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Sommario del 21/12/2012

Il Papa e la Santa Sede

  • Il Papa alla Curia Romana: nella difesa della famiglia c’è in gioco l’uomo stesso
  • Mons. Paglia: rispetto della natura è anche non manipolare la famiglia
  • Famiglia e verità: editoriale di padre Lombardi
  • Padre Cantalamessa: i cristiani evangelizzino il mondo con la gioia della fede
  • Saranno canonizzati i Martiri di Otranto. Mons. Negro: c'invitano a essere testimoni credibili del Vangelo
  • Rinuncia e nomina episcopale in India
  • Oggi su "L'Osservatore Romano"
  • Oggi in Primo Piano

  • Siria, violenze infinite. La Nato parla di regime al collasso
  • Libano, l'impatto della crisi siriana. Parsi: attenzione al radicalismo sunnita
  • Timori negli Usa per il mancato accordo sul “fiscal cliff”
  • Crisi nella Repubblica Centroafricana: al centro degli interessi le risorse minerarie
  • Le Nazioni Unite mettono al bando le mutilazioni genitali femminili in tutto il mondo
  • Dall'Onu il "no" alla pena di morte: la soddisfazione del ministro Terzi
  • Stop alle pene alternative. La Caritas: per la politica non è una priorità
  • “Emergenza Nigeria: a Natale tieni accesa la speranza”: la campagna di Acs
  • Proposta inglese per togliere dalla "Promessa scout" la parola "Dio". Intervista con padre Salucci
  • Nella Chiesa e nel mondo

  • Pakistan: crescono le violenze contro le minoranze religiose
  • Sudan. Europarlamento: ruolo Chiesa fondamentale per soluzione del conflitto
  • Mali: l'Onu pronto per intervento militare nel Nord
  • Haiti: a tre anni dal terremoto ancora 360 mila nei campi profughi
  • Alluvioni in Sri Lanka: 25 morti, mezzo milione le persone isolate
  • Frontiera Cile-Perù finalmente libera dalle mine anti-uomo
  • Papua Nuova Guinea. Le comunità cristiane: urge intervento legislativo contro la poligamia
  • Scozia. Mons. Tartaglia: a Natale, un pensiero per rifugiati e sfollati
  • Senza fissa dimora: iniziative per sensibilizzare la città di Milano
  • Immigrati: Caritas italiana, 30 mila euro per emergenza tendopoli a Rosarno
  • Prossimo il 35.mo incontro europeo della Comunità di Taizè a Roma
  • A Rabat il primo Istituto di formazione cristiana
  • Il Papa e la Santa Sede



    Il Papa alla Curia Romana: nella difesa della famiglia c’è in gioco l’uomo stesso

    ◊   La famiglia e il dialogo: sono stati questi i due temi fondamentali del grande discorso pronunciato oggi dal Papa alla Curia Romana, in occasione degli auguri natalizi. Nel suo articolato intervento, Benedetto XVI ha ricordato i momenti salienti di questo 2012: dai viaggi internazionali in Messico, Cuba e Libano all’Incontro Mondiale delle Famiglie di Milano e, ancora, il Sinodo per la Nuova evangelizzazione e l’Anno della Fede nel 50.mo del Concilio. Cuore del discorso: la vera essenza della libertà umana e la difesa della famiglia in cui si gioca il destino dell’uomo. L’indirizzo d’omaggio al Papa è stato rivolto dal cardinale decano Angelo Sodano. Il servizio di Alessandro Gisotti:

    Perché la Chiesa ha così a cuore la famiglia? Benedetto XVI ha mosso la sua riflessione da un interrogativo che oggi tanti, in un contesto così complesso, si pongono. La Chiesa è interessata alla famiglia, ha esordito il Papa, perché non si tratta solo di una “determinata forma sociale”, ma in essa è racchiusa la questione dell’uomo stesso, “di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto”. Il Papa, richiamando anche le considerazioni del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, ha quindi sviluppato un’analisi sulle ragioni che hanno portato all’attuale crisi della famiglia e ad un “fraintendimento dell’essenza della libertà umana” e in definitiva dell’essere stesso “di ciò che in realtà significa l’essere uomini”. Il Papa ha sottolineato che la Chiesa non è da sola nel difendere la famiglia ed ha messo l’accento sulle minacce poste ad essa dalla “filosofia della sessualità”, dalla teoria del “gender” secondo cui il sesso “non è più un dato originario della natura”, bensì un ruolo sociale “del quale si decide autonomamente”:

    “La profonda erroneità di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente è evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeità, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli è data come fatto precostituito, ma che è lui stesso a crearsela. Secondo il racconto biblico della creazione, appartiene all’essenza della creatura umana di essere stata creata da Dio come maschio e come femmina”.

    Questa dualità, ha soggiunto, è “essenziale per l’essere umano”. Ma adesso “l’uomo contesta la propria natura”, egli “è ormai solo spirito e volontà”:

    “La manipolazione della natura, che oggi deploriamo per quanto riguarda l’ambiente, diventa qui la scelta di fondo dell’uomo nei confronti di se stesso. Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per sé autonomamente qualcosa come sua natura”.

    Se però “non esiste la dualità di maschio e femmina come dato della creazione – ha osservato – allora non esiste neppure più la famiglia come realtà prestabilita dalla creazione”. Ma in tal caso anche la prole ha “perso il luogo che finora le spettava e la particolare dignità che le è propria”. Da soggetto giuridico a sé stante diventa cosi “oggetto a cui si ha diritto e che, come oggetto di un diritto, ci si può procurare”:

    “Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere. Nella lotta per la famiglia è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo”.

    Il Papa ha, quindi, rivolto il pensiero al dialogo che, ha detto, per la Chiesa deve seguire tre livelli: con gli Stati, con la società e con le religioni. In questi dialoghi, ha affermato, la Chiesa parla a partire dalla luce della fede. Al tempo stesso però incarna “la memoria dell’umanità”, delle “esperienze e delle sofferenze dell’umanità”:

    “La Chiesa rappresenta la memoria dell’essere uomini di fronte a una civiltà dell’oblio, che ormai conosce soltanto se stessa e il proprio criterio di misure. Ma come una persona senza memoria ha perso la propria identità, così anche un’umanità senza memoria perderebbe la propria identità”.

    Nel dialogo con la società, ha quindi constatato, la Chiesa “certamente non ha soluzioni pronte per le singole questioni”, ma con “le altre forze sociali” lotterà per le risposte che “maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano”:

    “Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica”.

    Parlando poi del dialogo con le religioni, ha sottolineato che questo è “una condizione necessaria per la pace nel mondo” e pertanto “è un dovere per i cristiani come pure per le altre comunità religiose”. A questo scopo, ha soggiunto, “è necessario fare della responsabilità comune per la giustizia e per la pace il criterio di fondo del colloquio”. Certo, ha proseguito, il dialogo “non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca”. E tuttavia la ricerca di conoscenza deve essere sempre un “avvicinamento alla verità”:

    “Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo che è la verità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene saldamente. L’essere sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri”.

    Il Papa ha concluso il suo discorso con una preghiera e un auspicio legato al Mistero del Natale. Alla fine dell’anno, ha detto, preghiamo il Signore affinché la Chiesa, “nonostante le proprie povertà diventi sempre più riconoscibile” come dimora di Gesù.

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    Mons. Paglia: rispetto della natura è anche non manipolare la famiglia

    ◊   “Nonostante tutte le impressioni contrarie, la famiglia è forte e viva anche oggi”, ma “è incontestabile, però anche la crisi che – particolarmente nel mondo occidentale – la minaccia fino nelle basi”. E’ uno dei passaggi del discorso del Papa alla Curia Romana. Luca Collodi ha raccolto il commento di mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia:

    R. - La famiglia è il nodo cruciale della società, perché è il luogo dove si trasmette la vita e quindi la politica, l’economia, la cultura. Il legame tra le generazioni trova nella famiglia il luogo centrale, dove tutto questo accade: ecco perché se questo luogo viene avvelenato, non ne viene un danno solo ai credenti, alla Chiesa, ma ne viene un danno terribile all’umanità stessa. Allora mi lasci dire che - a mio avviso - questa mattina il Papa è stato geniale quando ha detto che facciamo bene a deplorare la manipolazione della natura, dell’ambiente, ma purtroppo siamo ciechi quando si parla dell’uomo, della donna e della vita umana. C’è come una contraddizione di fondo, che va sciolta!

    D. - Mons. Paglia, su quest’ aspetto oggi il Papa ha affrontato il tema del “gender” e anche qui certamente ha svolto una riflessione molto alta e anche molto concreta…

    R. - Oggi era indispensabile farlo. C’è come un “kairòs” del magistero, anche perché la tentazione di pensare che l’uguaglianza avviene abolendo la diversità, è non solo superficiale intellettualmente, ma anche pericolosa perché, alla fine, solo io sono uguale a me stesso! Quindi noi riusciamo a esaltare a tal punto l’individuo da diventare noi stessi creatori dell’Io: non diveniamo creatori dell’altro, ma distruttori dell’altro nella misura in cui esaltiamo l’Io per distinguerci. Ecco perché è pericolosissimo che la complessità della realtà venga semplificata per un’operazione di pseudo-egualitarismo. Io credo, anzi, che proprio il riconoscimento della ricchezza della diversità ci permette di essere uguali: quindi c’è la grande fatica - che poi tutti vediamo - di convivere non tra uguali, ma tra diversi, perché convivere tra uguali all’inizio può essere facile, ma poi porta a convivere solo con se stessi. E’ la solitudine di cui, purtroppo, questo mondo oggi soffre in maniera terribile.

    D. - La famiglia esiste grazie proprio alla dualità di maschio e femmina, che arriva dalla creazione: anche questo è un altro passaggio su cui riflettere…

    R. - Non c’è alcun dubbio! E’ stato vero da sempre, in tutte le culture e in tutte le religioni e a tutte le latitudini… Mentre oggi assistiamo alla pretesa prometeica di voler avere il diritto al figlio, come se fosse una merce che si compra; oppure il diritto ad abolirlo, come se fosse un’usa e getta a nostro piacimento. Il tema della famiglia uomo-donna è la condizione prioritaria e unica per avere un figlio e quindi per scrivere la storia, per avere il futuro!

