esempi di convivenza e di integrazione?

    R. – Sì, ci sono esempi che sono esempi di realtà più piccole. Ci sono persone di diverse etnie, di diverse religioni, che convivono nel quotidiano all’interno però di un contesto che non facilita. E sicuramente è più facile con le altre etnie: in Kosovo non sono presenti solo serbi e albanesi, ma ci sono i bosniaci, i gorani, i rom, impegnati in una fatica generale di integrazione che sicuramente non è estremizzata – come nel rapporto tra albanesi e serbi – ed è quindi un po’ più facile avere dei risultati positivi.

    D. - La guerra in Kosovo di fatto bloccò molte attività produttive del Paese: pensiamo all’industria mineraria locale. Il Kosovo è un Paese di giovani, in un momento in cui i giovani soffrono a causa della crisi in Europa e non solo. A cosa può puntare allora il Kosovo oggi?

    R. - Noi stiamo puntando molto, ad esempio, sull’agricoltura, cioè su una valorizzazione e un’integrazione delle realtà che già ci sono, ma che per il territorio possono avere uno sviluppo economico e sociale maggiore se si mettono in rete. A oggi, l’agricoltura è un po’ finalizzata solo alla singola sussistenza o alla singola prospettiva di vita, mentre una rete di commercializzazione e di produzione anche fuori dal Kosovo con i Paesi confinanti avrebbe maggiori prospettive per tutti. In ogni caso, il Kosovo non è un Paese che può pensare di avere uno sviluppo economico e sociale da solo. L’integrazione e lo scambio con tutte le zone circostanti è indispensabile.

    D. - Di fatto, come avvengono i vostri progetti?

    R. - Da una parte, è un lavoro di formazione, di sostegno alla micro-impresa e al micro-credito con le realtà produttive, con un’attenzione sia alla dinamica di convivenza tra le diverse realtà di minoranza e maggioranza, sia anche alla questione di genere, perché – in una realtà come il Kosovo – le differenze di genere e la difficoltà delle donne di integrarsi nella vita sociale ed economica sono ancora molto presenti, soprattutto nelle zone rurali. Dall’altra parte, lavoriamo con progetti di volontariato internazionale, campi estivi e servizio civile. Proprio domenica prossima, partiranno tre ragazzi che hanno passato le selezioni del servizio civile in Italia e che trascorreranno un anno in Kosovo lavorando in tutti questi ambiti. (bi)

    inizio pagina

    Dibattito sull'Ici: le riflessioni di Edo Patriarca, Paolo Beni e Giuseppe Frangi

    ◊   Prosegue in Italia il dibattito sulle modifiche alle esenzioni Ici, annunciate dal governo Monti. Se da una parte, si auspica una maggiore chiarezza nell’applicazione della norma, dall’altra sono in molti a temere un aggravio sul mondo del no-profit, già particolarmente colpito dalla crisi economica. Sui possibili risvolti delle misure annunciate da Palazzo Chigi, Antonella Palermo ha intervistato Edoardo Patriarca, già portavoce del Forum permanente del Terzo Settore, Paolo Beni, presidente nazionale dell’associazione di promozione sociale Arci e Giuseppe Frangi, direttore del magazine Vita.it.

    D. - Edoardo Patriarca, un commento all’iniziativa del governo…

    R. – Mi sembra che la cosa più importante sia colpire gli abusi, un po’ come accade per gli evasori fiscali. E’ vero che possono esserci enti non profit, ecclesiastici o no, che, può darsi, abbiano abusato oppure che si siano travestiti da enti non profit e svolgano attività commerciale in maniera commerciale profit e certo questi vanno colpiti. Tutte le altre realtà, però, che sono tantissime - parliamo di 300 mila realtà, censite dall’Istat, che sono piccole realtà, con sedi, con circoli, e che talvolta svolgono anche attività commerciali; il circolo, per esempio, prevede il bar – svolgono un’attività preziosa di coesione sociale di grandissimo rilievo. Colpire queste realtà vuol dire uccidere un po’ il Paese, farlo morire.

    D. – Poi c’è il discorso, di cui spesso ci si dimentica con un accanimento probabilmente eccessivo, che la Chiesa già paga l’Ici...

    R. – Sì, questo è sgradevole, e mi sembra che sia dar spazio ad una polemica costruita volutamente da una minoranza presente in Parlamento e anche da alcuni media compiacenti, non conoscendo i dati in realtà, creando davvero dei casi che neppure esistono.

    D. - Paolo Beni, non vede un accanimento informativo nei confronti della Chiesa?

    R. – Non c’è dubbio. Si rischia veramente di fare una tempesta in un bicchier d’acqua. Penso che questa polemica, in parte alimentata anche dall’informazione, si basi sul nulla. Se i beni di proprietà della Chiesa venivano gestiti nel rispetto delle regole, per la parte adibita ad attività commerciali, già dovevano pagarlo. Da quello che riportano i giornali, per noi non cambia un gran che, perché noi fino ad oggi abbiamo sempre usato l’esenzione dall’imposta soltanto per quelle parti degli immobili adibite ad attività esclusivamente non commerciali, anche su frazioni di immobili, con un grosso limite, perché dei 5000 circoli Arci in Italia solo una minoranza sono proprietari degli immobili. Quindi, in tutti gli altri casi l’imposta si versa. Queste limitazioni, dunque, le condividiamo. Se invece venisse meno anche questa agevolazione, per quelle parti esclusivamente non commerciali, penso sarebbe una scelta grave e sbagliata.

    D. - Giuseppe Frangi, quale commento alla proposta governativa?

    R. – Se resta in questi termini è una correzione di rotta legittima. La cosa che ci preoccupa sempre è l’idea che l’esenzione Ici sia un privilegio. Non è un privilegio, è semplicemente una delle pochissime misure che oggi in Italia esistono per aiutare chi svolge un’attività di associazionismo o attività di culto - e mi riferisco soprattutto agli oratori – che sono iniziative fondamentali e danno un valore aggiunto enorme al nostro Paese, non quantificabile.

