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Sommario del 13/02/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Benedetto XVI per la Giornata delle Vocazioni: riscoprire la bellezza del sacerdozio e della vita consacrata
  • Visita ufficiale di una delegazione governativa britannica in Vaticano
  • Prima Giornata mondiale della radio. Padre Lombardi: siamo voce di speranza e di libertà nel mondo
  • La missione di Radio Veritas, il più grande network cattolico d'Asia molto apprezzato anche dai non cristiani
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Grecia: varate le misure di austerità, più di 100 feriti negli scontri ad Atene. Elezioni anticipate ad aprile
  • "Povertà come nella seconda guerra mondiale": la testimonianza di un cittadino greco
  • Lega Araba contro Damasco: forze di pace in Siria. Commento del rettore del Pontificio collegio armeno
  • Processo Eternit: 16 anni di carcere ai leader della multinazionale
  • Italia, liberalizzazioni e riforma del lavoro: l'analisi di Stefano Zamagni
  • Incontro dei Comboniani d'Europa: portiamo valori in un continente dal cuore "freddo"
  • La vittoria dello Zambia in Coppa d'Africa, quando il calcio vuol dire riscatto
  • Esce venerdì "War Horse" di Spielberg. Un ragazzo e un cavallo, l'amicizia che batte la guerra
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Cina: è morto padre Zhang Wenchang, testimone fedele del Vangelo in anni difficili
  • India: intimidazione dei fondamentalisti contro una scuola dei gesuiti in Karnataka
  • Kashmir indiano: l’Alta Corte salva il Pastore Khanna accusato di proselitismo
  • Tibet: si dà fuoco una monaca buddista di 18 anni
  • Messico: il cardinale Rivera elogia l’apertura di Cuba al diritto alla libertà religiosa
  • Ecuador: continua il dramma degli haitiani che tentano di raggiungere il Brasile
  • Avviato un progetto in 4 nazioni per combattere il lavoro minorile attraverso l’istruzione
  • Niger: Medici Senza Frontiere fornisce assistenza a 10 mila rifugiati dal Mali
  • Mosca: conferenza ecumenica sull’insegnamento della religione nelle scuole non confessionalI
  • Il Premio san Valentino al cardinale Puljic
  • 62.a Berlinale tra intrighi internazionali e mondo delle passioni umane
  • Il Papa e la Santa Sede



    Benedetto XVI per la Giornata delle Vocazioni: riscoprire la bellezza del sacerdozio e della vita consacrata

    ◊   Le famiglie, “comunità di vita e di amore”, luogo per riscoprire la bellezza del sacerdozio e della vita consacrata. Lo sottolinea Benedetto XVI nel Messaggio per la prossima Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, che sarà celebrata il 29 aprile. Servizio di Roberta Gisotti:

    “Le vocazioni dono della Carità di Dio”: tema della Giornata, occasione per riflettere sulla “verità profonda della nostra esistenza”, racchiusa - sottolinea Benedetto XVI nel suo Messaggio - in un “sorprendente mistero”, laddove ogni creatura, in particolare ogni persona umana, è frutto di un pensiero e di un atto di amore di Dio, amore immenso, fedele, eterno”. “La scoperta di questa realtà è ciò che cambia veramente la nostra vita nel profondo”, ci ricorda il Papa. “Si tratta di un amore senza riserve che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell’assoluta gratuità di Dio”. “Ogni specifica vocazione nasce, infatti, - spiega ancora il Santo Padre - dall’iniziativa di Dio”. “È Lui a compiere il ‘primo passo’ e non a motivo di una particolare bontà riscontrata in noi, bensì in virtù della presenza del suo stesso amore ‘riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo’. “La misura alta della vita cristiana” consiste allora “nell’amare ‘come’ Dio”. E’ “nell’apertura all’amore di Dio e come frutto di questo amore, nascono e crescono tutte le vocazioni”. “Parola, preghiera ed Eucarestia sono il tesoro prezioso per comprendere la bellezza di una vita totalmente spesa per il Regno” di Dio. Sollecita quindi Benedetto XVI le Chiese locali a farsi luogo di attento discernimento e di profonda verifica vocazionale”, offrendo ai giovani “un saggio e vigoroso accompagnamento spirituale”, e perché nelle famiglie “comunità di vita e di amore” i giovani possano riscoprire “la bellezza e l’importanza del sacerdozio e della vita consacrata”. “In questo modo la comunità cristiana – conclude Benedetto XVI - diventa essa stessa manifestazione della carità di Dio che custodisce in sé ogni chiamata”.

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    Visita ufficiale di una delegazione governativa britannica in Vaticano

    ◊   Inizia domani in Vaticano una visita ufficiale di una delegazione di ministri del Governo del Regno Unito in occasione del 30.mo anniversario delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede. La delegazione è guidata dalla baronessa Sayeeda Hussain Warsi, rappresentante del premier David Cameron. Sarà presente anche mons. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster. Al centro dei colloqui saranno, tra l’altro, il dialogo interreligioso, i diritti umani, l’ambiente, i cambiamenti climatici e la situazione internazionale. Nel programma della visita è previsto un discorso della baronessa Warsi, domani pomeriggio, alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede sul tema “Il Ruolo della religione nel dibattito politico e negli affari internazionali” (diretta televisiva su Telepace a partire dalle 17.00 e sul sito www.radiovaticana.va). Mercoledì 14 febbraio, al termine dell’udienza generale, Benedetto XVI riceverà la delegazione.

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    Prima Giornata mondiale della radio. Padre Lombardi: siamo voce di speranza e di libertà nel mondo

    ◊   “Una radio libera, indipendente e pluralista è essenziale per le società sane ed è di vitale importanza per la promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. È una delle considerazioni contenute nel messaggio del direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, scritto per l’odierna e prima Giornata mondiale della radio. Una celebrazione che ha in Pisa la prima città scelta per celebrare l’evento in Italia, ovvero nel luogo in cui oltre cent’anni fa Guglielmo Marconi costruì la stazione intercontinentale di Coltano. Alessandro De Carolis ha domandato a padre Federico Lombardi, direttore generale della Radio Vaticana, quali “sentimenti” susciti questa Giornata in una emittente come quella pontificia che trasmette praticamente da quando la radiofonia fu inventata:

    R. – La sensazione è quella di far parte di un’epoca nuova; di aver accompagnato, con il nostro lavoro, il nascere di un tempo in cui la comunicazione umana, grazie alla radio, ha raggiunto – diciamo – uno stadio nuovo, più intenso, più pervasivo, più rapido. Realmente nella storia dell’umanità noi ricordiamo l’invenzione della stampa come una tappa estremamente importante, così anche l’invenzione della radio diventa un modo nuovo attraverso cui la comunità umana può comunicare, può unirsi, può dialogare. Ci sono tanti aspetti, quindi, positivi di questa grande scoperta e dell’inizio dell’uso di essa nella radiofonia che vanno continuamente valorizzati per una crescita dell’umanità come comunità.

    D. - La radio “sorella povera” della televisione: un adagio del passato che il presente in parte sconfessa, dal momento che i dati di ascolto danno il mezzo radiofonico in netta crescita e quelli televisivi in diminuzione. A cosa si deve, secondo lei, questa tendenza?

    R. – Bastano delle considerazioni molto pratiche: vedere come la radio è flessibile come media; vedere come può essere ascoltata in tanti momenti della nostra giornata, in tante situazioni della nostra vita, in cui non è possibile fare ricorso ad altri media scritti o visivi. Bisogna poi pensare anche che permette un genere di comunicazione un po’ suo, diverso da altri medium, tendente all’approfondimento: la radio evita le degenerazione della spettacolarità che abbiamo nella televisione: queste discussioni forsennate, prive di rispetto dell’uno e dell’altro. Nella radio cerchi, invece, l’ascolto e cerchi di sviluppare anche un discorso più approfondito e più prolungato, di cui tante persone sentono il desiderio e la mancanza anche nella nostra cultura. Io penso, per esempio, ai tanti ascoltatori notturni, alle persone malate, alle persone non vedenti: la radio è un modo di avvicinarsi all’anima delle persone e che rimane di un grandissimo valore. Inoltre, non dimentichiamo che la radio è il medium che usa la musica come forma di arte a sé congeniale e sappiamo quanto la musica sia importante nel mondo di oggi per la comunicazione, in particolare delle giovani generazioni, ma un poco di tutti. Tra l’altro la radio è anche un mezzo che non richiede degli investimenti colossali e quindi è più alla portata di iniziative di comunicazione locali, molto distribuite nei vari luoghi, in Paesi più poveri e così via. Quindi sono tanti i motivi per cui la radio continua ad essere un medium con delle sue possibilità specifiche e che ne spiegano l’attualità.

    D. – Proprio ieri, la Radio Vaticana ha festeggiato 81 anni di età, concludendo idealmente l’anno giubilare dell’ottantesimo. Che bilancio si può fare di questi mesi?

