RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno LI n. 118 - Testo della trasmissione di sabato 28 aprile 2007
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
Benedetto XVI riceve in udienza il presidente della Lituania, Valdas Adamkus
Oggi su "L'Osservatore Romano"
OGGI IN PRIMO PIANO:
Il commento di don
Massimo Serretti al Vangelo della Domenica
CHIESA E SOCIETA’:
Polonia: Giornata del
clero durante la guerra
Documento dei vescovi dell’Emilia Romagna per
fronteggiare le stragi del sabato sera
Afghanistan:
i talebani liberano la cooperatrice francese rapita il 3 aprile scorso
28 aprile 2007
Benedetto
XVI ai vescovi siro-cattolici: siate uniti e vincete
le insidie contingenti
con una testimonianza di coraggio e fraternità
In un’epoca in cui il
messaggio del Vangelo è insidiato, è importante ricercare l’unità e la
riconciliazione - primi fra tutti con il Papa e con i fratelli nell’episcopato
- perché è lì, “nel dono dell’amore condiviso” che si trova “il segreto
dell’efficacia apostolica”. E’ questa, in sostanza, l’esortazione con la quale
Benedetto XVI ha accolto i partecipanti al Sinodo straordinario della Chiesa siro-cattolica, con i quali poi il Papa si è intrattenuto a
pranzo. Benedetto XVI ha anche affrontato i problemi di una minoranza
ecclesiale sparsa nei Paesi mediorientali. Il servizio di Alessandro De
Carolis:
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Le bombe dell’Iraq, la
volatilità dei rapporti che intercorrono fra Israele, Siria, Libano. E’
l’orizzonte nebuloso nel quale si muove la Chiesa siro-cattolica,
diffusa in Medio Oriente ma anche nella diaspora, specie negli Stati Uniti.
Benedetto XVI si è rivolto a Sua Beatitudine, il Patriarca di Antiochia dei
Siri, Ignazio Pietro VIII Abdel Ahad,
e ai 13 vescovi partecipanti al Sinodo straordinario mostrando grande
partecipazione per le difficoltà che comporta la quotidianità dei cattolici in
quelle aree:
“À
NOTRE ÉPOQUE, IL Y A TANT DE DÉFIS…
Nella nostra epoca sono tante le sfide che
devono affrontare le comunità cristiane in tutte le parti del mondo, mentre
numerosi pericoli e trappole rischiano di camuffare i valori del Vangelo. Per
quanto riguarda la vostra Chiesa, le violenze ed i conflitti che segnano una
parte della gregge che vi è affidata costituiscono
difficoltà supplementari che mettono ancora più in pericolo non soltanto il
fatto di vivere insieme in pace, ma anche la vita delle persone. In queste
situazioni, è importante che la comunità ecclesiale siro-cattolica
possa annunciare il Vangelo con forza, promuovere una pastorale adeguata alle
sfide della post-modernità ed offrire un esempio
luminoso d’unità in un mondo frazionato e diviso”.
Il Sinodo
straordinario, che termina domani dopo tre giorni di lavoro è servito a
riflettere, ha proseguito Benedetto XVI, sui mezzi necessari per “superare gli ostacoli
che impediscono lo svolgimento normale della vostra vita ecclesiale”:
“C’EST LE MINISTÈRE QUE LE SEIGNEUR VOUS A
CONFIÉ…
È il ministero che il Signore vi ha affidato
nel suo gregge che lo esige – ha insistito il Pontefice - è il bene della
Chiesa siro-cattolica che lo esige. Lo esigono anche
la situazione particolare che vive il Medio Oriente e la testimonianza che,
nella loro unità, le Chiese cattoliche possono dare”.
Benedetto XVI ha
concluso ricordando come le Chiese orientali giochino un “ruolo particolare”
nel cammino ecumenico. Un cammino che si intreccia anche con il dialogo interreligioso,
ha ricordato il Papa, invitando la Chiesa siro-cattolica
a proseguire oggi, “con entusiasmo, con fiducia e con perseveranza”, l’azione
missionaria che duemila anni fa iniziò l’apostolo Paolo. Il Patriarca e i
vescovi siro-cattolici, informa un comunicato,
"hanno ringraziato il Santo Padre per la sollecitudine dimostrata verso la
loro Chiesa diffusa nel Medio Oriente e in altre parti del mondo, per
l’appoggio e il sostegno espresso più volte e recentemente nella Lettera
indirizzata ai cattolici della tanto provata Regione Medio-Orientale, ed hanno rinnovato la loro profonda
comunione con la Sede Apostolica".
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Benedetto
XVI riceve in udienza il presidente della Lituania, Adamkus
Il ruolo
della Lituania nell’Unione Europea e il contributo
della Chiesa locale al benessere della nazione baltica, nella quale gli oltre 2
milioni e mezzo di cattolici rappresentano l’80% della popolazione. Sono i temi
principali che hanno occupato l’udienza concessa questa mattina da Benedetto
XVI all’80.enne presidente della Lituania,
Valdas Adamkus, che già fu
capo di Stato nel periodo successivo all’indipendenza dall’Unione Sovietica,
nel ’90. “Nel corso dei cordiali colloqui - informa
un comunicato della Sala Stampa vaticana - si è espressa soddisfazione per le
buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e la Lituania,
frutto della reciproca fiducia e della comune volontà di collaborazione, e non
si è mancato di rilevare la convergenza di idee e propositi sul contributo che
la Chiesa cattolica può offrire per il bene dell'intera Nazione, auspicando una
collaborazione sempre più concreta”.
L’incontro
in privato tra il Papa e il capo di Stato lituano, duranto
circa 20 minuti, “è servito anche - prosegue la nota - per uno scambio di
informazioni e riflessioni sul ruolo che la Lituania
svolge nell'Unione Europea e sui suoi rapporti con i Paesi vicini”. Come di
consueto, dopo l’udienza con Benedetto XVI, il presidente lituano si è
intrattenuto a colloquio anche con il cardinale segretario di Stato, Tarcisio
Bertone.