    D. – Si può dire che quando il non profit fa comodo lo si elogia e quando invece è considerato un peso lo si penalizza...

    R. – Diciamo che lo si elogia sempre a parole, ma quando si tratta di decidere lo si penalizza. Lo abbiamo visto con l’emergenza del freddo: se non c’erano i volontari, tanti paesi sarebbero rimasti molto isolati. Quindi, le parole buone si trovano sempre, ma a livello di decisione, essendo un mondo molto variegato e non essendo così aggressivo, non riesce a fare lobby come tanti altri mondi e risulta sempre penalizzato. (ap)

    inizio pagina

    20 anni da Mani pulite. I pm: la corruzione ancora dilaga. Pasini: occorre cambio culturale

    ◊   Vent'anni fa, si apriva Mani pulite la più clamorosa inchiesta giudiziaria italiana che avrebbe spazzato via la "Prima Repubblica" con i suoi partiti storici Dc e Psi, smascherando, attraverso il sistema delle tangenti, una rete capillare di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti ai livelli più alti. Due anni di indagini portarono a circa tremila arresti e a 1.300 fra condanne e patteggiamenti definitivi. Due decenni più tardi, magistrati e istituzioni, da ultima la Corte di Conti, traggono la stessa conclusione: la corruzione permane, anzi è aumentata. “Occorre approvare al più presto il decreto in materia”, dice il presidente del Senato, Renato Schifani. Ma la questione è culturale o legata ad una volontà politica? Gabriella Ceraso ne ha parlato con Nicola Pasini, responsabile del settore etica e politica del Centro studi Politeia di Milano:

    R. – Credo sia una questione sistemica culturale, che affonda proprio anche nelle radici del comportamento della società italiana. I comportamenti hanno a che fare con l’etica. L’etica dovrebbe tornare a essere insegnata nelle scuole come comportamento che va tenuto dai cittadini.

    D. – Dunque, come valuta le affermazioni dei magistrati e anche quelle dell'on. Di Pietro, che oggi dice: “I politici, ma anche gli imprenditori allora non vollero correggere il sistema”...

    R. – Certo, c’è una responsabilità di diversi settori: il ceto politico affronta questo tema nel momento in cui è di moda e poi se ne dimentica il giorno successivo, mentre la società civile rimane più o meno sonnacchiosa rispetto a questo. Dopo di che, lo Stato nelle sue articolazioni, non aiuta: abbiamo una giustizia civile lentissima, una giustizia amministrativa lentissima e una pubblica amministrazione che diventa un nuovo lavoro per un’impresa. Devo dire che il governo Monti sta andando in questa direzione di modifica dei piccoli comportamenti nella quotidianità. Poi, c’è tutto un discorso che ha a che fare con la semplificazione da parte della pubblica amministrazione, che incentiva sostanzialmente le imprese e anche i cittadini a fare la propria parte e anche a credere nel sistema. C'è stato forse un deficit di credibilità nei confronti del sistema. Invece, ora sembra ci sia un tentativo di dire “rialziamo la testa e facciamo la nostra parte per stare in Europa, ma soprattutto per essere orgogliosi di essere italiani.” Credo che questo sia molto importante.

    D. – Tornando a “Mani pulite”, che cosa salva di quello che è stato?

    R. – Non è stato un momento in cui abbiamo fatto gli esami di coscienza nei confronti di noi stessi, ma abbiamo invece portato ad una estremizzazione in termini di tifo tra coloro che avevano ragione e coloro che avevano torto. E non si è fatto nulla dal punto di vista culturale, per prevenire fenomeni di corruzione. Se noi agiamo solo sulla terapia ma non sulla prevenzione – attraverso codici etici, effetti sulla reputazione, comportamenti quotidiani da parte di tutti noi, nelle professioni come con i cittadini – ritengo che il tentativo solo riparatore, terapeutico, non abbia molto successo.

    D. – Contro la corruzione, oggi il presidente del Senato reclama al più presto il decreto che è fermo alla Camera. Secondo lei, potrebbe essere veramente un testo significativo in questo ambito?

    R. – La politica, quando è messa alle strette, e quindi deve elaborare qualcosa, a volte rischia di farlo proprio perché indotta dalla contingenza. Quindi, non sono così sicuro che l’esito sia virtuoso. Aspettiamo il testo e poi cercheremo di giudicarlo. (bi)

    inizio pagina

    Le difficoltà delle giovani coppie in un convegno sui primi anni del matrimonio alla Lateranense

    ◊   Costruire una famiglia duratura, che contribuisca al bene comune della società. Questi i temi del dibattito che si è svolto ieri alla Pontificia Università Lateranense di Roma, nell’ambito del “Seminario di studi sui primi anni del matrimonio” promosso dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II. Un’analisi sulle difficoltà delle giovani coppie in un periodo di crisi non solo economica. Il servizio di Michele Raviart:

    I primi anni di matrimonio sono anni decisivi per la tenuta di una coppia e trovare un equilibrio tra i tempi da dedicare alla famiglia e tempi da dedicare alla professione, in una società in cui sempre più spesso entrambi i coniugi lavorano, rimane una delle prove più difficili da superare. L’obiettivo deve essere quello di armonizzare i due aspetti, che contribuiscono reciprocamente a dare dignità alla persona umana. Carl A. Anderson, supremo cavaliere dei Cavalieri di Colombo:

    "The question of balancing work and family…
    La questione di trovare un equilibrio tra il lavoro e la famiglia è qualcosa con cui ogni coppia sposata deve confrontarsi, specialmente nei primi anni di matrimonio. Non c’è una soluzione immediata per quel problema. Quello che le giovani coppie possono davvero fare è capire che hanno una vocazione al matrimonio e una vocazione al lavoro e che entrambe quelle vocazioni sono radicate nella vocazione fondamentale cristiana all’amore. Capiscono che c’è questa complementarietà alla base delle due vocazioni, che renderà loro possibile una piattaforma dalla quale armonizzare i conflitti quando si presenteranno".

