RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno L  n. 199 - Testo della trasmissione di martedì 18 luglio 2006

 

 

Sommario

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Occorre una presa di coscienza, da parte della comunità internazionale, del proprio comune destino e dell’urgenza di una soluzione pacifica della crisi. Così, ai nostri microfoni, il cardinale Renato Raffaele Martino, sulla situazione in Medio Oriente

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Al vertice del G8 di San Pietroburgo, la crisi in Medio Oriente ha oscurato il tema dello sviluppo del sud del mondo: il commento di Sergio Marelli

 

70 anni fa in Spagna iniziava la guerra civile che insanguinò il Paese fino al 1939: con noi padre Giovanni Sale

 

Sono in navigazione verso il Jao National Park i 200 partecipanti al VI Simposio “Religione, scienza e ambiente”, promosso dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I: ai nostri microfoni il vescovo Mario Pasqualotto

 

CHIESA E SOCIETA’:

Appello dei vescovi canadesi e svizzeri perché si ponga fine al conflitto in Medio Oriente

 

Accordo tra governo boliviano e Chiesa per mantenere l’insegnamento della religione nelle scuole

 

I vescovi di Timor Est assicurano al nuovo primo ministro Josè Ramos Horta la collaborazione della Chiesa cattolica perché nell’isola torni l’armonia sociale

 

Le corti popolari del Rwanda, incaricate di giudicare i crimini del genocidio del ’94, hanno già condannato 5.763 persone

 

Dopo 5 anni di restauri è stato riaperto ieri a Roma il tratto delle Mura Aureliane crollato nel 2001

 

24 ORE NEL MONDO:

Almeno 14 morti in Libano dopo nuovi raid israeliani su Beirut e nella valle della Bekaa. Gli Hezbollah rifiutano ogni proposta di cessate-il-fuoco

 

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

18 luglio 2006

 

 

 

OCCORRE UNA PRESA DI COSCIENZA, DA PARTE DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE,

DEL PROPRIO COMUNE DESTINO E DELL’URGENZA DI UNA SOLUZIONE PACIFICA

DELLA CRISI. COSÌ, AI NOSTRI MICROFONI, IL CARDINALE RENATO RAFFAELE MARTINO, PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE,

SULLA SITUAZIONE IN MEDIO ORIENTE

 

Il Papa e la Santa Sede seguono con grande attenzione l’evolversi della situazione in Medio Oriente. Dopo i forti appelli per la pace del Papa all’Angelus del 29 giugno e in quello di domenica scorsa, è seguito il richiamo al dialogo tra le parti lanciato dal segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano. Forti preoccupazioni per la crisi mediorientale sono espresse anche dal presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, cardinale Renato Raffaele Martino. Ascoltiamo il porporato al microfono di Francesca Sabatinelli:

 

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R. - Come ha sottolineato Sua Santità Benedetto XVI nell’Angelus di domenica 16 luglio, l’estendersi delle azioni belliche in Medio Oriente desta molta preoccupazione, in particolare per le sorti della popolazione civile. La situazione è complessa e di difficile decifrazione, e tale da minacciare la pace e la sicurezza non solo della regione ma del mondo intero, come ha affermato venerdì scorso il cardinale segretario di Stato, Angelo Sodano. Al tempo stesso, tuttavia, e con decisione, in tale scenario di violenza e di spietata contrapposizione vanno ripudiati sia gli atti terroristici degli uni, sia le rappresaglie militari degli altri, in quanto entrambi costituiscono una violazione del diritto e dei più basilari principi di giustizia.

 

D. - Quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale nel preoccupante scenario del Medio Oriente?

 

R. - In tale scenario, senza indugi, e prima che il conflitto degeneri assumendo dimensioni ancora più difficili da gestire, la comunità internazionale e le Nazioni Unite in particolare sono chiamati a promuovere il dialogo e la pace fra le parti avverse e l’affermazione di uno stato di diritto nell’area. E’ auspicabile che gli Stati non cedano alla tentazione di interpretare in chiave politica o ideologica il conflitto in atto, ritardando così, o rendendo meno efficaci, l’impegno diplomatico e il soccorso umanitario della popolazione civile.

 

D. - I leader del G8 hanno affrontato la questione del conflitto mediorientale. Pensa che sia stata affrontata adeguatamente?

 

R. – Certamente, la dichiarazione sul Medio Oriente dei leader del G8 è da registrare con favore. I leader, infatti, si dichiarano pronti a collaborare con le Nazioni Unite per l’affermazione della pace in Medio Oriente e, in particolare, per l’attuazione delle Risoluzioni del 1559 e 1680 del Consiglio di Sicurezza riguardanti il Libano, riconosciuto come Stato sovrano. Si dichiarano anche pronti a collaborare per la ripresa del dialogo e della cooperazione fra Israele e Palestina per la pace in Medio Oriente. Tali segnali, come la mediazione del premier italiano, Romano Prodi, sono da incoraggiare. Tuttavia, alle manifestazioni di volontà sarebbe opportuno far seguire un piano di azione equilibrato sul piano giuridico e politico e che tenga a cuore le sorti della popolazione civile.

