RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno LI n. 96 - Testo della trasmissione di venerdì 6 aprile 2007

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Nella Messa in Cena Domini il Papa spiega la Pasqua di Gesù ricorrendo agli scritti di Qumran; il Papa ha destinato il ricavato della Colletta alla Caritas Somalia: ai nostri microfoni, Davide Bernocchi

 

La Via Crucis al Colosseo, presieduta da Benedetto XVI, con le meditazioni di mons. Gianfranco Ravasi

 

Il Papa presiede nel pomeriggio la celebrazione della Passione del Signore. Il commento di mons. Angelo Comastri sul Venerdì Santo

 

La Congregazione per le Chiese Orientali promuove la tradizionale Colletta del Venerdì Santo a favore dei cristiani di Terra Santa: ce ne parla mons. Antonio Maria Vegliò

 

Oggi su "L'Osservatore Romano"

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

La soddisfazione della Comunità internazionale per la decisione dell’Eritrea di vietare la mutilazione genitale femminile: con noi Riccardo Noury

 

Rievocata in un libro la storia dei martiri cristiani in Cina durante il regime maoista: intervista con Gerolamo Fazzini

 

CHIESA E SOCIETA’:

Le celebrazioni del Venerdì Santo in Terra Santa tra i pellegrini di tutto il mondo, cattolici, ortodossi e protestanti per la concomitanza della ricorrenza pasquale

 

La Settimana Santa in Spagna: tante le manifestazioni liturgiche e di devozione popolare. Richiamo dei vescovi alla coerenza con lo spirito religioso delle feste pasquali

 

In Costa d’Avorio, “si è aperto un tempo di speranza”: lo ha detto il nunzio apostolico, mons. Cassari, durante la Messa in Cena Domini ad Abidjan

 

Allarme ONU sul clima: drammatiche conseguenze dell'effetto serra su ambiente e salute - Ancora 100 dispersi per lo tsunami che domenica scorsa ha colpito le Isole Salomone, mentre cresce l’allarme epidemie

 

Se l’Africa non sconfiggerà la miseria, anche il resto della terra “non avrà alcuna speranza”: così, l’Alto rappresentante ONU per i Paesi meno sviluppati, Chowdhury

 

“L’arte contro i pregiudizi”: Festival a Tirana, in Albania, in vista della Giornata internazionale dei Rom di domenica

 

Si è spento oggi all'età di 91 anni il regista Luigi Comencini, considerato uno dei padri del "neorealismo rosa"

 

24 ORE NEL MONDO:

Tensione a Timor Est in vista delle elezioni presidenziali di lunedì prossimo                   

 

 

Il Papa e la Santa Sede

4 aprile 2007

 

 

Nella Messa in Cena Domini il Papa spiega la Pasqua di Gesu’

 ricorrendo agli scritti di Qumran

 

L’amore di Gesù, che è insieme Figlio di Dio e vero uomo, può salvare; è un amore, il suo, che lo porta a donarsi liberamente per noi sulla Croce e la Messa in Cena Domini non è altro che memoria della Croce e della Risurrezione di Cristo. Così Benedetto XVI ieri pomeriggio durante la celebrazione che a San Giovanni in Laterano ha aperto il Triduo Pasquale e nel corso della quale ha ripetuto il gesto della lavanda dei piedi. Il servizio di Tiziana Campisi:

 

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Nell’Ultima Cena Gesù si è manifestato quale servo di Dio lavando i piedi ai suoi discepoli, ha lasciato nell’Eucaristia il memoriale della nuova alleanza, ci ha dato il comandamento nuovo e ha pregato per l’unità dei credenti. Ricordano questo i cristiani il Giovedì Santo, giorno in cui il “mistero meraviglioso” del dono di Cristo, va meditato ancora di più. Da qui l’invito di Benedetto XVI a pregare Dio perché ci aiuti a comprenderlo “sempre più profondamente”, “ad amarlo sempre di più e in esso amare sempre di più Lui stesso”. Nella sua omelia, il Papa, ha voluto spiegare meglio il significato del sacrificio di Cristo chiarendo il senso della Pasqua ebraica e la novità portata da Gesù. Se “al centro della cena pasquale” degli ebrei “stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto” e il ringraziamento a Dio per aver “preso in mano la storia del suo popolo”, la cena di Gesù è l’offerta del suo corpo e del suo sangue; “in luogo dell’agnello” Cristo “ha donato se stesso”. E citando una catechesi di San Giovanni Crisostomo il Santo Padre ha precisato:

 

L’agnello poteva costituire solo un gesto simbolico e quindi l’espressione dell’attesa e della speranza in Qualcuno che sarebbe stato in grado di compiere ciò di cui il sacrificio di un animale non era capace”.

 

In pratica, ha sottolineato Benedetto XVI, l’antica “commemorazione dell’agire salvifico di Dio”, l’haggadah pasquale, “è diventata memoria della croce e risurrezione di Cristo”; la berakha, la preghiera di benedizione e ringraziamento di Israele, invece, “è diventata la nostra celebrazione eucaristica, in cui il Signore benedice” “pane e vino per donare in essi se stesso”. “Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue”, Gesù “ha offerto Egli stesso la sua vita”, ha evidenziato il Santo Padre, “solo così l’antica Pasqua otteneva il suo vero senso”. Cristo “era l’agnello atteso, quello vero”, ha proseguito Benedetto XVI, “come aveva preannunciato Giovanni Battista all’inizio del ministero pubblico di Gesù:Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!’”:

 

Ed è Egli stesso il vero tempio, il tempio vivente, nel quale abita Dio e nel quale noi possiamo incontrare Dio ed adorarlo. Il suo sangue, l’amore di Colui che è insieme Figlio di Dio e vero uomo, uno di noi, quel sangue può salvare. Il suo amore, quell’amore in cui Egli si dona liberamente per noi, è ciò che ci salva”.

 

“L’immolazione dell’innocente ed immacolato agnello, ha trovato risposta in Colui che per noi è diventato insieme Agnello e Tempio”, ha aggiunto il Papa che ha poi definito la Croce il cuore della Pasqua nuova di Gesù:

 

Da essa veniva il dono nuovo portato da Lui. E così essa rimane sempre nella Santa Eucaristia, nella quale possiamo celebrare con gli Apostoli lungo il corso dei tempi la nuova Pasqua. Dalla croce di Cristo viene il dono”.

 

Una “cena dai molteplici significati”, quella celebrata da Gesù “con i suoi la sera prima della Passione” ha detto il Santo Padre che ha voluto anche suggerire una “possibile soluzione convincente” all’“apparente contraddizione” del racconto che di essa ci hanno lasciato Giovanni e i Vangeli sinottici. Il primo descrive che “Gesù morì sulla Croce, precisamente nel momento in cui nel tempio, venivano sacrificati gli agnelli pasquali” lasciando dedurre che “Egli morì alla vigilia di Pasqua e quindi non potè personalmente celebrare la cena pasquale”:

 

Questo, almeno, è ciò che appare. Secondo i tre Vangeli sinottici, invece, l’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale, nella cui forma tradizionale Egli inserì la novità del dono del suo corpo e del suo sangue”.

 

Ma tenendo in considerazione gli scritti di Qumran, ha proseguito Benedetto XVI, i testi si conciliano:

 

Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello - no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue”.