    R. – Per noi, è stata una grande occasione per ripercorrere la nostra storia, riflettere su di essa e quindi anche sulla nostra missione: sul servizio cioè che i Papi ci hanno affidato per il bene della Chiesa e dell’umanità, diffondendo i loro messaggi che sono messaggi di servizio del Vangelo, di servizio degli uomini, che attraversano situazioni molto diverse. In 80 anni abbiamo passato grandi tragedie e momenti esaltanti: pensiamo alla Guerra mondiale, pensiamo al Concilio Vaticano II... Di questo ne abbiamo fatto oggetto della nostra riflessione e della nostra comunicazione, mettendo a disposizioni di popoli estremamente diversi, con tante lingue diverse, per tante culture diverse, dei messaggi sempre intesi al bene dell’umanità, alla comprensione reciproca, alla speranza e alla pace. E questo noi intendiamo continuare, anche se cambiano le situazioni e i problemi: noi vogliamo essere una voce di speranza, di saggezza ispirata dal Vangelo in appoggio al magistero del Santo Padre.

    D. – Sotto la pressione inarrestabile dell’evoluzione tecnologica, oggi “fare radio” ha modalità lontane anni luce dai tempi di Marconi. È possibile – nell’era multimediale, del “condividi tutto e subito” – mantenere comunque un’identità specifica?

    R. – L’identità specifica nostra dipende dalla missione, da quello che noi vogliamo dire, dall’ispirazione del messaggio e dai suoi contenuti. Naturalmente, però, i linguaggi con cui questo viene fatto, e gli strumenti evolvono rapidamente e noi continuiamo a chiamarci radio e siamo sostanzialmente una radio, ma una radio che evolve nel mondo della multimedialità e della convergenza digitale: per cui continuiamo a chiamarci Radio Vaticana, ma pubblichiamo testi scritti su Internet, facciamo video news, abbiamo sviluppato un player per cui mettiamo in diretta le immagini che riceviamo dal Centro Televisivo Vaticano. Siamo quindi entrati completamente in un mondo che non è strettamente e semplicemente quello della radiofonia e, a volte, la gente non si rende conto facilmente di questo: noi continuiamo quindi a chiamarci Radio Vaticana, ma non siamo più semplicemente una radio, anche se conserviamo un’attenzione e una capacità ad un tipo di comunicazione che ha un linguaggio rapido, che è centrato anche sulla tempestività e sull’attualità e che cerca – questo è molto importante – di tradurre rapidamente nei termini e nelle lingue delle diverse culture i messaggi che la Chiesa vuole dare al mondo di oggi.

    D. – Con la loro capacità di arrivare ovunque, superando barriere naturali o umane, le onde radio sono un simbolo di libertà. Quella libertà che la Radio Vaticana ha servito e difeso, quando la voce del Papa o quella della Chiesa sono state in pericolo. Come individua questa missione nel presente e nel prossimo futuro della Radio Vaticana?

    R. – Io sento molto alcune priorità anche nell’attività specificatamente radiofonica della Radio Vaticana, ad esempio l’Africa, ad esempio il Medio Oriente: aree che sono critiche o per problemi relativi al loro sviluppo o per problemi relativi alla pace e alla guerra. Per queste aree noi dobbiamo continuare ad essere particolarmente presenti e per queste aree spesso l’onda radio rimane una delle vie più solide, che non possono essere interrotte, per raggiungere tante persone che altrimenti non avrebbero la possibilità di ascoltare un messaggio come avveniva anche in decenni passati. La vocazione della Radio Vaticana come voce per la libertà, per il sostegno di coloro che soffrono, per il sostegno dei poveri, per il sostegno delle persone perseguite, rimane essenziale. Purtroppo, la storia del mondo continua a presentare questi problemi e noi ci sentiamo particolarmente sfidati da questi problemi. (mg)

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    La missione di Radio Veritas, il più grande network cattolico d'Asia molto apprezzato anche dai non cristiani

    ◊   A celebrare la prima Giornata della radio patrocinata dall'Unesco è anche Radio Veritas Asia, il più grande network cattolico d'Asia, che da Quazon City, nelle Filippine, raggiunge tutto il Sudest asiatico, trasmettando in onde corte e sul web in oltre 10 lingue e ascoltata per l’80% da persone non cattoliche. Massimo Pittarello ha chiesto al direttore, don Robert Ebisa, di spiegare il ruolo della radio nella regione e, in particolare, per le persone di religione cattolica:

    R. – Radio Veritas Asia serves not only for my country...
    Radio Veritas Asia non serve soltanto il mio Paese: fondamentalmente, Radio Veritas Asia serve tutta l’Asia. Per questo, noi non trasmettiamo solo per i filippini, ma trasmettiamo per i cattolici e per i non cattolici di tutta l’Asia. Noi trasmettiamo, quindi, in onda corta e in Internet e, attualmente, usiamo oltre dieci lingue per coprire tutta l’Asia come il mandarino, quattro lingue dell’India, la lingua del Myanmar, il vietnamese, l’hurdu del Pakistan, il sinhala dello Sri Lanka e il bengali per il Bangladesh. La nostra preoccupazione non è soltanto una questione di evangelizzazione, ma di sviluppo umano, di educazione, di assistenza sanitaria: parliamo di natura e di questioni ecologiche. Ma, come ho detto, le nostre trasmissioni non sono solo per le Filippine, ma realmente per i Paesi dell’Asia.

    D. – Oltre dieci lingue e un raggio di trasmissione molto ampio: com’è organizzata la vostra radio? E come fate a sostenervi dal punto di vista economico?

    R. – In terms of sustenance, we are heavily funded by funding agencies from …
    Per quanto riguarda la nostra sussistenza, siamo largamente aiutati da agenzie di finanziamento in Germania, ma oltre il 60 per cento dei nostri fondi vengono dal dicastero vaticano di Propaganda Fide. Al momento, trasmettiamo dalle Filippine e abbiamo centri nei singoli Paesi, in tutta l’Asia, in quei Paesi nelle cui lingue trasmettiamo. Questi sono i nostri collegamenti. Quindi, attraverso questi centri noi compiamo le nostre ricerche, abbiamo i ritorni dai diversi tipi di ascoltatori. Forse un aspetto importante per quanto riguarda il ruolo di Radio Veritas Asia è che riusciamo a raggiungere più facilmente i non cristiani. Infatti, oltre l’80 per cento dei nostri ascoltatori sono non cristiani come indù, musulmani e altre denominazioni asiatiche. In ciascun Paese nella cui lingua trasmettiamo il nostro centro è collegato con l’Ufficio per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale di quello stesso Paese. Questo è il modo in cui noi lavoriamo. Recentemente, poi, abbiamo attuato una forma di decentralizzazione, ovunque sia politicamente e tecnicamente possibile. Questo significa che i nostri programmi sono ormai completamente prodotti nei Paesi di provenienza, in quei centri di cui parlavo prima, che ce li inviano tramite ftp (file transfer protocol), cioè via Internet. Il nostro personale residente nelle Filippine viene dal Vietnam, dal Myanmar e ha una sezione in mandarino. Per le altre lingue, invece, il personale è tornato nei Paesi d’origine, produce il programma e ce lo manda via Internet e noi diventiamo la stazione trasmittente di quel programma.

    D. – Quanti impiegati e quanti giornalisti avete?

    R. – At the moment, because of this decentralisation…
    Attualmente, a causa di questa decentralizzazione, siamo soltanto in 71. Per quanto riguarda le lingue, abbiamo una persona per il vietnamita, una per il birmano e per il mandarino. Conserviamo anche le lingue filippine per i filippini che vivono all’estero. Fondamentalmente, poco più di una decina di stranieri; poi ci sono una ventina di stranieri per le diverse lingue. E ci sono gli operatori, gli ingegneri che si occupano del nostro Centro trasmittente, che dista circa 240 km dai nostri uffici a Manila.

    D. – Nel Sudest asiatico, ci sono molti problemi di carattere politico: penso a Mindanao, per quanto riguarda le Filippine, o alle tensioni che riguardano i cattolici che vivono in Cina. Il messaggio di Radio Veritas è un messaggio di pace: che tipo di difficoltà vi trovate ad affrontare nel vostro lavoro?

    R. – Surprisingly, it is something unique for us…
    Sorprendentemente, come detto, è una cosa unica per noi: la gran parte dei nostri ascoltatori è non cristiana. Di qui deriva un’ulteriore caratteristica della nostra programmazione è che almeno una volta l’anno ci rechiamo nei diversi Paesi nei quali trasmettiamo, per un incontro con gli ascoltatori. In questi incontri, la sorprenderà sapere che la maggior parte dei partecipanti sono musulmani, indù… Questo è il particolare marchio di fabbrica di Radio Veritas Asia. E tutti sono ascoltatori entusiasti di Radio Veritas Asia per tutto l’anno.

    D. - Un esempio di dialogo e di evangelizzazione…

    R. – Exactly. The role of Radio Veritas Asia in Asia is really…
    Esattamente. Il ruolo di Radio Veritas Asia è veramente per il dialogo e per l’ecumenismo. E’ una cosa che, grazie alle nostre trasmissioni che coprono tutta l’Asia, riscontriamo sempre di nuovo.