Altre
udienze
Benedetto XVI ha
ricevuto questa mattina un altro gruppo di presuli italiani della Regione
Triveneto, in visita "ad Limina", guidati
dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia.
Il Santo Padre questo
pomeriggio riceverà il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della
Congregazione per i Vescovi.
Nella Giornata mondiale di preghiera per le
vocazioni il Papa
ordina
sacerdoti 22 diaconi della diocesi di Roma
Domani mattina alle
9.00 il Papa presiederà nella Basilica Vaticana una celebrazione eucaristica
durante la quale conferirà l’ordinazione sacerdotale a 22 diaconi della diocesi
di Roma. Dei neopresbiteri, 11 provengono dal Seminario Romano Maggiore, otto
dal “Redemptoris Mater”,
uno dal Divino Amore, uno dal Capranica e uno dai
Legionari di Cristo. L'età degli ordinandi va dai 26 ai 51 anni. Il rito si
svolge in coincidenza con la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni,
quest’anno sul tema “La vocazione al servizio della Chiesa comunione”.
La Radio Vaticana trasmetterà la cronaca dell'evento a partire dalle 8.50 con
commenti in italiano, francese, spagnolo, portoghese, inglese e tedesco. Giovanni Peduto ha incontrato uno degli ordinandi, Matteo
Castellina, 31 anni: gli ha chiesto con quali
sentimenti si appresti ad essere ordinato sacerdote:
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R. – Innanzitutto, con
una gioia profonda. Una gioia profonda che emerge dall’incontro con Cristo.
Certo, però, rimane anche un profondo senso di inadeguatezza perché vedo tutti
i miei limiti, tutte le mie debolezze e certo il compito al quale il Signore mi
chiama è davvero grande. Però, so e in questi anni me lo ha fatto capire
attraverso tanti segni, che comunque mi sarà sempre accanto e quindi non ho
nulla da temere.
D. – Com’è nata la tua
vocazione?
R. – In maniera molto
semplice: in parrocchia. Ero ancora quindicenne, mi è stato chiesto di aiutare
una catechista con un gruppo di bambini che si preparavano alla Prima Comunione
e durante i primi anni ho scoperto quanto è bello poter annunciare Cristo,
annunciare la bellezza dell’incontro con Lui, e piano piano
ho capito che in fondo in fondo il Signore mi chiamava a fare questo tutta la
vita: mi chiamava ad essere annunciatore del Suo amore per noi.
D. – Cosa diresti ad
un giovane come te che sente nascere nel cuore la chiamata a diventare
sacerdote?
R. – Di non temere. Di
non temere perché è vero, sembra che il Signore ci chieda molto, sembra che
oggi sia molto difficile essere sacerdote e, certo, questo è vero. Però, se il
Signore ci chiede molto, in realtà ci dona molto di più e quindi davvero non
c’è nulla da temere.
D. – I fedeli, ma la
società intera, cosa si aspettano oggi dai sacerdoti?
R. – Io credo che ce lo dica molto spesso il Santo Padre: in fondo, la gente
oggi ha bisogno di sentire l’annuncio del Vangelo, l’annuncio della Buona
Novella, che Dio è amore. In una società che credo oggi manchi molto d’amore e
ne abbia un disperato bisogno, credo che il compito più importante per un
sacerdote sia proprio quello di annunciare che Dio è amore, che Dio ci ama e ci
salva. E, quindi, ecco: questo credo che sia la cosa più importante. Forse
molti non se ne rendono conto che è questo il desiderio che hanno, ma lo si capisce perché quando poi annunci la bellezza
dell’amore di Dio, questo fa sempre breccia nei cuori e anche nei cuori più
induriti.
D. – Il Papa nel
Messaggio scritto in occasione di questa Giornata mondiale di preghiera per le
vocazioni invita a riflettere sullo speciale legame tra vocazione e comunione
ecclesiale: un tuo commento …
R. – Il Papa, appunto,
dice che la vita consacrata e i sacerdoti in maniera particolare sono a
servizio della comunione. Nella sua omelia, nella Domenica in Albis, quando abbiamo festeggiato il suo 80.mo compleanno, lui ci ricordava
che la Chiesa è innanzitutto una famiglia e come in ogni famiglia, ciascuno ha
il suo compito per la famiglia, a servizio di tutta la famiglia. Così credo che
i consacrati nella Chiesa sono a servizio di tutta la Chiesa come famiglia e
devono diventare annuncio di questo per tutti coloro che ancora non l’hanno
sperimentato, che hanno bisogno di sentirselo dire. E quindi, ecco, credo che
il Santo Padre sottolineando questo, sottolineando questa attenzione alla
comunione ci ricorda ancora una volta che un sacerdote non è mai per se stesso ma è sempre per la Chiesa. Perché sempre di più i
fedeli si possano sentire parte di un’unica, grande famiglia, che è la famiglia
di Dio.