 

La memoria della croce, ha detto poi il Papa, “non ricorda semplicemente il passato”, “ci attira entro la presenza dell’amore di Cristo”. E nel far memoria di tale amore, ha concluso, bisogna pregare Dio perché ci aiuti ad amarlo sempre più: 

 

Preghiamolo di aiutarci a non trattenere la nostra vita per noi stessi, ma a donarla a Lui e così ad operare insieme con Lui, affinché gli uomini trovino la vita – la vita vera che può venire solo da Colui che è Egli stesso la Via, la Verità e la Vita”.

 

Dopo l’omelia Benedetto XVI ha ripetuto il gesto compiuto da Gesù durante l’Ultima Cena, la lavanda dei piedi, il mandato richiesto da Cristo per essere al servizio dei fratelli, mentre, come atto di carità, i fedeli sono stati invitati a fare delle offerte per il Dispensario medico di Baidoa, in Somalia. Un gesto per rispondere all’invito che Gesù ci ha rivolto nella Sua ultima ora: amatevi come io vi ho amati.

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Ma come è stata accolta in Somalia l’iniziativa del Papa? Giancarlo La Vella ne ha parlato con Davide Bernocchi, direttore della Caritas Somalia:

 

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R. – Con un senso di grande gratitudine verso il Santo Padre perché in questo momento si parla di Somalia solo in termini di violenza, e quindi il fatto di riservare un’attenzione ad un progetto di servizio, ad un progetto umanitario, credo sia un segno di speranza, di considerazione – appunto – per le sofferenze di questo popolo di cui poco si parla, e anche credo che tutti possano leggere in questo un omaggio alle tante persone che hanno sacrificato la propria vita per la giustizia e la pace in Somalia. L’ultimo esempio è stato quello di suor Leonella Sgorbati, assassinata a Mogadiscio il 17 settembre dell'anno scorso.

In questo momento particolare, l’emergenza primaria è legata ai profughi che a migliaia lasciano Mogadiscio a causa degli scontri. Però, la Somalia è in emergenza da 16 anni a questa parte e l’emergenza riguarda un po’ tutti i settori: la gente non ha accesso all’acqua potabile, non ci sono scuole, non ci sono servizi sanitari e quindi la situazione è veramente disastrosa!

 

D. – Dal punto di vista politico, la Somalia è un terreno su cui si sono scontrate e si scontrano varie realtà. Si riesce a intravedere uno spiraglio di dialogo?

 

R. – In questo momento è molto difficile vedere questo spiraglio perché, comunque sia, alle dinamiche distruttive interne, proprie della società somala, si è aggiunta anche quella militare esterna, per esempio, dell’esercito dell’Etiopia che a dicembre, appunto, ha partecipato ad una guerra insieme alle istituzioni somale contro le Corti islamiche, e questo purtroppo non ha fatto che complicare la situazione interna. Direi che, se una speranza c’è, non è certo – dal mio punto di vista – quella della soluzione militare ma quella del dialogo interno tra somali, un dialogo che fissi delle regole e le rispetti, perché comunque è innegabile che oggi, dal 2004 a questa parte, c’è un quadro istituzionale che è quello delle Istituzioni federali di transizione, all’interno del quale questo dialogo deve aver luogo.

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La Via Crucis al Colosseo, presieduta da Benedetto XVI, con le meditazioni di mons. Gianfranco Ravasi

 

“Rivivere la realtà aspra e cruda di una vicenda aperta però alla speranza, alla gioia, alla salvezza”. Con questi sentimenti mons. Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, ha scritto le meditazioni che guideranno stasera alle 21.15, al Colosseo, il tradizionale rito della Via Crucis del Venerdì Santo, presieduto da Benedetto XVI. Il Papa porterà la croce alla prima e all’ultima stazione: nelle altre stazioni si alterneranno, oltre al cardinale vicario Camillo Ruini, alcuni giovani provenienti da Cina, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Corea e Cile, una famiglia italiana e due religiosi francescani della Custodia di Terra Santa. L’evento sarà seguito in diretta mondovisione da 67 televisioni di 41 Paesi. Anche la nostra emittente si collegherà in radiocronaca diretta a partire dalle 21.05, con commenti in italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco. Ma in che modo l’itinerario spirituale di questa Via Crucis ha preso forma e parola nelle meditazioni di mons. Ravasi? Lo descrive in questo servizio Alessandro De Carolis:

 

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(musica)

 

Quattordici soste, fatte di sangue e scudisciate, oltraggi e lacrime, pena fisica e dolore morale. Quattordici icone dove la bestialità si contende con la misericordia, la solidarietà grida accanto alla violenza, quasi che in una stessa unità di tempo e spazio il meglio e il peggio della natura umana si fossero schierati fianco a fianco per difendere o aggredire il divino, che appare alla loro mercé. E’ lo scenario di una “tarda mattinata primaverile di un anno tra il 30 e il 33 della nostra era”, come scrive mons. Ravasi, presentando le sue meditazioni sulla Via Crucis, vicenda “aspra e cruda”, rivissuta con la partecipazione del cristiano e l’occhio dello studioso. In modo costante, dalla penombra dell’Orto degli Ulivi, che accompagna l’agonia e il tradimento di Gesù, alla deposizione nel Sepolcro - ultima attesa prima di un mattino di Pasqua che cambierà per sempre la storia umana - mons. Ravasi entra ed esce dalla cronaca della salita al Calvario per rapportarsi con i vari Golgota della nostra epoca. La folla che gode o soffre per lo scempio del Nazareno non è poi tanto diversa, sembra dire, da quella che alimenta o combatte le piaghe sociali del 21.mo secolo. Così, il Cristo chino in preghiera, solo e angosciato prima dell’arresto, è il riflesso di quei soli, scrive mons. Ravasi, in “attesa davanti a una parete spoglia o a un telefono muto, dimenticati da tutti perché vecchi, malati, stranieri o estranei”. Oppure Pilato, che “incarna - dice - un atteggiamento che sembra dominare ai nostri giorni, quello dell’indifferenza, del disinteresse, della convenienza personale”. Sulla faccia del governatore romano brilla non tanto l’immoralità - che almeno genera un sussulto - quanto la “pura amoralità”, quella che “paralizza la coscienza”. O ancora il momento della compassione dolente, con le donne che si fanno incontro al loro Rabbi ormai sfigurato, colui che “superando convenzioni e pregiudizi” aveva dialogato con loro. Ecco che sulla Via della Croce, osserva mons. Ravasi, “si stringe dunque un mondo di madri, di figlie e di sorelle”: immagine delle madri ebree e palestinesi, e di tutte le donne violentate, emarginate, “in crisi e sole di fronte alla loro maternità”, “sottoposte a pratiche tribali indegne”. Singolare e inquietante la descrizione che mons. Ravasi di ciò che solitamente davanti alla Croce esiste come rumore di fondo: la folla. E’ “il ritratto della superficialità, della curiosità banale”, di chi cerca emozioni forti. “Un ritratto - scrive l’autore delle meditazioni - nel quale si può identificare anche una società come la nostra che sceglie la provocazione e l’eccesso quasi come una droga per eccitare l’anima ormai intorpidita, un cuore insensibile, una mente offuscata”. Ma calata l’eccitazione del sangue, ora che la morte ha chiuso gli occhi di Gesù è essa stessa ad avere le ore contate. “La croce e il sepolcro - commenta mons. Ravasi - non sono stati l’estuario ultimo” della storia di Gesù di Nazareth, “bensì lo è stata la luce della sua Risurrezione e della sua gloria”.