    D. - Per concludere, mons. Paglia, l’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio – come dice il Papa - ha poi una conseguenza molto pratica sull’architettura della società in cui viviamo…

    R. - Lo diceva già Cicerone. Quando Cicerone - che non era cattolico! - definiva la famiglia “principium urbis et quasi seminarium rei publicae”, cioè “principio della città e luogo di apprendimento per costruire la società”, diceva quello che è naturale, che è - direi - scontato. Pretendere allora di dire che noi ci costruiamo la famiglia a nostra misura e somiglianza vuol dire non edificare una famiglia, ma mettersi individualmente al centro del mondo e fare tutto al proprio servizio. E’ questo - secondo me - il grande equivoco di un ideale prometeico, che è davvero l’inizio della distruzione.

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    Famiglia e verità: editoriale di padre Lombardi

    ◊   Sul discorso del Papa alla Curia Romana, ascoltiamo il commento del direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi:

    Il discorso di fine anno per gli auguri natalizi della Curia Romana è sempre uno di quelli più personali e attentamente studiati dal Santo Padre. Una riflessione sull’anno trascorso, ma anche un approfondimento di temi che il Papa ritiene più urgenti e di maggiore momento.

    Sono cose su cui sente il dovere di manifestare il suo pensiero, andando ai fondamenti, con la nettezza e il coraggio che gli sono caratteristici: è il suo dovere verso la Chiesa e l’umanità, anche se ciò può suscitare resistenze o reazioni negative. I temi scelti quest’anno sono due: la famiglia e la dualità dell’uomo e della donna; e il dialogo e l’annuncio della fede.

    Sulla famiglia, il Papa non entra nelle discussioni sulla legislazione e sui matrimoni omosessuali, e non riprende neppure le indimenticabili parole di vicinanza alle coppie in difficoltà pronunciate nella veglia di Milano, ma riafferma che oggi qui è in gioco la stessa questione su “chi è l’uomo”. La dualità dell’uomo e della donna è essenziale per l’essere umano. Da essa nascono le relazioni fondamentali fra padre, madre e figli. La dualità è iscritta nella natura della persona, nel disegno di Dio creatore. Negarlo è contrario alla verità, e affermare che è la persona umana stessa a determinare la sua identità è un passo distruttivo, che apre la via alla manipolazione arbitraria della natura, con conseguenze gravissime per la dignità dell’uomo; a cominciare dalla dignità dei figli, considerati come oggetto di un diritto e non più come soggetti di diritto. Nella “lotta per la famiglia”, insomma, ne va della stessa persona umana. Il Papa fa ampio riferimento a quanto scritto dal Gran Rabbino di Francia, dimostrando che la posizione della Chiesa non è strettamente confessionale, ma è quella della ragione, condivisa nella grande tradizione giudeo-cristiana.

    Anche il secondo tema approfondito dal Papa farà discutere. E’ attualissimo e non è staccato dal primo: il cristiano entra nel rapporto di dialogo come portatore della grande esperienza della umanità letta alla luce della fede, sentendosi responsabile dei valori più preziosi e durevoli aldilà delle soluzioni meramente pragmatiche. Ed entra nel dialogo con la fiducia che la ricerca della verità non metterà mai in questione la sua identità cristiana. Perché la verità non è da noi orgogliosamente posseduta, ma ci chiama e ci guida, come Cristo che ci accompagna per mano. Anche questo è un augurio di Natale. Profondo, impegnativo, attuale.

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    Padre Cantalamessa: i cristiani evangelizzino il mondo con la gioia della fede

    ◊   Il mondo deve essere evangelizzato dalla gioia cristiana: quella fatta di speranza, fiducia, di pienezza di senso, doni che vengono da Dio. Lo ha affermato questa mattina il predicatore, padre Raniero Cantalamessa, nella terza e conclusiva predica di Avvento, tenuta al Papa e alla Curia Romana. Il servizio di Alessandro De Carolis:

    C’è una tristezza che “prende alla gola” tanti, specie a Natale. È una constatazione inoppugnabile quella che padre Cantalamessa fa a un certo punto della sua riflessione. Tale tristezza, osserva, non dipende dalla mancanza di beni, “perché è molto più evidente nei Paesi ricchi che in quelli poveri”. È la tristezza dei senza speranza, dei pessimisti, degli arrabbiati contro l’uomo e il mondo, che stride con i sentimenti del Natale. E poi c’è la gioia cristiana, che scaturisce dall’agire di Dio nel tempo e “come una vibrazione e un’ondata di gioia” si “propaga poi per generazioni”, per sempre:

    “La gioia cristiana è interiore; non viene dal di fuori, ma dal di dentro, come certi laghi alpini che si alimentano, non da un fiume che vi si getta dall’esterno, ma da una sorgente che zampilla nel suo stesso fondo. Nasce dall’agire misterioso e attuale di Dio nel cuore dell’uomo in grazia (…). È ‘frutto dello Spirito’e si esprime in pace del cuore, pienezza di senso, capacità di amare e di lasciarsi amare e soprattutto in speranza, senza la quale non ci può essere gioia”.

    Come può, questo tipo di gioia “raggiungere la Chiesa di oggi e contagiarla?”, si chiede subito dopo il predicatore pontificio. La riflessione che segue è come di consueto intensa per l’intreccio tra profondità spirituale e cultura biblica:

    “Se la Chiesa di oggi vuole ritrovare, in mezzo a tutte le angustie e le tribolazioni che la stringono, le vie del coraggio e della gioia, deve aprire bene gli occhi su ciò che Dio sta compiendo oggi stesso in lei (...) Chiudiamo forse gli occhi, così facendo, ai tanti mali che affliggono la Chiesa e ai tradimenti di tanti suoi ministri? No, ma dal momento che il mondo e i suoi media non mettono in risalto, della Chiesa, che queste cose, è bene una volta sollevare lo sguardo e vedere anche il lato luminoso di essa, la sua santità”.

    E la luce c’è, constata padre Cantalamessa, nonostante vi sia chi – come recitava uno slogan sui bus londinesi di qualche anno fa – sostenga che “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”:

    ”Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Bisogna dare una risposta a questa insinuazione che tiene lontani dalla fede soprattutto i giovani (...) L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona. Cristo ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli ‘in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce’. Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia”.

    Del resto, sottolinea il predicatore francescano, nella Bibbia stessa il procedere del tempo segue significativamente una scansione diversa dal comune sentire:

    “Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: ‘E fu sera e fu mattina: primo giorno’, recita il racconto della creazione. Anche per la liturgia, la solennità comincia con i vespri della vigilia. Che significa questo? Che senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio, è una notte (a volte, una ‘notte oscura’), ma termina nel giorno, e un giorno senza tramonto”.

    “Quando il mondo bussa alle porte della Chiesa – perfino quando lo fa con violenza e con ira – è perché cerca la gioia”, osserva padre Cantalamessa. E “anche dentro la Chiesa, non solo verso quelli di fuori c’è bisogno vitale della testimonianza della gioia”:

    “I cristiani testimoniano, perciò, la gioia quando mettono in pratica queste disposizioni; quando, evitando ogni acredine e inutile risentimento nel dialogo con il mondo e tra loro, sanno irradiare fiducia, imitando, in tal modo, Dio, che fa piovere la sua acqua anche sugli ingiusti (...) Paolo VI, nella sua ‘Esortazione apostolica sulla gioia’, scritta negli ultimi anni del suo pontificato, parla di uno “sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d’uno spirito umano illuminato e dello Spirito Santo”.

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    Saranno canonizzati i Martiri di Otranto. Mons. Negro: c'invitano a essere testimoni credibili del Vangelo

    ◊   C’è grande attesa nell’arcidiocesi di Otranto per la prossima canonizzazione dei Martiri della cittadina pugliese: si tratta di Antonio Primaldo e compagni, oltre 800, uccisi in odio alla fede durante l’assedio turco della città nel 1480. Ieri il Papa ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i relativi Decreti. Benedetta Capelli ha intervistato mons. Donato Negro, vescovo di Otranto:

    R. – Ottocento martiri che dal 1480 sono davvero punto di riferimento per la vita ecclesiale, per la vita cristiana nel nostro territorio, ma non solo, perché le loro reliquie sono a Milano, a Napoli, in Calabria, in Madagascar, un po’ dappertutto c’è questa devozione diffusa ai Martiri di Otranto.

    D. – In che modo il martirio di questi 800 nuovi Santi hanno condizionato la vita e la storia della vostra diocesi?

    R. – In senso molto positivo, perché intorno a loro si è dato l’orientamento per il cammino della Chiesa, anche dal punto di vista pastorale. Loro sono i testimoni della fede, e quindi questa spinta a tutta la comunità a maturare e crescere nella fede e diventare testimoni credibili del Vangelo, nell’oggi della nostra storia. E’ stato un martirio di popolo: immagini che era una cittadina di seimila abitanti, al tempo dell’assedio di Otranto: ottocentotredici uomini hanno dato la vita per la fedeltà al Vangelo. Quindi, sì, è un fatto individuale, personale ma anche come popolo di Dio, come Chiesa siamo chiamati ad essere credibili e testimoni del Vangelo. E questo è molto forte: è una spinta che davvero continuamente si rinnova, sia pure con linguaggi ed itinerari diversi. Ma l’obiettivo diventa essere davvero credenti. Quindi, la nuova evangelizzazione qui è nel sangue, nelle vene di questa Chiesa: proprio perché abbiamo coloro che hanno evangelizzato dando la vita con la testimonianza, che è il primo passo della vera evangelizzazione.

