RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno L n. 200 - Testo della trasmissione di mercoledì 19 luglio 2006
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
in una lettera alla vedova del giudice
In Iraq, almeno dieci persone hanno perso la vita
oggi e 20 sono state rapite. Tra maggio e giugno, secondo l’ONU, sono morti
oltre 6000 civili iracheni
In Afghanistan la coalizione internazionale riprende
il controllo di due città meridionali, occupate dai talebani. Intanto, migliaia
di afghani sono in fuga dal Sud dopo giorni di violenti scontri
19 luglio 2006
IL
CORDOGLIO DEL PAPA PER LE VITTIME DELLO TSUNAMI IN INDONESIA.
E’
SALITO AD OLTRE 550 MORTI IL DRAMMATICO BILANCIO DELL’ONDA
ANOMALA
CHE LUNEDI’ SCORSO HA DEVASTATO L’ISOLA DI GIAVA
Profondo cordoglio di Benedetto XVI per le vittime dello
tsunami che lunedì ha colpito l’isola indonesiana di Giava, causando – secondo
l’ultimo bilancio – almeno 550 morti. In un telegramma a firma del cardinale
segretario di Stato, Angelo Sodano, indirizzato alle autorità ecclesiastiche e
civili del Paese asiatico, il Papa si dice “profondamente addolorato” e assicura
la sua vicinanza spirituale alle popolazioni che soffrono. Il Pontefice
incoraggia inoltre tutti coloro che stanno portando soccorso affinché possano
“perseverare nel loro sforzo di dare sollievo e supporto”. Per una
testimonianza su come la popolazione indonesiana stia vivendo questa nuova
difficile prova, Alessandro Gisotti ha raggiunto telefonicamente a Giakarta,
mons. Novatus Rugambwa, consigliere presso la Nunziatura apostolica
in Indonesia:
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R. – Ci dà molta tristezza, perché non solo lo tsunami ci
ha colpiti, ma anche il terremoto che ha devastato Giava centrale. Così, in
meno di due mesi, abbiamo avuto anche lo tsunami! Siamo vulnerabili di fronte a
questi disastri naturali. Speriamo che non accada null’altro, di più terribile,
in questi giorni e nemmeno in futuro!
D. – Ovviamente, c’è molta paura tra la gente, tra i
sopravvissuti: sembra non arrestarsi mai la violenza della natura …
R. – C’è tanta, tanta paura. Non siamo preparati come
altrove. Si è parlato anche del sistema che possa dare l’allarme di questi
fenomeni, ma non riusciamo ad arrivare a tanto. Anzi, si diceva che questa
parte di Giava non fosse zona a rischio per lo tsunami, invece è accaduto.
D. – Come la Chiesa sta cercando di dare aiuto? Ovviamente
con le preghiere chieste anche dal Papa in un messaggio di cordoglio per le
vittime… ma ci sono altre iniziative, anche della Caritas locale?
R. – Sì, la Caritas locale, aiutata da altre Caritas di
altre nazioni, come Germania, Stati Uniti, Svizzera, è attiva in questa zona e
quindi è quasi una continuazione di quello che è stato fatto: stanno facendo un
buon lavoro, perché ci sono le diocesi di Bandul, di Purwokerto, soprattutto, e
anche una parte della diocesi di Semarang. Queste diocesi, tramite le loro Caritas,
anche tramite l’aiuto della Caritas Internationalis, stanno facendo un buon
lavoro, nell’emergenza di adesso. Poi ci sarà la continuazione del lavoro: la
ricostruzione, la riabilitazione …
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Intanto, mentre la
macchina della solidarietà porta soccorso ai feriti e a quanti sono rimasti
senza casa, non mancano le polemiche per la mancanza di un sistema di sicurezza
che avrebbe potuto salvare molte vite umane. Il servizio di Chiaretta Zucconi:
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Al ministero della Ricerca e Tecnologia, un funzionario
denuncia: “Non abbiamo fondi per realizzare un progetto di allarme-tsunami che
permetta, attraverso sofisticati sensori ma anche semplici dispositivi
acustici, di allertare la popolazione contro il pericolo onde anomale”. Una
dichiarazione pesante, che fa eco a quanto ammesso dallo stesso ministro. “Dopo
il sisma di lunedì, l’agenzia meteorologica giapponese e il centro allarme
tsunami del Pacifico ci avevano avvertiti del rischio maremoto – ha detto il
ministro – e addirittura 45 minuti prima che si verificasse l’onda anomala, ma
non abbiamo dato l’annuncio perché se anche avessimo contattato le autorità
locali, sarebbe stato impossibile avvertire i residenti e i turisti sulle
spiagge, dal momento che mancano sirene in grado di dare l’allarme”.
Per la Radio Vaticana, Chiaretta Zucconi.
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E
l’Indonesia non sembra avere pace: poco dopo le 13.00, ora italiana, è stato
lanciato un allerta tsunami (poi rientrata) a seguito di una forte e prolungata
scossa di terremoto, di 6,2 gradi di magnitudo sulla scala Richter, avvertita
sulle isole di Giava e Sumatra e nella capitale indonesiana, Giakarta. Non si
hanno al momento notizie di feriti o danni.
DA LES
COMBES, IL PAPA CHIEDE AI FEDELI DI PREGARE
PER LA PACE IN MEDIO ORIENTE
Pregare per la pace in Medio Oriente: è quanto chiede a
tutti i fedeli Benedetto XVI che, a Les Combes, in Valle d’Aosta, segue con
apprensione l’evolversi della crisi israelo-libanese. L’appello del Papa è
giunto ieri sera, di ritorno da un’escursione al Colle del Gran San Bernardo.