 

D. - Come valuta i rischi del fondamentalismo nello scenario mediorientale?

 

R. - Un ulteriore elemento da considerare è il coinvolgimento, in quella che potremmo definire guerra, di movimenti fondamentalisti islamici, mi riferisco ad Hamas e agli Hezbollah, in particolare. Questo dato rende la situazione particolarmente preoccupante, dal momento che Stati come la Siria o l’Iran potrebbero prendere parte al conflitto, così inasprendo la contrapposizione ideologica e provocando una reazione ancora più grave di Israele. Infine, non bisogna trascurare il rischio dell’impiego di armi nucleari o di distruzione di massa, che potrebbe segnare una tragica pagina per la storia della famiglia umana.

 

D. - Ci può dire eminenza una parola di speranza?

 

R. - Oggi come non mai, bisogna recuperare il senso della missione, o meglio, della vocazione delle Nazioni Unite, nata per “mantenere la pace ... e la sicurezza”. E a tale fine bisogna adottare misure collettive effettive per la prevenzione e la rimozione delle minacce per la pace” (Carta delle Nazioni Unite, articolo 1/1). Nel mondo contemporaneo, nessun conflitto può essere considerato a dimensione locale, per le sue implicazioni di ordine umano, politico ed economico, e per i suoi possibili effetti sulla pace e sulla sicurezza del mondo. Occorre quindi una presa di coscienza, da parte della comunità internazionale, del proprio comune destino e dell’urgenza di una soluzione pacifica della crisi, dell’affermazione della pace e dello stato di diritto e del soccorso umanitario della popolazione civile in Medio Oriente.

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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”

 

 

Servizio vaticano - Una pagina dedicata alle lettere pastorali dei vescovi italiani. 

Una pagina sul cammino della Chiesa in America.

 

Servizio estero - Medio Oriente: "Gli attacchi in Libano continueranno almeno per un'altra settimana"; Olmert alla Knesset chiede il disarmo dei guerriglieri e accusa Teheran e Damasco.

 

Servizio culturale - Un articolo di Franco Patruno dal titolo "Squarci che indagano la ricchezza della materia": le opere di Arnaldo Pomodoro in mostra a Reggio Emilia e a Correggio.  

 

Servizio italiano - Taxi, raggiunto l'accordo con il Governo.

 

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

18 luglio 2006

 

 

AL VERTICE DEL G8 DI SAN PIETROBURGO, LA CRISI IN MEDIO ORIENTE OSCURA

 IL TEMA DELLO SVILUPPO DEL SUD DEL MONDO: ALL’INDOMANI DELLA

 CONCLUSIONE DEL SUMMIT, IL COMMENTO DI SERGIO MARELLI,

PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE DELLE ONG ITALIANE

 

Molti sorrisi ma pochi fatti. Il vertice del G8 a San Pietroburgo ha deluso le aspettative. C’è da dire che sulla buona riuscita del Summit ha pesato come un macigno l’acuirsi della crisi in Medio Oriente. D’altro canto, proprio a San Pietroburgo ha preso corpo l'idea di una forza di interposizione nel Libano del Sud per garantire un cessate-il-fuoco tra Israele e i miliziani di Hezbollah. Sulle conclusioni del vertice, il servizio di Alessandro Gisotti:

 

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Un vertice partito in salita e tra mille ostacoli soprattutto a causa dell’escalation di violenza tra Libano e Israele. Crisi, questa, che ha registrato posizioni non sempre convergenti dei “Grandi della Terra”. Così, non stupisce più di tanto la genericità delle risoluzioni finali sui temi chiave, dal commercio all’energia. I Paesi del G8 hanno ribadito la necessità di allargare l’istruzione a tutti, specie nel Sud del mondo. Quindi, hanno preso un impegno a sradicare le malattie infettive, a partire dall’AIDS. Il documento finale auspica inoltre investimenti in forme energetiche che consentano uno sviluppo sostenibile. D’altro canto, i Paesi del G8 hanno dato un mese di tempo ai propri negoziatori per giungere a un accordo sui negoziati del Doha Round, che immobilizzano l’Organizzazione Mondiale del Commercio da oltre quattro anni. Pochi giorni prima del vertice di San Pietroburgo, il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace aveva lanciato un appello ai Paesi industrializzati per sbloccare il Doha Round ed integrare così i Paesi in via di sviluppo nel sistema di commercio internazionale. Totalmente insoddisfatti di questo summit sono i promotori del “controvertice” del G8 in Mali. Barry Aminata Tourè, presidente del “Summit dei Poveri” svoltosi a Gao, nel nord del Paese africano, ha denunciato l'assenza di un impegno concreto nei confronti dell’Africa, dopo le promesse dello scorso vertice del G8 a Gleneagles, in Scozia. Dal canto suo, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha annunciato che l’Africa non verrà trascurata nel G8 del prossimo anno, quando la presidenza del vertice spetterà alla Germania.