    D. – Il primo martire degli 813 fu Antonio Primaldo …

    R. - … Antonio Primaldo, di fronte alla richiesta di abiura, di rinnegare Gesù, fu lui – forse come il più anziano – che disse: “No. Noi crediamo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, e siamo pronti a morire di qualsiasi morte, ma noi non lo rinneghiamo. Crediamo in Lui”. Siamo nel 1480; il 28 luglio arrivano qui per mare, il 12 entravano nella città e li uccisero in cattedrale: lo stesso Stefano Pendinelli, che era l’arcivescovo del tempo, insieme con sacerdoti e fedeli che lì si erano rifugiati. Poi, il giorno dopo, sul Colle della Minerva, furono raccolti, questi uomini, e fu chiesto loro di ripudiare la fede; ma no, essi volevano piuttosto mille volte morire che rinnegarla. Ecco: questa è una testimonianza bella. Poi, ci fu la tortura, la decapitazione, eccetera. Ma con grande forza, con fortezza d’animo, con la fede e la fiducia e l’abbandono nelle mani di Dio …

    D. – Come mai le reliquie di questi nuovi Santi sono in tante parti d’Italia, e anche all’estero?

    R. – Perché qui è stato luogo di continui pellegrinaggi: vengono a visitare e a venerare le reliquie dei martiri. Ma già nel 1481, alcune di queste reliquie furono portate a Napoli e poi il cardinale Schuster, a Milano, chiese reliquie per alcune chiese a Milano. Nella chiesa di San Martino c’è una reliquia dei nostri martiri.

    D. – Quando Giovanni Paolo II venne ad Otranto il 5 ottobre 1980, parlando del martirio di questi 800 discepoli di Cristo, disse: “Il martirio è una grande prova. In un certo senso, è la prova definitiva e radicale”. Sono parole, oggi, di un’attualità molto forte …

    R. – Molto! In un contesto di indifferenza religiosa, fece un discorso straordinario, soprattutto ai giovani. Insomma, chiese ai giovani: “Oggi, sareste disposti a ripetere in piena convinzione e consapevolezza le parole dei Beati martiri? Essere disposti a morire per Cristo – commentava – comporta l’impegno di accettare con generosità e coerenza le esigenze della vita cristiana. Ciò significa vivere per Cristo”. Insomma, qui si gioca tutto. C’è una coincidenza bella – riflettevo in questi giorni – che il miracolo accordato da Dio per l’intercessione dei martiri ad una suora – una Clarissa – è avvenuto pochi mesi prima della venuta del Papa: una guarigione inspiegabile scientificamente – con la preghiera delle suore – da un tumore maligno. Giovanni Paolo II, invece, è venuto il 5 ottobre: quasi come un filo della Provvidenza è avvenuto questo segno, e poi lui viene per venerare il martirio, venerare anche i martiri, quasi come una forma di canonizzazione. E’ stato molto, molto bello.

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    Rinuncia e nomina episcopale in India

    ◊   In India, Benedetto XVI ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Udaipur, presentata per raggiunti limti di età da mons. Joseph Pathalil. Al suo posto, il Papa ha nominato mons.r Devprasad John Ganawa, della Congregazione dei Padri Verbiti, trasferendolo dalla diocesi di Jhabua. Lo stesso presule è stato nominato amministratore apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis della Diocesi di Jhabua.

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    Oggi su "L'Osservatore Romano"

    ◊   La memoria dell’umanità: in prima pagina, un editoriale del direttore sul discorso di Benedetto XVI alla Curia romana per gli auguri del Natale.

    Nell’informazione internazionale, la risoluzione dell’Onu che mette al bando le mutilazioni genitali femminili.

    E’ il tempo della fiducia: nell’informazione religiosa, i messaggi di leader cristiani in vista dell’incontro europeo della comunità di Taizé, che riunirà a Roma oltre quarantamila giovani.

    I poveri prima di tutto: nuovo appello dell’episcopato al Congresso degli Stati Uniti.

    Quel segreto che ci rende felici: l’introduzione della badessa del monastero trappista di Vitorchiano, Rosaria Spreafico, al libro “La preghiera di Gesù”, che raccoglie brani tratti dagli interventi che il Papa ha dedicato al tema della preghiera e rivolto in particolare a bambini e ragazzi.

    L’evangelizzazione si fa con la gioia: nell'informazione vaticana, l’ultima predica di Avvento.

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    Oggi in Primo Piano



    Siria, violenze infinite. La Nato parla di regime al collasso

    ◊   In Siria, le violenze hanno raggiunto picchi di crudeltà elevatissimi, come l'inaccettabile utilizzo dei bambini in guerra: sono parole di Carla Del Ponte, ex procuratore generale del Tribunale per la ex Jugoslavia, che aggiunge di aver visto in Siria cose peggiori che nei Balcani. L’Ue ribadisce l’allarme profughi e il Programma alimentare mondiale (Pam) annuncia un programma di distribuzione cibo a 125mila palestinesi e sfollati siriani fuggiti dai recenti scontri nel campo palestinese di Yarmuk alla periferia Sud di Damasco. Il segretario generale della Nato, Rasmussen, confermando nuovi lanci di missili Scud in Siria, parla di “atti di un regime disperato che si avvicina al collasso”. L’Onu raccomanda: l’unico modo di arrestare il conflitto è “con una soluzione politica e non dando armi”. Fausta Speranza ha intervistato il prof. Paolo Quercia, del Centro Militare Studi Strategici:

    R. – Certamente una soluzione politica è possibile, lo è sempre stata e lo può essere anche adesso. Ovviamente presuppone che ci sia un accordo politico tra le potenze esterne, che sostengono le varie parti belligeranti. E’ possibile a patto che ci sia un livello internazionale di accordo sul futuro del post-Assad.

    D. – A proposito di questo, già si sta preparando qualcosa...

    R. - Questo è molto difficile da dire, perché ovviamente nessuno scoprirebbe le proprie carte. Io, ad esempio, ho visto che la visita che Putin ha fatto qualche tempo fa in Turchia è stata, tutto sommato, positiva o ad ampio spettro, e questo vuol dire che probabilmente Ankara e Mosca, che sul fronte siriano erano su posizioni totalmente divergenti, stanno trovando dei punti di incontro anche su questo terreno, altrimenti non sarebbe stata possibile una visita di quel tipo. Quindi, penso che qualcosa stia avvenendo a livello politico, mossa soprattutto da questi due Paesi.

    D. – Intanto, che dire della denuncia di Carla Del Ponte di violenze e di crudeltà inaudite, peggiori di quelle che si sono viste nei Balcani?

    R. – Purtroppo, la guerra è entrata in una fase sempre più vissuta a livello di società civile, anche sempre più settaria, nel senso che oltre ad essere combattuta dalle forze governative e dai combattenti antiregime, si sono create una serie di milizie territoriali di autodifesa - spesso su base religiosa o localistica - che sono al di fuori di ogni possibilità di controllo, che spesso sono responsabili delle vendette, degli atti più barbari, che vengono condotti da ambo le parti. Questo viene evidenziato anche dal Rapporto delle Nazioni Unite.

    D. – L’Onu raccomanda di non far arrivare armi...

    R. – Certamente il flusso di armi da varie parti, in particolare anche dalla Libia, ma anche da altri Paesi della regione, è stato quello che ha portato il conflitto ad un livello militarmente molto significativo, tanto che le stesse forze governative usano l’aviazione e l’artiglieria in maniera massiccia. Questa di "non far arrivare armi" è una soluzione, ovviamente a patto che la rispettino entrambe le parti.

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    Libano, l'impatto della crisi siriana. Parsi: attenzione al radicalismo sunnita

    ◊   La crisi siriana si riflette anche in Libano dove non si allentano le tensioni, soprattutto a Tripoli, tra oppositori e sostenitori di Assad. Intanto il Paese continua ad accogliere il flusso di profughi che arriva da Damasco. Ma qual è la posizione dei cristiani nel contesto politico libanese? Massimiliano Menichetti lo ha chiesto a Vittorio Parsi, docente di relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano:

    R. - Diciamo che i cristiani hanno perso la loro lotta per l’egemonia ai tempi della guerra civile. L’omicidio di Jemaiel segna la fine dell’aspirazione maronita di costruire un Libano egemonizzato con la forza dalla maggioranza relativa o dalla minoranza allora più importante, quella cristiana. Oggi, i cristiani sono sostanzialmente la seconda minoranza del Paese. Vediamo cosa stanno facendo: hanno rinunciato a esercitare il potere in termini di prospettiva di comando e si sono limitati a una posizione di protezione. E infatti, vediamo che i cristiani sono schierati sui due fronti in cui si divide la scenario politico libanese: quello pro-sciita e quello pro-sunnita. E questa è comunque la scelta che implica anche il non poter vincere comunque.

    D. - Come influsice la crisi siriana sul Libano, dato che il Libano è uno dei Paesi che sta ricevendo tra l’altro i profughi ed è uno Stato piccolo ma di grande equilibrio nell’area?

    R. - Molto pesantemente, nel senso che nel Libano si condensano due elementi critici. Da un lato, c’è la progressiva crisi delle aspirazioni egemoniche iraniana sul Levante, che proprio attraverso il nodo siriano trova la prima grande débâcle dopo il successo conseguito in Iraq e quello conseguito in Afghanistan. Questo, in qualche modo, lo vediamo attraverso la difficoltà del movimento politico di Hezbollah che è legato molto più all’Iran che non alla Siria. E dall’altra parte, però, c’è l’altra fase critica che è rappresentata dal radicalismo sunnita. Non dimentichiamo che l’islam più radicale è quello sunnita, non quello sciita, e che in alcune parti per lo meno aspira a poter fare i conti con questa forte presenza sciita - che è cresciuta anche politicamente negli ultimi anni - e di tornare protagonista della vita politica. Questo lo vediamo plasticamente purtroppo rappresentato negli scontri di Tripoli in Libano, dove sciiti e sunniti libanesi hanno portato all’interno del Paese lo scontro siriano.

    D. - Quando si parla di movimenti, di primavere arabe, si parla quasi esclusivamente di processo di democrazia. Quanto conta in realtà la centralità delle risorse minerarie come petrolio e gas in queste aree?

    R. - Hanno una rilevanza importante per due motivi. Da un lato, in termini di attenzione degli attori esterni che continuano ad avere un interesse sul controllo di queste risorse - soprattutto per la parte che riguarda l’area del Golfo. Dall’altra, anche in termini di capacità interne di sostentamento, perché possiamo vedere che i Paesi dell’area che hanno resistito allo shock delle rivoluzioni, le hanno anticipate, le hanno bloccate sul nascere o le hanno represse, sono i Paesi produttori di petrolio o di gas: quelli cioè che avendo risorse importanti per comprare in termini tecnici il consenso della popolazione, sono riusciti a mantenere le schema di funzionamento. Invece, sono saltati in aria quei regimi che non avevano questa situazione. Certo l’eccezione è la Libia, ma va anche detto che quello che è accaduto in questo Paese è anzitutto da attribuire alla una guerra civile tra Tripolitania e Cirenaica.