Tra i giornalisti che hanno ascoltato le parole di Benedetto XVI c’era anche
l’inviato a Les Combes di Avvenire, Salvatore Mazza, raggiunto telefonicamente
da Alessandro Gisotti:
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R. – La domanda che è stata posta al Papa è: “Che cosa
deve fare la comunità internazionale in questa situazione sempre più
drammatica?” E il Papa ha risposto di trovarsi completamente d’accordo con il
comunicato del G8 - il comunicato dell’altro giorno - di non avere altro da
aggiungere se non il bisogno della preghiera per la pace, in questo momento
così difficile, in Medio Oriente.
D. – In un un momento di riposo, si è detto tante volte, a
Les Combes il Papa, tuttavia, mostra un’attenzione e preoccupazione per le
crisi nel mondo…
R. – Certo, attenzione che è sempre costante, a
dimostrazione del fatto che il riposo non è assenza dal mondo. Si vede che il
Papa ha una preoccupazione costante per quanto succede e lo si è visto proprio
in questi incontri estemporanei che ha avuto con i giornalisti, dove in qualche
modo lui stesso si è voluto soffermare per manifestare il suo pensiero, per
ribadire questa necessità della preghiera per la pace.
D. – Ieri il Papa ha fatto un’altra escursione. Qualche
particolare?
R. – E’ stato il Papa stesso, rientrando a Les Combes, a
dire di essere andato prima in questo convento delle suore benedettine a
Chateau Verdan, dove tra le altre cose si è fermato a parlare con loro e ha
ribadito il perché della scelta del suo nome pontificale Benedetto,
richiamandosi alle figure di Benedetto da Norcia e di Benedetto XV. Poi, dopo
Chateau Verdan, è stato nel convento sul colle del Gran San Bernardo. Si è
trattenuto con i canonici, ha recitato i Vespri insieme a loro e poi è andato a
piedi, tra lo stupore dei turisti, che tutto si aspettavano tranne che di
trovarsi il Papa alle 18.30 del pomeriggio sul colle del Gran San Bernardo, a
visitare il canile dove nel periodo estivo vengono tenuti i cani San Bernardo.
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IN ISRAELE, IL GOVERNO ANNUNCIA UNA OFFENSIVA SENZA LIMITI DI
TEMPO;
IN LIBANO, L’ESECUTIVO PRONTO AD USARE L’ESERCITO.
SUL TERRENO, DECINE DI MORTI
- Interviste con padre Casimir Gajowy, l’ambasciatore Oded
Ben Hur e Kolja Canestrini -
E la crisi in Medio Oriente resta aperta: sul
terreno, decine di persone sono morte in Libano in seguito a nuovi raid. In
Israele, il governo ha deciso poi che porterà avanti senza limiti di tempo le offensive
militari nel Paese dei cedri e nella Striscia di Gaza. Sull’altro fronte, il
governo libanese ha avanzato l’ipotesi di impiegare l’esercito per rispondere
agli attacchi israeliani. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
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Raid israeliani in Libano
e razzi
lanciati da miliziani Hezbollah in
Israele continuano a rendere esplosiva la situazione in Medio Oriente:
per la prima volta, l’aviazione israeliana ha bombardato un quartiere cristiano
di Beirut. E nell’area meridionale del Paese, sono decine i civili rimasti
uccisi in seguito a nuovi raid in diversi villaggi. L’esercito israeliano ha
anche condotto un attacco via terra per demolire postazioni usate dai
guerriglieri libanesi per lanciare razzi contro il nord di Israele.
Complessivamente, sono almeno 250 i libanesi uccisi finora nei raid e più di
700 mila gli sfollati. Secondo fonti israeliane, sono oltre 1000 gli obiettivi
colpiti in Libano e 180 le postazioni di lancio dei guerriglieri libanesi
distrutte. Sull’altro fronte, due soldati israeliani sono morti nel corso di scontri scoppiati al
confine tra Israele e Libano. Diversi razzi hanno raggiunto la città
israeliana di Haifa causando il ferimento di numerose persone. Sul versante
politico, l’alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza europea,
Javier Solana, ha chiesto ad Israele di agire in modo proporzionato e di
evitare di colpire i civili. Il governo israeliano ha dichiarato che le operazioni
militari in Libano proseguiranno senza limiti di tempo e senza restrizioni. Il premier
israeliano, Ehud Olmert, ha rivelato, inoltre, che il rapimento di due soldati
israeliani da parte di un commando di Hezbollah, cui ha fatto seguito la
risposta militare dello Stato ebraico, “è stato concordato con l’Iran al fine
di distogliere l’attenzione internazionale dalla questione nucleare iraniana”. Il ministro
dell’Informazione libanese ha affermato, infine, che il Libano risponderà col
suo esercito all’offensiva israeliana. Ma secondo diversi osservatori, questa
ipotesi deve essere letta come uno sforzo politico di compattamento delle
diverse componenti libanesi e non come un’opzione tattica e militare. Il Libano
dispone, infatti, di 70.000 soldati ed il loro equipaggiamento e grado di
formazione è inferiore a quello dei miliziani Hezbollah.
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Situazione drammatica, dunque, in Libano dove sono
febbrili le attività di volontariato per portare aiuto alla popolazione. E’
quanto conferma, al microfono di Isabella Piro, il salesiano Don Casimir
Gajowy, direttore del Don Bosco Technique di Beirut:
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R. – La situazione è molto tesa e ci aspettiamo il peggio.
La situazione già è drammatica: tutti gli stranieri stanno lasciando il Libano.
Decine e decine di pullman si stanno recando verso la frontiera, l’unica ancora
aperta e abbastanza sicura, quella a Nord, verso
D. – Dal punto di vista umanitario, quali sono attualmente
le emergenze più gravi?
R. – Mi trovo proprio in uno dei grandi supermercati,
vicino a Beirut, che è quasi vuoto: tutte le scorte che sono state messe questa
mattina, di carne, formaggio, sono scomparse. Il supermercato è pieno di gente
che fa provviste per i giorni futuri. Ma, sinceramente, fino ad oggi non ci è
mancato nulla. Invece, ora iniziano i problemi con la benzina ed i carburanti
in genere, anche il gas. Alcune stazioni ne hanno ancora, ma ora vendono 10-20
litri per volta, per poter accontentare tutti.