 

(musica)

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Il Papa presiede nel pomeriggio la celebrazione della Passione del Signore. Il commento di mons. Comastri sul Venerdì Santo

 

Il Papa presiederà nel pomeriggio nella Basilica Vaticana la celebrazione della Passione del Signore con l’adorazione della Santa Croce. Durante la Liturgia della Parola, viene riascoltato il racconto della Passione secondo Giovanni. Terrà l’omelia il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa. La Radio Vaticana trasmetterà la cronaca del rito, in lingua italiana, a partire dalle 16.50 sull'onda media di 585 kHz e sulla modulazione di frequenza di 105 MHz. Per una riflessione sul Venerdì Santo ascoltiamo l’arcivescovo Angelo Comastri, vicario del Papa per lo Stato del Vaticano e arciprete della Basilica di San Pietro, intervistato da Giovanni Peduto:

 

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R. – Il Venerdì Santo è la giornata nella quale noi dobbiamo rimetterci davanti alla Croce di Gesù per prendere due lezioni. La prima lezione è la serietà del peccato: guardando il Crocifisso si capisce che dramma si nasconde dietro il peccato. Il peccato rende il figlio di Dio fatto uomo una vittima perché quando il santo, il giusto, il buono, il puro, entra dentro questa storia è inchiodato alla croce, allora questa storia è malata, è infetta, è segnata da una tragedia e questa tragedia  è il peccato. La Croce, il Crocifisso, ci gridano la serietà del peccato. Il peccato è la vera malattia dell’umanità. Il peccato è la causa di tutte le sofferenze, è la causa di tutte gli squilibri, perché il peccato ci stacca da Dio e Dio soltanto  è il punto di equilibrio della storia della creazione. Il Venerdì Santo ce lo ricorda. Dall’altra parte, il Venerdì Santo ci dice anche che in questa storia segnata dal peccato Dio si è reso presente, Dio ci è entrato dentro e ha messo dentro questa storia un infinito atto di amore. Gesù ha detto sulla croce: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno” e come ultima parola, l’evangelista Giovanni che era presente sul Calvario ha raccolto: “Tutto è compiuto”. Cosa vuol dire? Ho amato fino all’ultima briciola, ho raccontato l’amore di Dio e ho collocato l’amore di Dio dentro la storia. Da quell’atto d’amore, dall’atto di amore della croce parte tutto il fiume di carità che attraversa la storia e che è il mistero stesso della Chiesa. Da quell’atto di amore un persecutore come Saulo diventa un apostolo, un apostolo innamorato come Paolo; da quell’atto di amore, un uomo come Agostino, un uomo segnato dal peccato come Agostino, diventa un grande santo, Sant’Agostino di Ippona. Da quell’atto di amore nasce il cambiamento  di un giovane buontempone, gaudente, come Francesco di Assisi, che diventa uno dei più grandi santi di tutti i tempi. Perché? Perché  è stato lambito dalla forza della Croce. Da quell’atto di amore nasce il cambiamento di un sacerdote mediocre come Vincenzo de’ Paoli che diventa un apostolo meraviglioso della carità in un secolo difficilissimo, diventa San Vincenzo de’ Paoli. Nella Chiesa tutto il fiume della carità, tutto il fiume dell’impegno parte dalla Croce e il Venerdì Santo ce lo ricorda: è il giorno che ci dice che cos’è il male, ma anche ci dice che Dio ha messo dentro il male della storia e del peccato un infinito atto di amore che è la redenzione.

 

D. – Il Venerdì Santo la Chiesa ci pone davanti il Cristo che soffre e muore sulla Croce: tuttavia il cristianesimo non è una religione dolorista …

 

R. – Non è una religione dolorista ma è la religione che affronta il dolore: è già una risposta al dolore, perché il dolore c’è, il dolore non c’è bisogno di inventarlo, il dolore ormai è nella storia ed è presente nella storia perchè la storia è malata, perché la storia si è staccata da Dio, perché l’uomo ha peccato, perché la libertà umana è diventata orgoglio ed è diventata quindi una libertà che si è crocifissa, che si è mutilata, che si è in qualche modo condannata alla sofferenza, perché perdere Dio non è come perdere il cappello, perdere Dio vuol dire perdere tutto, vuol dire perdere l’infinito, perdere il senso di tutto; quindi il dolore c’è, il dolore non l’ha inventato la Chiesa, il dolore non l’ha inventato il cristianesimo; il cristianesimo ha portato la Salvezza del dolore, ricordandoci che dentro il dolore Dio è entrato, quindi Dio abita anche nel dolore, quindi il dolore è vinto, quindi il dolore può acquistare una finalità, il dolore può diventare un’occasione per amare di più, perché a noi interessa il dolore nella misura in cui può diventare l’occasione per crescere nella carità e per uscire dall’egoismo.

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La Congregazione per le Chiese Orientali promuove la tradizionale Colletta del Venerdì Santo a favore dei cristiani di Terra Santa

 

La Congregazione per le Chiese Orientali, come è tradizione il Venerdì Santo, ha inviato ai pastori e ai fedeli cattolici di tutto il mondo una lettera-invito a contribuire con generosità ai bisogni delle comunità cristiane che vivono in Terra Santa in mezzo a crescenti difficoltà. Si tratta della Colletta pro Terra Sancta, una iniziativa che si svolge ogni anno per mandato pontificio: la prima Colletta risale a papa Martino V, che stabilì nel 1421 le norme circa la raccolta delle offerte. Giovanni Peduto ha sentito in proposito il segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò:

 

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R. - L’occasione ci è data dal Venerdì Santo, giorno nel quale ogni cristiano torna spiritualmente ai luoghi della Redenzione. Proprio là, dove la memoria cristiana è tanto antica e tanto eloquente, i discepoli di Cristo, come “pietre vive”, sono chiamati anche oggi a prolungare la testimonianza evangelica mai interrotta nei due millenni della storia cristiana.

 

D. - Nella lettera della Congregazione si lancia un appello urgente a sostenere i cristiani della Terra Santa, dove si registrano ogni giorno "inaudite sofferenze". Qual è la situazione delle comunità cristiane?

 

R. - Il pesante conflitto armato e la conseguente insicurezza, con i risvolti particolarmente negativi a livello sociale ed economico, educativo ed assistenziale, incidono sulla vita delle famiglie e sul futuro dei giovani, tentando talora di spegnerne la speranza. Le comunità cristiane si sentono spesso impotenti, ma non vengono meno alla loro missione essenziale: condividere ogni povertà, alimentando la fede e la fiducia in Gesù Cristo, Signore della storia, e su questo patrimonio spirituale sostenere i cristiani a rimanere in Terra Santa, sconfiggendo da un lato la tentazione di emigrare e dall’altro crescendo nella solidarietà, come nella inderogabile collaborazione ecumenica e interreligiosa.