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La natura non è un assoluto ma una ricchezza
posta
nelle
mani responsabili dell'uomo: così il cardinale Martino
a conclusione del Seminario sui cambiamenti climatici
“La natura non è un
assoluto, ma una ricchezza posta nelle mani responsabili e prudenti dell’uomo”:
è quanto ha affermato ieri, a conclusione del Seminario internazionale sul tema
“Cambiamenti climatici e sviluppo”, il presidente del Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, il cardinale Renato
Raffaele Martino. L’incontro ha riunito a Roma, a Palazzo San Calisto, 80
studiosi ed esperti provenienti da 20 Paesi dei cinque continenti. Il servizio
di Tiziana Campisi:
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Ambientalisti,
scienziati ed ambasciatori si sono confrontati sull’impatto economico, sociale
ed energetico dei mutamenti climatici e sulle responsabilità che ne derivano a
livello nazionale ed internazionale. A loro il cardinale Martino ha ricordato
che “l’uomo ha una indiscussa superiorità sul creato
e, in virtù del suo essere persona dotata di un’anima ... non può essere
equiparato agli altri esseri viventi, né tanto meno considerato elemento di
disturbo dell’equilibrio ecologico naturalistico”. Ma sulla natura, ha
proseguito il porporato, l’uomo non ha un diritto assoluto, bensì “un mandato
di conservazione e sviluppo in una logica di universale destinazione dei beni
della terra che è uno dei principi fondamentali della Dottrina sociale della
Chiesa, principio che va soprattutto declinato con l’opzione preferenziale per
i poveri e per lo sviluppo dei Paesi poveri”. Il presidente del Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace ha criticato poi quelle “forme di idolatria
della natura che perdono di vista l’uomo”. “La natura è per l’uomo e l’uomo è
per Dio - ha sottolineato - anche nella considerazione delle problematiche
connesse ai cambiamenti climatici si dovrà far tesoro della Dottrina sociale
della Chiesa”. Il porporato ha spiegato che quest’ultima “non avalla né l’assolutizzazione della natura, né la sua riduzione a mero
strumento”. “La Chiesa propone una visione realistica delle cose - ha precisato
inoltre il cardinale Martino - essa ha fiducia nell’uomo e nella sua capacità
sempre nuova di cercare soluzioni ai problemi che la storia gli pone. Capacità
che gli permettono di confutare spesso le ricorrenti, infauste e improbabili
previsioni catastrofiche”. Il porporato ha concluso il suo intervento
ricordando quanto importante sia per l’uomo
rapportarsi continuamente al suo Creatore: “Quando l’uomo vuole porsi al posto
di Dio – ha detto – perde di vista anche se stesso e la sua responsabilità di
governo della natura”.
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A Rimini la
beatificazione di suor Maria Pellesi: ha testimoniato
che si può essere felici anche nella malattia
Domani alle 10, nella
cattedrale di Rimini, sarà beatificata suor Maria Rosa Pellesi,
religiosa della Congregazione delle Suore Francescane Missionarie di Cristo,
morta nel 1972 a 55 anni. A presiedere la celebrazione sarà il cardinale José Saraiva Martìns, prefetto della
Congregazione delle Cause dei Santi. Suor Maria Rosa, nel corso della sua vita,
ha offerto la credibile testimonianza che si può essere felici anche nella malattia
e che si può vivere il centuplo promesso da Cristo in ogni circostanza della
vita. Era ancora adolescente quando dovette occuparsi
dei sei figli delle due cognate morte giovanissime, ma intanto viveva con
assiduità i sacramenti e si impegnava nell’Azione Cattolica. Dopo aver maturato
la sua vocazione religiosa inizia anche il suo calvario. Aveva appena
pronunciato la prima professione quando le viene
diagnosticata una grave forma di tubercolosi polmonare. Da allora la sua
esistenza è stata caratterizzata dalla sofferenza; costretta a vivere 27 anni
in diversi ospedali, ha accettato comunque il volere di Dio con la volontà di
donarsi a Lui e agli altri. Soleva ripetere: “Mi sono fatta suora per glorificare
il Signore, ebbene lo glorificherò da ammalata”. E prima di morire le sue
ultime parole sono state: “Quello che conta è amare il Signore. Sono felice perché
muoio nell’amore, sono felice perché amo tutti”.
Oggi su
"L'Osservatore Romano"
Servizio vaticano - Il discorso di
Benedetto XVI ai partecipanti al Sinodo Straordinario della Chiesa di Antiochia
dei Siri cattolici.
Servizio estero - Russia: Putin minaccia di prendere contromisure per fronteggiare il
sistema di difesa antimissile Usa.
Servizio culturale - Un
articolo di Piero Amici dal titolo "Dalla secessione della plebe
alla dignità di ciascuna persona": la XXVII edizione dei Seminari internazionali
di studi storici da Roma a Costantinopoli a Mosca.
Servizio italiano - In primo piano gli
incidenti sul lavoro.
28 aprile 2007
Grande solidarietà
per i ragazzi della cooperativa agricola
Valle del Marro devastata dagli uomini della 'ndrangheta
Messaggi di
solidarietà da molte istituzioni sono arrivati alla cooperativa agricola Valle del Marro,
dell’associazione “Libera”, distrutta due notti fa a Gioia Tauro.
L’azienda produce derrate alimentari su terreni confiscati ai boss locali della
’ndrangheta, e ora l’obiettivo è far ricominciare al più presto la produzione.
Per evitare altri atti intimidatori è stato deciso che la cooperativa sarà
sottoposta a controlli ed attività di vigilanza, da parte delle forze di
polizia. Alessandro Guarasci ha intervistato don Pino De Masi,
coordinatore di Libera in Calabria:
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R. – I ragazzi hanno
ripreso l’attività, questa mattina, con uno spirito di serenità e con maggiore
determinatezza, perché noi riteniamo che questo episodio che è successo a noi,
ma anche gli episodi accaduti alle varie cooperative che si trovano nelle
stesse condizioni, sono il segnale di una debolezza della mafia. La mafia ha
capito che lo Stato ha imboccato la strada giusta, quella della confisca dei beni,
e allora cerca di utilizzare la strategia dello scoraggiamento dei ragazzi. Invece,
i ragazzi sono più motivati che mai.
D. – Ma vi erano
state, comunque, delle avvisaglie?
R. – No, delle
avvisaglie, no. C’è stato un precedente nel mese di
dicembre, quindi c’è stato anche un altro atto intimidatorio, e nello stesso
luogo dove era già stato rubato un attrezzo agricolo.