D. – Voi salesiani avete già portato aiuto a zone
disastrate del Paese?
R. – Fino ad oggi, abbiamo lavorato con i ragazzi dai 4-5
fino ai 14 anni, proprio per salvarli da questa atmosfera di guerra, ma oggi
abbiamo deciso di interrompere questa nostra attività fino a lunedì prossimo
perché le strade, i ponti non sono sicuri. Una delle nostre case, che si trova
in montagna, ha già accolto decine di famiglie provenienti dalla zona a sud di
Beirut e anche a sud del Paese. Non sono solo cristiani, anzi: c’è una sola
famiglia cristiana, tutte le altre sono famiglie sciite che sono state accolte
nelle nostre strutture di el-Hussun, distante 35 km da Beirut.
D. – In che condizioni arrivano queste persone che chiedono
il vostro aiuto?
R. – Prima di tutto, hanno bisogno non tanto di ‘cose’,
perché portano qualcosa con sé e ancora siamo ai primi giorni, quanto di
conforto e di una certa sicurezza, proprio per lo spavento che si legge nei
loro occhi, specialmente negli occhi dei bambini, e per la paura di quello che
può capitare in futuro. La gente è sempre la stessa: in Europa, in Libano,
sciita, musulmana o cristiana: quando c’è una paura, quando sono in pericolo i
bambini, siamo tutti uguali, bisognosi di un rifugio, di un aiuto, di un
conforto …
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Dal canto suo, l’ambasciatore
d’Israele presso
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R. – La società israeliana regge con la forza e con la
costanza della ragione e per questo ha la possibilità di andare avanti. I
civili che abitano le città, i villaggi del nord, passano queste notti nelle
camere blindate.
D. – Ambasciatore Ben Hur, il perché di questa guerra, ma
soprattutto gli obiettivi che si pone Israele…
R. – Gli obiettivi di questa operazione sono la
liberazione dei soldati rapiti e, anzitutto, lo smantellamento degli Hezbollah,
che costituiscono una minaccia non solo per Israele ed il Libano, ma per tutto
il Medio Oriente. Ci dovrebbe essere, poi, un cordone sanitario nella parte sud
che non permetta queste minacce, questa presenza dell’organizzazione
terroristica. Stiamo arrivando man mano alla fine di questa missione e, perciò,
abbiamo chiesto qualche giorno in più. Vediamo, però, già la luce della fine di
questo tunnel. Vediamo, infatti, la possibilità di creare un nuovo ordine in
questa zona: dove noi non saremo più prigionieri, nemmeno il Libano e altri Paesi,
di questi terroristi, che vogliono bagnare tutta questa area con il sangue e la
sofferenza.
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Ma quanto sta
accadendo tra Libano e Israele è di fatto una violazione delle norme del
diritto internazionale? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a Kolja Canestrini,
direttore del Centro Studi italiano per la pace ed esperto di Diritto umanitario:
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R. – La guerra è un mezzo che non viene accettato come
metodo per risolvere le controversie, sul piano internazionale. La guerra,
dunque, che sia dichiarata o meno, è sempre una situazione che rischia di
compromettere il diritto internazionale. Quello che è sicuro è che ridurre il
conflitto ai due soli attori principali, Israele e Libano, è un’opzione assai
riduttiva, che rischia di far sottovalutare come in pericolo vi sia, in realtà,
l’intero equilibrio del Medio Oriente. E’ infatti noto che questa situazione,
che si profila come una situazione di non ritorno, possa compromettere l’intero
equilibrio geopolitico.
D. – Numerosi sono stati gli appelli alla calma, però
nessun atto concreto è giunto da parte della comunità internazionale. Cosa si
dovrebbe fare, arrivati a questo punto?
R. – Difficile a dirsi. Quello che si sarebbe potuto fare
è, forse, un po’ più facile: cogliere con più attenzione i segnali di allarme
che ci sono stati, non solo negli ultimi mesi, ma anche negli ultimi anni. Gli
attacchi degli Hezbollah erano stati segnalati già nell’autunno-inverno
dell’anno scorso. Se non altro, si sapeva che l’azione dello Stato d’Israele
era a rischio di provocare un’escalation
delle violenze. E la comunità internazionale, forse distratta da altre guerre
assai dubbie dal punto di vista della legittimità, – parlo per esempio della
guerra in Iraq, ma non solo – non ha saputo cogliere questi segnali di allarme.
Ora non resta altro che convocare immediatamente una conferenza, coinvolgendo
tutti gli attori. E’ evidente che un’opzione militare, a questo punto, non
avrebbe nessun senso, perché, come si sa, la guerra non fa vincere chi ha
ragione, ma fa vincere semplicemente il più forte. Dubito che se ne possa
uscire con un colpo di bacchetta magica e credo invece che solo con uno sforzo
prolungato della comunità internazionale si possa definire sul tavolo delle
trattative una possibile exit strategy.
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E’ MORTO IL 29 GIUGNO SCORSO MONSIGNOR PAOLO GUO
WENZHI, VESCOVO EMERITO DELLA PREFETTURA APOSTOLICA DI TSITSIHAR, NELLA CINA
CONTINENTALE.
IL
PRESULE, DI 89 ANNI E DA TEMPO MALATO,
VIENE
RICORDATO PER IL SUO PARTICOLARE IMPEGNO
NELLA
PROMOZIONE DELL’APOSTOLATO E DELL’EVANGELIZZAZIONE
Giovedì, 29 giugno scorso, è deceduto il vescovo emerito
della Prefettura Apostolica di Tsitsihar (Qiqihar), nella Provincia di
Heilongjiang (Cina Continentale), mons. Paolo Guo Wenzhi, di 89 anni. Il
presule, ammalato da molti anni, negli ultimi tempi era costretto su una sedia
a rotelle, ma ha sempre trascorso con gioia e con fiducia nel Signore il tempo
che gli veniva ancora concesso di vivere.