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    Timori negli Usa per il mancato accordo sul “fiscal cliff”

    ◊   Crescono i timori negli Stati Uniti per il mancato accordo sul fiscal cliff, la combinazione di aumenti delle tasse e di tagli alla spesa pubblica. Il piano dello speaker della Camera, John Boehner, non aveva i voti per essere approvato e la votazione è stata cancellata. A questo punto, slitta tutto a dopo Natale. Nel frattempo è intervenuto Obama, il quale si è detto pronto a lavorare con il Congresso: “Abbiamo fiducia – ha detto – nel fatto che saremo in grado di trovare una soluzione bipartisan rapidamente, che tuteli la classe media e l'economia”. Ma cosa accadrebbe, concretamente, se entro il 30 dicembre non si riuscisse a superare questa impasse? Salvatore Sabatino ha girato la domanda ad Angelo Baglioni, docente di Economia internazionale presso l’Università Cattolica di Milano:

    R. – Tecnicamente, quello che accadrebbe da gennaio in avanti è che scatterebbero una serie di aumenti automatici di tasse e tagli di spesa, per una cifra enorme: circa 600 miliardi di dollari complessivamente, che anche per un’economia grande come quella americana rappresentano, comunque, una fortissima correzione fiscale e che quindi, naturalmente, potrebbe portare il Paese in recessione o comunque determinare un forte impatto negativo sulla crescita abbastanza debole per gli standard americani in corso. Tranne poi, naturalmente, successive manovre di aggiustamento dopo la fine di quest’anno.

    D. – Certamente, Obama già alla sua rielezione sapeva che i primi problemi da affrontare sarebbero stati quelli economici, che erano stati messi un po’ da parte durante la campagna elettorale. E ora, quali sono le mosse che ci possiamo attendere dalla Casa Bianca?

    R. – Io credo che Obama farà di tutto, comunque, per raggiungere un accordo. Del resto, una situazione di questo tipo si era già verificata un anno e mezzo fa e, seppure all’ultimissimo minuto, un accordo si era trovato. E’ chiaro che il margine di contrattazione è stretto e riguarda, come sempre, la tassazione sul ceto medio, sulla quale c’è una certa resistenza ad aumentare la pressione fiscale. D’altra parte, invece, ci sono i programmi di assistenza sanitaria e di welfare, che i repubblicani vorrebbero ridurre mentre i democratici, naturalmente, vorrebbero difenderli.

    D. – Preoccupazione è stata espressa dalla Cina che, avendo acquistato gran parte del debito americano, sarebbe travolta dall’onda di piena della crisi americana. Un attore importante, Pechino, in questa vicenda …

    R. – Sì, la Cina naturalmente è molto esposta verso il debito americano. C’è da dire che, anche sulla base dell’esperienza di un anno e mezzo fa – quando ci fu un downgrading del debito americano da parte di un’agenzia di rating – questo non ebbe tuttavia un grosso impatto sul mercato, nel senso che il fiscal cliff è un problema molto tecnico legato ad una particolare clausola della legislazione americana che impone periodicamente al Congresso di trovare un accordo per poter aumentare la quantità di debito che viene emesso. E’ un tipo di regola che, per esempio, non c’è in molti Paesi europei. E’ un fatto tecnico che non incide necessariamente sulla solvibilità del Paese e quindi naturalmente ci sarà, se non si trovasse un accordo, una forte turbolenza sul mercato dei titoli americani, che però potrebbe anche essere riassorbita in tempi abbastanza rapidi.

    D. – Anche l’Europa guarda con preoccupazione agli Stati Uniti: i mercati sono in calo. Il fiscal cliff avrebbe ricadute concrete, secondo lei, sul Vecchio Continente?

    R. – E’ chiaro che nell’ipotesi peggiore – che, ripeto, non è detto si verifichi – cioè che si vada a una mancanza di accordo e di conseguenza a questi tagli automatici di spesa e aumenti di tasse, e ciò avesse un forte impatto negativo sulla congiuntura, sul ciclo americano, tramite il commercio internazionale, questo avrebbe ovviamente un effetto negativo anche sull’economia europea. La nostra capacità di esportare beni nell’area geografica statunitense sarebbe seriamente compromessa, se l’economia americana dovesse avere una battuta d’arresto, questo è chiaro.

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    Crisi nella Repubblica Centroafricana: al centro degli interessi le risorse minerarie

    ◊   Si tenta la via del dialogo nella crisi nella Repubblica Centroafricana. I ribelli, che minacciano di rovesciare il regime di Bangui e hanno conquistato numerose città nel nord del Paese, hanno sospeso i combattimenti proponendo al governo di intavolare un negoziato. Sono giunti, intanto, gli aiuti militari del Ciad per sostenere il presidente François Bozizé, che prese il potere con le armi nel 2003. Ma quali sono gli interessi in gioco che hanno scatenato il conflitto? Cecilia Seppia ne ha parlato con padre Giulio Albanese, direttore della rivista Popoli e Missione ed esperto di questioni africane:

    R. – Indubbiamente, il presidente François Bozizé è davvero in grande difficoltà. Forse questa è la crisi peggiore, a livello istituzionale, dal 2003, quando il suo predecessore Patassé fu costretto a fare le valigie.

    D. – Parliamo di un conflitto che si è inasprito in questi ultimi giorni. Ma che cosa c’è dietro? Qual è la connotazione principale di questo conflitto?

    R. – E’ in atto una vera e propria divisione all’interno del Paese. Apparentemente si tratta di contrapposizioni che hanno una valenza esplicitamente politica, legate alla gestione del potere. Ma non dimentichiamo che dietro alle quinte ci sono interessi, soprattutto legati alle immense risorse minerarie di questo Paese. Recentemente infatti, sono stati rilevati giacimenti non solo di diamanti, ma vi sono anche risorse energetiche come idrocarburi, e questo soprattutto nel versante settentrionale del Paese al confine sia con il Ciad sia con il Sudan. Poi, addirittura, si parla – ma queste sono voci – di giacimenti di uranio!

    D. - Non dimentichiamo che in questa zona ci sono anche dei forti interessi internazionali …

    R. – La Repubblica Centroafricana, in questo momento, è un po’ la cartina di tornasole delle contrapposizioni tra le grandi potenze. Non dimentichiamo che questa nazione tradizionalmente appartiene alla francofonia, non foss’altro perché è un’ex-colonia francese. Dall’altro lato, c’è da considerare che i Brics, in particolare Cina e Sudafrica, hanno interessi da quelle parti e questo significa che da una parte vi sono tensioni locali e c’è rischio che davvero scoppi una guerra civile, ora che si profila un intervento da parte dell’esercito ciadiano. Dall’altra, c’è da considerare che purtroppo, come al solito, la vita dei popoli dell’Africa – e direi che in questo senso il Centroafrica è davvero una metafora, un paradigma – è fortemente condizionata da interessi stranieri.

    D. – Tra l’altro, sono in programma questi “colloqui” per cercare una mediazione tra i ribelli e l’esercito, appoggiato dal Ciad che fa un po' la parte del leone…

    R. – Sì: certamente, l’Unione Africana è quella che in questo momento è più preoccupata. I francesi sembrano apparentemente defilarsi, anche perché la Francia già in passato ha avuto problemi nel gestire la questione centroafricana. Una cosa è certa: molto dipenderà dalla moderazione dei governi della regione e dei Paesi limitrofi, io direi in primis del governo ciadiano, quello del presidente Idriss Déby, non foss’altro perché in questo momento è lui che sta difendendo Bozizé, ovvero il governo centroafricano attualmente al potere. I ribelli, comunque, se sono riusciti a scatenare questa offensiva è perché hanno i loro paladini dietro le quinte, e quindi hanno ricevuto armi e munizioni. E questo la dice lunga sul fatto che ancora una volta una crisi come questa rischia di destabilizzare fortemente il cuore nevralgico delle Afriche.

    D. – Tu hai parlato di rischio di guerra civile: si parla però prima ancora anche di rischio di colpo di Stato …

    R. – Sì: si parla certamente di un possibile ribaltone, e questo non è una novità perché già nel 2003 Patassé fu costretto a fare le valigie proprio per l’intervento di Bozizé. Però, c’è anche da considerare una cosa: che in Centroafrica, purtroppo, da parte della popolazione locale, rispetto a certe vicende, vi è sempre stata una notevole passività e molte volte, a decidere le sorti del Paese è stato l’esercito, sono stati i gruppi armati. D’altronde, questo è un po’ un comune denominatore dell’Africa subsahariana. E direi che uno dei punti deboli del Centroafrica è proprio la debolezza strutturale della società civile.

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    Le Nazioni Unite mettono al bando le mutilazioni genitali femminili in tutto il mondo

    ◊   Le Nazioni Unite hanno messo al bando le mutilazioni genitali femminili. Un’approvazione per consenso, quella giunta dall’Assemblea generale dell’Onu, che esorta gli Stati ad abolire la pratica, chiedendo loro di promuovere programmi ad hoc nel settore sociale ed educativo per favorirne l'abbandono. Il servizio è di Salvatore Sabatino:

    Sono tra i 130 ed i 140 milioni le donne nel mondo sottoposte alle mutilazioni genitali. Infibulazione, escissione, circoncisione: pratiche non terapeutiche e non legate alle religioni, ma piuttosto a tradizioni diffuse, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in almeno 28 Paesi, concentrati nell’Africa subsahariana – ma vengono segnalati casi anche in Medio Oriente ed in Asia. Tre milioni le donne a rischio ogni anno, soprattutto bambine, ma a seconda dei Paesi le pratiche avvengono in età differenti: nel sud della Nigeria si interviene sulle neonate, in Somalia sulle bambine, in Uganda sulle adolescenti. In tutti i casi, però, senza distinzione, le mutilazioni ledono gravemente la salute delle donne, con conseguenze gravissime sul piano psico-fisico, sia immediate – rischio di a volte mortali – sia a lungo termine – difficoltà nei rapporti sessuali, rischio di morte nel parto sia per la madre sia per il nascituro. Un vero flagello, insomma, al centro di una battaglia portata avanti da numerosi movimenti, associazioni, scienziati. Battaglia durata anni e che ieri ha incassato una vittoria enorme. Vittoria che ha un sapore ancora più forte, se si considera che il testo della risoluzione è stato presentato al Palazzo di vetro dai Paesi africani, sostenuti dall’Italia. L'Assemblea generale dell'Onu esorta gli Stati membri ad abolire la pratica e chiede loro di promuovere programmi ad hoc nel settore sociale ed educativo per favorirne l'abbandono. L'approvazione del testo, senza discussione nè emendamenti, testimonia l'ampio accordo politico alla base del dispositivo, il primo dedicato specificamente al tema.