    D. – Vorrei chiederle se vuole dirci qualcosa …

    R. – Through Radio Veritas Asia I would like to extend…
    Attraverso Radio Veritas Asia, mi piace estendere la nostra gratitudine di gran cuore a Propaganda Fide, che sostiene la nostra missione in Asia. Radio Veritas Asia è stata creata da Giovanni Paolo II come “missionaria dell’Asia”, e noi stiamo facendo del nostro meglio per essere all’altezza di questo incarico. Siamo felici che ci sia stato conferito l’incarico di condividere la missione di Cristo nel continente asiatico, e nonostante le difficoltà per quanto riguarda i finanziamenti, stiamo cercando di aiutarci da soli chiedendo ai vescovi dell’Asia di sostenere noi, il nostro nobile compito di condividere la missione di Cristo ai nostri fratelli e sorelle, specialmente nel continente asiatico. Chiediamo le vostre preghiere, specialmente in questo momento in cui, come ogni altra stazione radiofonica, si trova ad affrontare difficoltà economiche. Grazie per questa occasione, Dio ci benedica tutti. (gf)

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   Legittime aspirazioni al bene di tutti in Siria: pressante appello del Papa ai responsabili politici perché sia posta fine alla violenza e allo spargimento di sangue nel Paese.

    Obiettivi comuni: sulla cooperazione tra Santa Sede e Regno Unito, in prima pagina, un editoriale di Sayeeda Warsi, baronessa, ministro senza portafoglio e rappresentante del primo ministro David Cameron.

    In rilievo, nell'informazione internazionale, la Grecia.

    "Per tutto il mio pianto ridammi una stilla di Te": in cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi sulla poetessa Antonia Pozzi, nata un secolo fa.

    La frammentazione nasce nella bacheca del 1517: Giulia Galeotti su come la Riforma protestante ha segnato le società occidentali.

    Tra Tintin e Ivanhoe: Silvia Guidi sull'importanza di reimparare a leggere (e a studiare).

    Un articolo di Eugenia Tomaz dal titolo "Quattro stagioni per Guimaraes": tempo e arte sono i temi centrali sottolineati dalla città portoghese scelta come capitale europea della cultura 2012.

    Senza nostalgie per il vecchio campanile: nell'informazione religiosa, il vescovo di Gent, monsignor Lucas Lucas Van Looy, sull'accorpamento delle parrocchie in corso in Belgio.

    Le vocazioni, dono della carità di Dio: nell'informazione vaticana, il messaggio di Benedetto XVI per la XLIX Giornata mondiale di preghiera del 29 aprile prossimo.

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    Oggi in Primo Piano



    Grecia: varate le misure di austerità, più di 100 feriti negli scontri ad Atene. Elezioni anticipate ad aprile

    ◊   Si contano i danni il giorno dopo le proteste di piazza che hanno sconvolto Atene: oltre 40 gli edifici dati alle fiamme, mentre il Parlamento ha approvato, nella notte, le pesanti misure anticrisi. Più di 100 i feriti negli scontri con la polizia. Adesso il Paese ellenico potrà accedere al nuovo prestito da 130 miliardi di euro concordato con L’Ue, La Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Intanto oggi è stato annunciato che le elezioni anticipate si terranno probabilmente ad aprile. Massimiliano Menichetti:

    Mai fino ad ora Atene era stata devastata a tal punto dalle proteste. Nel giorno, difficile, dell’approvazione delle misure economiche anticrisi da 3,3 miliardi di euro chieste dalla Troika che di fatto impongono sacrifici pesantissimi alla popolazione (si parla anche di 15mila licenziamenti nel settore pubblico, tagli agli stipendi, alle pensioni e alla difesa), la capitale ellenica è stata incendiata dai gruppi violenti: palazzi, cinema, bar, banche e autoveicoli sono stati dati alle fiamme. Manifestazioni anche a Salonicco, seconda città del Paese. Scontri corpo a corpo si sono registrati ad Atene. Lanciate bombe artigianali, contro la polizia che ha risposto con cariche e lacrimogeni, mentre migliaia di manifestanti hanno assediato piazza Syntagma davanti al Parlamento che questa notte ha votato a favore della legge che introduce le misure di austerità. 278 i parlamentari presenti, 199 i “sì” al piano concordato con l’Ue, il Fmi e la Bce. 74 i “no”, “allontanati” i 40 parlamentari di maggioranza che non si sono allineati. Presto dunque arriveranno nel Paese 130 miliardi di euro, serviranno ad arginare il rischio di insolvenza e tenere ancorata la Grecia all’Euro. Il premier Lucas Papademos e di fatto tutti i leader di partito hanno lanciato appelli alla calma e condannato le violenze. Circa 40 gli arresti, 60 i feriti; ma questa mattina Twitter mostra ancora colonne di fumo.

    Massimiliano Menichetti ha raggiunto telefonicamente ad Atene Antonio Ferrari editorialista del Corriere della Sera:

    R. - Si è avuta l’immagine totale di questa situazione a dir poco tragica e cioè da una parte il Parlamento che ha dovuto approvare questo pacchetto di “lacrime e sangue”, perché come ha detto il primo ministro tecnico Papademos: “se non viene approvato, non saremo in grado di pagare stipendi e pensioni, di far vivere gli ospedali, di far vivere le scuole e soprattutto di comprare quello che ci serve dall’estero”. Dall’altra parte, c’è una piazza di gente fatta di tre livelli. La gente che per la prima volta forse andava in piazza, quella maggioranza silenziosa e quasi rassegnata; poi la gente arrabbiata perché non ce la fa più; infine, ci sono i facinorosi, quelli che si staccano da un corteo, dalla protesta, che mettono il passamontagna e che cominciano ad attaccare e a devastare la città.

    D. – Atene però sembra entrata in un vicolo cieco. Da una parte è obbligata a seguire la via delle restrizioni, dall’altra i manifestanti in piazza. Ma cosa si cerca, la caduta del governo?

    R. – E’ chiaro che il governo sta un po’ in bilico. Probabilmente prima o poi cadrà da solo in quanto alcuni partiti, tra cui Nuova Democrazia, che è il primo responsabile della situazione di oggi, avendo truccato i conti inviati a Bruxelles, desidera le elezioni; ma ci sono altri che vorrebbero le elezioni, forse meno il Pasoq, che è in caduta libera. La sinistra radicale vuole queste elezioni. Il primo ministro tecnico però dovrebbe scegliere, i suoi ministri e non farseli imporre dai partiti. Comunque il governo, in fondo, ha fatto quello che doveva, il necessario per cercare di allontanare lo spettro della bancarotta. Adesso si potrà respirare un po’, per qualche mese, forse per un anno, ma dopo che cosa accadrà? Un Paese, dopo tre anni di recessione, è in grado di ripartire, quando addirittura gi stipendi base sono stati tagliati del 22 per cento dopo tutti i tagli che erano stati operati precedentemente? Sono queste le domande che si pone la gente. E’ chiaro che i facinorosi, i “Black Bloc”, che sono poche centinaia, sfruttano la rabbia della gente, gente esacerbata, gente che non ne può davvero più e che si ribella alla classe politica. I facinorosi sfruttano questa situazione senza un preciso obiettivo, se non quello del “tanto peggio, tanto meglio”. E la popolazione a questo punto dice: che cosa possiamo fare? Come potremmo sopravvivere? Sono queste le domande sociali di oggi in Grecia.

    D. – Le persone, in sostanza, vivono una profonda incertezza?

    R. – Assolutamente sì, profonda incertezza, anche perché questo è un popolo molto orgoglioso, con un grande senso dell’orgoglio nazionale, forse più di altri. Se la gente avesse la certezza che queste misure fossero sufficienti per far ripartire il Paese, per uscire dalla crisi, farebbe questi sacrifici senza protestare o comunque protestando in maniera assolutamente civile. Ma visto che non c’è questa convinzione, c’è chi dice: “cosa li facciamo a fare se dopo non servirà a niente”? Però se si fossero lasciate le cose come erano, se si fosse votato “no” ai provvedimenti anticrisi, oggi, molto probabilmente, ci sarebbe quello scenario da incubo di cui parlava il premier Papademos. Quindi è veramente un vicolo cieco, forse l’errore è stato all’inizio, un po’ troppo presuntuosamente, pensare di avere le strutture adatte per entrare nell’Euro. (bf)

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    "Povertà come nella seconda guerra mondiale": la testimonianza di un cittadino greco

    ◊   Per la disastrata economia greca il pacchetto di misure anticrisi approvato ieri è una boccata d’ossigeno che comporta, però, grandi sacrifici per la popolazione. E’ quanto sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco Kristós Katsimpinis, ingegnere in pensione del Ministero greco dei Lavori pubblici:

    R. – Per un po’ di tempo è un respiro per organizzarci per il futuro, ma forse fra tre mesi tutto questo si ripeterà e non sappiamo veramente dove arriveremo. Per il popolo sarà un grande sacrificio, perché adesso si è cominciato a comprendere bene tutto quello che succederà. Questa crisi comporta un aumento degli affitti, le pensioni sono diminuite… Si respira veramente l’atmosfera di un disastro! Non sappiamo come uscire da questa situazione.

    D. – Parliamo in particolare delle pensioni…

    R. – Quelli che avevano la minima, circa 500-600 euro, percepiranno mensilmente 400 euro. Ma con 400 euro al mese la gente non può sostenere tutte le spese. Per tutti, anche per i dirigenti che lavorano al Ministero o per gli impiegati del governo, le pensioni sono diminuite sensibilmente. Molti non riusciranno mai a pagare le bollette per la luce, l’affitto… Sulla bolletta della luce hanno anche messo adesso una tassa in base alle dimensioni dell’appartamento. Se la gente non pagherà questa tassa, la luce verrà staccata… Molta gente vive in montagna e con questo freddo, non sanno come poter riscaldarsi.