D. – Lei ha detto che,
in sostanza, la mafia, o meglio, la ‘ndrangheta, ha capito a questo punto che
lo Stato sta imboccando la via giusta, dunque la confisca dei beni. Ma con
quale spirito, però, la vostra attività viene presa
anche dalla comunità locale?
R. – La comunità
locale è tutta con noi. Io credo che i gesti di solidarietà che stiamo avendo
in questi giorni, da ieri, sono proprio ininterrotti. La gente comune è con noi
e per fortuna abbiamo anche lo Stato con noi, le istituzioni. Non dimentichiamoci
che a Polistana il 21 marzo c’è stata una
manifestazione con oltre 30 mila persone, e tantissimi, moltissimi erano gente
del luogo. Quindi, la gente ha cambiato atteggiamento. Forse perché aveva
ragione quel santo prete che si chiamava don Italo Calabrò
che diceva a noi preti giovani: è nel coraggio dei pastori che la gente ritrova
il proprio coraggio.
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In
migliaia a Pompei per il XXI Meeting dei giovani. Mons. Liberati:
vogliamo dire al
mondo che Dio è amore
Migliaia di ragazzi
provenienti da tutta Italia sono arrivati a Pompei per partecipare alla XXI
edizione del Meeting dei Giovani che inizia questa sera per concludersi il
primo maggio. Il Meeting propone momenti di riflessione, testimonianza,
preghiera, cultura, musica e spettacolo. Ma quale messaggio vuole lanciare quest'anno?
Giovanni Peduto lo ha chiesto al
vescovo-prelato di Pompei, mons. Carlo Liberati:
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R. – Noi ci
richiamiamo al messaggio iniziale e fondante del Pontificato di Benedetto XVI: ‘Amatevi come io vi ho amati’.
Noi vogliamo proprio lanciare questo messaggio assoluto a tutti i giovani
d’Italia, d’Europa e del mondo: ‘Amatevi come io vi ho
amati’. Questo incontro è significativo perché noi
vogliamo dare speranza ai giovani del nostro tempo, molto spesso incompresi
agli occhi di una società segnata da ritmi frenetici della vita e che non ha
tempo per interessarsi della loro crescita umana e spirituale. Il Meeting dei
giovani quindi è un’iniziativa del nostro Santuario della Beata Vergine del
Rosario di Pompei ed è un grande momento di aggregazione giovanile, di vita
ecclesiale, di testimonianza e anche una concreta esperienza culturale e di
solidarietà.
D. – Ci sono
iniziative concrete legate al Meeting?
R. – L’elemento
caratterizzante del Meeting, in continuità con il carisma del fondatore della
nuova Pompei, il beato Bartolo Longo, è la
solidarietà secondo il motto: “Nella città della carità, per la carità del
mondo”. Adesso stiamo facendo questo: l’iniziativa a Pompei per la pace e i bambini promossa dal nostro Santuario per
l’attuazione di diversi progetti in Italia, nelle Filippine, in India, in
Africa, a favore dell’infanzia violata e negata. In questo momento, vorremmo
costruire alcune unità abitative presso il villaggio di Kottuvally,
Kerala, in India, dove le nostre suore missionarie,
le suore missionarie domenicane del Santo Rosario, sono impegnate già da anni
in un programma di promozione umana e sociale a favore della popolazione
locale, in modo particolare dei bambini con un programma di alfabetizzazione,
un programma di educazione progressiva, un programma di crescita umana e di
venire incontro a tutte le loro necessità, materiali e spirituali.
D. – Qual è
l’esperienza di questi Meeting?
R. – Non
dimentichiamoci che lo Stato italiano – non è questa un’accusa
ma è una constatazione – non fa abbastanza per il mondo dell’educazione,
per il mondo della scuola; c’è troppa svogliatezza in giro, troppa mediocrità,
troppa superficialità. Noi vogliamo un mondo migliore basato su una gioventù
più consapevole del suo ruolo, più forte nelle sue aspirazioni e anche più
idealista nei traguardi che vuole raggiungere.
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Il
commento di don Serretti al Vangelo della Domenica
Nella quarta Domenica
di Pasqua, la Liturgia ci propone il Vangelo del Buon Pastore. Gesù dice ai
suoi discepoli:
“Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai
perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”.
Su questo brano
evangelico ascoltiamo il commento del teologo don Massimo Serretti, docente di Cristologia alla Pontificia
Università Lateranense:
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I nostri Padri nella
fede nei primi secoli qui a Roma hanno raffigurato in disegni, bassorilievi,
incisioni su pietra e scultura, il Buon Pastore. Le catacombe contengono
innumerevoli riproduzioni di questa figura. Di fronte alla morte e soprattutto
di fronte alla persecuzione incombente, la figura di Cristo, con la pecorella
sulle spalle, appariva come un segno di certezza. Quei cristiani non poggiavano
sulle proprie certezze, non potevano essere certi di sussistere né
individualmente né come comunità. L’andare dietro a Cristo era per loro motivo
di consistenza; l’andare dietro a Colui che dà la vita eterna e che ha promesso
che nessuno rapirà le sue pecore dalla sua mano e che non andranno mai in
perdizione. Ascoltare, tendere l’orecchio per andare dietro, per seguire.
L’alternativa è il nulla, la vanità. I vostri padri seguirono ciò che è vano,
dice il profeta, e divennero essi stessi vanità.
L’uomo diventa quel che segue.