    Di "giornata storica" hanno parlato tutti i sostenitori dell’abolizione delle pratiche di mutilazione. Tra loro, anche Omar Abdulkadir, ginecologo somalo, direttore del Centro per la prevenzione e cura delle mutilazioni genitali femminili dell’ospedale Careggi di Firenze, da anni in prima linea nella cura delle donne mutilate. Salvatore Sabatino lo ha intervistato:

    R. – Io credo sia una vittoria per tutte le bambine, per tutte le donne del mondo, laddove sono praticate mutilazioni genitali femminili, e una vittoria per i diritti umani. Questa è la cosa più importante. La cosa, però, non è ancora finita: noi stiamo curando le donne che hanno ancora complicazioni dovute a questa pratica e ci vorranno anni e anni di cure. E’ una realtà che dura da seimila anni e non si può pensare che in un solo attimo finisca tutto: ci vorranno ancora generazioni e generazioni, affinché nessun’altra bambina venga ancora toccata nel mondo.

    D. – Le mutilazioni genitali femminili, attraverso i flussi migratori, si sono diffuse e in Occidente e anche in Italia: tutto questo nella clandestinità e questo rende ancora più pericolose queste pratiche…

    R. – Questo è vero, perché è più insidioso e non si può controllare. Ci sono ancora persone fortemente radicate alla cultura e sono quelle ancora attaccate alla terra e ai vincoli della tradizione e della famiglia. Si cerca di combatterle e non solo a livello legale, ma anche cercando di educare, formare e facendo soprattutto una grande prevenzione.

    D. – Cosa rischia una donna dal punto di vista clinico?

    R. – Oggi come oggi, i medici – soprattutto in Italia – avendo fatto tantissimi corsi di formazione riescono ad affrontare tutti i problemi legati alle complicanze delle mutilazioni genitali femminili. Alcune volte ci sfugge, ma il rischio è soltanto quello di ricorre ad un cesareo non programmo e dovuto alle mutilazioni genitali femminili.

    D. – C’è il rischio, poi, anche d’infezioni?

    R. – Sì, il rischio di infezioni e molte volte diventano anche croniche e possono arrivare al grado superiore e determinare, oltre l’infezione, anche una sterilità di coppia futura.

    D. – E’ bene specificare che alla base delle mutilazioni genitali femminili non ci sono motivi religiosi, ma semplicemente tradizioni che vengono tramandate ormai da millenni…

    R. – Questo è vero. Se finora è stato mascherato sotto la religione islamica, perché i Paesi che le praticano di più sono di religione musulmani, oggi sceicchi e cultori delle religione islamica le stanno mettendo al bando, cercando di far capire alle persone che in questo non c’entra assolutamente nulla la religione. Le mutilazioni genitali femminile vengono praticate in tutto il mondo, a qualunque religione si appartenga.

    D. – Lei è somalo e la Somalia è un Paese in cui sono molto diffuse queste pratiche. Com’è diventano paladino di coloro che combattano le mutilazioni genitali femminili?

    R. – Avendo avuto tante sorelle che sono state mutilate davanti a me, così come tante cugine, vedendo la sofferenza di queste bambine e volendo fare da sempre il medico, sono stato sempre contrario a questo. Da lì è iniziata la mia battaglia, anche se la battaglia vera è iniziata quando sono arrivato in Italia: ancora studente, ho visto delle donne somale venire dove studiavo con una grande sofferenza e vedere i miei colleghi non riuscire a capire nulla di questa faccenda. Ho cominciato così subito a dare una mano: ho cominciato aiutando una sola donna e poi, da lì, è iniziata la mia battaglia, che dura ancora oggi.

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    Dall'Onu il "no" alla pena di morte: la soddisfazione del ministro Terzi

    ◊   Un record nella storia della lotta alla pena di morte: è stato raggiunto ieri, al Palazzo di vetro di New York, dove l'Assemblea generale dell'Onu ha approvato la risoluzione per il blocco delle esecuzioni: 111 i voti a favore, due in più rispetto al 2010, 34 gli astenuti, 41 i contrari, tra i quali Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Corea del Nord, Iran e Arabia Saudita. Attualmente, sono 58 tra Paesi e territori ad avere ancora in vigore la pena capitale. Quella di ieri è stata definita dal ministro degli Esteri, Giulio Terzi, "una giornata storica per l'affermazione dei valori universali della civiltà". Ascoltiamolo, intervistato da Francesca Sabatinelli:

    R. – E’ una grande soddisfazione da parte della Farnesina e del governo italiano. Mi consenta di ricordare anche l’azione da diplomatico da me svolta per molti anni. Nel 1993, partecipai personalmente in Assemblea generale, in terza commissione, agli esordi di questo grandissimo impegno, con l’obiettivo di una moratoria che, per molti anni, rimase lento, debole, non interamente convinto anche sul piano europeo. Da alcuni anni, siamo riusciti a ottenere queste risoluzioni che periodicamente confermano un crescendo di impegno della comunità internazionale nel rimuovere, dagli ordinamenti degli Stati, questa terribile realtà che è la pena capitale. Quest’anno, il risultato è molto buono: vediamo come oramai ci sia una schiera amplissima di Paesi contrari alla pena di morte, con voti contrari di un nucleo di un quinto – praticamente – dell’Assemblea generale. Ma ci sono progressi significativi anche sui contenuti, perché in questa risoluzione per la prima volta si prevede il divieto di imporre questa pena ai minori e alle donne in gravidanza. Una condizione, questa, che accende i riflettori su questa piaga di una pena che nei Paesi non abolizionisti ancora viene praticata su categorie deboli, deboli anche dal punto dell’affermazione delle loro ragioni, anche in giudizio. Sono due impegni che ha sostenuto in particolare il nostro Paese. Quindi, siamo lieti di essere riusciti, insieme ad altri Paesi, a farli inserire nel testo della risoluzione. Vorrei anche sottolineare il grande impegno della società civile, delle associazioni, delle organizzazioni non governative, che hanno cooperato strettamente con il Ministero degli Affari Esteri per ottenere questo risultato.

    D. – Il voto dell’Assemblea generale sappiamo che non è vincolante, però esprime la volontà della comunità internazionale di andare verso la direzione di una moratoria. Quindi, il 2012 si chiude positivamente. Eppure, in questo stesso anno abbiamo visto in alcuni Paesi – l’India, per esempio – un ritorno all’utilizzo della pena di morte. Questo, in qualche modo, dà anche un segnale contrario?

    R. – Dà segnali contrari che però sono ampiamente assorbiti da quella che, come dicevo, è una realtà crescente di Stati e di opinioni pubbliche che vedono questa pratica come qualcosa di orribile e di avulso dalla coscienza delle persone. E’ chiaro che è un lavoro che bisogna fare dal basso, anche, ed è per questo che il coinvolgimento della società civile, del volontariato, delle organizzazioni impegnate nella lotta per affermare i diritti umani, è di fondamentale rilevanza, oltre che – naturalmente – l’azione diplomatica.

    D. – E l’Italia continuerà la sua …

    R. – Continueremo, perché questo è un obiettivo di valenza strategica: rientra nel grande capitolo della tutela dei diritti dell’uomo e delle nostre radicate convinzioni per la tutela delle libertà fondamentali dell’individuo.

    Questo voto conferma il crecente sostegno globale verso l'obiettivo abolizionista: è quanto dichiarato da Amnesty International, da sempre in prima linea nella battaglia contro la pena di morte. Al microfono di Francesca Sabatinelli, il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury:

    R. – E’ veramente importante, perché si ribadisce, per la quarta volta dal 2007, che la pena di morte è una questione di diritti umani ed è una questione su cui ci si interroga a livello internazionale da parte del massimo organo rappresentativo degli Stati. E’ molto confortante il fatto che via via, nel corso delle quattro votazioni su altrettante risoluzioni, il numero dei Paesi a favore sia sempre, costantemente, salito e si avvicini quasi a coincidere con il totale effettivo dei Paesi – oggi circa 140 – che non ricorrono più alla pena di morte, perché l’hanno abolita o per prassi abolizionista. E' un segnale importante per un 2013 in cui continueremo ad avere buone notizie dal fronte della pena di morte, ne sono sicuro.

    D. – Ci sono dei Paesi che sono passati sul fronte di chi ha votato a favore: il Ciad, la Repubblica Centroafricana, le Seychelles, la Sierra Leone. Stati dai quali forse non ci si aspettava una posizione così...

    R. – Sì, soprattutto se consideriamo che vengono quasi da un solo continente: dall’Africa, e in particolare dell’Africa subsahariana. Va segnalata anche la Tunisia – la nuova Tunisia – che ha votato a favore per la prima volta. Insomma, è la conferma che complessivamente il continente africano è quello che si sta muovendo di più sul tema dell’abolizione della pena di morte, e conferma anche che la preoccupazione per la pena capitale non è una preoccupazione occidentale o eurocentrica, perché i più grossi risultati dal punto di vista dell’abolizione della pena capitale in quest’ultimo decennio sono arrivati proprio dai Paesi africani.

    D. – Ci sono Paesi come il Bahrein, l’Oman – che hanno votato contro, anziché astenersi come in precedenza – e Paesi come Maldive, Namibia, Sri Lanka, che si sono astenuti anziché confermare il voto a favore. Che cosa è accaduto in questi Paesi per far cambiare la scelta in questo modo?