    Amore e lavoro erano già stati identificati da Freud come i due poli entro i quali si configura l’identità adulta. Un binomio sempre più difficile da realizzare contemporaneamente, in questo periodo di incertezza economica, nel quale la famiglia sembra essere relegata in secondo piano. La prof.ssa Eugenia Scabini, direttore del Centro studi e ricerche sulla Famiglia all’Università Cattolica di Milano.

    “La preoccupazione fondamentale è sul mondo del lavoro e il fare famiglia è un obiettivo sempre più posposto nel tempo e vissuto fondamentalmente quasi solo in termini di scelta rischiosa. Anche il sociale deve vivere la famiglia non più in termini privatistici, ma come qualcosa di assolutamente importante per la società”.

    A essere in discussione è il concetto di “generatività”, cioè non solo il prendersi cura dei propri figli, ma impegnarsi a favore delle nuove generazioni, trasmettendo una progettualità sociale nel lavoro e nelle professioni. Ed è proprio la mancanza di un progetto a lungo termine una delle caratteristiche riscontrate nelle giovani coppie. Un’immagine superficiale della famiglia, rilanciata anche nei media e nei prodotti d’intrattenimento. Il dott. Francesco Belletti, direttore del Cisf di Milano:

    “La coppia viene raccontata come un luogo della discontinuità, dove il progetto di coppia non è mai un progetto per sempre, dove c’è grande istintività che poi genera rovine. Ciò che invece va raccontato oggi è la possibilità di un progetto, cioè la possibilità che due persone si promettano un impegno e siano capaci di generare bene comune. Che vuol dire generare figli: vuol dire generare responsabilità sociale, essere cittadini attivi in questo Paese”.

    Un vincolo permanente che la Chiesa sancisce col matrimonio, un Sacramento del quale spesso sono sottovalutate le salvifiche implicazioni teologiche. Don Carlo Rocchetta, direttore del Centro familiare “Casa della Tenerezza”di Perugia:

    “Questa realtà della coppia non si costruisce da soli: con il Sacramento delle nozze, gli sposi sono inseriti nell’alleanza di Cristo con la Chiesa. Quindi, c’è la presenza dello Spirito. Ci sono dei doni del Sacramento che sono un valore aggiunto. Gli sposi non sono soli, Cristo cammina con loro. Bisognerebbe far riscoprire il significato teologico di questo Sacramento, perché purtroppo lo si intende più come una benedizione lontana, una cerimonia, mentre in realtà è un evento di grazia che trasforma il cuore degli sposi e li rende capaci di amarsi come Cristo ha amato la Chiesa”.

    E se “non si sposa solo una persona, ma una relazione con una persona”, il completo dono di sé all’altro può essere il solo modo per costruire una solida prospettiva di vita comune.(ap)

    inizio pagina

    Nella Chiesa e nel mondo



    America Latina: il dramma delle carceri superaffollate

    ◊   L’incendio che il 15 febbraio ha devastato il carcere di Comayagua, in Honduras, provocando centinaia di morti e decine di feriti ha messo in luce la triste situazione delle carceri sovraffollate in America Latina. Su questo fenomeno tra l'altro diffuso in molti Paesi del mondo, non manca l’impegno della Chiesa per assistere i detenuti e sollecitare le autorità a risolvere i problemi più urgenti. In Cile la Chiesa in diverse occasioni ha denunciato questa drammatica realtà: nel dicembre 2010, 81 carcerati perdevano la vita in una ribellione scaturita dal forte sovraffollamento. In Venezuela, alla fine di luglio 2011, il cardinale Urosa ha chiesto al Ministro Iris Varela di adottare provvedimenti atti a migliorare le condizioni di vita degli oltre 49 mila carcerati del Paese. Per diversi mesi il cardinale Urosa ed i vescovi del Venezuela avevano lanciato appelli per risolvere la situazione delle carceri nazionali, soprattutto dopo i terribili atti di violenza verificatisi a giugno 2011 nel carcere “Internado Judicial Capital El Rodeo I" a Guatire, nello Stato di Miranda. “Si devono costruire nuove carceri. Bisogna affrontare integralmente e con urgenza questo problema. Non è possibile che le prigioni siano come sono ora, controllate dai prigionieri più violenti” ha affermato il cardinale Urosa, ribadendo quanto aveva già detto in precedenza: “Soltanto con modifiche efficaci al sistema carcerario il Paese potrà risolvere questo problema”. In Messico, la Chiesa cattolica lavora in 482 delle 489 carceri del Paese, dove ci sono più di 220 mila prigionieri e dove più di 4000 operatori pastorali realizzano delle visite almeno una volta alla settimana. In alcune carceri manca la presenza della Chiesa cattolica solo perché le autorità presentano difficoltà trattandosi di carceri di massima sicurezza. A volte ci sono state tensioni fra la Chiesa e le autorità responsabili, come quando ad un vescovo è stato vietato di entrare in un carcere dello Stato perchè aveva osato dire che gli animali dello zoo erano nutriti meglio dei prigionieri della sua diocesi. Come risposta, il governatore non lo ha lasciato entrare in nessuna prigione per tre anni. In Colombia, secondo le ultime statistiche dell'Istituto nazionale penitenziario e delle carceri (Inepc), le infrastrutture penitenziarie del Paese hanno una capacità di 72.785 prigionieri ma attualmente ne ospitano circa 91 mila. Il problema del sovraffollamento delle carceri è stato anche uno dei temi affrontati all'Incontro regionale del Centro di pastorale delle carceri nel 2011. In El Salvador, 23 giovani detenuti sono morti in un incendio nel novembre 2010. La Chiesa in El Salvador aveva già manifestato in passato la sua preoccupazione sulla situazione delle carceri nel Paese. Il carcere di Ilobasco, dove si è verificato l’incendio, è un centro penitenziario per giovani maggiori di 18 anni condannati quando erano minorenni e che non possono scontare la pena nelle carceri degli adulti. Infatti le vittime dell'incendio avevano tra i 19 ed i 25 anni. Secondo dati diffusi dai mass media, il sistema carcerario in El Salvador conta 15.207 detenuti condannati. Di questi 14.280 sono uomini e 927 donne. Sotto processo, in attesa di sentenza definitiva, sono 8.324 (7.073 uomini e 1.251 donne). (R.P.)