Mons. Guo, nato l’11 gennaio 1918 da una famiglia
cattolica, si formò dapprima nel seminario di Changchun e poi in quello di
Pechino. Terminati gli studi di filosofia e teologia, fu ordinato sacerdote nel
1948. Fu consacrato vescovo il 15 maggio 1989.
Nel 1954 fu incarcerato a causa della sua fedeltà alla
Chiesa cattolica e al Santo Padre. Dopo dieci anni di prigione lavorò nella
fabbrica di macchine “Liang xiang” a Pechino: successivamente, nel 1966 fu
mandato a Xinjiang in un campo militare per lavori agricoli e, nel
Mons. Guo ha promosso energicamente l’apostolato e
l’evangelizzazione, non solo nella Prefettura di Qiqihar, ma anche in tutto il
vasto territorio della provincia di Heilongjiang, curando l’erezione di un
seminario e di una Congregazione Religiosa femminile e, così, ridando vita ad
una comunità cristiana che era rimasta a lungo priva d’assistenza religiosa.
Chi lo ha conosciuto, testimonia che l’anziano presule è
stato un uomo silenzioso, che nella sua vita ordinaria ha però dimostrato
fedeltà e fermezza nello svolgere l'impegno di Pastore, guadagnandosi il
rispetto e la stima del clero e dei fedeli.
La Prefettura Apostolica di Qiqihar, di cui mons. Guo è
stato responsabile dopo la riapertura delle chiese negli anni 1980, registra un
aumento di vocazioni religiose, maschili e femminili. Attualmente i cattolici
superano le 25.000 unità, e
NUOVI
AMBULATORI ED UFFICI DELL’OSPEDALE PEDIATRICO BAMBINO GESÙ SARANNO APERTI
NELL’AREA EXTRATERRITORIALE DELLA BASILICA DI SAN PAOLO FUORI LE MURA:
STIPULATO UN ACCORDO SU INIZIATIVA DELLA SANTA SEDE
L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù utilizzerà alcuni
fabbricati e spazi nell’area extraterritoriale della Basilica Pontificia di San
Paolo Fuori le Mura per collocarvi uffici e ambulatori. Su iniziativa della
Santa Sede, ieri, hanno firmato un accordo, alla presenza del cardinale
Segretario di Stato Angelo Sodano, il cardinale Andrea Cordero di Montezemolo,
arciprete della basilica, ed il dott. Francesco Silvano, presidente
dell’ospedale. I nuovi locali consentiranno alla struttura sanitaria di servire
meglio i bambini in una zona di Roma molto popolata e di integrare servizi
medici ed amministrativi.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
Servizio vaticano - Due pagine dedicate al cammino
della Chiesa in Italia.
Servizio estero - Medio Oriente; Libano:
settecentomila sfollati dalle zone di guerra.
Servizio culturale - Un articolo di Carmine Di
Biase dal titolo “Si sbriglia la fantasia nel racconto di un ‘visionario del
linguaggio’”: il nuovo romanzo di Giuseppe Bonaviri.
Servizio italiano - In primo piano lo sciopero dei
farmacisti. In rilievo il tema dell’immigrazione.
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19 luglio 2006
AL VI
SIMPOSIO “RELIGIONE, SCIENZA E AMBIENTE”,
GUIDATO DAL PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI,
SUA SANTITÀ BARTOLOMEO I, SCIENZIATI, ECOLOGISTI,
LEADER RELIGIOSI
E GIORNALISTI STANNO VISITANDO IL JAO NATIONAL
PARK.
Sono ancora nel cuore della foresta amazzonica i
partecipanti al VI Simposio “Religione, scienza e ambiente”. Guidati dal
patriarca ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, scienziati,
ecologisti, leader religiosi e giornalisti stanno visitando il Jao National
Park. Il servizio della nostra inviata in Amazzonia, Giada Aquilino:
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Un intenso profumo di orchidee sprigionato da una fitta
vegetazione penetrata solo dai raggi del sole, incastonata in un vasto sistema
fluviale: è il Jao National Park, preziosa riserva naturale del Brasile, che si
trova a 18 ore di navigazione da Manaus, sul Rio Jao, da cui, appunto, prende
il nome. Addentrandosi nel parco, i partecipanti al Simposio, guidati da Sua
Santità Bartolomeo I, hanno attraversato i tre ecosistemi tipici della foresta
amazzonica: quello fluviale, quello sedimentato e quello della terraferma. Qui
hanno conosciuto le essenziali tecniche di sopravvivenza delle tribù autoctone,
attraversando la foresta con un tasso di umidità del 75-80%.
Sui battelli,
intanto, è la volta dei dibattiti riguardanti le popolazioni indigene locali
che nella foresta pluviale trovano acqua, cibo, erbe medicinali e, quindi, la vita.
Nel 1500 si stimavano sette milioni di indigeni, oggi ce ne sono meno di un
quinto in tutta la foresta amazzonica. Ora puntano alla rivendicazione dei
propri diritti e delle loro terre. Al convegno, si confrontano esperienze e
strategie. Prende la parola il primo avvocato donna indigena: viene dal confine
con il Venezuela. Dice che le terre riconosciute ufficialmente agli indigeni
sono solo poco più di un milione di chilometri quadrati, troppo importanti per
perderli a causa dei grandi interessi economici mondiali.
Dal Jao National Park, Giada Aquilino, Radio Vaticana.