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Amarezza per l’esito del vertice viene espressa anche dal mondo delle Organizzazioni Non Governative, che sperava in una maggiore attenzione dei Paesi industrializzati sul tema della lotta alla povertà. Ecco il commento di Sergio Marelli, presidente dell’associazione delle ONG italiane, intervistato da Alessandro Gisotti:

 

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R. – Se si fa eccezione per le lunghe e importanti discussioni che si sono avute sulla crisi mediorientale, sulle altre grandi problematiche, ivi comprese quelle inserite nelle priorità dell’agenda e cioè l’energia, l’educazione e la sicurezza per il nucleare, non si sono viste decisioni importanti. La grande esclusa, poi, è stata la questione dello sviluppo, sebbene tutta la società civile a livello internazionale, all’unisono, avesse richiesto che questo tema, come nei precedenti vertici, fosse inserito anche a San Pietroburgo.

 

D. – Ma la crisi del Medio Oriente non ha cambiato le priorità del vertice? Oppure, già prima dell’esplodere della crisi, c’era questa carenza di attenzione per il tema dello sviluppo?

 

R. – Sì, certo, l’acuirsi della crisi nel sud del Libano ha monopolizzato parecchio i lavori di questo vertice, per certi versi anche comprensibilmente. Questo, però, ha oscurato le grandi questioni e le grandi responsabilità che questi Paesi hanno rispetto ai problemi che vivono i tre quarti dell’umanità. Penso che ciò non sia né giustificabile, né condivisibile.

 

D. – Si parla molto di un allargamento del G8 a Paesi emergenti come India, Cina e Brasile. Cosa ne pensa?

 

R. – E’ fuor di dubbio che, essendo questo il vertice dei Paesi più ricchi, oggi fare delle riunioni senza le grandi economie emergenti dei Paesi del sud del mondo, come appunto la Cina, l’India e il Brasile, rischia di diventare un nonsenso. Dietro all’allargamento del G8, però, c’è una grandissima preoccupazione, che è quella, alla fine, di un progressivo, eventuale allargamento, cioè creare un’alternativa all’unico vero organo di governo mondiale che sono le Nazioni Unite con il Consiglio di Sicurezza. Quindi, sicuramente, se quello del G8 resta un vertice informale, penso debba anche aprirsi a queste grandi economie dei Paesi del sud del mondo, ricordando dall’altra parte che nulla può legittimare un’alternativa alle Nazioni Unite, perché le crisi internazionali hanno in quella sede l’unica sede legittimamente riconosciuta dal diritto internazionale.

 

D. – Quali sono, dunque, ora le aspettative delle ONG e, in particolare, ci sono delle iniziative da parte vostra proprio su questo fronte dello sviluppo?

 

R. – Sì, sicuramente, come abbiamo detto e richiesto al presidente del Consiglio, Romano Prodi, noi continueremo ad insistere perché il nostro Paese recuperi quel gravissimo ritardo che ha nell’impegno nei confronti dei Paesi poveri, per quanto riguarda la quantità di aiuti, la cancellazione del debito, le regole commerciali più giuste. D’altra parte, seguiremo le prossime decisioni del governo a partire anche dal DPEF, che non fa minimamente accenno alle questioni della cooperazione internazionale dello sviluppo. L’Italia e gli altri Paesi ricchi non possono esimersi dall’assumersi la responsabilità di risolvere anche i gravi drammi che soffre quotidianamente la maggior parte degli esseri umani sul pianeta.

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IN SPAGNA, SI CELEBRA OGGI IL 70.MO ANNIVERSARIO DELL’INIZIO

 DELLA GUERRA CIVILE CHE INSANGUINÒ IL PAESE FINO AL 1939.

NE PARLIAMO CON PADRE GIOVANNI SALE, STORICO DI CIVILTÀ CATTOLICA

 

In Spagna, si celebra oggi il 70.mo anniversario dell’inizio della guerra civile. Il 17 luglio del 1936 le enclavi spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla furono teatro delle prime rivolte ma lo scoppio del conflitto viene fatto coincidere con la sommossa delle truppe guidate dal generale Francisco Franco, avvenuta il giorno successivo. Truppe che non riconoscevano come legittimo il Parlamento eletto dal popolo. Ma come la società spagnola ha metabolizzato la pagina del conflitto? Fausta Speranza lo ha chiesto a padre Giovanni Sale, storico di “La Civiltà Cattolica”.