    inizio pagina

    Vescovi Africa-Europa: Messaggio finale sulle sfide del mondo

    ◊   Urbanizzazione, materialismo, migrazioni, proliferazione delle sette e sfruttamenti abusivi del suolo e del sottosuolo. Sono queste “le sfide del mondo” che i vescovi d’Africa e d’Europa vogliono affrontare “per servire meglio gli uomini e le donne che vivono nei nostri continenti”. Sono elencate nel Messaggio - riportato dall'agenzia Sir - che i vescovi africani ed europei rivolgono “ai fedeli cristiani e agli uomini di buona volontà” al termine del simposio che si è concluso oggi, che i presuli dei due continenti hanno avuto a Roma sul tema della nuova evangelizzazione. “Stiamo vivendo l‘esperienza senza precedenti, particolarmente nell‘emisfero Nord - scrivono i vescovi -, di un rifiuto di Dio o di un‘indifferenza crescente”. “Sappiamo però che, al di là di tutte le culture, l‘uomo e la donna hanno un‘esperienza comune nel loro cuore, in Africa così come in Europa: sono abitati dal desiderio di amare, di essere amati e di dare la vita”. I vescovi si dicono poi disponibili ad essere “attenti alle sfide del mondo”. La prima sfida indicata nel messaggio è quella dell’urbanizzazione che a detta dei presuli moltiplica “le delusioni, le solitudini e le miserie”: “Dobbiamo imparare il linguaggio dell‘uomo della città per promuovere una vera vita comunitaria che favorisca l‘accoglienza delle domande dell‘uomo sradicato”. C’è poi la sfide del “materialismo. L‘esca del denaro - scrivono i vescovi - genera nuove forme di egoismo che allontanano dalla solidarietà e dalla ricerca del bene comune”. Nel Messaggio si parla anche delle “migrazioni”: “costituiscono anch’esse una sfida e pongono molti interrogativi alle nostre società. Possono provocare squilibri sociali e paure”. A questo proposito i presuli indicano una prospettiva: “Una vera pastorale dei migranti impegna le nostre Chiese ad essere segno della fraternità in Cristo: ‘Ero forestiero e mi avete accolto’”. I vescovi si dicono inoltre preoccupati per la proliferazione delle sette: “Dobbiamo interrogarci sul nostro linguaggio talvolta complesso e troppo astratto. Dobbiamo osare di più nell‘annuncio di Gesù Cristo, chiamando ad un‘adesione di fede personale e comunitaria”. Infine un allarme ed un appello contro “gli sfruttamenti abusivi del suolo e del sottosuolo” che vengono perpetrati anche “a prezzo di numerose corruzioni, con le violenze, o addirittura le guerre”. “E’ importante impostare le cose in modo da agire insieme, presso i governanti, per avere una parola comune in vista di una maggiore giustizia”. Il Messaggio si conclude con la garanzia di un impegno preso e condiviso: ”Vogliamo essere presenti all‘appuntamento con le sfide del nostro mondo, in primo luogo con le nostre conversioni personali e con la messa in atto delle trasformazioni necessarie per servire meglio gli uomini e le donne che vivono nei nostri continenti”. (R.P.)

    inizio pagina

    Madagascar: dal vescovo di Moramanga un primo bilancio dei danni del ciclone Giovanna

    ◊   "Le acque dei fiumi sono salite e in molte parti della città ci sono state gravi inondazioni, le coltivazioni sono andate completamente perse, in alcuni villaggi si temono le epidemie, molte case (capanne o simili) sono crollate, una chiesa è stata scoperchiata e i tetti di diverse scuole sono volati via": questi i primi dati inviati all'agenzia Fides da mons. Gaetano Di Pierro, Vescovo di Moramanga, dove i danni causati dal passaggio del ciclone Giovanna, il 13 febbraio scorso, sono molto gravi. "Verso le 22,30 si è scatenato un vento che dopo poco è diventato impetuoso - racconta il vescovo -. Subito si è interrotta l'elettricità e la città è caduta nel buio. Impossibile mettersi in contatto con qualcuno, visto che si sono interrotte anche le comunicazioni telefoniche. Non si vedeva niente ma si sentiva che gli alberi venivano divelti come pure le lamiere di molte case. Non si poteva fare niente. E' stata una notte interminabile, che ho passato in preghiera, pensando alla povera gente che abita nelle capanne - riferisce mons. Di Pierro -. Verso le sei del mattino, alle prime luci, abbiamo intravisto i disastri sia in casa, sia alla cattedrale, sia alla Salle d'oeuvre che alla casa del parroco (in parte scoperchiate), ma era ancora impossibile uscire fuori a causa della violenza del vento. Quando il vento si è calmato sono arrivate le suore Piccole Figlie del S.Cuore, che mi hanno portato le prime notizie della loro comunità: una parte del tetto era saltata e disgraziatemente era caduta su una casa vicina, ferendo un giovane che dormiva nel suo letto. Fortunatamente sono riuscite a portarlo in ospedale dove gli sono stati prestati i primi soccorsi. E' accertata la notizia di un morto in un quartiere della città." Mons. Di Pierro aggiunge altre notizie sui danni subiti dalle strutture cattoliche di Moramanga. I padri Carmelitani della parrocchia di Ambarilava hanno visto la loro grande chiesa scoperchiata: le lamiere del tetto si sono letteralmente accartocciate. Le suore Salesiane lamentano che i tetti della loro scuola materna e del podio fisso per le manifestazioni, sono andati in frantumi. Le suore Ancelle di Santa Teresa hanno visto molti alberi della loro zona sradicati dalla furia del vento, e uno si è abbattuto anche sul loro muro di cinta. Le suore Piccole Serve del Sacro Cuore hanno riportato danni anche al loro ospedale. In tutte queste comunità sono andate distrutte le coltivazioni. Il vescovo è riuscito a mettersi in contatto anche con alcuni Centri dei distretti missionari: "Sembra che la cittadina di Andasibe sia stata gravemente danneggiata a causa dell'esondazione di un fiume e per la caduta di molti alberi: diverse case sono andate distrutte e sono stati registrati 6 morti. La scuola di Mahasoa, del distretto missionario di Anjiro, è stata letteralmente scoperchiata. La stessa cosa è capitata anche alla chiesa protestante di Amboasary, appena costruita, e alla scuola statale di Andaingo". "Una cosa veramente incoraggiante è stato vedere che la gente si è data subito da fare per 'curare le ferite' dovute al passaggio di questo ciclone, senza aspettare gli aiuti" conclude mons. Di Pierro. (R.P.)