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SARAJEVO,
CITTÀ ANCORA FERITA NELLA CULTURA:
A 15 ANNI DALLA FINE DELLA GUERRA,
I LUOGHI SIMBOLO DEL PATRIMONIO INTELLETTUALE SONO
SEMIDIROCCATI
- Intervista con l’intellettuale bosniaco Nihad
Cengia -
Sarajevo, una città ancora ferita anche nella cultura. A
15 anni dalla fine della guerra nei Balcani i luoghi simbolo del patrimonio
intellettuale bosniaco sono ancora semidiroccati. Bombardati durante il
conflitto, i palazzi sono bruciati e nel rogo sono andati distrutti milioni di
libri e manoscritti rarissimi di valore inestimabile. Ma quanto della cultura e
della memoria di questo popolo è andata perduta? Antonella Villani lo ha chiesto a Nihad Cengia,
intellettuale bosniaco:
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R. – Moltissimo, purtroppo! Fin dall’inizio dell’assedio
di Sarajevo, la strategia, dei politici non del popolo, è stata mirare alla
cultura. Prima hanno distrutto l’Istituto orientale: andò perso il 100% dei manoscritti,
del catasto ottomano, di manoscritti con esempi di astrologia, con piccole
miniature che rappresentavano i segni dell’oroscopo. Stiamo parlando di oltre
due milioni di libri, ne fu distrutto l’80 per cento …
D. – Perché un attacco così mirato alla cultura?
R. – Perché qualsiasi crimine ha una sua strategia, una
sua premeditazione, e questo evento della Bosnia fu proprio un crimine mirato
alla cultura. Ricordo però anche la Seconda Guerra Mondiale, quando i nazisti
bruciavano i libri sulle piazze delle città colte della Germania. Questo fa
parte della strategia di chi intende creare il futuro di un Paese pensando di
eliminare il popolo che ci vive. Chi vuole eliminare un popolo, elimina in primo
luogo la cultura di quel popolo: il popolo non vale niente senza la sua
cultura.
D. – Quanto è stato fatto per recuperare quello che è
rimasto di questi tesori?
R. – Quello che non è stato distrutto dalla guerra, è
stato distrutto dal ‘recupero’. Molte moschee o chiese antiche, belle con i
loro elementi arcaici e la loro semplicità, sono state recuperate in maniera
assurda da gente incompetente, senza indagini preventive. Abbiamo solo alcuni
esempi di restauri illuminati, come la moschea di Sarajevo, un monastero
islamico, o la cittadella di Stolac, che sono – secondo me – tra gli esempi più
belli. Se vuole, possiamo elencare anche il Ponte di Mostar, ma parliamo sempre
di beni ‘centrali’! Invece, il patrimonio diffuso nella provincia e nei
paesini, dove veramente ancora oggi, purtroppo, si vive un’erosione, non hanno
avuto lo stesso trattamento.
D. – Si dice che molto è stato ricostruito grazie ai
finanziamenti degli emirati arabi …
R. – Gli emirati arabi hanno uno spirito diverso: non
apprezzano tanto il nostro islam tradizionale, pieno di pitture, dell’universale
bellezza dell’arte. Quindi, se loro hanno dato denaro, l’hanno dato più
volentieri per la costruzione di nuove moschee, per favorire l’espansione e la
propagazione dell’islam. Infatti, con i loro finanziamenti sono state costruite
nuove moschee; per le antiche, probabilmente hanno finanziato soltanto il recupero
architettonico-edilizio, non quello artistico, che è stato realizzato grazie
all’autofinan-ziamento della gente.
D. – Ma oggi, la gente come ricorda la guerra e,
soprattutto, come vive questa pace?
R. – Molto male! La gente, qui, è depressa, perché questa
pace non è una pace vera. La guerra della Bosnia in realtà non è finita, si
tratta di un cessate-il-fuoco a tempo indeterminato. E poi: come possiamo
parlare di promesse, di futuro di questo Paese, se ancora oggi due dei più
ricercati criminali di guerra sono in libertà e continuano ad influire sugli
avvenimenti politici di questo Paese?
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19 luglio 2006
I
VESCOVI STATUNITENSI INVITANO LE AUTORITÀ DEL PAESE AD INTENSIFICARE
GLI
SFORZI PERCHÉ IN MEDIO ORIENTE SI PONGA FINE ALLA VIOLENZA
WASHINGTON. = I vescovi statunitensi lanciano un appello
alle autorità del Paese perché esercitino in Medio Oriente la loro
leadership su tutte le parti in conflitto ed intensifichino gli sforzi, in un
quadro multilaterale, per porre fine alle provocazioni e alla violenza. In una
dichiarazione diffusa ieri, l’episcopato degli Stati Uniti invita a “stabilire
un cessate-il-fuoco, a contenere le reazioni del governo israeliano e ad
avviare negoziati tra israeliani e palestinesi perché sia garantita la
sicurezza ad Israele, uno Stato ai palestinesi e l’indipendenza del Libano”.
“La violenza, da qualsiasi parte provenga e quale che sia il suo scopo, –
rimarca la nota dei presuli – non può portare ad una pace giusta e duratura
nella terra che chiamiamo santa”. Per i vescovi statunitensi, “le fazioni
estremiste armate di Hamas ed Hezbollah e i loro sostenitori, tra cui la Siria
e l’Iran, hanno pesanti responsabilità”, ma
la reazione di Israele, che pure ha diritto di difendersi, è “sproporzionata
e indiscriminata” e, in ultima istanza, “controproducente” per la sua stessa
sicurezza. (T.C.)