    R. – E’ difficile dare una soluzione che riguardi tutti i Paesi. Per quanto riguarda le Maldive c’è stato un colpo di Stato, quindi la situazione nel corso dell’anno è cambiata. Llo Sri Lanka sta vivendo proprio in queste settimane una ripresa di repressione e anche di agitazione sociale molto forte, da parte degli studenti. Il Bahrein, con questo voto “contro”, conferma una involuzione di tipo repressivo all’interno di questo Paese. Gli altri, poi, avranno ragioni che possono derivare da situazioni legate magari ad un aumento della criminalità, che si pretende di contrastare in modo assolutamente inefficace, peraltro, con la pena di morte. Ci sono stati casi di Paesi di tradizione abolizionista abbastanza forte che però l’hanno interrotta: penso all’India, al Pakistan, in Giappone si è interrotta una mini-moratoria di un anno. Questo voto, quindi, giunge in un momento opportuno per ribadire, nonostante un anno non buono per quanto riguarda la pena di morte, che la comunità internazionale è indirizzata, senza indugio e senza indecisioni, verso il traguardo dell’abolizione.

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    Stop alle pene alternative. La Caritas: per la politica non è una priorità

    ◊   E’ tornato in Commissione il disegno di legge sulle misure alternative al carcere. La richiesta è stata avanzata da Lega, Coesione Nazionale, Idv e il neo gruppo "Fratelli d’Italia-centrodestra Nazionale". Nei fatti, sarà impossibile che il provvedimento sia approvato in questa legislatura. Per il ministro della Giustizia, Paola Severino, è mancata la volontà politica. Il servizio di Alessandro Guarasci:

    Fin dalla mattinata, si era capito che il ddl sulle misure alternative sarebbe finito su un binario morto. D’altronde, la Lega aveva annunciato che avrebbe fatto di tutto per bloccare il provvedimento. Il presidente del Senato, Renato Schifani, ha quindi preferito rimandare il ddl in Commissione per evitare uno scontro. Favorevoli all’approvazione Pd e Udc, mentre il Pdl si è associato alla richiesta del rinvio. Il ddl prevede che possa essere mandato agli arresti domiciliari chi ha commesso un reato punibile con la reclusione non superiore nel massimo a quattro anni. Altro strumento inserito nel testo è la messa alla prova. Nelle carceri italiane, vi sono 66 mila detenuti per un capienza di 45 mila posti. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha detto che l'ok sarebbe stata una pagina bellissima. “Vado via con amarezza”, ha precisato il Guardasigilli. Amarezza espressa anche da Francesco Marsico, vicedirettore della Caritas:

    R. – E' un’ennesima prova che questa non viene considerata un’urgenza per il Paese. E’, quindi, sicuramente una conferma piuttosto che un atto grave. Una conferma drammatica di come un problema grave in termini di quantitativi, e di sofferenze che produce sul piano sociale e del mancato reintegro delle persone che hanno commesso reati, non sia appunto una priorità del Paese. Sicuramente, deve essere una priorità che dovrà affrontare il prossimo governo.

    D. – Con le pene alternative, è più facile il reintegro della persona nella società?

    R. – Assolutamente sì. Le pene alternative sono il modo per ragionare fin da subito su come persone che hanno commesso reati possano essere collegate, connesse, incluse dentro la società, nei confronti della quale hanno espresso atti di violenza e di rifiuto e hanno subito anche atti di abbandono. Riconciliare la società e le persone che hanno commesso reati è la prima forma di una pena intelligente, da una parte, e dall’altra una costruzione di percorsi, come prevede la Costituzione, di ricostruzione della persona.

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    “Emergenza Nigeria: a Natale tieni accesa la speranza”: la campagna di Acs

    ◊   Essere accanto ai cristiani della Nigeria, in vista del Natale. E’ con questo intento che la Fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” lancia la campagna natalizia di raccolta fondi in favore della Chiesa del Paese africano, flagellato da numerosi attentati del gruppo fondamentalista islamico di Boko Aram. Solo nell’ultimo anno sono morte circa 400 persone. “Emergenza Nigeria: a Natale tieni accesa la speranza” è il nome dell’iniziativa e per informazioni sulle donazioni si può visitare il sito www.acs-italia.org. Debora Donnini ha intervistato Marta Petrosillo, portavoce di Aiuto alla Chiesa che Soffre:

    R. - Questo non sarà sicuramente un Natale semplice per i cristiani nigeriani, perché vengono da un anno in cui gli attentati sono divenuti quasi una tragica ricorrenza settimanale. E poi, soprattutto, vengono da due tragici Natali: il 24 dicembre del 2010 ci sono stati degli attentati sia a Maiduguru che a Jos, mentre l’anno scorso diversi attentati sono avvenuti durante il giorno di Natale. Noi di "Aiuto alla Chiesa che soffre" abbiamo voluto allora essere vicini ai cristiani nigeriani. Quello che proponiamo è un sostegno aperto: non abbiamo voluto promuovere un progetto specifico, perché vogliamo sostenere diversi tipi di progetti: dalla formazione dei sacerdoti al sostegno di borse di studio, alla costruzione e restauro di nuove chiese, al sostegno di piccoli media cattolici…

    D. - Andare a Messa per i cristiani nigeriani è spesso un pericolo, visti gli attentati che si sono susseguiti. C’è qualche testimonianza in particolare che vuole raccontare?

    R. - Le testimonianze ricevute sono veramente tantissime. Poco tempo fa, parlavo con un sacerdote, don Valentine, che ci ha raccontato di una signora di Abuja che gli ha detto: “Ogni volta che vado in chiesa, mi chiedo se ritornerò a casa, ma devo continuare ad andare, perché noi cristiani, succeda quel che succeda, dobbiamo continuare ad andare in Chiesa”. Questa è una testimonianza che riflette il coraggio dei fedeli. Ultimamente, le chiese hanno cercato di prendere molte misure di sicurezza. Alcune hanno installato metal detector, altre hanno guardie di sicurezza che perquisiscono le persone quando entrano in chiesa. Nonostante ciò, il clima non è assolutamente tranquillo durante le funzioni.

    D. - I vescovi hanno varie volte lanciato un appello al perdono…

    R. - I vescovi hanno più volte invitato i fedeli a non cercare la vendetta in alcun modo. Hanno soprattutto sottolineato che non parliamo di un problema di relazioni tra cristiani e musulmani, ma parliamo solamente di una piccola parte. Arrivano tantissimi attestati di solidarietà dalla comunità musulmana. La setta Boko Haram non identifica ovviamente la totalità della comunità islamica.

    D. - La situazione è particolarmente difficile nei 12 Stati del Nord della Nigeria, come ad esempio nello Stato di Kaduna, dove la sharia è fonte del diritto.

    R. - Sì, infatti la maggior parte degli attentati avvengono nel Nord. Al di là degli attentati, c’è proprio una forte discriminazione, perché questi 12 Stati hanno adottato la sharia anche come fonte del diritto penale. Questo implica la presenza di questi reati "contro la volontà divina". Teoricamente la sharia, la legge coranica, non dovrebbe essere valida anche per i non musulmani. D fatto, come sappiamo, questo non accade, e non solo in Nigeria. Molto spesso vengono inflitte le pene anche ai non musulmani: pene che includono flagellazioni, mutilazioni... Vengono considerate ad esempio le infrazioni al codice con l'abbigliamento: ci sono stati diversi casi di donne cristiane che sono state incolpate di questi reati. E poi accuse di blasfemia e soprattutto discriminazioni di vario tipo: dalla difficoltà per i permessi per costruire le chiese, a quella per potersi assicurare un piccolo spazio sui media statali che molto spesso prendono di mira il cristianesimo, parliamo sempre degli Stati del Nord della Nigeria.

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    Proposta inglese per togliere dalla "Promessa scout" la parola "Dio". Intervista con padre Salucci

    ◊   Dal giuramento Scout potrebbe sparire la parola “Dio”. La proposta arriva dall’Inghilterra, patria del fondatore dell’associazione Robert Baden-Powell, dove i due terzi dei giovani dicono di non avere alcun credo religioso. Dopo le accuse di discriminazione religiosa, le associazioni scout inglesi aprono così ad una variante della promessa. L’idea è partita da un episodio di qualche anno fa che ha visto un bambino inglese di 11 anni rifiutarsi di pronunciare il giuramento a Dio perché cresciuto in una famiglia non credente. Alessandro Filippelli ha intervistato padre Alessandro Salucci, assistente ecclesiastico generale dell’Agesci:

    R. - Il fondatore, il generale Baden Powell, inglese, figlio tra l’altro di un uomo molto religioso, voleva che ci fosse sempre il riferimento a Dio. Per lui è fondamentale questa dimensione di Dio perché altrimenti si pone in essere un sistema educativo, che non si sa a quali valori educhi. Per lui è essenziale che il metodo educativo educhi a dei valori ben precisi. Quindi togliere come premessa al sistema educativo scout la parola “Dio” è porre in essere qualcosa di diverso da quello che oggi intendiamo e dal significato che attribuiamo allo scautismo.

    D. - Cosa pensa delle accuse di discriminazione religiosa nello scautismo che ci sono state in Inghilterra?

    R. - Io credo che oggi sarebbe discriminante togliere la parola “Dio”. Discriminante nel senso che il movimento che ha estensione mondiale, con un numero di iscritti impressionante, i quali hanno creduto che i valori che hanno promesso di realizzare tramite questo bellissimo decalogo, che è la legge scout – ecco perché la promessa è qualcosa su cui si cresce – non è discriminante affatto, anzi diventa centrale perché dà un’identità. La discriminazione accade quando l’identità viene offesa. Quando diamo identità a qualcosa non discriminiamo nessuno, anzi permettiamo la piena realizzazione.

    D. - Dio e valori etici: un binomio che potrebbe venir meno con la cancellazione della parola “Dio”…

    R. - Potrebbe sicuramente venir meno, perché toglieremmo un fondamento all’etica; quindi dallo schema scout ci risulterebbe difficile pensare un’etica senza Dio. L’alternativa è che non si parli più di scautismo, ma che si utilizzi soltanto quella pedagogia che Baden Powell ha messo in atto rispetto alla natura: la valorizzazione del singolo, l’educazione comunitaria, l’educazione alla libertà. Un’annacquatissima dimensione etica che può cambiare; l’alternativa è solo questa, avere qualcosa che non è più scautismo.