 

D. - Quali sono le necessità più urgenti? E a chi in particolare saranno devolute quest’anno le offerte?

 

R. - La precarietà estrema del lavoro penalizza la vita di tutti a livello familiare, sociale ed ecclesiale. I pastori devono spesso farsi carico della urgenza occupazionale, delle necessità scolastiche ed assistenziali di strati sempre più vasti della popolazione cattolica e non cattolica. Da alcuni anni alla nostra lettera pro Terra Sancta si unisce un resoconto delle principali opere straordinarie realizzate sia dalla Congregazione sia dalla Custodia dei Frati Minori. Ma va ricordato con particolare apprezzamento anche l’impegno ordinario pastorale e caritativo del Patriarcato Latino di Gerusalemme e delle altre comunità orientali cattoliche, coordinato dalla nostra Congregazione con il supporto indispensabile della Rappresentanza Pontificia di Terra Santa. Un obiettivo prioritario di questi anni è, però, l’attenzione al problema abitativo, soprattutto per le giovani coppie.

 

D. - La lettera sottolinea anche la responsabilità che incombe sulla Chiesa universale a riguardo della Chiesa Madre di Gerusalemme…

 

R. - Certamente la città storica di Gerusalemme è un richiamo luminoso per tutti, col suo nome e la sua vocazione di pace. E’ la città dei discepoli del Signore e dei credenti nell’unico Dio, ebrei e musulmani. E’ la memoria visibile delle nostre origini cristiane ed ecclesiali: il futuro è imprescindibile da esse. Ci ricorda che Dio ha visitato in Cristo il suo popolo, lo ha redento ed è sempre al suo fianco. Ci invita a formare la Chiesa, città spirituale incamminata verso la Gerusalemme celeste ed eterna. Veramente come dice il salmo: “Tutti là siamo nati”. E’ la madre che i figli non possono dimenticare.

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Oggi su "L'Osservatore Romano"

 

Servizio vaticano - Giovedì Santo: la Messa in Cena Domini celebrata da Benedetto XVI a San Giovanni in Laterano.

 

Servizio estero - In rilievo l’Afghanistan: sangue a Kabul per un nuovo attentato suicida.

 

Servizio culturale - Sabato Santo; un articolo di Danilo Veneruso dal titolo “Il confronto dell’uomo con il mistero”. 

 

Servizio italiano - In primo piano sempre la vicenda Telecom.

 

 

Oggi in Primo Piano

4 aprile 2007

 

La soddisfazione della comunità internazionale per la decisione dell'Eritrea di vietare la mutilazione genitale femminile

 

Grande soddisfazione nella comunità internazionale per la decisione del governo eritreo di proibire la pratica della mutilazione genitale femminile. La misura è retroattiva, essendo entrata in vigore il 31 marzo. I contravventori andranno incontro a multe e anche alla prigione. Si calcola che nel mondo ogni anno circa 3 milioni di bambine e adolescenti subiscano tale pratica barbara e che in totale siano circa 140 milioni le donne che l’hanno già subita. Debora Donnini ha chiesto a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, quanto è importante nella lotta alle mutilazioni genitali femminili questo provvedimento adottato in Eritrea:

 

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R. – E’ un provvedimento importantissimo, perché avviene in un Paese nel quale le mutilazioni genitali femminili sono state e sono largamente praticate. Quindi, non c’è modo migliore per fermare una pratica così brutale che avere una legge che la proibisca. E’ importante che avvenga in Africa, perchè è un continente piagato da questa terribile pratica, ma è il continente nel quale negli ultimi decenni sono stati fatti passi avanti, sia in termini di mobilitazione di gruppi femminili, di organizzazioni non governative e di governi, fino ad arrivare pochi anni fa al protocollo di Maputo, che è uno strumento giuridico molto importante, a tutela delle vittime delle mutilazioni genitali femminili.

 

D. – Questa legge è un passo importante, anche se sicuramente è necessario intervenire, anche a livello di istruzione…

 

R. – Sì, bisogna aggirare questo fenomeno per reprimerlo in maniera netta da più parti. Intanto, c’è bisogno di una legge, perché senza una legge, che è un riferimento normativo che vieta questa pratica definendola illegale, non si può fare nessun passo avanti. Quello che la legge non prevede, perché forse non è neanche compito suo, è quello di una formazione della sensibilizzazione dell’opinione pubblica, delle donne in particolare, e di tutti i gruppi che possono sul piano professionale – penso in primo luogo ai medici – fare qualcosa per convincere chi pratica le mutilazioni e poi chi le subisce che si tratta di violazioni di un diritto fondamentale, che è quello all’integrità fisica della persona umana.

 

D. – Questa pratica è più legata alla cultura…

 

R. – Sì, sono pratiche tradizionali, che, tra l’altro, si muovono anche con i flussi migratori. Quindi, acquistano una dimensione abbastanza globale. Molto spesso le bambine subiscono questa pratica contro la propria volontà ed hanno, in qualunque modo siano praticate, in qualunque forma, delle conseguenze fisiche e psicologiche devastanti e spesso permanenti. Insorgono complicazioni fisiologiche, disfunzioni, infezioni, complicazioni psicologiche e sessuali, che hanno un impatto permanente sulla vita di migliaia di donne ogni anno.

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Rievocata in un libro la storia dei martiri cristiani in Cina

 durante il regime maoista

 

“Noi sappiamo bene che i nostri fratelli e sorelle in Cina hanno dovuto affrontare, nell’arco di questi 30 anni prove difficili e prolungate. In quelle dure sofferenze essi hanno dato la prova della loro fedeltà in Cristo e alla sua Chiesa”. Così Giovanni Paolo II invitava, nel giorno dell’Epifania del 1982, i vescovi di tutto il mondo a pregare per la Chiesa in Cina. Gerolamo Fazzini, condirettore della rivista del PIME Mondo e Missione, ha ricostruito, attraverso le storie di preti e laici cinesi sopravvissuti ai campi di prigionia, le persecuzioni subite durante il regime maoista a causa della fede. Ne è uscito "Il libro rosso dei martiri cinesi". Antonella Villani gli ha chiesto cosa accomuna queste testimonianze:

 

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R. - Sono due elementi: da un lato la brutalità e la violenza del regime maoista e della persecuzione da esso adottata nei confronti dei cristiani e in generale di tutti gli oppositori politici e culturali. Un secondo dato è la grande fede di tutte le persone che nel libro parlano. Fede che, appunto, essi testimoniano all’interno di un contesto difficilissimo, fatto di prove fisiche, di torture, di violenze psicologiche. Prove che, non dimentichiamolo, spesso mettono la fede dei protagonisti a durissima prova. Queste persone arrivano spesso a chiedersi dov’è finito Dio, vivono l’angoscia, vivono esattamente tutte le difficoltà, i timori e le titubanze che avremmo vissuto noi, però le superano esattamente in valore della loro fede, davvero grande.

 

D. - C’è un episodio che l’ha colpita particolarmente?

 

R. - A un certo punto, in uno dei diari di questi preti rinchiusi per tanti anni in detenzione, si narra la conversione di un compagno di prigionia di questo prete che si avvicina al cristianesimo precisamente vedendo la grande serenità con la quale il suo compagno viveva la sua situazione. E’ paradossale, il campo di lavoro, nella logica maoista, aveva il compito di forgiare l’uomo nuovo nel senso dell’ideologia e invece qui vediamo l’uomo nuovo che nasce dal Vangelo e rinasce alla vita eterna proprio nel posto che meno sembrerebbe indicato perché tutto questo accada.