BEIRUT:
CHIESE E CONVENTI APRONO LE PORTE AI SENZA TETTO. MENTRE I LEADER
RELIGIOSI
CHIEDONO A NON FARE DISTINZIONI NELL’AIUTO
FRA
CRISTIANI E MUSULMANI
BEIRUT. = Per quanti sono rimasti senza casa a
Beirut, in Libano, si
sono aperte le porte di monasteri, scuole e case religiose. L’abate Seman Abou
Abdo, superiore generale dell’Ordine maronita mariamita - riferisce l’agenzia Asianews - ha invitato a
non fare distinzioni tra cristiani e musulmani nell’aiuto rivolgendosi a tutti
i responsabili dell’ordine, riuniti per un capitolo straordinario. Il patriarca
greco-melkita, Gregorio III Lahham, a sua volta, ha lanciato un appello a tutti
i leader religiosi, ai vescovi e ai superiori generali delle congregazioni
perché si muovano in favore di questi “fratelli colpiti dai bombardamenti
atroci dei nemici della pace”. L’apertura di conventi ed istituti religiosi era
stata chiesta anche dal governo delle Filippine, per dare soccorso ai suoi 34
mila cittadini che lavorano in Libano, mentre si stanno esaminando possibilità
di evacuazione via terra verso la Siria o via mare verso Cipro. La maggior
parte dei filippini che vivono in Libano lavora a Beirut: 25 mila sono
lavoratori domestici, gli altri prestano servizio negli alberghi o nelle
missioni delle Nazioni Unite. Le chiese della Medaglia Miracolosa a Achrafieh e
di San Giuseppe hanno già accolto i primi gruppi. Domenica scorsa dal Paese
sono partiti 45 indonesiani e si preparano a fare altrettanto altre 35 persone;
25 dei 100 thailandesi che vivono a Beirut sono partiti via terra per Damasco;
per lo spostamento dei propri connazionali il Giappone invece si sta ancora
organizzando. (T.C.)
STASERA
A ROMA VEGLIA DI PREGHIERA PER IL LIBANO NELLA CHIESA DI SANTA MARIA IN
TRASTEVERE ORGANIZZATA DALLA COMUNITÀ DI SANT’EGIDIO,
SARA’
PRESIEDUTA DAL CARDINALE ACHILLE
SILVESTRINI
ROMA. = La Comunità di Sant'Egidio celebrerà questa sera,
alle 19.30, nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, una veglia di preghiera
per il Libano. A presiederla sarà il cardinale Achille Silvestrini.. “Santa
Maria in Trastevere è stata luogo di numerose veglie per la pace in Libano – ha
detto il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo – sono
molti i nostri amici tra i cristiani e i musulmani libanesi, e sempre una loro
rappresentanza ha partecipato ai nostri incontri interreligiosi di preghiera
per la pace. Il Libano è esempio di coabitazione tra religioni e culture nel
cuore del Medio Oriente”. “La Comunità
di Sant’Egidio segue con partecipazione le vicende del Libano da più di venticinque
anni – ha dichiarato Marco Impagliazzo – e negli anni Ottanta ha ospitato a Roma,
come segno di pace, un gruppo di anziani di uno dei villaggi dello Chouf colpito
dalla guerra. A Sant’Egidio Walid
Jumblatt e il patriarca melchita Maximos V Hakim si incontrarono per accordarsi
sulla sospensione dei combattimenti intorno a un villaggio cristiano posto
sotto assedio” (T.C.)
NEL
XIV ANNIVERSARIO DELL’UCCISIONE DI PAOLO BORSELLINO E DELLA SUA SCORTA,
IL
CAPO DELLO STATO, GIORGIO NAPOLITANO, INVITA A
NON
ABBASSARE
IN UNA
LETTERA ALLA VEDOVA DEL GIUDICE
PALERMO. = Con il silenzio suonato dalla tromba di un
poliziotto è stato ricordato stamattina a Palermo, in via D'Amelio, il giudice
Paolo Borsellino e i 5 agenti della sua scorta uccisi quattordici anni fa dalla
mafia. Una corona di fiori è stata inviata dal presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano che ha anche scritto una lettera alla moglie del magistrato
ucciso, Agnese. “Il sacrificio di Paolo Borsellino resta di monito a non
abbassare mai la guardia nella lotta per debellare le insidie, ovunque si
annidino, di questo gravissimo fenomeno criminoso”, si legge nel messaggio del
capo dello Stato. “Il 19 luglio 1992 l’arroganza spietata della criminalità
mafiosa stroncava la vita di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta
Catalano, Cosina, Loi, Li Muli e Traina – ha ricordato Napolitano – resta
indelebile nella memoria l’angoscia e il dolore dei giorni in cui il delirio di
onnipotenza della cupola mafiosa, già abbattutosi contro Giovanni Falcone, sua
moglie e altri coscienziosi agenti di polizia, culminò nel tentativo di
scardinare, colpendo le sue più ferme e intransigenti espressioni,
l’ordinamento dello Stato e delle sue istituzioni”. Una strategia, ha concluso
il presidente della Repubblica, che si è rivelata illusoria. “Il sacrificio dei
servitori dello Stato – ha sottolineato Napolitano – non è stato vano. La
concezione della giustizia e lo spirito di servizio, che avevano animato le battaglie
di Paolo Borsellino e di tante altre vittime della mafia, hanno segnato una
netta linea di contrapposizione al terrore dell’anti-stato e costituito un
esempio costante e positivo per l’azione della Magistratura e delle Forze
dell’Ordine”. (T.C.)