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28 aprile 2007
“Pieno supporto a qualsiasi legislazione che
sostenga la natura propria
della famiglia”. E’ il messaggio dei vescovi
dell’Uruguay,
al termine dei lavori dell’Assemblea plenaria
“La Costituzione
uruguaiana considera la famiglia come la base della società. Perciò noi diamo
tutto il nostro sostegno a qualsiasi legislazione che sostenga
la natura propria della famiglia, la sua identità, la sua stabilità, il suo
benessere e ogni cosa che protegga i diritti dei suoi integranti”. Sono parole
del comunicato dei vescovi dell’Uruguay che ieri hanno concluso i lavori della
plenaria. I presuli, hanno scelto di trattare nel loro comunicato un solo tema
di grande rilevanza, che riguarda il progetto di legge che intende regolarizzare
le coppie di fatto. I vescovi spiegano: “Il progetto di legge sulle coppie di
fatto, dunque, merita serie obiezioni. Se da una parte si vogliono proteggere
alcuni diritti dei concittadini che vivono questo tipo di situazione non è
possibile accettare che le unioni di fatto siano equiparate al matrimonio,
realtà che comporta un insieme di misure che proteggano la sua finalità, la sua
armonia e la sua stabilità tramite la fedeltà reciproca dei contraenti”. Inoltre,
si aggiunge, “merita una valutazione attenta l’inclusione delle coppie
omosessuali nella categoria delle unioni di fatto. Non è possibile accettare
che la convivenza omosessuale, che non ha le condizioni basiche di un
matrimonio, possa essere parificata a quest'ultimo. A nostro avviso il bene che
si cerca per queste situazioni, che esistono tra noi da molto tempo, non deve
colpire negativamente la famiglia come la riconosce la nostra Costituzione e
che, oggi più che mai, ha bisogno di molte cure e di stimoli, cose che spettano
alla società uruguaiana nel suo insieme. Non è una cosa buona né accettabile –
proseguono i presuli – sfumare o indebolire l'immagine del matrimonio come base
e centro della famiglia. Matrimonio che, essendo, per sua stessa natura, il
fondamento più solido per un'umanità sana e felice, realizza, affettivamente e
sessualmente, i suoi integranti". In un secondo documento, con cui i
vescovi si rivolgono ai lavoratori dell'Uruguay in occasione della festa del
primo maggio, si torna sulla questione della famiglia, sottolineando “i
rapporti molto particolari che esistono tra famiglia e lavoro”. “La famiglia di
ogni lavoratore - sostengono i presuli - è uno degli ambiti di riferimento più
importanti per una concezione etica del lavoro umano. Il lavoro rende possibile
la creazione e la stabilità di una famiglia e, in questo senso, va ricordata la
questione del salario giusto”. I vescovi concludono il saluto rivolgendosi a
lavoratori, sindacalisti, imprenditori e governanti affinché “uniscano i loro
sforzi per superare gli scontri, incoraggiando uno sviluppo solidale basato
sull’alta dignità del lavoro”. ( A cura di Luis Badilla)
Polonia: Giornata del clero durante la guerra
Domani, si celebra in
Polonia la Giornata della memoria del clero durante la Seconda Guerra mondiale.
Ai suoi inizi, nel settembre del 1939, i sacerdoti diocesani polacchi erano
10.017. Negli anni di guerra successivi, circa il 20 per cento di loro morì
nelle prigioni e nei campi di concentramento tedeschi: tra loro cinque vescovi.
Un altro 30 per cento di preti diocesani polacchi subì vessazioni di vario
tipo. La conseguenza fu che, alla fine della guerra, nel 1945, la Polonia si trovò con il clero dimezzato. Tristemente
famoso è rimasto Dachau, il Golgota del clero: qui
gli aguzzini nazisti fecero morire in modo bestiale 1034 fra sacerdoti e vescovi,
dei quali 861 polacchi. “Quelli che a Dachau
incontrarono la morte – disse il cardinale Emanuele Suhard,
arcivescovo di Parigi – sono veri martiri; quelli che sopravvissero,
confessori”. La Chiesa ha riconosciuto tra i morti nei campi di concentramento
gli esemplari testimoni di Cristo e li ha elevati agli onori degli altari. Il
più conosciuto è senz’altro San Massimiliano Kolbe, ma va ricordato che, il 13
di giugno del 1999 a Varsavia, Giovanni Paolo II beatificò 108 sacerdoti e suore
polacchi, di cui ben 46 trovarono la morte nel lager di Dachau,
14 ad Auschwitz e 16 in altri campi. Oggi, sono
pochissimi i sacerdoti sopravvissuti all’inferno di Dachau.
Tra loro c’è mons. Kazimierz Majdanski,
arcivescovo emerito di Stettino-Kamien, 91enne. “Fui
arrestato come prete cattolico – è la sua testimonianza -. Se sono
sopravvissuto è un vero miracolo. Pensavamo che erano tornati
i tempi di Nerone e di Diocleziano. I tempi dell’odio verso il cristianesimo e
verso tutto quello che il cristianesimo rappresentava. I sacerdoti erano chiamati
al sacrificio della vita, ad essere fedeli fino alla
morte”. Il martirio del clero polacco durante l’inferno nazista fu una pagina
gloriosa della storia della Chiesa e della Polonia.
Peccato che su di essa sia sceso un velo di silenzio.
Ma il sangue dei martiri, come tante volte nella storia, è diventato la fonte
della forza della Chiesa in Polonia che, dopo la fine della guerra, doveva
affrontare un altro totalitarismo anticristiano, quello comunista. (A cura di padre Andrzej
Koprowski)
Una nota del Movimento Pax Christi
denuncia che, nella tragedia irachena, sempre più cristiani sono vittime di
violenze, ricatti, minacce e uccisioni
“Basta con la
violenza, basta con la guerra, basta con le uccisioni, i rapimenti, le minacce,
le violenze di ogni genere. Insieme bisogna lavorare per la pace”. E’ il monito
lanciato ieri da Pax Christi Italia, Movimento
cattolico, che, in una nota di cui riferisce l’agenzia SIR, denuncia la
tragedia irachena e, in particolare, “la situazione disperata dei cristiani
sempre più vittime di violenze, ricatti, minacce e uccisioni”. “Non possiamo
più tacere – prosegue la nota del Movimento - secondo alcune fonti ONU,
l’attuale tragedia dei profughi iracheni è la più grande del Medio Oriente,
dopo quella del popolo palestinese nel 1948”. Pax Christi sottolinea poi che “l’Iraq è la patria di Abramo,
nostro padre comune nella fede e che ogni religione è per la pace, sia il
cristianesimo sia l’islam”. Pertanto, “ogni manifestazione di violenza, di
minaccia verso chi è di un’altra religione calpesta la libertà e la dignità
umana e non rende testimonianza autentica alla propria fede. Mai la religione
può portare alla violenza! La religione è per la vita, non per la morte; per la
pace, non per la guerra”. “Molti cristiani in Iraq ci hanno detto che si sentono
dimenticati”, ribadisce infine la nota, sottolineando l’impegno di Pax Christi a “non lasciar cadere il grido di dolore e
l’appello disperato che ci viene dall’Iraq, in un clima nazionale e
internazionale che sembra avvolto da una colpevole indifferenza”. (M.G.)