    D. – In molti rinunciano anche all’uso dell’automobile, diventata un lusso…

    R. – Molti restituiscono la targa dell’automobile. Lasciano le macchine nei garage o in strada, perché non possono pagare l’imposta applicata sulle auto. Si tratta di una tassa rilevante e poi c’è anche l’aumento della benzina…

    D. – Quindi grandi difficoltà per le famiglie, ma anche grandi difficoltà nel commercio…

    R. – Sono chiusi moltissimi negozi. Molti commercianti non riescono a pagare l’affitto, le tasse, l’elettricità… E poi la gente non compra come una volta e fa moltissima economia. E’ una situazione simile a quella della II Guerra Mondiale… E’ un disastro!

    D. – E’ un disastro e continua ancora a mancare il lavoro. Chi ce l’ha, purtroppo, rischia anche di perderlo…

    R. – Molti giovani non hanno lavoro e molti di questi vanno via. Molti giovani che lavorano nei ministeri, nelle banche, nei negozi sono stati licenziati. Solo le caffetterie lavorano: sono tutte piene di gente senza alcuna occupazione. Ma anche il caffè è molto caro… E poi stare in queste caffetterie è anche pericoloso, perché la gente che non ha lavoro per vivere fa anche cose non legali…

    D. – I licenziamenti hanno toccato anche gli impiegati pubblici…

    R. – Sono stati licenziati in molti. Viene corrisposta una piccola pensione, ma non rientrano al loro posto di lavoro. Tutto è buio! Non so dove arriveremo con questa situazione… Prima non era così e non so come ne usciremo. Non so fra quanti anni riusciremo a rimettere a posto l’economia.

    D. – E’ dunque una situazione veramente critica. Ma qual è l’atteggiamento dei greci nei confronti dell’Unione Europea?

    R. – Sono divisi: alcuni vogliono tornare alla dracma, ma altri no perché pensano che tornando alla vecchia moneta nazionale la situazione peggiorerebbe. Siamo in una situazione molto difficile. Spero veramente che non si ritorni alla dracma, perché penso che questo creerebbe un effetto negativo in tutta l’Europa. Si inizierebbe una sorta di demolizione dell’Europa e questo non lo vogliono neanche i tedeschi, i francesi, che sono i più forti in questa situazione.

    D. – Com’è cambiata la tua vita dall’introduzione di queste misure?

    R. – Ho una pensione come ingegnere, lavoravo al Ministero, ma è una piccola pensione. Se anche volessi fare un viaggio in Europa, in Italia per esempio, non potrei per tutte queste tasse che ora devo pagare. Ogni mattina, quando vado a prendere la posta, trovo una bolletta, una tassa da pagare… Sto pensando di non andare più a prenderla, perché prima o poi mi prenderà un colpo! E’ un disastro! Ci si regola secondo le proprie disponibilità, ma pensando che ogni giorno arriveranno queste tasse, non si ha quasi la voglia di fare niente anche perché non se ne ha la possibilità! (mg)

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    Lega Araba contro Damasco: forze di pace in Siria. Commento del rettore del Pontificio collegio armeno

    ◊   Una ''forza di pace'' congiunta Lega Araba-Onu per trovare una soluzione alla crisi siriana. Riprende l’iniziativa diplomatica dell’organizzazione panaraba e del suo segretario generale Nabil el Araby: i ministri degli Esteri della Lega Araba hanno infatti sollecitato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a varare una missione congiunta col compito di monitorare e verificare l'attuazione di un cessate il fuoco immediato in Siria. Damasco considera la proposta come un atto ostile mentre la Russia ha fatto sapere che la esaminerà, sollecitando uno stop all’uso delle armi. Mentre si attende in queste ore la discussione all'Assemblea Generale di una risoluzione di condanna del regime di Bashar al Assad elaborata dai Paesi arabi, i responsabili delle diplomazie arabe hanno deciso di porre fine alla loro missione di osservatori in Siria, con le dimissioni del capo missione Mohamed el Dabi. Prevista poi il 24 febbraio in Tunisia una conferenza degli 'amici della Siria'. Sul terreno però proseguono le violenze: le forze fedeli ad Assad hanno ripreso a bombardare la città di Homs, roccaforte della resistenza. Segnalati anche rastrellamenti nelle zone vicino a Damasco. Ieri il pensiero di Benedetto XVI all’Angelus era andato proprio alla Siria, con un “pressante appello a porre fine alla violenza e allo spargimento di sangue”. Quale eco hanno le parole del Pontefice in Siria? Risponde mons. Kevork Noradounguian, armeno della Siria, originario di Aleppo, rettore del Pontificio collegio armeno di Roma. L’intervista è di Giada Aquilino:

    R. – Sua Santità ha letto davvero i cuori e le menti della popolazione della Siria, perché è auspicio di tutti i cittadini siriani porre fine alle violenze e agli spargimenti di sangue ed incontrasi attorno ad un tavolo.

    D. – Benedetto XVI ha ricordato nella preghiera le vittime, “fra cui - ha detto - ci sono molti bambini”. Qual è la situazione sul terreno al riguardo?

    R. – Una volta saltata la tappa del dialogo, ci si è rivolti alle armi e ora ci vanno di mezzo tutti. Le armi non hanno una religione, non hanno coscienza e non distinguono fra innocenti, bambini, donne, vecchi, anziani. Purtroppo queste sono le leggi della guerra.

    D. – Come vivono i cristiani in Siria?

    R. – In Siria, noi siamo cresciuti e abbiamo avuto un’educazione col concetto di cittadinanza laica: da noi si dice sempre “la patria è di tutti, la religione è di Dio”. Quindi quello che vive un cristiano in Siria è quello che vive ogni cittadino siriano, che sia musulmano, sunnita o sciita. Viviamo tutti come cittadini e quello che accade in Siria lo viviamo allo stesso modo: è sempre la stessa cosa per tutti.

    D. – Da più parti si è parlato del rischio di una ‘irachenizzazione’ del conflitto, con l’accentuazione delle divisioni tra le varie confessioni religiose: che rischi corre la minoranza cristiana in Siria?

    R. – Vedo un po’ difficile che qui il caso dell’Iraq si ripeta. Certamente il rischio c’è, diciamo che è minore: se si continua ad appoggiare una parte contro l’altra, se si continua sempre a giocare sulle differenze religiose, certo anche le forze dell’uomo possono non bastare. Fino a questo momento non vedo tale rischio: la cristianità è proprio nel profondo; la religione è una relazione con Dio e non con lo Stato. Se continuano ancora questi fenomeni, con la strada del dialogo chiusa, certo che poi possono anche risvegliarsi conflitti intercomunitari.

    D. – La comunità cristiana in Siria come è formata?

    R. – Ci sono gli armeni, ci sono i greco-cattolici, ci sono i caldei, ci sono tutte le Chiese d’Oriente: ci sono le Chiese orientali nei due rami, il ramo cattolico e il ramo ortodosso, come greco-cattolici e greco-ortodossi; siriaco-cattolici e siriaco-ortodossi.

    D. – Quanti sono i cristiani oggi in Siria?

    R. – Si parla di circa un milione, circa il 7-8 per cento della popolazione, che oggi è di circa 17-18 milioni di abitanti.

    D. – Ancora nelle ultime ore un messaggio di sostegno di Al Qaeda alla rivoluzione siriana: Al Zawahiri ha esortato i siriani a non contare sull’Occidente, sugli Stati Uniti, sui governi arabi o sulla Turchia. C’è il pericolo di infiltrazioni terroristiche nel futuro del Paese?

    R. – Penso che già ci siano. Ci sono cose preparate, progettate e sponsorizzate dal di fuori.

    D. – La Lega Araba, l’Onu, la comunità internazionale in generale: che aiuto può arrivare a questo punto alla Siria?

    R. – Possono fare tutto e tanto, possono impegnarsi per cercare di convocare tutti attorno ad un tavolo, per arrivare al dialogo. (mg)

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    Processo Eternit: 16 anni di carcere ai leader della multinazionale

    ◊   Oggi al Tribunale di Torino è giunta l’attesa sentenza del processo Eternit per le vittime dell’amianto. Condannati a 16 anni di reclusione i due ex manager della società. Stabiliti anche i risarcimenti per le parti civili. Il servizio di Eugenio Bonanata:

    I vertici della multinazionale, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, 65 anni, e il barone belga Louis De Cartier, 91 anni, sono stati ritenuti colpevoli di entrambe le accuse, quella di disastro ambientale doloso e quella di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Il riferimento, però, è solo agli stabilimenti di Casale Monferrato e Cavagnolo (Torino): i reati sono stati dichiarati prescritti per i siti di Rubiera, in Emilia Romagna, e Bagnoli, in Campania.

    Il processo riguarda in totale 3 mila casi tra morti e ammalati dal 1952 agli anni Ottanta. Lunga la lista dei risarcimenti: 25 milioni per il comune di Casale Monferrato, 20 per la regione Piemonte, 4 per il comune di Cavagnolo, 15 milioni di euro di provvisionale per l'Inail. 30mila euro invece andranno per ogni congiunto di ciascuna vittima e 35mila euro per ogni ammalato. Ci sono poi 100mila euro per l’Associazione vittime dell’amianto, altrettanto per ciascun sindacato. Tra i primi a commentare la decisione, il ministro della Salute Renato Balduzzi: si tratta una sentenza storica – ha detto – sia per gli aspetti sociali che per quello tecnico giuridici.