    inizio pagina

    Congo: dispersa marcia dei cristiani a Kinshasa nel 20.mo della repressione del '92

    ◊   Alimenta critiche la repressione da parte delle forze dell’ordine della marcia dei cattolici prevista ieri a Kinshasa ma dispersa in più punti della città con gas lacrimogeni mentre tre sacerdoti e due religiose sono stati arrestati. L’organizzazione locale di difesa dei diritti umani ‘Voix des sans voix’ (Vsv) - riferisce l'agenzia Misna - ha denunciato con “fermezza il mancato rispetto da parte delle autorità della Costituzione e della giustizia internazionale che sanciscono il rispetto delle manifestazioni pubbliche”. In un comunicato ‘Vsv’ riferisce di “un imponente dispositivo di militari e agenti di polizia che hanno disperso con eccessiva brutalità cortei di manifestanti pacifici” e “sequestrato per ore fedeli riuniti nella chiesa di Saint Joseph” nel quartiere di Matonge, nel comune di Kalumu, punto di arrivo previsto della manifestazione. Secondo la stessa fonte, nella parrocchia sono stati arrestati padre Placide Okalema, Bernard Mubayi e Léon Matiti assieme a due religiose non meglio identificate. L’emittente locale ‘Radio Okapi’ riferisce invece che le persone bloccate nella chiesa di Saint Joseph sono tornate libere solo dopo l’intervento dei Caschi blu della locale missione Onu. Disordini si sono anche verificati alla parrocchia Saint Gabriel di Kalumu e in quella di Saint Raphael nel comune di Limete. Alle denunce di diverse organizzazioni locali e alle critiche degli organizzatori della marcia – il Consiglio dell’apostolato dei laici cattolici congolesi (Calcc) – il commissario generale di polizia di Kinshasa, Charles Bisengimana, ha risposto che gli agenti avevano “l’obbligo di impedire la marcia poiché vietata dalle autorità locali”. Il commissario ha respinto le accuse di un intervento “troppo violento” e precisato che i gas lacrimogeni sono stati utilizzati “solo per disperdere militanti dell’Unione per la democrazia e il progresso sociale (Udps, opposizione) che tentavano di raggiungere il corteo”. Commemorazioni del XX anniversario della repressione di una marcia cristiana risalente al 16 febbraio 1992 si sono invece svolte senza difficoltà a Mbuji-Mayi, capoluogo della provincia caposaldo dell’Udps. La marcia dispersa a Kinshasa coincideva con l’apertura della prima sessione del nuovo parlamento dopo le legislative del 28 novembre. L’ordine del giorno della seduta era la formazione dei vertici istituzionali provvisori dell’assemblea. In segno di protesta per i risultati delle elezioni generali, hanno boicottato la seduta i deputati dell’Udps dello storico oppositore Etienne Tshisekedi, sconfitto alle presidenziali da Joseph Kabila, ma anche quelli dell’Unione per la nazione congolese (Unc) di Vital Kamerhe. Inoltre è tuttora interrotto il segnale di trasmissione di cinque emittenti radiotelevisive private: Elikya, Canal Kin, Canal Congo, Canal Futur e Radio Lisanga. “Deploriamo il perdurare della politica di imbavagliamento della stampa con provvedimenti abusivi che mirano a confortare il regime del pensiero unico” hanno sottolineato gli attivisti di ‘Voix des sans voix’. (R.P.)

    inizio pagina

    Niger: il vertice Ecowas in aiuto dei Paesi del Sahel

    ◊   Un aiuto umanitario di tre milioni di dollari in sostegno dei civili vittime dell’insicurezza e della carestia nei Paesi del Sahel: lo ha deciso il ‘Consiglio per la mediazione e la sicurezza’ della Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas/ Cedeao) riunita da ieri ad Abuja per il suo vertice annuale. Lo riporta l’agenzia Misna. In apertura dei lavori, che proseguono anche oggi, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha dichiarato che “come conseguenza del conflitto libico ci sono sempre più armi in circolazione nella fascia dei Paesi del Sahel, bersagliati da crescenti minacce da parte di gruppi legati a Al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi)”. Tra le cause di crescente insicurezza nella regione occidentale del continente, Jonathan ha incluso “il moltiplicarsi degli attentati di Boko Haram nel Nord della Nigeria, nei quali dall’inizio dell’anno più di 200 persone sono rimaste uccise”. Inoltre scontri in corso da settimane nel nord del Mali tra l’esercito di Bamako e ribelli del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) hanno provocato lo spostamento di decine di migliaia di persone che vivono in condizioni precarie e necessitano di aiuti urgenti in diversi Paesi membri dell’Ecowas, in particolare in Mali, Niger e Burkina Faso. Uno scenario difficile per l’area del Sahel chiamata anche a fare i conti con una produzione agricola in calo, a causa di piogge irregolari nei mesi scorsi, e il conseguente aumento dei prezzi alimentari. In base ai dati ufficiali sei milioni di persone sono già colpite dall’insicurezza alimentare in Niger, altri 2,9 milioni in Mali e 700.000 in Mauritania. Alla commissione dell’Ecowas, il ‘Consiglio per la mediazione e la sicurezza’ ha chiesto “una presa di posizione decisa sulla tutela dell’integrità territoriale del Mali e del Niger, i Paesi più colpiti dall’insicurezza” e di sbloccare fondi per “sostenere gli Stati che hanno accolto cittadini ritornati dalla Libia” dopo la fine del conflitto. Oggi sul tavolo dei 15 Stati membri dell’organismo regionale ci sono altre problematiche che riguardano l’area, tra cui le prossime scadenze elettorali in Senegal e Ghana e la pirateria nel Golfo di Guinea. Ad Abuja verranno eletti i nuovi vertici dell’Ecowas: il segretario generale dell’organizzazione e il presidente della Commissione. Il primo incarico dovrebbe andare al Burkina Faso e il secondo alla Costa d’Avorio. (E.B)