LA FAME NEL MONDO E UNO SFRUTTAMENTO DELLA
TERRA CHE TUTELI L’AMBIENTE:
SONO I TEMI DI
RIFLESSIONE PROPOSTI DALLA CEI NEL MESSAGGIO PER LA PROSSIMA GIORNATA NAZIONALE
DEL RINGRAZIAMENTO
ROMA. = La Commissione episcopale per i Problemi Sociali e
il Lavoro, la Giustizia e la Pace ha pubblicato in questi giorni un messaggio
per la prossima Giornata Nazionale del Ringraziamento che sarà celebrata il 12
novembre. “La terra: un dono per l’intera famiglia umana”: questo il tema
scelto dalla Cei per invitare a guardare alle necessità degli uomini con lo
sguardo di Cristo e, in particolare, per offrire spunti di riflessione sul problema
della fame e dello sfruttamento delle risorse della terra. “Se nel contatto con
la meraviglia dei prodotti della terra percepiamo il dono inesauribile della
Provvidenza divina, con tristezza, dobbiamo anche constatare come la creazione
“geme e soffre nelle doglie del parto” in attesa del compimento della speranza
di essere liberata “dalla schiavitù della corruzione” (Rm 8,21-22), –. Si legge nel documento – in particolare si ricorda che non è stato ancora risolto
il problema della fame e che sussistono disparità di sviluppo di gravità tale
da porre intere popolazioni di fronte a gesti disperati. L’episcopato italiano
invita per questo ad un impegno forte per “rimuovere questa vergogna
dall’umanità con appropriate scelte politiche ed economiche di respiro planetario”.
Nel suggerire soluzioni, la Cei propone di muoversi “in un contesto di
responsabilità sociale dell’impresa e in un ritrovato ruolo di un’agricoltura
che può tutelare l’ambiente e puntare alla caratterizzazione di prodotti che
sono espressione del territorio”. La Commissione episcopale per i Problemi
Sociali invita, inoltre, a superare i limiti, personali e comunitari, del
consumismo di massa per volgersi ad un contesto economico agroalimentare internazionale
di competizione-collaborativa, piuttosto che di competizione-conflittuale. Ciò
per evitare l’omogeneizzazione e le manipolazioni dei grandi fenomeni consumistici.
(T.C.)
UN PROGETTO DEL GOVERNO SENEGALESE PER COMBATTERE LA POVERTÀ
E FRENARE L’EMIGRAZIONE
VERSO L’EUROPA: OFFRIRÀ OPPORTUNITÀ
DI LAVORO A 300 MILA PERSONE
DAKAR.
= Garantire una valida alternativa all’emigrazione verso l’Europa attraverso la
creazione di un piano pluriennale che offra nuove opportunità di lavoro: è
l’obiettivo del progetto ‘Ritorno all’agricoltura’ del ministro
dell’Agricoltura e della Sicurezza Alimentare senegalese, Farba Senghor. Il
piano, riferisce l’agenzia MISNA, prevede l’occupazione per 300 mila persone ed
ha un valore complessivo di 45 milioni di euro. Mira alla riduzione della
povertà, a combattere l’emigrazione illegale e l’esodo dalle campagne
attraverso la creazione di condizioni determinanti per un ritorno volontario
alla coltivazione. Nella sua fase-pilota, il progetto prevede la creazione di
550 centri integrati per l’agricoltura, il mercato floro-vivaicolo e la
promozione di aziende agricole nei villaggi dell’intero Paese. I nuovi
lavoratori verranno selezionati da commissioni locali specializzate, create
nelle comunità rurali e convalidate poi a livello regionale e nazionale.
Terminata la stagione dei raccolti, i contadini dovranno versare dei contributi
per ripagare i servizi ottenuti dai centri integrati. Per la realizzazione di
questo piano pluriennale, il Senegal ora sta cercando finanziamenti. Ha già
dimostrato la propria disponibilità a sostenerlo l’India. (A.Gr.)
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19 luglio 2006
- A cura
di Eugenio Bonanata -
Ancora violenze in Iraq. In
mattinata almeno dieci persone sono morte in seguito a diversi attacchi della
guerriglia nel Paese. Intanto oltre 20 impiegati dell'amministrazione dei beni
religiosi sunniti sono stati sequestrati a nord di Baghdad. Il nostro servizio:
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Il bilancio della violenza è
sempre pesante. L’ultimo attacco della mattinata è stato contro un affollato
bar di Kirkuk, il principale centro petrolifero del Kurdistan iracheno. Sono
almeno quattro i morti, una ventina i feriti. Una crudele imboscata della
guerriglia non ha risparmiato neanche il cuore di Baghdad, dove nei pressi
dell’università una bomba è scoppiata al passaggio di una pattuglia della
polizia. Tre agenti hanno subito lesioni. Subito dopo sono esplosi altri due
ordigni, che hanno fatto 5 vittime fra i soccorritori. Poche ore prima, a breve
distanza da quel quartiere, un consigliere del ministero dell'Interno iracheno
era stato assassinato a colpi di arma da fuoco sulla porta di casa. Le dieci
vittime di questa mattina sono solo le ultime di una lunga serie di violenze
che, tra maggio e giugno, sono costate la vita ad oltre 6000 civili iracheni.
Il dato agghiacciante è contenuto in un rapporto pubblicato ieri dalle Nazioni
Unite, secondo cui le vittime degli scontri sono aumentate negli ultimi mesi
nonostante la formazione di un Governo di unità nazionale, che invece avrebbe
dovuto invertire la tendenza. Sul piano politico oggi il Parlamento iracheno
dovrebbe approvare la normativa sugli investimenti stranieri nel Paese. Il
provvedimento, che sarebbe la prima legge a regolare la materia dall’inizio del
conflitto nel 2003, non riguarderà però l’attività petrolifera, che sarà invece
regolata nei prossimi mesi da una specifica normativa sugli idrocarburi.
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In Afghanistan la coalizione
internazionale assieme a quella afghana ha ripreso oggi il controllo delle città
meridionali di Garmsir e Naway-e-Barakzayee, occupate in questi giorni dalle
milizie talebane. Lo ha reso noto un comunicato del ministero della Difesa di
Kabul precisando che i ribelli hanno opposto scarsa resistenza.
Nell’operazione, durata poche ore, solo due talebani sono rimasti leggermente
feriti. Intanto le autorità locali hanno fatto sapere che sono più di 4 mila
gli afghani che nelle ultime settimane hanno lasciato il sud del Paese in seguito
agli scontri. Negli ultimi tre giorni, infine, le autorità pachistane hanno
catturato circa 200 tra talebani ed estremisti islamici, nella zona di confine
con il Paese afghano. La polizia pakistana, negli ultimi mesi, ha chiuso anche
156 stazioni radio accusate di proselitismo a favore degli estremisti islamici.