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    Italia, liberalizzazioni e riforma del lavoro: l'analisi di Stefano Zamagni

    ◊   "E' fondamentale concepire anche la riforma del mercato del lavoro in funzione di un accrescimento della produttività che, purtroppo, in Italia è stata stagnante da molti anni". Lo ha affermato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha incontrato il omologo tedesco, Christian Wulff . Napolitano sottolinea anche come la spesa pubblica non vada tagliata alla cieca. Liberalizzazioni e riforma del mercato del Lavoro continuano, dunque, a essere al centro del dibattito politico in Italia. Domani, si apre la discussione alla Commissione industria del Senato: sul decreto del governo pesano 2.299 emendamenti. Stamani, intanto, incontro fra sindacati e Rete impresa Italia. Debora Donnini ha chiesto un parere al prof. Stefano Zamagni, docente di Economia all’Università di Bologna:

    R. - Sono i tipici emendamenti di chi vuole difendere la propria posizione. Ricadiamo nella logica dell’individualismo sfrenato, in base al quale ogni piccola corporazione difende se stessa. Dov’è il bene comune? Quegli emendamenti non sono una cosa “seria”, dunque, salvo qualche rara eccezione, perché affermano sostanzialmente: noi non vogliamo che il decreto liberalizzazioni tocchi il nostro interesse, deve toccare quello degli altri. Ma gli altri fanno lo stesso ragionamento. Su questo, il governo dovrebbe essere molto duro: dovrebbe alzare il tono culturale, spiegando a tutti la differenza che c’è tra bene di parte e bene totale.

    D. - L’altro tema "caldo" in questo momento è quello della riforma del marcato del lavoro…

    R. - Art. 18, mercato del lavoro: la piega che ha preso il dibattito personalmente a me non piace, perché non affronta il problema all’origine, ovvero: vogliamo o no decidere qual è la natura del lavoro umano? Il lavoro è una merce e basta, oppure è l’attività attraverso la quale le persone si realizzano? Se il lavoro è merce, allora aboliamo l’articolo 18, aboliamo tutto, perché la merce è merce, può essere comprata, venduta… Ma questa è una china pericolosa: l’articolo 18 ha un valore simbolico. Allora bisogna stare attenti. Ritengo che la faccenda dell’articolo 18 sia un falso problema, perché in Italia dall’articolo 18 saranno influenzate una manciata di imprese: perché allora fare tutta questa battaglia ideologica su un provvedimento che ha effetti limitati, quando così facendo, si rischia di rompere la coesione sociale? In questo momento, il Paese ha bisogno di coesione sociale. Il mercato del lavoro va riformato, ci vuole flessibilità, però prima facciamo la flessibilità in entrata, poi la flessibilità in uscita: se voglio aumentare la flessibilità in uscita, prima devo aumentare o dare garanzie che si inciderà sulla flessibilità in entrata. Allora, la flessibilità in uscita verrà accettata e verrà, se non tollerata, almeno rispettata. (bi)

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    Incontro dei Comboniani d'Europa: portiamo valori in un continente dal cuore "freddo"

    ◊   “Definire le linee comuni per il progetto missionario e la presenza dei Comboniani in Europa”: questo il titolo dell’incontro in corso a Pesaro fino a venerdì prossimo dei religiosi Comboniani di tutte le province europee. Le parole emerse in questi giorni sono animazione, evangelizzazione, giustizia, pace. Fausta Speranza ha intervistato padre Giuseppe Cavallini:

    R. – Siamo alla ricerca, anche noi, di una strada che ci porti ad agire all’interno dell’Europa, mettendo assieme le risorse di personale e di mezzi che abbiamo – e che come ben sappiamo vanno riducendosi – in modo da avere una maggiore spinta. Cerchiamo di avere una più forte capacità di proposta anche a livello di Europa, contesto in cui vediamo di dover far presente la nostra dimensione, e anche un po’ di profezia, in un modo da costruire il continente, che così com'è per molti versi non ci va giù: e questo perché ci sembra sia fondato su elementi economici, su interessi privati, di difesa del proprio piccolo nido… Vogliamo lanciare anche delle sfide come Istituto: quella di oggi un’Europa che si va costruendo non sulla base dei popoli che la compongono, delle esigenze delle persone e dei bisogni veri delle popolazioni, ma degli interessi economici da difendere. Una fortezza invece che una comunità.

    D. – Dunque, padre Cavallini, quale crisi vedete voi? Perché di quella economico-monetaria se ne parla già tanto…

    R. – Infatti. Noi siamo tutti convinti qui che la crisi fondamentale sia proprio di natura antropologica, oggi più che mai nel nostro continente. Si vede un bisogno di ricerca di punti di riferimento enorme, soprattutto guardando i giovani con tutti i disagi che vivono: rischiano anche loro di essere edotti alla visione mercantilistica di quello che è il vivere insieme. Non si va alla ricerca delle radici profonde, che creano questo disagio che diventa sempre più generalizzato. Non si cerca di dare delle risposte che vadano a livello profondo dell’umanità, della ricerca di realizzazione e della possibilità di riscoperta di valori. Ci pare che il discorso dei valori sia quello che viene trattato di meno quando guardiamo alle istituzioni. Vogliamo contribuire in questo, anche inserendoci di più nelle comunità locali cristiane, proponendo anche questi valori che vanno al di là degli interessi materiali. (mg)

    Se si parla dell’impegno dei Padri comboniani in Europa, non si può non ricordare il bagaglio particolarissimo di esperienza che i missionari Comboniani portano dalla lunga e diffusa presenza in altri continenti, in particolare nella dimenticata Africa. Fausta Speranza ne ha parlato con padre Alex Zanotelli, tra i partecipanti al convegno di Pesaro:

    R. - Torniamo da un’esperienza in Africa, in America Latina, in Asia che è molto ricca e che vorremmo potesse entrare nel cuore dell’Europa. Troviamo questa Europa fredda, non solo per il gelo e la neve che ci circondano, ma fredda nel cuore. Vediamo un’Europa che si sta richiudendo su se stessa, che diventa sempre più fortezza e incapace invece di aprire il cuore alle dimensioni del mondo, in particolare verso l’Africa. Io vengo da un’esperienza di Korogocho, dove la Messa per noi, l’Eucarestia domenicale durava tre ore, fatta di danze, di festa, di condivisione, di gioia di vivere. Ed è quello che sta mancando a questa Europa, ed è quello che vorremo un po’ portare. Ecco perché siamo qui, per chiederci: “Come essere missionari?” La missione oggi è globale in un'Europa che invece si chiude su se stessa.

    D. - L’Europa che si chiude su se stessa è anche un’Europa che vive la globalizzazione in modo sbagliato: è così?

    R. - Esattamente. È quello che vorremmo venisse percepito e non è facile per noi far passare questo messaggio. Due esempi: negli anni Novanta, abbiamo continuato a dire che chiudendo le nostre ditte in Italia e andando a far lavorare la gente altrove, in Africa, in Asia, avremmo avuto certamente manodopera a basso costo e così abbiamo prodotto un sacco di prodotti fuori dall’Europa. Adesso le stesse ditte tornano al nostro Paese dicendo: “Ma cosa pretendete? Se gli altri lavorano per molto meno di noi, sopravvivono con 10-15 euro al giorno, voi cosa volete?” L’egoismo umano è quel peccato che produce morte. E la morte la vediamo intorno a noi adesso. La missione ha proprio questo scopo: far aprire gli occhi alla gente e capire che l’egoismo di oggi lo pagheremo domani. Quello che noi stiamo chiedendo a questa Europa, è di aprire davvero il cuore alla dimensione del mondo. Viviamo in un unico mondo. Tra l’altro, dobbiamo reinventare l’economia. Non è sufficiente dirlo, ma bisogna farlo. Noi siamo appassionati del Dio della vita - appassionati di vita perché vogliamo che tutti i popoli vivano - e appassionati davvero di questo pianeta, che rischia di non sopportare più l’homo sapiens. Non ce la fa più. Ecco perché noi vogliamo portare la missione nel cuore dell’Europa. Oggi la missione è globale o non è missione. (bi)

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    La vittoria dello Zambia in Coppa d'Africa, quando il calcio vuol dire riscatto

    ◊   Una notte intera di festeggiamenti, per un entusiasmo che supera di molto la soddisfazione per la vittoria sportiva, peraltro storica. È questa da ore l’atmosfera che si respira nello Zambia, dopo il trionfo della nazionale di calcio del Paese in Coppa d'Africa. Mentre la squadra è attesa per celebrare il trionfo, l’evento si presta a diverse di "letture" in uno dei Paesi tra i più poveri al mondo. Luca Collodi ne ha parlato con padre Moses Hamungole, responsabile dei Programmi in lingua inglese della nostra emittente e originario dello Zambia:

    R. – E’ stata davvero una bella notte. All’inizio, non si credeva molto a questa vittoria, ma poi ho visto l’entusiasmo della gente per le strade, soprattutto a Lusaka: tutti indossavano le maglie della nazionale...