    inizio pagina

    Italia, Germania e Grecia fiduciosi sul via libera agli aiuti ad Atene

    ◊   In una nota, il governo italiano ha informato di una telefonata tra il premier Monti, la cancelliera Merkel e il primo ministro greco, Papademos, avvenuta in mattinata sulla situazione economica di Atene. I partecipanti al colloquio si sono dichiarati fiduciosi che lunedì prossimo, al vertice dell’Eurogruppo, potrà essere raggiungo l’accordo per sbloccare gli aiuti a favore della Grecia, che altrimenti rischia il fallimento. Da Berlino, il portavoce dell’esecutivo tedesco ha ribadito che l’obiettivo della Germania è quello di garantire stabilità sia alla Grecia sia all’Eurozona. Intanto, anche il Portogallo resta sotto stretta osservazione da parte dei rappresentanti della cosiddetta troika giunti nel Paese nei giorni scorsi per verificare il rispetto dei requisiti imposti per il salvataggio. Dal canto suo, il premier portoghese, Coelho, intervenendo al parlamento di Lisbona ha chiarito che non ha intenzione di chiedere nuovi fondi di emergenza, né di estendere il recente piano di salvataggio da 78 milioni di dollari. Infine, la vicina Spagna: al termine dell’odierno Consiglio di ministri, il governo del premier Rajoy ha deciso di tagliare – del 25-30% in media – gli stipendi di manager delle imprese pubbliche. Il nuovo sistema prevede una retribuzione fissa massima di 105 mila euro all'anno per i dirigenti delle imprese più importanti, di 80m ila per le aziende medie e di 55m ila per quelle più piccole.

    inizio pagina

    Usa: prosegue il confronto fra episcopato e governo sulla libertà di coscienza

    ◊   Una linea sulla quale i vescovi non intendono transigere: la tutela della vita contro i tentativi di dare ampia diffusione alle pratiche abortive e il rispetto della libertà di coscienza di coloro che si oppongono a tali pratiche, continua negli Stati Uniti a essere terreno di confronto con il governo. “Noi vescovi siamo pastori, non siamo politici, e non ci può essere compromesso sui principi”, ha ribadito il presidente della Conferenza episcopale (Usccb) Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, ripreso dall’Osservatore Romano. L’annuncio fatto la settimana scorsa dal Presidente Obama di una parziale revisione delle linee guida relative ai piani di assistenza sanitaria coperti dalle assicurazioni private, è stata accolta con scetticismo dall’episcopato. Nelle intenzioni dell’Amministrazione le nuove norme dovrebbero consentire alle organizzazioni e istituzioni religiose (ritenute tali secondo criteri stabiliti dal governo, ma giudicate troppo restrittive) di essere liberate dall’onere di garantire gratuitamente ai propri dipendenti l’accesso a servizi che includono, appunto, anche le pratiche abortive. Ma l’aver spostato il peso economico di tali servizi sulle assicurazioni non è considerata una misura sufficiente dai vescovi. Tutto questo non significa che essi siano contrari alla riforma sanitaria. In una nota, è spiegato che “fin dal 1919 i vescovi sostengono l’accesso di tutte le persone a cure sanitarie dignitose”. Per la Chiesa dunque un’assistenza universale e a costi accessibili rimane quindi “un’urgente priorità nazionale e un imperativo morale” anche se, si specifica, i criteri delle riforma per essere veramente universali “devono proteggere la vita umana e la libertà di coscienza e non essere discriminatori nei confronti degli immigrati”. I vescovi hanno promesso che “continueranno a fare pressione al fine di ottenere la più grande protezione della libertà di coscienza”, a partire dall’approvazione del “Respect for Rights of Conscience Act”, il disegno di legge sul rispetto dei diritti all’obiezione che riguarda principalmente gli operatori sanitari. Un appello è stato lanciato in una lettera indirizzata al Senato dal cardinale Daniel N. DiNardo presidente della Commissione per le attività pro-vita dell’episcopato, che – riferisce l’agenzia Cns - definisce il provvedimento “necessario e ragionevole”. Un altro appello in tal senso è stato lanciato dal presidente dalla Commissione episcopale per la libertà religiosa mons. William Edward Lori. (L.Z.)

    inizio pagina

    Giappone: i vescovi ricordano le vittime del terremoto e tsunami dell’11 marzo

    ◊   A meno di un mese dal primo anniversario del terribile terremoto e tsunami che l’11 marzo del 2011 devastarono il nord-est del Giappone, causando il successivo disastro nucleare di Fukushima, i 17 vescovi del Paese hanno concelebrato mercoledì scorso nella cattedrale Sekiguchi di Tokyo una solenne Messa di suffragio per le vittime. Un modo per esprimere la solidarietà collegiale di tutto l’Episcopato, riunito in questi giorni nella capitale nipponica per la sua Assemblea plenaria annuale. La liturgia , a cui hanno partecipato circa 400 fedeli e una sessantina di membri del corpo diplomatico accreditato in Giappone, è stata preceduta da uno slide show di fotografie sugli interventi compiuti dalla Caritas Giappone nelle aree disastrate. A presiedere la concelebrazione – riferisce l’agenzia Ucan - c’era mons. Jun Ikenaga, vescovo di Osaka. Insieme a lui il nunzio apostolico in Giappone, mons. Joseph Chennoth, che ha dato lettura a un messaggio in inglese e italiano del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone. L’omelia è stata svolta da mons. Tetsuo Hiraga, vescovo di Sendai, epicentro del terremoto e del successivo maremoto all’origine del gravissimo incidente nella centrale nucleare di Fukushima. Il presule ha espresso la sua personale gratitudine per gli aiuti e ai volontari giunti da tutto il mondo per soccorrere le popolazioni colpite. Il terremoto di Sendai di magnitudo 9.1 della scala Richter, è stato il quarto più potente mai registrato al mondo. Ad oggi, il bilancio ufficiale delle vittime parla di 15.703 morti accertati, 5.314 feriti e 4.647 dispersi. Il 90% dei morti fu causato dallo tsunami. (L.Z.)