 

D. -Le storie dei martiri diventano quindi una lezione di vita e di fede...

 

R. - Credo che la forza di queste testimonianze sia proprio nella loro autenticità e nella loro precisione anche del racconto, dei dettagli di vita che vengono espressi. Dall’altro lato, viene fuori anche la grande statura umana di queste persone ma anche la loro fede continuamente verificata. Tutto questo colpisce molto perchè leggendo si è portati ad immedesimarsi, anche se poi tutti i lettori sperimenteranno alla fine la grande distanza tra la loro fede eroica e la nostra un po’ accomodante.

 

D. - Queste storie si riferiscono a una Cina di 50 anni fa. Qual era la situazione in quel periodo?

 

R. - Si riferiscono in generale all’epoca maoista che va dagli anni ’50 alla fine degli anni ’70. In tutto quel periodo la persecuzione anticristiana è stata molto violenta. Decine di migliaia di persone sono state incarcerate, hanno subito violenze, molte sono state uccise, è impossibile fare un conto preciso dei martiri in questo senso. Quello che è certo è che si è cercato per vari anni di fare tabula rasa della Chiesa cattolica in Cina e il potere ha cercato con la forza di mettere la parola fine sul cristianesimo in terra cinese ma proprio la sofferenza e il martirio - come è stato sempre un po’ nella storia della Chiesa - ha rafforzato la fede e ha fatto germinare nuove generazioni di credenti.

 

D. - Oggi rispetto al passato che cosa è cambiato?

 

R. - Non esiste più la persecuzione nei termini in cui la si percepisce leggendo il libro rosso dei martiri cinesi. Quello che non è cambiato è il presupposto dell’azione del governo e del partito che è il suo braccio, e cioè la pretesa del governo di controllare tutte le espressioni pubbliche della fede. La legge cinese prevede un generico diritto di credere ma nel chiuso della propria stanza, mentre invece l’espressione pubblica della fede è soggetta al controllo dello Stato e quindi non si tratta più di un riconoscimento di un diritto soggettivo inalienabile della persona ma di una concessione che viene data dalla Stato.

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Chiesa e Società

4 aprile 2007

 

 

Le celebrazioni del Venerdì Santo in Terra Santa tra i pellegrini

di tutto il mondo, cattolici, ortodossi e protestanti per la concomitanza

 della ricorrenza pasquale

 

Sulla via Dolorosa e sul Calvario la Chiesa di Gerusalemme fa oggi memoria della crocifissione e morte di Gesù. Migliaia e migliaia di fedeli, la stragrande maggioranza pellegrini venuti da ogni parte del mondo - e sono cristiani cattolici, ortodossi e protestanti per la concomitanza della ricorrenza pasquale - in processione ininterrotta fin dalle prime luci del giorno, hanno pregato nella città vecchia, sostando davanti alle stazioni della Via Crucis, ripercorrendo così il cammino del Signore dal luogo della sua condanna a quello del patibolo e a quello, vicinissimo, della sua Resurrezione entrambi inglobati nella basilica costantiniana del Santo Sepolcro. Qui di prima mattina proprio "nel luogo detto del Cranio", in ebraico Golgota, testimone della passione e morte del nostro Redentore e, come dice la liturgia, “centro della terra, dove il genere umano ha ricevuto la rigenerazione nel suo sangue”, la Chiesa latina ha celebrato la liturgia della Parola, facendola seguire dalla preghiera universale e, particolarmente emozionante, dall’adorazione della reliquia della Croce. Ha presieduto mons. Kamal-Hanna Batish, ausiliare del patriarca Sabbah, attorniato da membri del clero patriarcale e dai frati minori francescani custodi dei luoghi santi. A conclusione una suggestiva cerimonia eucaristica: diaconi, ceroferari, presbiteri ed il vescovo sono andati in processione all’edicola dell’Anastasi per prelevare la pisside con il Santissimo Sacramento deposta ieri proprio sul Sepolcro del Signore. Riportata sul Calvario dopo il canto del Padre Nostro e del passo sull’Apocalisse (“Essi hanno vinto per il sangue dell’Agnello”) è stata distribuita la comunione.Ieri sera al Getsemani nella basilica gremita di fedeli il custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa ha guidato l’Ora santa di adorazione Nella tarda mattinata odierna ha presieduto una Via Crucis in lingua italiana; e nel Santo Sepolcro – ove si susseguono anche le cerimonie liturgiche delle varie Chiese ortodosse – accompagnerà stasera con i frati francescani la processione con la statua di Gesù deposto dalla Croce. (A cura di Graziano Motta)

 

 

La Settimana Santa in Spagna: tante le manifestazioni liturgiche

e di devozione popolare. Richiamo dei vescovi alla coerenza

con lo spirito religioso delle feste pasquali

 

In quasi tutte le regioni della Spagna la Settimana santa è vissuta non solo liturgicamente ma anche con grandi manifestazioni popolari di lunga tradizione, in particolare con rappresentazioni sceniche e processioni per le strade delle città storiche. Un elemento fondamentale in queste processioni sono le statue religiose o ”pasos”, per la maggior parte di notevole valore storico o artistico, che vengono portate dai fedeli appartenenti alle diverse associazioni o “cofradias”. Tra le statue di queste processioni ci sono autentici capolavori di arte religiosa dovuti a scultori come Berruguete, Salzillo, Gregorio Fernandez o Mena. Benché sia Siviglia la città più conosciuta dal turismo internazionale per le sue celebrazioni della Settimana Santa vanno ricordate anche Granada, Malaga, Cuenca, Zamora o Valladolid. Tra le migliori rappresentazioni sceniche va riconosciuto al primo posto il nome della città di Esparreguera nella Catalogna, non lontano da Barcellona. Circa 600 uomini e donne della città partecipano ad uno spettacolo di origine medievale diviso in due parti: la vita e la Passione di Gesù. Quest’anno le rappresentazioni sono iniziate il mese di marzo, e con periodicità settimanale continueranno fino al 1 maggio. La Settimana santa, ed in particolare il Triduo sacro continua dunque ad essere al centro dell'attualità in questo periodo dell’anno in Spagna, mentre i vescovi insistono nella necessità di essere fedeli al significato e allo spirito di queste manifestazioni religiose. Giovedì e Venerdì santo sono giorni festivi in Spagna e quindi un’occasione per fare turismo religioso o semplicemente per prendersi alcuni giorni di vacanze. Purtroppo, le piogge hanno colpito in particolare le zone di interesse turistico del sud e della costa del Mediterraneo. (A cura di padre Ignacio Arregui)

 

 

In Costa d’Avorio “si è aperto un tempo di speranza”: così,

 il nunzio apostolico, mons. Cassari, durante la Messa

 in Coena Domini ad Abidjan

 

“Credo fermamente che un tempo di speranza più che mai reale si sia aperto per il nostro Paese, la Costa d’Avorio”: è quanto ha affermato ieri sera il nunzio apostolico, mons. Mario Roberto Cassari, durante la Messa in Coena Domini nella parrocchia di San Pietro, a Yopougon, uno dei quartieri più popolosi di Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio. Dopo aver fatto cenno alla lavanda dei piedi – riferisce l’agenzia MISNA – come gesto simbolico che concretizza la necessità di essere al servizio gli uni degli altri, il presule ha sottolineato che questo servizio non è richiesto solo in ambito ecclesiale, ma anche civile: occorre mettersi a servizio del bene comune della nazione – ha precisato – “rispettarsi, malgrado le divergenze di opinione, riconciliarsi e perdonarsi!”. Facendo poi riferimento esplicito agli accordi di pace firmati a Ouagadougou dal presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, e dal rappresentante delle Forze Nuove, nominato in questi giorni primo ministro, Guillome Soro, grazie all’opera mediatrice del presidente del Burkina Faso, il nunzio ha invitato a non sprecare questo momento di grazia: “Che questo tempo di speranza – ha esortato – non sia dilapidato! Perché è arrivato finalmente il tempo di scoprire il vero senso dell’amore, del dialogo, del rispetto reciproco, del perdono reciproco, della fraternità, dell’unità e della pace”. “Bisogna ringraziare il Signore – ha poi aggiunto – ma occorre anche ringraziare tutti coloro che hanno lavorato bene e alacremente in questo senso. Conserviamo la speranza, perché le grandi luci all’orizzonte possono fermare le divisioni che hanno scosso la nazione”. (R.M.)