    D. – Lo Zambia è uno dei Paesi più poveri dell’Africa. Questa vittoria calcistica cosa rappresenta per il Paese?

    R. – La prima cosa che vorrei dire riguarda i giocatori: fra loro ci sono giusto due professionisti che giocano in Europa. Molti di loro giocano qui, in Zambia. inoltre, questa vittoria significa che se una nazione lavora e si ha fiducia, si può vincere nonostante tutta la povertà. Questa povertà può essere dimenticata e si può trovare la gioia in mezzo ai profondi disagi che ci sono.

    D. – Lo sport può riscattare un Paese?

    R. – Sì. Ho visto alcuni segnali di riconciliazione e di rispetto: persino politici fra loro nettamente avversari si sono riuniti attorno a questa squadra. Perfino nelle Chiese c’erano i preti che la domenica dovevano fare questo annuncio: “Dopo questa celebrazione, questa Santa Messa, andate a vedere la partita”...

    D. – Lo Zambia ha battuto ai rigori la Costa d’Avorio. Al termine della partita, la cosa che ha colpito è stata la squadra riunita in preghiera al centro del campo…

    D. – Sì. Molte persone in Zambia sono cristiane. Nella nostra Costituzione c’è una frase che dice che lo Zambia è un Paese cristiano. Possiamo pregare prima di fare qualsiasi cosa, ma anche alla fine: ringraziamo Dio quando vinciamo qualcosa, ma dobbiamo farlo anche quando perdiamo.

    D. – Lo Zambia ha vinto ricordando la storica squadra del 1993, che è morta in un incidente aereo…

    R. – Questa è un’altra cosa che mi ha colpito molto. Ricordo quel giorno: ero in seminario quando venne diffusa la notizia. La vittoria, in questo stesso luogo, è davvero simbolica: dal Gabon, dove i nostri giocatori sono morti, a Libreville, dove possiamo alzare la Coppa d’Africa. (vv)

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    Esce venerdì "War Horse" di Spielberg. Un ragazzo e un cavallo, l'amicizia che batte la guerra

    ◊   “Un film raccontato con sincerità e adatto a tutta la famiglia, in cui il messaggio d’amore potrà essere apprezzato in tutti i Paesi del mondo”. Con queste parole il regista americano, Steven Spielberg, ha presentato il suo ultimo film “War Horse”, in uscita sugli schermi italiani: storia dell’amicizia tra un ragazzo e un cavallo costretti a separarsi a causa della guerra e testimoni dei suoi orrori. Il servizio di Luca Pellegrini:

    “Tuo padre sbaglia e beve per dimenticare gli errori commessi, ma lui non si è arreso mai e oggi tu hai dimostrato a tutti che ne è valsa la pena. Continua ad avere cura di Joey e lui avrà sempre cura di te”.

    Albert e Joey. Un’amicizia che supera i confini creati da una guerra spaventosa e dalla crudeltà degli uomini. Un ragazzo del Devon il primo, uno splendido purosangue l’altro. Attraverso gli occhi di quest’ultimo scopriamo le follie degli uomini, viviamo i tempi oscuri e terribili della Prima Guerra mondiale. L'amicizia tra il coraggioso animale e il giovane inglese si staglia all'orizzonte della catastrofe umana della Grande Guerra: è lo sguardo classico di Steven Spielberg, che attraverso l'innocenza di giovani e di animali getta un'impietosa e giusta accusa alle nefandezze degli adulti. "War Horse" è un grandioso affresco nel quale la tragedia delle trincee è evocata con realismo, dove il sentimento dell'amicizia è tratteggiato con toni poetici, dove la luce, come in tutti i film del regista americano, fa capolino alla fine. Così ancora una volta, Spielberg ritorna ai grandi temi che hanno animato molte delle sue opere, quelli della brutalità, dell'innocenza perduta, della speranza racchiusa nei cuori innocenti, quelli dei piccoli, degli indifesi. Questa volta raccontati seguendo un grande protagonista, molto eloquente, più degli uomini, un cavallo meraviglioso che dai campi della pace del Devon precipita in quelli spaventosi della Francia in cui la carneficina trova il suo apice. Ricordando che in questa inutile strage non furono soltanto i milioni di soldati mandati al macello, ma i milioni di cavalli trasformati, loro malgrado, in macchine da guerra. Anche per i cavalli, in fondo, la pietà cedette il posto all'odio. E Spielberg di tutto questo se ne fa narratore ineguagliabile.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Cina: è morto padre Zhang Wenchang, testimone fedele del Vangelo in anni difficili

    ◊   Lutto nella Chiesa cattolica in Cina: il 5 febbraio scorso si è spento, all’età di 91 anni, il rev. Lorenzo Zhang Wenchang, amministratore diocesano delle tre circoscrizioni ecclesiastiche della provincia di Yunnan. Il sacerdote era nato il 10 agosto 1920 ad Haiyizhongzai, nell’arcidiocesi di Kunming. Entrato all’età di 12 anni nel pre-seminario di Qingshan e, nel 1936, nel seminario di Bailongtan, nel 1941 inizia lo studio della teologia presso l’Istituto Teologico di Kunming e il 23 dicembre 1946 viene ordinato sacerdote e nominato viceparroco della Cattedrale. Nel 1953, costretto a lasciare il suo impegno pastorale presso la Cattedrale, si trasferisce in una chiesa a Huanshandong dove, per vivere, alleva conigli e polli. Il 10 febbraio 1958 è arrestato con l’accusa di crimini antirivoluzionari e il 28 aprile 1959 è condannato a dieci anni di prigione. Nel luglio 1962 lascia la prigione di Kunming e, condannato ai lavori forzati, viene trasferito nella fattoria di Yuanjiang dove rimane fino al 1982. Tornato a Kunming, si guadagna da vivere facendo lavori temporanei e dedicandosi alla cura dei fedeli, sparsi nella vasta Provincia. Il 7 luglio 1987 il suo caso viene riesaminato, ed anche il verdetto è rivisto dalla Corte Civile intermedia della città di Kunming, che lo riabilita. Il rev. Zhang può così dedicarsi a tempo pieno al lavoro pastorale. Il 25 maggio 2000 è nominato amministratore diocesano per l’arcidiocesi di Kunming, per la diocesi di Dali e per la prefettura apostolica di Zhaotong, nello Yunnan. Il rev. Zhang è rimasto sempre fedele alla Chiesa e al Papa: per questo, anche negli ultimi anni era tenuto sotto controllo dalla polizia. La vita del rev. Lorenzo Zhang Wenchang è stata una chiara testimonianza di fedeltà alla fede cattolica in comunione con il Successore di Pietro. Sono molte e ben note le sue descrizioni dei terribili anni di persecuzione, di carcere e di lavori forzati, subiti a causa della fede. Stimato e amato dai confratelli e dai suoi fedeli, apprezzato anche oltre i confini dello Yunnan, il rev. Zhang sarà ricordato come una delle figure più luminose, un campione della fede, fra tutti i sacerdoti della Chiesa cattolica in Cina. La salma è rimasta esposta per oltre una settimana, per permettere, a chiunque lo volesse, di rendergli omaggio.

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    India: intimidazione dei fondamentalisti contro una scuola dei gesuiti in Karnataka

    ◊   In India, nuova intimidazione ai danni della Joseph’s PU College la scuola dei gesuiti ad Anekal, nel Karnataka. Lo riferisce l’agenzia AsiaNews precisando che l’episodio – il terzo dal 2011 - è avvenuto lo scorso 9 febbraio in occasione di una riunione della Commissione per la pace convocata dal tahsildar (funzionario di distretto). Durante l’incontro, più di 100 attivisti dell’Akhil Bhartiya Vidyarthi Parishad (Abvp) - organizzazione studentesca affiliata al Bharatiya Janata Party (Bjp), partito ultranazionalista al governo - hanno interrotto in continuazione gli interventi di sei sacerdoti gesuiti presenti, insultandoli per non aver issato la bandiera nazionale nel giorno della Festa della repubblica. Alcune immagini dell’evento trasmesse dalla televisione locale, mostravano gli attivisti picchiare il preside del St Jospeh College, padre Melvin Mendonca, sotto gli occhi del tahsildar e della polizia. Gli aggressori hanno poi fatto sfilare il gesuita per la città, fino alla stazione di polizia. Quando altri sacerdoti hanno cercato di far notare al tahsildar cosa stesse accadendo, uno degli attivisti ha urlato: “Provateci con i vostri amici in America. Qui, siamo noi a dare le regole”. Per il presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), Sajan K George – che ha denunciato il clima di paura in cui vivono i cristiani nella città - “l’obiettivo degli ultranazionalisti indù è terrorizzare la minoranza cristiana e creare tensione all’interno della comunità”. Con l’accusa di non aver issato la bandiera nazionale, già il 27 gennaio scorso membri dell’Akbvp avevano picchiato studenti e insegnanti del St Joseph College. Il preside ha sempre respinto l'accusa, spiegando che il simbolo era stato esposto nel campus di Jnana Jyoti, sede principale dell’istituto. Nell’istituto, il 60% degli studenti sono dalit indù, mentre il restante sono cristiani e musulmani. “Dopo quest’ulteriore attacco – spiega Sajan George – la comunità cristiana si sente spaventata, insicura e abbandonata. Gli attivisti indù – conclude - continuano ad attaccare, forti del loro alleato politico: il governo Bjp del Karnataka”. (E.B.)