La commissione “Giustizia e Pace” della Chiesa
cattolica di Timor Est
lancia un programma di riconciliazione nazionale rivolto
ai giovani
Riportare un clima di
armonia e fraternità che consenta di stabilire relazioni sane, improntate alla
fiducia reciproca, base per edificare una società giusta e fraterna all’interno
di Timor Est e nel rapporto con la parte ovest dell’isola, ancora appartenente
all’Indonesia. Con questo obiettivo, la Chiesa cattolica di Timor Est ha
lanciato un nuovo programma di riconciliazione nazionale, indirizzato
soprattutto ai giovani, che costituiscono la gran parte della popolazione timorese. Secondo quanto riferisce l’agenzia Fides, il
programma, organizzato dalla Commissione “Giustizia e Pace”, guidata da padre Martinho Germano Da Silva, prevede un ciclo d’incontri tra
i giovani delle diocesi di Dili e Baucau,
per un’esperienza di comunione, condivisione, confronto: occasioni preziose in
cui potranno spiegarsi, mostrare i loro sentimenti, chiarire i propri ideali e
desideri, anche per chiedere perdono per le offese arrecate o ricevere
richieste di perdono. L’iniziativa assume ancora più valore se si considera che
avverrà in un Paese segnato da anni di guerra civile per l’indipendenza
dall’Indonesia e ad un anno di distanza dai gravi disordini causati da un
conflitto interno alle forze dell’ordine, che aveva coinvolto anche parte della
popolazione, generando rivolgimenti sociali e numerosi sfollati. (M.G.)
Appello dei vescovi del Québec:
“ Una settimana senza media,
riscoprire il valore dei rapporti umani”
Una “settimana di
digiuno dai media” per “riscoprire l’essenziale della
vita, le relazioni con gli altri, con sé stessi, con l’ambiente e con Dio”: è quanto
propongono i vescovi del Québec nel loro consueto
messaggio per la festa del primo maggio, puntando i riflettori sia sugli
aspetti positivi sia su quelli negativi della cosiddetta rivoluzione digitale,
che tanto cambiato il mondo del lavoro in questi anni. “Mai come oggi – rileva
il documento del Comitato episcopale per gli Affari sociali - gli ideali della solidarietà, della
fraternità e della cooperazione hanno avuto così tanti strumenti a
disposizione”. Tuttavia, tra i principali effetti negativi ci sono invece la precarizzazione generalizzata del lavoro e la progressiva disumanizzazione dei rapporti interpersonali. Così, accade
che “strumenti concepiti per avvicinare gli esseri umani possono trasformarli
in soggetti virtuali astratti”. Nel messaggio, i presuli sostengono che la
rivoluzione digitale ha provocato una “crisi di senso” che sta cambiando anche
la nostra percezione della realtà, e si chiedono, infine, “fino a che punto
permetteremo che questi strumenti ci allontanino gli dagli altri e dai nostri
istinti?”. Di qui, l’invito a “reinventare una nuova arte del vivere” che
permetta di massimizzare gli aspetti positivi della rivoluzione digitale,
mettendola al servizio dell’uomo e della qualità della vita e di ridurne al
minimo gli effetti negativi. (M.G.)
Documento dei vescovi dell’Emilia Romagna
per fronteggiare le stragi del sabato sera
I vescovi dell’Emilia-Romagna tornano a parlare delle “stragi del sabato
sera”. L’occasione è la Settimana mondiale sulla sicurezza stradale indetta
dall’ONU. In un documento intitolato “Giovani! Non fate della strada un
cimitero”, ricordano “il flagello quotidiano che colpisce tuttora non solo le
metropoli o le centrali del turismo e del divertimento, ma ormai tutto il
territorio nazionale percorso dai nostri giovani, con un loro vagabondare che
diviene, non poche volte, una corsa verso la morte”. “A noi sembra”, prosegue
la nota, “che l’intera nazione debba reagire e
affrontare con ogni energia questa ‘ecatombe’ che va decimando le generazioni
giovanili, scompaginando famiglie e società e aggiungendo sventure ulteriori
alle già tante tragedie della strada e del lavoro. Ci sembra - si legge ancora
nel documento - assai incoerente rammaricarsi sui fatti aberranti – riferiti
dalle cronache in questi mesi – che avvengono nelle famiglie, nelle scuole, nei
gruppi giovanili, e poi lasciare scoperto di severi controlli ciò che accade in
quei locali e dintorni, nei quali i giovani respirano i primi germi dello
‘sballo’”. I vescovi si rivolgono poi ai genitori: “Moltissimi di questi”
osservano “hanno la casa listata a lutto e la stanza vuota e struggente del
figlio che non c’è più; e capiscono bene le nostre parole”. E lanciano un
appello “a quei genitori piuttosto ‘permissivi’ o ‘rassegnati all’andamento
delle cose’ che, troppo tardi, si rendono conto dei
guasti che incombono sui loro figli”. I pastori chiedono ai giovani di
contrastare alla radice la smania allo “sballo” di tanti loro coetanei. Infine, una richiesta alle Autorità: “Si consideri l’opportunità di
introdurre più rigorosi limiti orari per le discoteche e i locali di
divertimento; di uniformare le normative locali in materia, ponendo in primo
piano la salute di tanti giovani ai pur legittimi (se legittimi sono) interessi
economici; e di rendere più efficaci i controlli volti a verificare il rispetto
della legislazione vigente all’interno e all’esterno di tali locali”. (A cura di Stefano Andrini)
Palermo ricorda il segretario del PCI siciliano Pio La Torre ucciso 25 anni fa in un agguato
insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo.