 

 

Pubblicato il Rapporto 2007 sui cambiamenti climatici: drammatiche

 conseguenze dell’aumento delle temperature per ambiente e salute

 

L’innalzamento della temperatura media globale di 2-2,5 gradi rispetto al presente “potrà causare un forte aumento degli impatti”, con spostamenti geografici di specie, perdite totali di biodiversità, riduzione della produttività agricola e delle risorse idriche, e drammatiche conseguenze per la salute: è quanto emerge dal Rapporto 2007 sui cambiamenti climatici, varato stamani a Bruxelles dal Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), che riunisce esperti dell’ONU e dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO). La presentazione del documento di 1.400 pagine, stilato da 2.500 scienziati in sei anni, era stata rinviata di qualche ora per il veto posto dai delegati di Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita, che hanno definito il testo “troppo duro”. Il Rapporto punta il dito contro il surriscaldamento globale causato dalle attività umane degli ultimi decenni, che avrà conseguenze “negative” su tutte le regioni del mondo. “Le proiezioni climatiche relative agli impatti sulla salute – spiegano gli scienziati – prevedono uno scenario drammatico in particolare per le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo”. Il documento parla di “aumento della malnutrizione e dei rischi di malattie infettive e respiratorie, aumento di mortalità a causa di eventi più estremi come onde di calore, alluvioni, tempeste e siccità e aumento della frequenza delle malattie cardio-respiratorie a causa dell’aumento delle concentrazioni di ozono troposferico a livello superficiale”. Gli impatti dei cambiamenti climatici – dicono gli esperti dell’IPCC – “sono già in atto a livello globale e regionale e saranno più forti nel futuro”. Le aree colpite da siccità aumenteranno in estensione, con gravi conseguenze sull’agricoltura, specie nelle basse latitudini. Aumenteranno poi gli eventi di più intensa precipitazione, come anche i rischi di alluvioni. In Africa, in particolare, entro il 2020 milioni di persone saranno esposte a un forte aumento di "water stress". Inoltre, con un aumento della temperatura media globale di 1,5-2,5 gradi, si avrà un maggiore rischio di estinzione per circa il 20-30% delle specie vegetali ed animali. In Australia e Nuova Zelanda, in particolare, le proiezioni climatiche stimano una forte perdita di biodiversità entro il 2020. Tra gli ecosistemi più colpiti: la tundra, le foreste boreali, le mangrovie, le barriere coralline, le aree costiere e i sistemi mediterranei. Da Bruxelles, gli esperti lanciano a tutti i governi del mondo un appello ad agire per cercare di ridurre i danni. “Adattarsi ai cambiamenti climatici in corso – ribadiscono – è necessario ora, perché già dobbiamo fronteggiare impatti negativi dovuti ai gas emessi nel passato e che generano l’effetto serra. Mitigare queste emissioni può ridurre, ritardare o evitare questi impatti negativi”. (A cura di Roberta Moretti)

 

Ancora 100 dispersi per lo tsunami che domenica sera ha colpito

 le Isole Salomone, mentre cresce l’allarme epidemie

 

È arrivato a 32 morti accertati il bilancio dello tsunami che domenica sera ha devastato la provincia ovest delle Isole Salomone, nell’Oceano Pacifico del sud, ma la stima dei decessi potrebbe salire notevolmente. Dal ministero australiano per gli Affari Esteri, fanno sapere che al momento i dispersi sono 100: “Ci prepariamo ad un aggravamento del numero di morti accertate”, affermano. Intanto – riferisce AsiaNews – con fatica sono arrivati ieri i primi soccorsi. L’aeroporto di Gizo, capoluogo provinciale, ha ripreso a funzionare, aprendo così la via agli aiuti aerei dalla capitale, Honiara. Si teme però che i villaggi più colpiti dall’onda anomala non riceveranno in tempi brevi i soccorsi e le agenzie umanitarie lanciano un nuovo allarme epidemie. Di ieri, la notizia che a Gizo numerosi bambini hanno cominciato a soffrire di dissenteria e, mentre si registrano focolai di malattie dovute ad acqua inquinata, il rischio più grande è che si generi un’epidemia di malaria. “È una corsa contro il tempo”, sottolinea il direttore esecutivo di Oxfam per la Nuova Zelanda, Barry Coates. Jamie Isbiter, a capo dei programmi di intervento per Caritas Australia, spiega:  “Le necessità primarie ora sono accesso ad acqua potabile, cibo e assistenza sanitaria adeguata”. “Fornire abitazioni provvisorie per l’emergenza – aggiunge – sarà l’obiettivo della prossima fase di aiuti”. (R.M.)

 

 

Se l’Africa non sconfiggerà la miseria, anche il resto della terra

 “non avrà alcuna speranza”: così, l’Alto rappresentante ONU

per i Paesi meno sviluppati, Chowdhury

 

Il mondo non raggiungerà gli ‘Obiettivi di sviluppo del millennio’ (MDG) relativi alla lotta alla povertà, se non terrà conto delle nazioni africane più povere: lo ha detto l’Alto rappresentante ONU per i Paesi meno sviluppati, Anwarul K. Chowdhury, aggiungendo che i piani mondiali per raggiungere entro il 2015 gli otto principali MDG (che tutti i 191 Stati membri dell’ONU si sono impegnati a conseguire con la ‘Dichiarazione del Millennio’ del settembre 2000) devono andare di pari passo con quelli di organismi locali già esistenti, come per esempio il NEPAD, Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa. Chowdhury ha ricordato che a tutt’oggi 34 dei 50 Stati classificati come i meno sviluppati del pianeta si trovano nel continente africano e che, in molte nazioni dell’Africa, il reddito pro-capite è inferiore a 200 dollari l’anno. Secondo il rappresentante ONU, citato dall'agenzia MISNA, se gli africani più poveri non sconfiggeranno la miseria entro il termine fissato, anche il resto della terra “non avrà alcuna speranza”. L’Alto commissario ha poi ricordato che il numero di africani in povertà estrema è andato crescendo negli ultimi anni, fino a toccare i 318 milioni; un europeo, ad esempio, guadagna in media 20 volte di più di un africano e gli ultimi 25 posti nella lista delle nazioni con la peggiore qualità della vita, sempre elaborata dall’ONU, sono occupati da Paesi dell’Africa. Per combattere la mancanza di risorse economiche, Chowdury ha evidenziato la necessità di una maggiore trasparenza, sia negli aiuti esteri indirizzati agli africani, sia nell’utilizzo delle risorse interne destinate ai meno abbienti. (R.M.)