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    Kashmir indiano: l’Alta Corte salva il Pastore Khanna accusato di proselitismo

    ◊   L’Alta Corte dello stato di Jammu e Kashmir ha annullato le accuse contro il Pastore cristiano C.M. Khanna, accusato di proselitismo, stabilendo la tutela delle garanzie costituzionali e il suo diritto a soggiornare in India. La Corte – riferisce l'agenzia Fides citando fonti locali - ha anche ordinato la fine di ogni attività investigativa della polizia sul caso, ritenendo infondata l’accusa di “seminare ostilità religiosa” a carico del Pastore. La sentenza della Corte è stata accolta con favore dai cristiani locali: il “Global Council of Indian Christians”, afferma che “l’'annullamento delle accuse è una mossa nella giusta direzione per tenere a freno i militanti e per garantire il rispetto dello stato di diritto”. Il giudice J.P. Singh dell’Alta Corte, tribunale civile a cui Khanna aveva presentato ricorso, ha emesso un’ordinanza che sospende il procedimento contro il Pastore, avvisando il governo dello Stato e il direttore della Polizia del Kashmir di attenersi a tali disposizioni. Khanna, Pastore protestante della “All Saints Church” di Srinagar, era stato accusato di proselitismo verso bambini musulmani e di essere fomentatore di “inimicizia religiosa” verso la comunità islamica. Il Pastore era stato arrestato (illegalmente, secondo i cristiani) e una Corte islamica, dopo un processo sommario e sotto la pressione di gruppi estremisti, lo aveva dichiarato colpevole. Il 19 gennaio scorso la Corte islamica aveva emesso un ordine di espulsione contro Khanna, il missionario cattolico padre Jim Borst e altri tre cristiani. I gruppi della società civile, cristiani e non, rimarcavano che “la Corte islamica non ha alcun potere legale e nessuna giurisdizione nell’Unione indiana”, invocando “il restauro della legalità e l’intervento degli organi federali”. La vicenda è stata il detonatore di una nuova esplosione di intolleranza e di estremismo religioso in Kashmir, Stato indiano a maggioranza musulmana, che si è rivolta in particolare contro gli istituti di istruzione gestiti dalla minoranza cristiana nello Stato. I cristiani locali auspicano che il verdetto dell’Alta Corte “serva a riportare pace e armonia nel Kashmir”. (E.B.)

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    Tibet: si dà fuoco una monaca buddista di 18 anni

    ◊   Tenzin Choedron, una monaca buddista tibetana che si è data fuoco per protestare contro il dominio cinese in Tibet, è morta durante la corsa verso l’ospedale di Ngaba, nel Sichuan. A riferirlo sono oggi i media cinesi. Dal febbraio del 2009, sono oramai 23 i religiosi che si sono dati fuoco per chiedere libertà religiosa e il ritorno del loro leader spirituale in patria. Secondo quanto riferito ieri dal governo tibetano in esilio, la giovane 18enne - che proveniva dal monastero di Mamae Dechen Choekhorling - si è data fuoco ad un incrocio stradale pronunciando slogan contro il governo cinese. Le forze di sicurezza - riferisce l'agenzia AsiaNews - l’hanno immediatamente portata via e hanno chiuso il monastero: la monaca non è morta sul colpo, ma è stata portata via in luogo sconosciuto dagli agenti della polizia cinese. Ngaba si conferma l’epicentro di questa forma di protesta: qui si sono verificate 14 auto-immolazioni, delle quali cinque dall’inizio di febbraio. Il Dalai Lama e tutte le altre personalità spirituali del buddismo hanno più volte chiesto ai loro fedeli di non compiere questi atti e di pensare sul lungo periodo, ma hanno ammesso che le privazioni a cui sono costretti i tibetani in Tibet sono terribili e aumentano di anno in anno. La polizia, su ordine del governo centrale comunista, continua a tenere sotto strettissimo controllo le regioni dove vivono i tibetani, bloccando le strade e impedendo i collegamenti anche telefonici. (R.P.)

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    Messico: il cardinale Rivera elogia l’apertura di Cuba al diritto alla libertà religiosa

    ◊   L'ambasciatore di Cuba in Messico, Manuel Aguilera de la Paz, ha partecipato domenica alla Santa Messa celebrata dal cardinale Primate del Messico, Norberto Rivera Carrera, arcivescovo di Mexico, nella cattedrale metropolitana. Nell’omelia - riferisce l'agenzia Fides - il cardinale ha voluto espressamente citare la presenza dell'ambasciatore, che ha esercitato il suo diritto alla libertà religiosa. “Ci rallegriamo perché, con la sua presenza, lei esercita un diritto che nel suo Paese adesso è chiaro, quello della libertà religiosa” ha detto il cardinale. Prima della celebrazione, il cardinale e l’ambasciatore si sono incontrati per 45 minuti. Tra le questioni affrontate, secondo quanto emerso dalla stampa locale, c’è stata la visita del Papa a Cuba e in Messico del prossimo marzo. L'ambasciatore era accompagnato da un gruppo di collaboratori, ma ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni alla stampa. Il cardinale Rivera Carrera ha detto che il popolo cubano ha ricevuto “con grande affetto” Giovanni Paolo II e poi ha aggiunto: “sappiamo con certezza che il comandante Fidel Castro e il presidente Raul Castro si stanno prendendo cura di ogni dettaglio della visita di Benedetto XVI”. (R.P.)

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    Ecuador: continua il dramma degli haitiani che tentano di raggiungere il Brasile

    ◊   L’Ecuador sta diventando la porta del Sudamerica per gli immigrati haitiani che vogliono andare in Brasile alla ricerca di una vita migliore rispetto a quella che vivono nel loro Paese, devastato dal terremoto del 2010, perché la nazione andina non chiede il visto: queste le informazioni diffuse dalla Ong “Servizio dei Gesuiti per i rifugiati e i migranti” (Sjrm) di Quito. All'inizio di gennaio, in soli tre giorni, 500 haitiani sono arrivati a Brasileia, una cittadina di 20.000 abitanti nello Stato Amazonico di Acre, in Brasile, dove già vivevano circa 700 loro connazionali in alloggi provvisori. Secondo dati del governo brasiliano, circa 4.000 haitiani sono arrivati in Brasile dopo il terremoto del gennaio 2010. Il vice direttore del Sjrm dell'Ecuador, Juan Villalobos, ha detto che la maggior parte degli haitiani vuole raggiungere il Brasile e da qui la Guyana francese, per poi arrivare in Francia. Villalobos ha spiegato che entrano in Sudamerica attraverso l'Ecuador perché è l'unico Paese della regione, insieme al Cile, a non chiedere visti per entrare. Tuttavia il Cile esige che per entrare nel suo territorio uno sia in possesso di fondi economici, così molti decidono di passare per l'Ecuador che non li richiede. La nazione caraibica comunque “proviene da una crisi storica” secondo Villalobos: già prima del terremoto c'erano due milioni di haitiani all'estero e il disastro naturale ha accentuato questa fuga. La maggioranza degli haitiani che lascia il Paese è costituita da giovani tra i 18 ed i 35 anni, che vogliono una formazione o un lavoro all'estero per mandare soldi alla famiglia ad Haiti. Dal loro Paese partono verso la Repubblica Dominicana o Cuba, poi verso l'Ecuador e da lì prendono percorsi diversi per Paesi diversi fino arrivare in Brasile, ha detto il rappresentante della Sjrm. Tuttavia ha avvertito che "in Brasile non c'è lavoro per loro" ed inoltre "il Paese ha imposto ora una politica restrittiva riguardo all'ingresso degli haitiani che non possono lasciare lo stato di Acre". Un'altra preoccupazione del Sjrm è che molti di loro "arrivano attraverso le reti della tratta o del traffico di persone", in grandi gruppi, costretti a percorrere lunghe distanze nella regione. Villalobos ha citato come esempio i 500 haitiani che sono stati abbandonati a sé stessi a Leticia Tabatinga, una città Amazzonica della Colombia, al confine con Brasile e Perù. (R.P.)

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    Avviato un progetto in 4 nazioni per combattere il lavoro minorile attraverso l’istruzione

    ◊   Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) 152 milioni di bambini tra 5 e 14 anni sono vittime del lavoro minorile. La maggior parte appartiene ai gruppi sociali più emarginati e proviene da famiglie molto povere. Inoltre 67 milioni di minori non frequentano la scuola primaria né il primo ciclo di quella secondaria. Nel mese di maggio 2010, i rappresentanti di 97 Paesi hanno preso parte ad una Conferenza mondiale sul lavoro minorile, tenuta a l’Aja, dove venne concordata una road map per eliminare le peggiori forme di sfruttamento infantile entro il 2016. Un elemento fondamentale di questo documento prevede nuove misure per migliorare l’accesso all’istruzione gratuita, obbligatoria e di qualità, per tutti i bambini. Tuttavia se non cambierà l’attuale tendenza, la comunità internazionale non riuscirà a raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio che prevede l’istruzione primaria universale entro il 2015. A questo proposito il Programma Internazionale per l’Eradicazione del Lavoro Minorile (Ipec) dell’Ilo, ha avviato un progetto destinato ad affrontare il problema promuovendo l’istruzione come primo strumento. Obiettivo principale è rafforzare i vincoli nell’ambito delle politiche tra l’educazione e il lavoro minorile, organizzando iniziative perchè i bambini vittime del fenomeno o quelli a rischio abbiano maggiori opportunità di accesso all’istruzione. Attualmente il progetto verrà promosso in quattro Paesi di diversi livelli di sviluppo economico e sociale di diversi continenti: Bolivia, Indonesia, Mali e Uganda. Facilitare l’accesso all’istruzione di qualità per tutti i bambini è lo scopo principale. Occuparsi di questa piaga presupporrà una maggiore frequenza scolastica e il miglioramento dell’accesso all’istruzione, che certamente contribuirà a prevenire il lavoro minorile. Senza una minima educazione di base i bambini sono più vulnerabili. Il progetto vedrà la cooperazione di reti educative nazionali, collaboratori sociali, organizzazioni della società civile e altri settori interessati. Verranno create nuove risorse per facilitare l’orientamento di quelli coinvolti in programmi di formazione per adolescenti analfabeti. (R.P.)