Presente alla manifestazione anche il ministro
dell’Interno Giuliano Amato
“Non va dimenticato il
forte, originale contributo che Pio La Torre seppe dare al fine di introdurre
innovazioni fondamentali nella legislazione antimafia, puntando a colpire la
potenza economica e finanziaria della criminalità organizzata”. E' quanto
scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un messaggio
inviato al centro studi 'Pio La Torre' di Palermo in
occasione del 25° anniversario dell'agguato in cui persero la vita il
segretario regionale del PCI, Pio La Torre, e il suo collaboratore Rosario Di
Salvo. Presente a Palermo, alla manifestazione organizzata per ricordare il
padre della legge sulla confisca dei beni mafiosi, anche il ministro
dell'Interno, Giuliano Amato. “In buona parte della Sicilia e ormai dell'Italia
– ha detto Amato – siamo alle prese con una mafia che è diventata essa stessa
economia, che avvalendosi delle grandi risorse finanziarie che ha accumulato,
opera come una impresa che ha due vantaggi competitivi
assurdi: non ha limiti nelle risorse finanziarie di cui dispone e può
esercitare sempre il ricatto della violenza nei confronti degli altri e degli
amministratori. Per noi la grande priorità è portare via ai boss i soldi, i
capitali. E' lì che si colpisce veramente”. Fondamentale per il ministro Amato
il codice etico proposto dal presidente della Commissione nazionale antimafia
Francesco Forgione ai partiti politici: “I partiti –
ha concluso Amato - possono fare una pulizia preventiva”. (A
cura di Alessandra Zaffiro)
28 aprile 2007
- A cura di Eugenio Bonanata e Franco Lucchetti -
- Ancora stragi in
Iraq dove almeno tredici persone, tra cui donne e bambini, sono morte in una
serie di attentati nell’area meridionale di Baghdad. Il più grave è avvenuto
contro la Mezzaluna Rossa, gemella della Croce Rossa nei Paesi islamici, dove
uomini armati hanno teso un agguato a un minibus su cui viaggiava il personale
dell’organizzazione, nel quartiere di Zafaraniyah,
uccidendo 4 operatori e ferendone 3. Sono almeno 23, invece, i cadaveri
ritrovati in varie zone della capitale e trasportati all’obitorio per tentarne
l’identificazione. Solo ieri i cadaveri ritrovati erano stati 26.
- Si trova sulla
strada verso Kabul, accompagnata dalle autorità parigine, la cooperante
francese rapita dai talebani il 3 aprile scorso assieme ad un connazionale e a
tre collaboratori locali. Lo ha riferito il presidente di ‘Terre d’enfance’, la ONG per la quale
lavorano. Il nostro servizio:
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Il ministero degli
Esteri francese ha confermato la notizia, annunciata stamani da un portavoce
dei talebani che, all’agenzia France Press, ha detto:
la liberazione è avvenuta stamani a Kandahar nel sud
del Paese per “motivi umanitari” e come prova delle nostre buone intenzioni
verso il governo di Parigi. In precedenza un'altra fonte dei guerriglieri aveva
annunciato la concessione di un’altra settimana per negoziare il rilascio
dell’altro operatore umanitario francese e dei tre afgani ancora nelle mani dei
sequestratori. L’ultimatum, lanciato il 20 aprile scorso, era scaduto ieri. Le
condizioni poste sono sempre il ritiro delle truppe francesi presenti nel
Paese, nell’ambito della forza NATO, e la scarcerazione di alcuni miliziani
detenuti dalle autorità di Kabul. A determinare questo sviluppo della crisi
forse la dichiarazione di ieri del ministro degli Esteri francese, Philippe Douste-Blazy, secondo il
quale Parigi crede nel rispetto della sovranità, dell’indipendenza nazionale e
dell’integrità territoriale e dunque non resterà a lungo in Afghanistan.
Intanto sul terreno lo scenario non cambia. Nella provincia di Khost, verso il confine con il Pakistan, 13 ribelli sono
rimasti uccisi in un raid aereo notturno condotto dalle forze NATO, intervenute
in appoggio alla polizia locale.
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- Prosegue la visita
del presidente Abu Mazen al
Cairo, dove ieri per la prima volta dalla formazione del governo di unità
nazionale palestinese, a marzo scorso, ha incontrato il leader del movimento di
Hamas, Khaled Meshaal.
Diversi i temi affrontati. Abu Mazen
ha condannato la violazione della fragile tregua da parte israeliana e
palestinese, mentre il leader di Hamas ha giustificato il lancio di missili
contro Israele come una forma di “autodifesa contro l’aggressione”. Il presidente
palestinese ha poi espresso ottimismo sulla possibile revoca, in tempi brevi,
dell’embargo imposto dagli occidentali. Intanto sul terreno quattro miliziani
sono stati uccisi nella striscia di Gaza dal fuoco dell’esercito israeliano.
- In Nepal, stamani,
la polizia ha aperto il fuoco contro alcuni dimostranti appartenenti al gruppo
di minoranza etnica Chure Bhawar
Unity Society uccidendo almeno una persona. Gli
scontri sono avvenuti nella città di Hairwon, a circa
400 km a sud est della capitale, Katmandu, quando alcuni attivisti del gruppo
hanno attaccato un convoglio scortato dalla polizia. Gli attivisti chiedono
maggiori diritti per la popolazione del sud del Nepal.