    D. - In merito a questa proposta di togliere la parola “Dio” che arriva dall’Inghilterra, cosa pensa di fare l’Agesci?

    R. - Oggi il movimento scout è federato a livello mondiale. Quindi, indubbiamente c’è un’organizzazione mondiale - un comitato - che poi dovrà mettere la parola definitiva sul termine. Precisiamo che in Inghilterra si sta parlando di proposte; è una riflessione che inizia, ed è figlia dei tempi che stiamo vivendo. Certo noi, da parte nostra, partecipando tra l’altro come scautismo cattolico italiano, abbiamo anche una posizione di un certo prestigio, di peso. Noi stiamo già facendo i nostri passi per presentare le nostre proposte alternative, soprattutto per tenere presente che questo è nel dna dello scautismo per come lo ha fondato Baden Powell. Quindi togliere la parola “Dio” dalla promessa vuol dire annullare, azzerare completamente l’ispirazione del fondatore.

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    Nella Chiesa e nel mondo



    Pakistan: crescono le violenze contro le minoranze religiose

    ◊   Nove luoghi di culto sono stato danneggiati, distrutti o saccheggiati in Pakistan nell’anno 2012. Nella lista ci sono cinque chiese e tre templi indù e una moschea della setta islamica degli Ahmadi, ovvero spazi sacri delle minoranze religiose: questo indica una preoccupante tendenza alla violenza contro le minoranze religiose nel Paese. E’ quanto afferma la Commissione “Giustizia e Pace” della Conferenza Episcopale del Pakistan in una nota inviata all’Agenzia Fides, riferendo che 27 luoghi di culto delle minoranze religiose sono stati oggetto di atti vandalici negli ultimi quattro anni. La Commissione segnala anche altri casi di occupazione forzata di terreni destinati a luoghi di culto o spazi esistenti, così come omicidi di quanti sono impegnati nella costruzione di luoghi di culto. Nel 2012 tre chiese nel Sindh, una a Mardan e una a Faisalabad (in Punjab) sono state attaccate, i templi indù sono stati distrutti a Karachi e Peshawar, mentre una moschea degli Ahmadi è stata demolita a Kharian, in Punjab. Gli autori di tali atti sono tutti “uomini non identificati”, fatta eccezione per il luogo di culto Ahmadi, demolito dalla polizia del Punjab. Le radici di tali atti affondano in “un mix di mancanza di buon governo, connivenza e paura” da parte dello Stato. Infatti, sebbene la Costituzione del paese difenda le minoranze e garantisca pari diritti, l'azione penale è spesso debole quando i luoghi di culto delle minoranze vengono attaccati. Secondo gli avvocati, nonostante chiare disposizioni in materia di procedura penale, vi è scarsa applicazione della legge e la mancanza di volontà politica per tutelare i diritti delle minoranze: questo atteggiamento genera l’impunità. Secondo Peter Jacob, direttore della Commissione “Giustizia e Pace”, gli attacchi contro le minoranze potranno fermarsi solo qualora il Pakistan adottasse una specifica legge sulla “violenza contro le minoranze”, come quella esistente per la tutela delle donne. “E’ l'unica strada percorribile” afferma Jacob.

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    Sudan. Europarlamento: ruolo Chiesa fondamentale per soluzione del conflitto

    ◊   Il vicepresidente del parlamento europeo, Gianni Pittella, a conclusione della sua visita di questa settimana in Sudan ha incontrato il nunzio apostolico a Khartoum, mons. Leo Boccardi. Al centro dell’incontro – secondo l’agenzia Sir – la discussione sulla situazione dei cristiani nel Paese e il dialogo interreligioso. Sottolineato anche il ruolo importante svolto dalla Chiesa, che da tantissimi anni opera in Sudan con eccellenti strutture dedicate all’istruzione dei ragazzi sudanesi, come espressione delle diverse fedi religiose presenti sul territorio ed esempio di dialogo interreligioso. La visita è stata anche l’occasione per discutere della generale situazione socioeconomica del Sudan e Sud Sudan e della gestione della crisi umanitaria che caratterizza alcune regioni del Paese. Il vicepresidente dell’Europarlamento e il nunzio apostolico hanno convenuto sul fatto che i due governi sono “obbligati a trovare una soluzione pacifica che metta fine ai conflitti in corso nelle aree di confine se davvero vogliono puntare a uno sviluppo sostenibile, che permetta a entrambi di dedicarsi alla stabilizzazione delle proprie economie e alla soluzione della complicata situazione umanitaria”. (C.S.)

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    Mali: l'Onu pronto per intervento militare nel Nord

    ◊   Aprire un “negoziato credibile” con i ribelli del nord e organizzare elezioni politiche prima di aprile. E’ l’invito contenuto nella Risoluzione 2085 con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – secondo quanto riporta l'agenzia Misna – ha approvato il dispiegamento di una forza internazionale in Mali per il periodo iniziale di un anno. Pur non fissando un calendario esatto per l’avvio dell’azione militare, il documento redatto dalla Francia e sostenuto da Usa, Gran Bretagna e Marocco è la conferma della volontà internazionale di intervenire militarmente nel caso non si trovassero soluzioni al conflitto attuale. Come riportato dall’agenzia Misna, il Consiglio di Sicurezza si è rivolto alle autorità di transizione di Bamako con un invito ad aprire il dialogo con le forze ribelli lontane da Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e dal Movimento per l’unità e il Jihad in Africa occidentale, per tentare di ristabilire l’ordine costituzionale e organizzare entro aprile 2013 le elezioni presidenziali e legislative. L’intervento, che avrà come obiettivo il respingimento dei movimenti ribelli che da alcuni mesi controllano la regione settentrionale del Paese, non potrà cominciare prima dell’autunno del prossimo anno a causa della necessità di ricostruire e addestrare l’esercito della missione, denominata “Missione internazionale di sostegno al Mali” . (L.P.)

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    Haiti: a tre anni dal terremoto ancora 360 mila nei campi profughi

    ◊   “La maggioranza delle Ong che offrivano aiuto nei campi sono state obbligate ad abbandonare il Paese per mancanza di fondi”, mentre “la mancanza di case e la disoccupazione rendono necessaria un’assistenza continua per mettere fine all’emergenza dei senzatetto”. E’ questa l’immagine di Haiti fornita dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), a quasi tre anni dalla violenta scossa di terremoto che provocò la morte di oltre 230 mila persone e oltre un milione di senzatetto. Nel Rapporto presentato oggi a Ginevra, l’Oim elenca una serie di dati sulla situazione attuale del Paese: più di 360 mila persone vivono nei 496 campi profughi dislocati sul territorio e quasi il 90% di queste non ha una dimora dove vivere perché non può permettersi di pagare un affitto. La maggior parte dei residenti nei campi è disoccupata (58%) e molte delle case sono abitate da famiglie monoparentali in difficoltà economica (57%). Il governo di Haiti nel 2011 era partito con un piano per favorire l’uscita dai campi profughi e finora più di 158 mila famiglie (circa 630 mila persone), sono riuscite a trovare un’altra abitazione, mentre 90mila nuclei familiari (circa 400mila persone) stanno ancora aspettando gli aiuti per abbandonare i campi. Al termine della presentazione, l’Oim ha evidenziato la necessità che la comunità internazionale e i donatori non abbandonino Haiti perché in questo momento ci sono ancora numerose famiglie che hanno bisogno di sostegno. (L.P.)

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    Alluvioni in Sri Lanka: 25 morti, mezzo milione le persone isolate

    ◊   Si aggrava la situazione delle popolazioni colpite dalle forti piogge in Sri Lanka. L’allerta è ora attiva in 14 dei 25 distretti del Paese: i morti accertati sono 25 e i dispersi 36. Causa primaria dei decessi sono le violenti frane che hanno anche reso inaccessibili alcune località e isolato in casa quasi mezzo milione di abitanti. Secondo il Disaster Management Center (Dmc), sono oltre 265 mila le persone rimaste senza abitazione e meno di 19 mila tra queste sono state accolte nei 102 campi di accoglienza allestiti nelle regioni colpite. Come riportato dall’agenzia Fides, la preoccupazione è causata anche dalla situazione in cui versano le piantagioni di thè, di cui lo Sri Lanka è noto esportatore a livello mondiale. Era dai primi mesi del 2011 che lo Sri Lanka non assisteva a piogge di questa portata: in quell’occasione i morti furono 64 e gli sfollati un milione. (L.P.)

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    Frontiera Cile-Perù finalmente libera dalle mine anti-uomo

    ◊   I governi sudamericani di Santiago e Lima hanno concluso le operazioni di ritiro e distruzione delle circa 12 mila mine antipersona e 10.900 anticarro poste lungo la frontiera dai militari cileni negli anni Settanta del secolo scorso, in un periodo di forti tensioni bilaterali. A febbraio, uno smottamento provocato dalle piogge del cosiddetto inverno altipianico aveva spostato alcune mine, costringendo le autorità a chiudere temporaneamente i collegamenti stradali tra i due Paesi. Le procedure sono state lunghe e complicate da dissidi e controversie. In un primo momento, spiega l'agenzia Misna, le operazioni sono state affidate ai militari cileni che, secondo il Perù, avrebbero oltrepassato il confine suscitando le formali proteste di Lima. In seguito, il Perù ha proposto un lavoro congiunto, possibilità però respinta dal Cile poiché nella controversia territoriale che ancora separa i due Paesi – e su cui si attende entro la prossima estate il verdetto della Corte penale internazionale dell’Aja – la frontiera tracciata da Lima comincia 260 Km più a sud di quella disegnata da Santiago. Solo alla Cumbre de las Américas, celebrata a metà aprile in Colombia, i ministri degli Esteri cileno, Alfredo Moreno, e peruviano, Rafael Roncagliolo, hanno accettato di affidare le operazioni di ritiro e distruzione delle mine all’organizzazione non governativa norvegese Apn. Conclusi i lavori, l’Apn ha certificato che l’area di frontiera è “libera dalle mine” in base agli standard internazionali. La piena applicazione dell’intesa bilaterale “costituisce una dimostrazione aggiuntiva della volontà di collaborazione e fiducia reciproca che anima i due Paesi", si legge in una nota ufficiale per garantire la sicurezza della popolazione”. (C.S.)