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    Niger: Medici Senza Frontiere fornisce assistenza a 10 mila rifugiati dal Mali

    ◊   A seguito dell’ondata di violenza nel vicino Mali, circa 10 mila maliani hanno trovato rifugio nella regione Tillabéry, in Niger. Un’équipe d’emergenza di Medici Senza Frontiere (Msf) ha raggiunto la cittadina di Tchinagodar per valutare i bisogni più urgenti. Lo riferisce l’agenzia Sir. “I rifugiati non hanno accesso ad acqua potabile, cibo, latrine o ripari adeguati” e neppure “all’assistenza sanitaria di base”, spiega Benoît Kayembé, capo missione Msf in Niger. “Siamo in stato di emergenza. La regione di Tillabéry aveva già problemi di sicurezza alimentare e l’arrivo di migliaia di rifugiati sta peggiorando la situazione”. Con le autorità locali e il ministero della Salute, l’équipe garantirà cure mediche di base, ricovero, esami diagnostici e cure per la malnutrizione, vaccinazioni per i bambini e assistenza alle donne incinte. “La nostra risposta all’emergenza - prosegue Kayembé - evolverà e si adatterà a seconda del coinvolgimento di altre organizzazioni umanitarie nella regione”. In settimana un’altra équipe di Msf si recherà nel nord del Mali per valutare la situazione di circa 30.000 sfollati nella regione. Un’ulteriore équipe si recherà in Mauritania per determinare i bisogni dei rifugiati maliani ivi presenti. Inoltre, insieme ai suoi partner, l’organizzazione medico-umanitaria fornisce assistenza ai migranti e sfollati nella regione di Agadez e supporta le autorità sanitarie nigerine a rispondere alle emergenze che possono scoppiare nel Paese. (E.B.)

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    Mosca: conferenza ecumenica sull’insegnamento della religione nelle scuole non confessionalI

    ◊   L’insegnamento della religione nelle scuole statali non contraddice il principio della laicità dell’educazione. È la comune convinzione emersa dal secondo colloquio ecumenico internazionale tra i rappresentanti della Chiesa cattolica lituana e delle Chiesa ortodossa russa, svoltosi nei giorni scorsi a Mosca. La conferenza è stata promossa congiuntamente dalla Conferenza episcopale lituana e dal Dipartimento delle relazioni ecclesiali esterne della Chiesa ortodossa russa, guidato dal metropolita Hilarion di Volokolamsk. Dopo l’incontro dell’anno scorso svoltosi a Kaunas, in Lituania, sul tema “I cristiani dinanzi alle sfide per la famiglia”, questo secondo appuntamento è stato dedicato appunto all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Ad aprire i lavori – riporta un comunicato del Patriarcato di Mosca - è stato il metropolita Hilarion che nel suo intervento ha sottolineato l’importanza di confrontarsi insieme sulle attuali sfide della società e di una più stretta collaborazione ecumenica su tale fronte. In questo senso – ha osservato - l’insegnamento della religione nelle scuole non confessionali è di pressante attualità sia per la Chiesa ortodossa che per quella cattolica, perché riguarda la difesa dell’identità cristiana dell’Europa contemporanea. Secondo l’esponente religioso ortodosso, superate le attuali diatribe sulla questione, in futuro la società russa potrà apprezzare il ruolo positivo dell’educazione religiosa nella promozione dei valori morali e nella difesa della sua identità. Tra gli altri relatori al colloquio G. Demidov del Dipartimento per l’educazione religiosa e il catechismo del Patriarcato di Mosca, e, per parte cattolica, mons. Sigitas Tamkevičius, arcivescovo di Kaunas e presidente della Conferenza episcopale lituana, che hanno illustrato come funziona l’insegnamento della religione nei rispettivi sistemi scolastici. Mons. Tamkevičius ha evidenziato in particolare come l’educazione religiosa e morale dei bambini sia considerato un inalienabile diritto costituzionale dei cittadini lituani. I partecipanti hanno quindi convenuto che lo studio della propria religione e di alcune nozioni di base sulle altre credenze religiose sia una parte importante della formazione di una persona e contribuisca alla pace religiosa. In conclusione, i partecipanti si sono impegnati a continuare in futuro questi incontri bilaterali per approfondire temi di interesse comune. (L.Z.)

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    Il Premio san Valentino al cardinale Puljic

    ◊   Sarà il cardinale Vinko Puljić, arcivescovo di Sarajevo, a ricevere il premio Terni San Valentino 2012, il più importante dei riconoscimenti legati alla figura del patrono di Terni, conferito ogni anno a personalità che si siano distinte per l’impegno per la pace, la solidarietà, l’unità tra i popoli e la fraterna convivenza. Quest’anno il riconoscimento è stato assegnato al cardinale Puljić “per il suo costante impegno per la pace svolto nel corso della drammatica guerra balcanica e in occasione del 20° anniversario del tragico assedio di Sarajevo, per tenerne vivo il ricordo, affinché la memoria dei drammi del passato vissuti in Europa sia un monito e uno sprone per la costruzione dell’Europa del futuro”. Il premio - riferisce l'agenzia Sir - messo a disposizione dalla Cassa di Risparmio di Terni e Narni, sarà consegnato al cardinale Puljić dal vescovo di Terni-Narni-Amelia mons. Vincenzo Paglia, dal sindaco Leopoldo Di Girolamo e da Giuseppe Donzelli, vicepresidente della Carit, oggi alle ore 18, nella sala conferenze del Museo diocesano, in piazza Duomo, a Terni. Dopo i saluti delle autorità cittadine, il cardinale Puljić porterà la sua testimonianza sul dramma vissuto in quegli anni e sulla difficile opera di pacificazione portata avanti con impegno e determinazione per diversi anni prima della fine del conflitto. (R.P.)

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    62.a Berlinale tra intrighi internazionali e mondo delle passioni umane

    ◊   In "Shadow dancer", James Marsh mette in scena un tragico evento della guerra, che oppose i nazionalisti irlandesi e il governo britannico: una giovane militante, arrestata nel corso di un fallito attentato alla metropolitana londinese, viene costretta con il ricatto ad accettare l’infido ruolo di informatrice della polizia. Giocato sul doppio binario dell’inganno e dell’attesa, il film lascia lo spettatore nelle stesse condizioni in cui stava il personaggio del precedente film di Marsh, "Man on wire", ovvero sulla corda della tensione e del possibile colpo di scena. In "Barbara", Christian Petzold propone invece il terzo episodio di un trittico dedicato alle donne dell’ex Germania dell’Est. Anche qui, come nel caso della protagonista di "Shadow Dancer", una donna sta per cambiare di campo, abbandonando la Ddr per fuggire all’ovest. Ma la situazione di confino coatto in cui si trova e soprattutto il coinvolgimento nel suo nuovo lavoro, complottano per trasformare le certezze in dubbi. Al contrario di Marsh, che usa delle inutili complicazioni di sceneggiatura per intorbidare il racconto e catturare l’attenzione, Petzold sceglie una linearità narrativa classica, che permette allo spettatore una posizione naturale di distanza e di rispetto. Compie la stessa scelta, spingendola fino alle sue estreme conseguenze, "Captive" di Brillante Mendoza, che accompagna l’odissea di un gruppo di turisti francesi, rapiti da una banda di ribelli salafiti, nella giungla delle Filippine. Qui il gioco delle contrapposizioni, che era la costante di "Shadow dancer", e si trovava diluito in "Barbara", si annulla del tutto. Dopo un’iniziale antagonismo di ruoli, determinato dalle contrapposizioni ideologiche, i personaggi diventano delle figure indistinguibili di fronte all’indifferenza della natura. Una tale progressione di messe in scena trova la sua logica conclusione nel miglior film di questi primi giorni, "Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani. Qui il classico intreccio del testo shakespeariano diventa altro dalla tradizionale rappresentazione teatrale, fondendosi nei corpi di attori immersi nella loro stessa tragedia di uomini. Interpretato dai detenuti della prigione di Rebibbia, il Giulio Cesare del drammaturgo inglese riprende così vita nella parlata popolare degli ultimi della terra, nei corpi trasformati dalla macerazione degli anni, nei tempi della prova e della scena, negli spazi senza orizzonti del carcere. Alla fine non si sono più né antagonismi né spettatori, ma solo un unica, malinconica constatazione della fragilità effimera del momento presente. (Da Berlino, Luciano Barisone)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 44

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