    inizio pagina

    Brasile: la voce dei vescovi sulla situazione degli indigeni

    ◊   La presidenza della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) ha informato sulle questioni discusse durante il Consiglio episcopale pastorale (Consep) che si è concuso ieri. Alla conferenza stampa erano presenti il presidente della Cnbb, il cardinale Raymundo Damasceno Assis; il vice presidente, mons. José Belisario da Silva; il segretario generale, mons. Leonardo Ulrich Steiner. Nella nota inviata all’agenzia Fides dalla Conferenza episcopale del Brasile, si legge che i vescovi hanno parlato della legge della “Scheda Pulita”, la cui costituzionalità è in discussione dal giorno 15 presso il Tribunale Federale Superiore (Stf); della situazione dei popoli indigeni Guarani Kaiowá, in Mato Grosso do Sul; delle funzioni del Consiglio nazionale di giustizia (Cnj), che dall'inizio di questo mese ha pieni poteri riconosciuti dalla Corte Suprema del paese. Il cardinale Damasceno Assis ha fatto notare, come prima cosa, che la legge della "Scheda Pulita" nasce da un’iniziativa popolare, con la raccolta di un milione e mezzo di firme. “Ho avuto l'opportunità di essere presente alla plenaria della Corte Suprema, per dare una dimostrazione di sostegno a questa legge complementare” ha detto il cardinale, rilevando che la Cnbb è stata una delle Istituzioni principali che hanno promosso la raccolta di firme a favore della legge. Il Segretario generale della Cnbb, mons. Leonardo Ulrich Steiner, che ha visitato di recente alcuni villaggi e comunità di indigeni Guarani Kaiowá, nello Stato meridionale del Mato Grosso do Sul, ha informato la stampa in merito alla situazione degradante in cui vivono questi popoli: "Per i popoli indigeni la terra è fondamentale. Quando ho parlato con loro, mi ha colpito molto il racconto di alcune persone: alcuni ragazzi addirittura si impiccano perchè non hanno prospettive. E' un popolo che non può esprimere la sua cultura". Sul Consiglio nazionale di giustizia, il segretario generale della Cnbb ha detto che il Supremo Tribunale Federale (Stf) ha fornito un servizio al Brasile. “Ancora una volta, il Supremo Tribunale Federale dà al Brasile la possibilità di avere istituzioni che contribuiscono a garantire una maggiore trasparenza per ciò che riguarda la giustizia. Chi ha vinto, questa volta, è stato lo stesso Supremo Tribunale Federale, i giudici e la società brasiliana" ha detto mons. Ulrich Steiner. (R.P.)

    inizio pagina

    Ucraina: i rapporti tra cattolici e ortodossi sono eccellenti

    ◊   In visita all’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), il primate della Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk ha spiegato la situazione dei rapporti con gli ortodossi, che stanno vivendo un momento molto positivo, definendo “eccellenti” le relazioni con gli ortodossi. Secondo quanto riporta l’agenzia Zenit, Shevchuk ha sottolineato che i rapporti fra le due confessioni non sono mai stati così buoni, aggiungendo che avere cura di queste relazioni di amicizia e di fratellanza è una sua speciale intenzione. Il cristianesimo in Ucraina ha più di mille anni di storia. Tuttavia, il secolo scorso è stato segnato da un ateismo aggressivo. Come ha dichiarato Shevchuk, il compito principale delle Chiese cristiane è quello di “riscoprire quelle radici cristiane e trovare nuove vie per essere presenti, come cristiani, nella società”. “In un’epoca di insicurezza – ha detto - nella quale nella società si stanno verificando processi che secondo molti già non sono più controllabili, si confida molto nelle Chiese cristiane. Secondo i sondaggi, c’è più gente che ha fiducia nelle chiese cristiane che nel presidente”. Poiché la Chiesa non dipende dallo Stato – ha aggiunto - può “dire la verità e svolgere un ruolo importante nella società”. Il cristianesimo svolge un ruolo chiave nella unità nazionale dell’Ucraina: “Noi siamo neutrali in ciò che riguarda la politica - ha spiegato - ma insegniamo la dottrina sociale della Chiesa, annunciamo il Vangelo e difendiamo gli indifesi”. Per poter farlo in modo autentico, una delle priorità è la buona formazione dei sacerdoti. Il primate della Chiesa greco-cattolica, ha poi espresso la sua gratitudine per l’aiuto che Acs fornisce da molti anni all’Ucraina. Shevchuk ha fatto riferimento in particolare al fondatore dell’associazione, padre Werenfried van Straaten. Il presule si è autodefinito “frutto” del lavoro e dell’attività caritatevole di padre Werenfried. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha avuto infatti la possibilità di conseguire un dottorato a Roma grazie ad una borsa di studio di Acs. Ritornato in Ucraina, ha ricostruito con l’appoggio di Acs il seminario di Lviv. (E.B.)