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    Papua Nuova Guinea. Le comunità cristiane: urge intervento legislativo contro la poligamia

    ◊   La poligamia non è solo una pratica anticristiana e contro la legge morale, ma è anche una minaccia sociale. Per questo urge inserire nell’agenda politica una legge per impedirla. Con tali argomenti le comunità cristiane della Papua Nuova Guinea, attraverso i leader, incontri, interventi pubblici, stanno portando avanti una campagna per rendere illegale la poligamia nella nazione. Come riferito a Fides dalla Chiesa locale, di recente un intervento legislativo per vietare la poligamia è stato proposto dal governatore della provincia di Eastern Highlands, Julie Soso. Già nel 1982, un altro leader politico, Peter Peipul, chiedeva la messa al bando della poligamia, definendola “disgustosa” e “incostituzionale”. Anche se negli anni successivi si è discusso della riforma sul diritto di famiglia e del divieto della poligamia, la pratica resta legale. “Nelle zone in cui la poligamia è ancora praticata, ci sono crescenti casi di donne accusate dell'omicidio di un'altra delle mogli dei loro mariti. I diritti delle donne saranno sempre calpestati finché la poligamia resta in vigore. Ogni essere umano, maschio o femmina, ha uguali diritti ai sensi della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” spiega Paul Harricknen, avvocato cattolico e consulente della Conferenza Episcopale della Papua. I vescovi, rimarca, premono per “l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne”. “Di solito la poligamia è imposta alle prime mogli, che soccombono a causa della loro svantaggio economico e sociale, o semplicemente scelgono di mantenere la loro fedeltà al matrimonio”. Ed è una pratica che “provoca caos e abusi nella società”.

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    Scozia. Mons. Tartaglia: a Natale, un pensiero per rifugiati e sfollati

    ◊   “Una preoccupazione particolare per le persone, appena fuori dalle nostre case, che potrebbero essere costrette a trascorrere il periodo festivo lontano da casa loro e dalla loro famiglia”. Nel suo messaggio di Natale, riportato dall’agenzia Sir, l’arcivescovo di Glasgow, mons. Philip Tartaglia, presidente della Conferenza episcopale scozzese, ha voluto ricordare le difficili condizioni dei rifugiati e ha voluto invitare “tutti coloro in posizione di autorità civile ad alleggerire il peso della sofferenza di queste persone, a consentire loro di avere le necessità minime di un tetto sulla testa e del cibo e di coinvolgerli nella vita della comunità così che possano contribuire al bene comune”. Il presidente dei vescovi scozzesi, ricordando il messaggio del Pontefice per la giornata dei migranti, ha detto che “la vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso buio e tempestoso, un viaggio nel quale cerchiamo le stelle che ci indichino la strada”. “Le vere stelle della nostra vita – ha aggiunto – sono le persone che hanno vissuto una buona vita. Esse sono raggi di speranza come Gesù Cristo è la vera luce, il sole che è sorto sopra tutte le ombre della storia”. (C.S.)

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    Senza fissa dimora: iniziative per sensibilizzare la città di Milano

    ◊   Una persona senza fissa dimora che ha allestito e decorato un piccolo albero di Natale accanto al suo giaciglio notturno. È la foto-slogan scattata dai volontari milanesi di Ronda Carità e Solidarietà per sensibilizzare sul problema di chi vive in strada con il freddo di questo periodo e ricordare a tutti la tenacia e le molteplici risorse che queste persone in difficoltà possono rappresentare per l’intera società. Il 24 dicembre alle 20.45, come riporta l’Agenzia Sir, l’Associazione organizza per il 10.mo anno consecutivo il Santo Natale nell’atrio della Stazione Garibaldi assieme ai suoi “assistiti”. I Frati di Sant’Antonio, che operano a favore dei più poveri nelle vicinanze della Stazione, celebreranno la messa. “La cittadinanza, che interviene liberamente, offrirà un semplice ma caloroso rinfresco”, si legge in una nota, invitando tutti i milanesi a fare festa con i più poveri. Ronda si occupa di sostenere le persone senza dimora presenti nel territorio milanese, fornendo assistenza (cibo, bevande calde, coperte, etc.) con i suoi volontari e l’unità mobile diurna, 4 sere a settimana, per 11 mesi l’anno. Con il progetto “Alla luce del Sole - un’unità diurna contro la grave emarginazione”, Ronda promuove percorsi di recupero per le persone in difficoltà. Nel 2011, l’associazione ha effettuato 1.227 colloqui durante 138 uscite diurne e, nel solo mese di novembre 2012, ha effettuato 32 colloqui e inserito 30 persone all’interno del programma dell’Emergenza freddo. (C.S.)

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    Immigrati: Caritas italiana, 30 mila euro per emergenza tendopoli a Rosarno

    ◊   La Caritas Italiana ha stanziato, questa mattina, 30 mila euro a favore dell’emergenza immigrati della tendopoli di San Ferdinando-Rosarno, in Calabria. Lo ha comunicato il direttore della Caritas Italiana, mons. Francesco Soddu, al vescovo di Oppido Mamertina-Palmi, mons. Francesco Milito. Il presule, spiega l'Agenzia Sir, nei giorni scorsi aveva già stanziato 10 mila euro dopo aver visitato la tendopoli, incontrando personalmente i migranti, e aveva rivolto un forte appello alle Istituzioni. Con questa cifra la Chiesa intende “coprire totalmente la somma indicata dal Sindaco di San Ferdinando come necessaria per far ritornare la gestione della tendopoli alla normalità”, spiega una nota della diocesi. “La Chiesa, in nome del Vangelo e della Costituzione - si legge nella nota a firma del vicario generale, mons. Pino Demasi - auspica che tutte le Istituzioni, con altrettanta tempestività, si mettano in gioco per far terminare l’emergenza e passare dall’assistenzialismo alla giustizia, tutelando così i diritti di ogni immigrato nel rispetto della dignità dovuta ad ogni persona”. (C.S.)

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    Prossimo il 35.mo incontro europeo della Comunità di Taizè a Roma

    ◊   Ultimi preparativi per l’incontro della Comunità di Taizè a Roma, che dal 28 dicembre al 2 gennaio riunirà nella capitale circa 40 mila ragazzi da tutta Europa. E’ stato pubblicato oggi il programma ufficiale dell’evento, mentre continua la ricerca di famiglie e comunità religiose disposte a ospitare i partecipanti. I giovani verranno accolti nelle parrocchie della città, dove ogni mattina saranno organizzati momenti di preghiera e gruppi di riflessione e scambio. I pomeriggi saranno caratterizzati invece dagli incontri a tema sulla fede, la vita interiore, la società e l’arte, in cui verranno coinvolti come relatori “testimoni del Vangelo, impegnati a rispondere alle sfide di oggi”. Oltre ai momenti di silenzio, di preghiera e di canto nelle basiliche della città, è previsto anche il pellegrinaggio alle tombe degli Apostoli e alle catacombe. L’evento più atteso sarà quello di sabato 29 dicembre, quando alle 18, nella Basilica di San Pietro, Benedetto XVI, pregherà insieme ai 40 mila giovani pellegrini. Dopo l’incontro di Roma con il Papa, il pellegrinaggio della “Fiducia sulla terra” promosso dalla comunità di Taizè farà tappa a Istanbul dal Patriarca ortodosso ecumenico, Bartolomeo I. Una delegazione di 100 giovani provenienti da vari Paesi, con alcuni fratelli e il priore della Comunità di Taizé, frère Roger Alois – spiega l’agenzia Sir – si recherà dal 3 al 6 gennaio 2013 nella città turca, per celebrare la festa dell’Epifania e pregare con i cristiani della città. Risalgono agli anni Sessanta i primi contatti della comunità di Taizé con il Patriarcato di Costantinopoli. Nel febbraio del 1962, frère Roger fece visita al patriarca Atenagora a Istanbul. L’anno scorso, il Patriarca Bartolomeo aveva invitato frère Alois a tornare a Istanbul con un centinaio di giovani. Il pellegrinaggio inizierà giovedì 3 gennaio con la celebrazione dei Vespri nella chiesa greco-ortodossa della Santissima Trinità in Piazza Taksim, nel centro di Istanbul. Sabato, i fratelli ed i giovani parteciperanno ai Vespri della festa dell’Epifania a Fanar, sede del Patriarcato ecumenico. Alcune famiglie delle diverse Chiese offriranno ospitalità ai giovani pellegrini. Venerdì sera, si terrà una preghiera con canti di Taizé nella chiesa armena cattolica di San Giovanni Crisostomo. La domenica sarà dedicata agli incontri con le comunità cristiane cittadine. (L.P.)

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    A Rabat il primo Istituto di formazione cristiana

    ◊   Si chiama Al Mowafaqa, che vuol dire l’Intesa, ed è il primo Istituto di formazione cristiana che d’ora in avanti potrà formare i nuovi “capi e responsabili di comunità” in Marocco. Ai promotori dell’iniziativa – mons. Vincent Landel, vescovo cattolico di Rabat, e il pastore protestante Samuel Avedro – l’ultima autorizzazione necessaria è stata concessa dal governo di Abdelilah Benkirane. Al Mowafaqa, scrive il quotidiano cattolico La Croix, sarà articolata in due poli di formazione: un dipartimento di teologia e uno di dialogo tra culture e religioni. Gli insegnamenti, riporta l’agenzia Misna, saranno dati in lingua francese e gli studenti saranno soprattutto rappresentati da giovani originari di Paesi dell’Africa subsahariana residenti in Marocco. L’iniziativa, sottolineano i promotori, “va al di fuori di qualunque logica di proselitismo nel rispetto della legislazione marocchina”. Esso, ha detto monsignor Landel, “risponde al bisogno di giovani che siano in grado di animare una comunità in un momento in cui i sacerdoti non possono essere dappertutto”. Direttore dell’Istituto è stato nominato il pastore Bernard Coyault, il cui mandato durerà due anni e sarà rinnovabile; la sede è stata individuata in un immobile di Rabat di proprietà della Chiesa cattolica. I finanziamenti sono stati messi a disposizione da diverse istituzioni, in particolare europee. (C.S.)

    Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVI no. 356

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    E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

    Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Chiara Pileri.