 

 

“L’arte contro i pregiudizi”: Festival a Tirana, in Albania,

in vista della Giornata internazionale dei Rom di domenica

 

In vista della Giornata internazionale dei Rom, che si celebra ogni anno l’8 aprile, il Consiglio d’Europa e la Commissione UE organizzano in questi giorni a Tirana, in Albania, un Festival regionale per le popolazioni Rom, sul tema: “L’arte contro i pregiudizi”. “Celebrità artistiche dell’Europa del sud-est – si legge in una nota dei promotori, citata dall’agenzia SIR – come Muharem Serbezovski, la Silvi Duo Band, Muharem Tahiri e Hamza Tahirov e Tehemana, si esibiranno ogni sera del Festival all’Odeon”, teatro della capitale albanese. “Contemporaneamente – continua il comunicato – saranno organizzate esposizioni di fotografie, dipinti, sculture e opere artigianali”. Sono inoltre previste due tavole rotonde su “Il ruolo dell’arte, la cultura e l’identità Rom nel processo di integrazione e nel dialogo interculturale” e “Il contributo della cultura Rom alla cultura europea”. Il festival è inserito nel quadro della campagna contro i pregiudizi e gli stereotipi “Dosta!”, i cui intenti sono spiegati sul sito www.dosta.org. La Giornata internazionale dei Rom si celebra dal 1990 e ricorda il primo incontro internazionale promosso dalle comunità nomadi del continente, tenutosi nei pressi di Londra l’8 aprile 1971. (R.M.)

 

 

Si è spento oggi all'età di 91 anni il regista Luigi Comencini,

considerato uno dei padri del "neorealismo rosa"

 

Come avrebbe voluto essere ricordato Luigi Comencini, il bourru bienfaisant del cinema italiano, l’autore di oltre 43 film, alcuni grandi capolavori, altri che strizzano l’occhio al commercio, intellettuale eclettico (ed è un complimento), letterato amico dei letterati, regista amico dei registi, curioso intellettuale dagli occhi vispi, capace di affrontare generi con grande adattabilità e senso del cinema? Azzardo un’ipotesi: essere ricordato certamente per ciò che ha lasciato al cinema. Quindi per i tanti film che hanno fatto la storia del cinema italiano, opere che lo hanno incoronato patriarca della commedia idilliaca all’italiana, tra i padri fondatori del neorealismo rosa, fin dagli anni ‘50 con l’indimenticabile Pane, amore e fantasia, oppure sociologo di un paese a tratti incomprensibile e inaspettato nell’inquietante L’ingorgo, così come amaro documentarista della sordida e violenta ipocrisia scaturita dal potere e dal denaro nel magnifico Lo scopone scientifico. Molti i melodrammi, molti i drammi, moltissime le commedie, dunque, per colui che si definiva non artista ma artigiano del cinema. E aveva saputo scolpire ritratti dell’infanzia che ci hanno fatto versare lacrime oppure sorridere: a partire dal primo cortometraggio, del 1946, Bambini in città, poi a metà carriera Incompreso, successo di pubblico del 1966 e, sei anni più tardi, Le avventure di Pinocchio, ancora Voltati Eugenio, del 1980, fino al remake di Marcellino pane e vino, del 1991, con il quale la carriera si è chiusa. Insomma, una catalogo di opere incorniciato e segnato proprio dai film che lo hanno portato alla definizione di “regista di bambini”, etichetta che lui così commentava: “I bambini sono una specie a parte, generalmente indifesa e oppressa dagli adulti. Attraverso i loro occhi il mondo si vede meglio e nelle loro rabbie, gioie, anche egoismi, trovo spesso molta più schiettezza che negli adulti". (A cura di Luca Pellegrini)

 

 

24 Ore nel Mondo

4 aprile 2007

 

- A cura di Amedeo Lomonaco -

 

- L’ex presidente iracheno, Saddam Hussein, non aveva legami diretti con la rete terroristica al Qaeda: è quanto emerge da un rapporto del Pentagono, pubblicato quattro anni dopo l’invasione in Iraq. Il ministero della Difesa americano ha sottolineato, in particolare, che era infondata una delle accuse lanciate, nel 2003, contro il regime baathista per legittimare l’intervento militare nel Paese arabo. Sul terreno, intanto, non si interrompe la catena di violenze. Oltre ad attentati e scontri, si segnala anche la morte di una giornalista ceca. Ce ne parla Giancarlo La Vella:

 

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Si tratta della corrispondente in Iraq di “Radio Free Europe-Radio Liberty”, emittente di Praga. La giornalista di nazionalità irachena, che si chiamava Khamail Khalaf, lascia tre figlie e aveva lavorato anche in televisione. Recentemente era stata più volte minacciata di morte. E’ stata ritrovata senza vita nella capitale con ferite d'arma da fuoco alla testa e al corpo, dopo che da tre giorni non si avevano più sue notizie. La conferma è arrivata proprio dalla radio ceca. Intanto, truppe statunitensi e irachene hanno lanciato una grossa offensiva a Diwaniya, 180 chilometri a sud di Baghdad, roccaforte dell'esercito del Mahdi fedele al leader radicale sciita Moqtada al Sadr. Nella notte vi sono stati durissimi scontri, costati la vita a una persona, e all'alba nella cittadina è stato imposto il coprifuoco. Sempre sul terreno da segnalare un raid aereo statunitense a Falluja, dove, secondo un primo bilancio, si sono registrati almeno dieci morti e venti feriti. Lo ha riferito un'agenzia irachena. Inoltre, da segnalare un camion bomba carico di cloro che è esploso stamani nei pressi di un posto di blocco della polizia a Ramadi, nella provincia di Al Anbar. Oltre 15 i morti e 30 i feriti; un bilancio che purtroppo sembra destinato a crescere.

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- Anche in Afghanistan, non si arresta la catena di attentati e attacchi: a Kabul un attentatore suicida, alla guida di un’autobomba, si è fatto saltare in aria provocando la morte di almeno 4 persone. Sul versante politico, il presidente afghano Hamid Karzai ha lanciato un nuovo appello ai talebani affinchè depongano le armi e si uniscano al processo di pace. Centinaia di terroristi kamikaze, infiltrati da Al Qaeda, sarebbero inoltre pronti a colpire anche in aree dove gli attacchi alle forze della coalizione sono meno frequenti e meno probabili. Tra queste zone c’è anche la provincia di Herat, dove sono schierati i militari italiani. Francesca Sabatinelli ha raggiunto telefonicamente ad Herat il generale Antonio Satta, comandante del contingente ISAF-NATO nella regione occidentale dell'Afghanistan.

 

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R. – L’allarme è sempre presente. Il livello di rischio è sempre stato significativo, anche in passato. Anche se la situazione è relativamente stabile e il rapporto con la popolazione assolutamente ottimo, non ci dobbiamo scordare che siamo in Afghanistan; qualsiasi rischio, qualsiasi minaccia, è pur sempre dietro l’angolo. Teniamo, quindi, sempre la guardia alta.