- “La nostra pazienza
non è illimitata”. Con queste parole, durante la conferenza stampa tenuta ieri
a Camp David con il premier giapponese Shinzo Abe, il presidente degli Stati Uniti Gorge W. Bush ha sollecitato la Corea
del Nord a mettere fine al suo programma nucleare. Se la Corea del Nord non
rispetterà gli impegni “ci sarà un prezzo da pagare” – ha concluso Bush – riferendosi alla possibilità di nuove sanzioni
contro il Paese asiatico. Anche il premier giapponese ha affermato che “se la
Corea del Nord non risponderà in modo adeguato sarà necessario fare ricorso a
misure più dure”. L’accordo per porre fine al programma nucleare nordcoreano era stato stipulato il 13 febbraio tra la Corea
del Nord e gli altri cinque Paesi partecipanti ai colloqui (Cina, Russia, Stati
Uniti, Giappone e Corea del Sud). La scadenza era prevista per metà
aprile.
- Il
commissario europeo all’Allargamento, Olli Rehn, ha lanciato un monito alla Turchia, invitando i
militari a “non interferire” nel voto parlamentare per l’elezione del nuovo
presidente del Paese, iniziato ieri. Lo stato maggiore dell’esercito, infatti,
nelle ultime ore aveva espresso “preoccupazione” per lo svolgimento degli
scrutini, dopo che Abdullah Gul,
candidato del partito filo-islamico del premier Erdogan,
non aveva ottenuto la maggioranza qualificata necessaria per l'elezione
diretta. Su questa intricata elezione presidenziale, sentiamo l’analisi del prof. Ugo Draetta,
internazionalista dell’Università Cattolica di Milano, intervistato da Stefano Leszczynski:
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R. – In Turchia noi assistiamo ad un paradosso che occorre comprendere.
Il processo di democratizzazione rischia di portare ad un’islamizzazione,
quindi ad una radicalizzazione e alla fine del processo democratico stesso. E
per assurdo la garanzia che questo non avvenga è nelle
mani dei militari, che in genere sono un ostacolo al processo di
democratizzazione, ma in questo caso costituiscono una diga contro l’islamizzazione del Paese.
D. – In Turchia, secondo l’analisi dei militari, non ci sarebbe
distinzione tra un islamismo moderato ed un islamismo radicale…
R. – Esattamente. C’è il timore che non si riesca a contenere l’islamizzazione in un contesto di moderazione e che le
frange estremiste abbiano una capacità di espansione e di contagio tale da
finire con il prevalere.
D. – I partiti dell’opposizione in Turchia hanno boicottato un po’
questa prima tornata di elezioni, nonostante il premier turco Erdogan abbia messo in guardia sui pericoli, in un momento
delicato di relazioni internazionali …
R. – Questo boicottaggio da parte dell’opposizione sembra non rendersi
conto che la Turchia possa trovarsi su una china
pericolosa. Può riprendersi, e tutti noi ci auguriamo che le cose vadano per il
meglio, ma c’è un pericolo.
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- Cresce la tensione
fra Russia ed Estonia, dopo gli scontri tra polizia e gruppi di dimostranti che
si oppongono alla rimozione di un monumento dedicato all'Armata Rossa, nella
capitale estone Tallin. Il
bilancio delle violenze di questa notte parla di 74 feriti e oltre 600
arrestati. Disordini si sono verificati anche in altre città del Paese. Forti
le contrapposizioni per il monumento in questione che per Mosca ricorda la
lotta al nazifascismo, mentre per molti estoni
rappresenta il doloroso simbolo di 50 anni di presenza sovietica nel Paese. In
questo quadro le autorità russe hanno ribadito l’intenzione di rivedere
“seriamente” le relazioni diplomatiche con l’Estonia.
- Manifestazione delle
organizzazioni giovanili filoputiniane davanti
all’ambasciata USA a Mosca. Un migliaio di giovani hanno donato il sangue che
servirà – hanno dichiarato – “per creare una banca di donatori per le vittime
dell’aggressione americana e per i loro ideali superbi”.
- Le presidenziali
francesi. Il leader centrista, Francois Bayrou, a conclusione dell’odierno dibattito televisivo con
la candidata socialista all’Eliseo, Ségolène Royal, ha affermato che
deciderà per chi votare solo dopo aver ascoltato il confronto televisivo del 2
maggio fra la Royal e Nicolas Sarkozy.
“Possiamo fare un pezzo di strada insieme” ha detto la Royal,
pur riconoscendo che non ci sarà alcuna adesione completa fra le due
formazioni. Bayrou ha evidenziato la necessità di
superare la logica del muro contro muro in favore di “unioni più larghe di
quelle che abbiamo avuto finora”.
- Si è detto
“commosso” l’ex premier italiano Silvio Berlusconi per l’assoluzione al
processo d’appello che lo vedeva accusato di corruzione in atti giudiziari per
il caso della compravendita dell’impresa pubblica SME. “Non ho mai commentato
nessuna sentenza" – ha affermato il presidente del
Consiglio Romano Prodi che ha precisato: “Ho sempre creduto nella
giustizia”. Per il ministro delle Infrastrutture Di Pietro “non c’è stato
accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi” ma solo la volontà di
accertare i fatti.
- Ancora dall’Italia.
Resterà in libertà Anna Maria Franzoni che ieri è
stata riconosciuta colpevole per l’uccisione di suo figlio, avvenuta nel 2002,
e condannata in appello a 16 anni. A precisarlo il procuratore generale della
Repubblica di Torino, Vittorio Corsi, secondo il quale bisogna arrivare alla
sentenza definitiva per la reclusione. L’imputata, che continua a proclamare la
sua innocenza, ha detto di essere disperata per la sentenza.