    inizio pagina

    Hong Kong: messaggio di mons. Tong per la Quaresima

    ◊   “Ciò di cui dobbiamo interessarci nella società di oggi, non sono solo le necessità materiali dei nostri fratelli e sorelle più piccoli, ma anche del loro diritto e della loro libertà di essere figli di Dio, che sono inseparabili dalla fede e dalla trascendenza. Dobbiamo utilizzare bene l’opportunità di poter far sentire la nostra voce in pubblico per ottenere la giustizia per la società, per testimoniare l’Amore di Cristo”. Così l’arcivescovo di Hong Kong, mons. John Tong, nel suo messaggio per la Quaresima intitolato “Riconoscere i beni ricevuti e saperli ricambiare”. Secondo l’agenzia Fides, nel testo, pubblicato da Kong Ko Bao - il bollettino diocesano in versione cinese - mons. Tong precisa nel messaggio che la sua nomina cardinalizia da parte di Benedetto XVI “non è un onore personale, ma è l’amore del Papa per tutti i cattolici cinesi”. Quindi esorta: “tutti noi dobbiamo impegnarci per l’unità della Chiesa, perché sia un unico gregge appartenente allo stesso pastore, perché si impegni per l’evangelizzazione attendendo al bene dei nostri fratelli e sorelle”. Inoltre l’arcivescovo di Hong Kong scrive: “Avere il senso della gratitudine ci porta ad essere autentici cristiani, ci conduce verso Cristo, ci porta anche Cristo, e attraverso di noi porta Cristo agli altri. Carità e servizio sono manifestazioni concrete della nostra gratitudine verso il Signore per tutto ciò che abbiamo ricevuto. Il Signore Risorto – conclude - ci aiuti a saper riconoscere i beni ricevuti ed a saperli ricambiare”. (E.B.)

    inizio pagina

    Belgio: i vescovi ringraziano i volontari che hanno soccorso i poveri colpiti dal freddo

    ◊   La gratitudine e l'ammirazione dei vescovi belgi per tutti i volontari che in questo periodo di freddo eccezionale che ha colpito l'Europa hanno aiutato le persone più povere e vulnerabili. Ad esprimerle a nome della Chiesa belga, riferisce l’agenzia Sir, è stato mons. Aloys Jousten, vescovo incaricato per le questioni sociali. "I vescovi provano ammirazione per i collaboratori volontari della San Vincenzo de Paoli – scrive mons. Jousten - che hanno realizzato punti di accoglienza e servizio nelle città e nei villaggi dando vita ad una solidarietà impressionante. Noi diciamo loro il nostro grazie per quanto fanno anche durante l'anno perché la fame e le necessità primarie non si manifestano solamente quando è freddo. Grazie a coloro che hanno preparato e distribuito i beni alimentari, aprendo le loro porte, per mettersi al servizio degli altri. I poveri e i soli sono in mezzo a noi. Siamo grati che accanto alle istituzioni pubbliche, ci siano iniziative di solidarietà privata promosse anche da cittadini cristiani". Nel comunicato, i vescovi ricordano il numero verde della Croce Rossa a cui chiamare sia per chiedere aiuto sia per portare abiti caldi, sacchi a pelo e viveri. "La gente che chiama – spiega Kathy Stinissen, direttrice del dipartimento "Azione sociale" della Croce Rossa – è realmente in difficoltà". Dall'inizio di febbraio, la Croce Rossa è stata sommersa da richieste di aiuto tanto da costringere l'organizzazione a mobilitare una equipe di persone che possa lavorare a tempo pieno nelle sede centrale per rispondere alle domande. Senza contare poi tutti i volontari impegnati in loco a portare legna, carbone e viveri alle gente. (L.Z.)

    inizio pagina

    Berlino: al 62.mo Festival del cinema, l'Africa post-coloniale e lotta al razzismo

    ◊   Un ritorno alle origini del cinema ambientato nell’Africa coloniale portoghese, una moderna favola indonesiana, un’implacabile atto d’accusa contro il razzismo omicida. Anche nei giorni che precedono la conclusione, la Berlinale conserva lo slancio creativo che caratterizza questa sua 62a edizione. A sentire i pareri della critica internazionale il festival avrebbe già trovato un vincitore in “Tabu” di Miguel Gomez, un film portoghese che attraverso una messa in scena sorprendente ci fa passare da un finto filmato di esplorazione degli inizi del XX secolo alla Lisbona contemporanea, per poi liberare tutta la sua inventiva in un melodramma coloniale girato come un film muto. Ricco di momenti bizzarri, di colpi di scena, di attori che conquistano con uno sguardo, di amori infelici, di coccodrilli che nuotano nelle piscine, di sorprendenti numeri musicali, “Tabu” conferma il talento del suo giovane autore e soprattutto ci ricorda che, anche con un’economia in crisi e un film in bianco e nero e senza star, il successo può arridere agli audaci. Altrettanto inventivo, ma meno radicale nelle sue scelte estetiche, si rivela “Postcards from the Zoo" di Edwin, cineasta indonesiano indipendente e anticonformista che si firma con il solo nome di battesimo. Passando fluidamente dal passato al presente, il film, ambientato nello zoo di Giakarta, segue le vicende di una bimba abbandonata, che cresce in simbiosi con gli animali e i personaggi bizzarri che abitano quel luogo, una sorta di corte dei miracoli dove si rifugiano i reietti della società. Piano piano diventerà una donna e si misurerà con le delusioni dei sentimenti e la corruzione del mondo. Denso di momenti poetici o di situazioni grottesche, “Postcards from the zoo” vola verso la sua conclusione con la leggerezza di una piuma, lasciando lo spettatore commosso e sognante. Molto diversa è invece la fine di “Just the wind” di Bence Fliegauf, che, prendendo spunto da una serie di omicidi mirati a danno di famiglie rom ungheresi, realmente accadute e oggi oggetto di un processo, racconta il quotidiano di una di queste prima della sua misera fine una notte d’estate. In attesa di raggiungere il marito emigrato in Canada, una donna lavora pulendo parcheggi e scuole, suo padre, malato, non esce di casa, la figlia maggiore va a scuola di inglese, il figlio più piccolo vagabonda nei boschi che circondano il villaggio. Nessuno di loro ha un comportamento criminale e tutti tengono gli occhi bassi. Il clima che si respira è quello violento di un paese che ha abolito la dignità delle persone. La morte annunciata arriva implacabile. Alla fine tre corpi vestiti per i funerale giacciono sulle tavole di marmo dell’obitorio. Povere cose, senza più sogni, spazzate via dalla stupidità dell’odio razziale. (Da Berlino, Luciano Barisone)


    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 48

    inizio pagina
    E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sulla home page del sito www.radiovaticana.va/italiano.

    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Vera Viselli.