In Italia prosegue il confronto
politico sul prolungamento della presenza italiana in Afghanistan. La Camera
dei Deputati ha approvato in mattinata la mozione della maggioranza sulle missioni
internazionali italiane con 298 sì, 249 no e un astenuto. La mozione, fra gli
altri aspetti, impegna il governo italiano a promuovere, soprattutto in sede
ONU, una verifica sulla presenza internazionale in Afghanistan. L’aula, che ha
bocciato la mozione dell’opposizione, nel pomeriggio voterà invece il provvedimento
per il rifinanziamento delle missioni all’estero, tra cui quella in
Afghanistan.
Alla presenza del segretario
generale dell’ONU, Kofi Annan, si è conclusa ieri a Bruxelles la Conferenza
internazionale sul Darfur, la martoriata regione del Sudan occidentale, teatro
di un conflitto che ha provocato oltre 250 mila morti e 2 milioni e mezzo di
profughi. Il servizio è di Giulio Albanese:
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L’Unione Europea e gli altri
donatori si sono impegnati stanziando circa 160 milioni di euro, dando così un
contributo fattivo alla missione di peacekeeping
dell’Unione Africana e mantenendo l’impegno preso per offrire alla regione
sudanese una reale speranza di pace dopo oltre tre anni di dolorosa guerra
civile. Obiettivo principale della Conferenza è stato quello di rispondere alle
principali sfide cui deve fare fronte la regione e che sono: il rispetto degli
accordi di pace sottoscritti dai ribelli del Darfur e dal governo di Khartoum,
il 4 maggio scorso ad Abuja in Nigeria; la stabilizzazione della regione e la
necessità di sostenere finanziariamente la missione dell’Unione Africana fino
al gennaio 2007. Il tutto nella speranza che per il nuovo anno vi sia un
accordo tra le parti in conflitto, perché si possa davvero avviare una missione
dei ‘caschi blu’ nella regione sudanese. Secondo le ultime stime, il conflitto
nel Darfur ha provocato dall’inizio del 2003 tra i 180 mila e i 300 mila morti,
oltre a due milioni e mezzo di profughi.
Per la Radio Vaticana, Giulio
Albanese.
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Sono almeno un centinaio, fra
morti e dispersi, le vittime delle forti inondazioni che hanno colpito la Corea
del Nord in questi giorni. Fonti della Croce Rossa hanno riferito di oltre
11.500 case distrutte e più di 9mila famiglie senza tetto. Il maltempo non ha
risparmiato neanche Giappone e Sud Corea, investiti pesantemente da piogge
torrenziali, frane e inondazioni: le autorità nipponiche hanno riferito di 4
morti e 15 dispersi. Da Seul il bilancio è di 25 morti e 24 dispersi.
Il presidente serbo, Boris Tadic,
oggi a Bruxelles si è detto pronto ad un incontro con i leader albanesi del
Kosovo, nel quadro dei colloqui sul futuro status della provincia amministrata
dall’ONU. Tadic ha aggiunto che i “problemi tecnici”, che avrebbero potuto
impedire l’incontro, sono stati “regolati” grazie all’inviato speciale dell’ONU
per i negoziati, Martti Ahtisaari che ha appoggiato l’incontro. Il portavoce
dei negoziatori albanesi del Kossovo, lunedì scorso, si era detto pronto ad
incontrarsi, il 24 luglio prossimo a Vienna, “non per negoziare” ma per dimostrare
che l’indipendenza e la sovranità della regione rappresentano una soluzione
vitale. Intanto, gli esperti del Consiglio d'Europa visiteranno a breve tutti i
centri di detenzione presenti in Kosovo per verificare se “le condizioni di
detenzione rispettano la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e
dei trattamenti inumani o degradanti”. Lo afferma un comunicato del Consiglio
d'Europa, nel quale si spiega che le visite riguarderanno i centri di
detenzione della NATO e anche quelli delle Nazioni Unite.
L’Unione Europea ha dato via
libera alla procedura di infrazione contro l’Italia in merito alla legge
Gasparri, che nel 2004 ha riformato il sistema televisivo. Bruxelles ha deciso
oggi di inviare una ‘lettera di avviso formale’ in cui si chiedono chiarimenti
su alcuni punti della riforma sospettati di non essere compatibili con le
regole europee sulla concorrenza. La decisione arriva sulla base di un ricorso
dell’associazione “Altroconsumo”, nel quale si afferma che la legge
“attribuisce illegittimamente a Rai e Mediaset diritti speciali che ne
rafforzano la posizione dominante e impediscono l'accesso al mercato a nuovi
operatori”. Da parte sua, il ministro italiano delle Comunicazioni già nei
giorni scorsi aveva affermato che il Governo sarà pronto a modificare la legge.
La lettera inviata a Roma è il primo passo della procedura di infrazione. Ora
l'Italia ha due mesi di tempo per rispondere alla Commissione.
“Non accetterò ricatti nè minacce”. E’ il
monito lanciato dal candidato del centrodestra alle elezioni del 2 luglio in
Messico, Felipe Calderon, al candidato del centrosinistra, Andres Lopez Obrador,
che non riconosce la vittoria elettorale del suo rivale. Dopo la campagna a
favore di una ''resistenza civile pacifica'' lanciata domenica scorsa in una
manifestazione oceanica a Città del Messico da Lopez Obrador, Calderon ha
chiesto di accettare i risultati elettorali nei quali si è imposto per lo
0,58%, su un totale di quasi 42 milioni di voti. “Nessuno - ha rilevato Calderon
- deve pretendere di vincere sulla piazza quello che non ha ottenuto nelle
urne”
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