 

D. – Ma di che tipo di minaccia si parla? Si pensa ai kamikaze di al Qaeda, ai talebani, ma c’è anche la criminalità comune, ci sono i trafficanti di oppio…

 

R. – La minaccia nella regione ovest è costituita principalmente da soggetti legati alla criminalità e al traffico di oppio. E’ chiaro che questo fa di loro anche un terreno fertile per ulteriori infiltrazioni, soprattutto nella parte meridionale, legati alla etnia della regione sud.

 

D. – Generale, la vostra attenzione si concentra sulla popolazione: in che modo?

 

R. – Il primo motivo è legato al mandato che abbiamo qui in Afghanistan: favorire l’inserimento e lo sviluppo democratico del governo afgano e aiutare lo stesso governo nell’opera di ricostruzione e sviluppo sia del tessuto sociale, ma anche del supporto alla popolazione. Noi riteniamo che la migliore arma per combattere sia il consenso conseguito nei confronti della popolazione.

 

D. – E dunque com’è il vostro rapporto con la popolazione di Herat?

 

R. – Decisamente buono, direi. Abbiamo raccolto significativi ritorni, non solo di accettazione, ma di assoluto sostegno nei confronti delle iniziative dell'ISAF. Cerchiamo di rispettare usi, costumi e tradizioni e con questo tipo di approccio devo dire che fino ad oggi i risultati sono stati estremamente positivi.

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- Si riapre una drammatica pagina della recente, martoriata storia libanese: l’Arabia Saudita ha accettato di aprire consultazioni per facilitare la formazione del tribunale internazionale che dovrà giudicare i presunti responsabili dell’assassinio dell’ex premier libanese, rimasto ucciso in un attentato condotto il 14 febbraio 2005 a Beirut. Dal Libano, intanto, è rientrata la delegazione italiana del Coordinamento nazionale Enti Locali per la pace e i Diritti Umani che nel Paese dei Cedri ha incontrato autorità, organizzazioni della società civile e il contingente italiano della missione UNIFIL. Su questa iniziativa ascoltiamo, al microfono di Massimiliano Rossi, il capo-delegazione Flavio Lotti.

 

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R. – Abbiamo cercato di identificare le modalità per sviluppare la conoscenza reciproca, per costruire nuovi ponti di pace, di amicizia e di collaborazione.

 

D. – Qual è il clima che attualmente si vive nel Libano meridionale?

 

R. – C’è un grande impegno per curare le ferite provocate dalla guerra, in maniera particolare le ferite materiali. Si stanno ricostruendo i ponti, si stanno aggiustando le strade. Ci sono progetti per avviare la ricostruzione delle città, che sono state devastate dai bombardamenti. C’è un grosso sforzo per cercare di recuperare e di distruggere più di un milione di bombe che sono state sganciate, proprio negli ultimi giorni del conflitto, da Israele; ora molti di questi ordigni continuano ad uccidere i bambini che li ritrovano. Allo stesso tempo, c’è anche una grande preoccupazione per il futuro, che continua ad essere molto incerto.

 

D. – Come siete stati accolti dalla popolazione locale?

 

R. – Siamo stati accolti benissimo. La gente che abbiamo incontrato, anche le autorità locali avevano un aspetto profondamente diverso da quello che ci veniva dipinto in tutto questo periodo dai nostri mezzi di comunicazione. Abbiamo trovato tantissima gente desiderosa di aprirsi al mondo. Abbiamo trovato delle persone, anche delle donne islamiche che ci dicevano di essere desiderose di conoscere il nostro mondo, la nostra cultura, riconoscendo, quindi, e rispettando anche le nostre diversità culturali, politiche e religiose. Tutto ciò, secondo me, rappresenta un ottimo terreno per la costruzione della pace.

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- Anche la Russia interviene sulla crisi istituzionale in Ucraina. La Duma, ramo principale del Parlamento russo, ha condannato il decreto con cui il presidente ucraino, il filo occidentale Viktor Yushchenko, ha sciolto il Parlamento e convocato elezioni anticipate. Il decreto, secondo la Duma, viola la Costituzione e “invia un segnale pericolosissimo”. In Ucraina si attende, intanto, la decisione della Corte Costituzionale, che proprio oggi ha cominciato ad esaminare il ricorso di una cinquantina di deputati contro lo scioglimento del Parlamento. La crisi politica nella Repubblica ex sovietica si è acuita dopo che 11 parlamentari dell’opposizione, fedeli a Yushenko, sono passati con la maggioranza filorussa, garantendo a quest’ultima i 300 voti necessari per modificare la Costituzione. La successiva decisione, presa dal presidente Yushchenko, di sciogliere il Parlamento ha ulteriormente alimentato la crisi.

 

- Clima di tensione a Timor Est, dove si è conclusa ieri la campagna elettorale per le presidenziali, fissate per lunedì prossimo. Negli ultimi giorni, almeno 30 persone sono rimaste ferite in seguito a scontri tra sostenitori di vari candidati. Alcuni partiti hanno anche espresso timori per brogli e denunciato intimidazioni. All’appuntamento con le urne sono chiamati oltre 523 mila aventi diritto. Su Timor Est, ex colonia portoghese occupata illegalmente nel 1975 dall’Indonesia, la nostra scheda:

 

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Il territorio di Timor Est, primo Stato nato nel terzo millennio, è composto dalla metà orientale dell’isola di Timor e da un’enclave nella parte occidentale. Il Paese, a maggioranza cattolica in un’area prevalentemente musulmana, è indipendente dal 2002. E’ lo Stato più piccolo e povero dell’Asia, nonostante la presenza di giacimenti di gas e petrolio. Lo scenario politico è stato dominato finora da Xanana Gusmao, primo presidente e leader della resistenza contro l’Indonesia. Secondo le previsioni, la sfida per succedere a Gusmao riguarda, soprattutto, due candidati: l’attuale primo ministro José Ramos Horta e il leader del Fronte rivoluzionario per l’indipendenza di Timor Est (FRETLIN), Francisco Guterres. Il premier Ramos Horta, che negli ultimi anni ha promosso una politica filo occidentale e aperta al libero mercato, ha ricevuto nel 1996 il premio Nobel per la pace insieme  con mons. Carlos Felipe Ximenes Belo, già amministratore apostolico della diocesi di Dili, per l’impegno pacifico in favore dell’indipendenza. Ha buone chances di successo anche l’attuale presidente del Parlamento, Francisco Guterres, uno dei leader storici del partito FRETLIN di orientamento comunista che ha la maggioranza in Parlamento. Il Paese è stato scosso nel 2006 da gravi disordini in seguito alle dure proteste di oltre 600 soldati che si erano lamentati per presunte discriminazioni su base etnica. Gli scontri avevano provocato almeno 37 morti e più di 150 mila sfollati. A Timor Est, dove i cattolici sono più del 90 per cento, la Chiesa cattolica è fortemente impegnata, infine, in programmi di pastorale giovanile, istruzione e servizi sociali.

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- Scontri avvenuti nel fine settimana in due località dell’est del Ciad, al confine con il Sudan, hanno provocato oltre 100 morti. Lo hanno reso noto fonti del governo. Non si esclude che la strage sia stata compiuta da milizie sudanesi ‘janjaweed’. Gli scontri sono scoppiati in seguito all’uccisione di due appartenenti a tribù arabe. Dopo sono seguite rappresaglie e, successivamente, è intervenuto anche l’esercito del Ciad.