 

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R. – Diciamo, innanzitutto, che l’evento della rivoluzione spagnola è un qualcosa che ha avuto innanzitutto anche una sua durata nel tempo: dal ’36 al ’39; poi, il regime che ne è seguito, il franchismo, è qualcosa che ha profondamente toccato la società civile oltre alla società politica. Questo fatto rivoluzionario, prima, e il regime hanno certamente contribuito a spaccare la società spagnola e a creare quindi appartenenze opposte: da una parte, il franchismo, il regime, quella parte di società civile che l’ha appoggiato, per diversi anni, anzi decenni; dall’altra parte, la società di opposizione, la sinistra, i movimenti di ispirazione anarchica o socialista. Ciò che è mancato nella società spagnola, in questi decenni, è stato proprio la presenza di una forza di mediazione, forza politica, forza morale, eccetera. Forse neanche la Chiesa, che per vocazione sua avrebbe potuto, avrebbe dovuto mediare tra queste due forze e appartenenze, non è riuscita in pieno – forse – a svolgere questo compito. Per cui, è una società spaccata, divisa, e l’attuale momento politico definito “zapaterista” è il frutto, il risultato per certi aspetti di questa divisione esistente all’interno della società.

 

D. – Dal punto di vista storico ci sono ancora pagine da scrivere, ci sono documenti o archivi da aprire?

 

R. – Penso che la prossima apertura dell’Archivio Vaticano, quella del 18 settembre prossimo, contribuirà – almeno sul fronte della materia ecclesiastica – ad arricchire il materiale storico a disposizione dei ricercatori. Risulterà più chiaro qual è stato l’intervento della gerarchia, la presenza della gerarchia in ordine a quei fatti.

 

D. – Attualmente, si sta ultimando un progetto di legge sulle vittime sul conflitto intestino e sul franchismo. Qualcuno lo legge come uno strumento di riconciliazione e giustizia, ma per altri è un riaprire vecchie ferite, per scopi di lotta politica. Lei che cosa ci dice?

 

R. – Io penso che affrontare queste questioni con lo strumento legislativo sia sempre un fatto poco consono alla sostanza delle cose. Io penso che debba essere la scienza storica ad incaricarsi di un lavoro di conciliazione e in questo debbono anche collaborare le forze della società, della politica, eccetera. Quindi, io vedo un intervento più del potenziale intellettuale, morale, spirituale, religioso, nazionale in questa direzione, che non invece l’applicazione di uno strumento legislativo che generalmente è più uno strumento di divisione all’interno della società civile e politica che di unità.

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SONO IN NAVIGAZIONE VERSO IL JAO NATIONAL PARK I 200 PARTECIPANTI

AL VI SIMPOSIO “RELIGIONE SCIENZA E AMBIENTE”,

PROMOSSO DAL PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI, BARTOLOMEO I

- Intervista con il vescovo Mario Pasqualotto -

 

Di nuovo in navigazione sul Rio Negro, i 200 partecipanti al VI Simposio ‘Religione, Scienza e Ambiente’ dedicato all’Amazzonia. A guidare le delegazioni il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Il servizio della nostra inviata in Amazzonia, Giada Aquilino:

 

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Destinazione Jao National Park: i partecipanti al VI Simposio “Religione, Scienza e Ambiente” sono in navigazione sul Rio Negro per raggiungere una delle più ampie riserve naturali del Brasile. Esempio di biodiversità, con clima caldo e umido, popolato da poco più di 900 persone che hanno scelto di non trasferirsi nei centri abitati, il parco comprende oltre 2 mila ettari di vegetazione e sistemi acquatici. Una porzione di patrimonio ambientale, insomma, sottratto all’impeto della deforestazione su larga scala.  I lavori del Convegno a bordo dei battelli intanto proseguono. In primo piano la politica ambientale, intesa come parte integrante dello sviluppo economico. Dare incentivi per conservare, invece che distruggere, ciò che ci circonda sembra essere la linea da seguire a partire dal corretto uso delle potenzialità dell’Amazzonia. Dalle turbine posizionate lungo l’intero sistema fluviale dello Stato, per esempio, si ricava il 70 per cento dell’elettricità brasiliana. Maggiore attenzione, invece, viene richiesta per le popolazioni indigene dell’Amazzonia, che costituiscono il 70 per cento degli almeno 700 mila indios brasiliani.

 

Dal Rio Negro, Giada Aquilino, Radio Vaticana.

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E sulla realtà degli indios, Giada Aquilino ha intervistato mons. Mario Pasqualotto, vescovo ausiliare di Manaus:

 

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R. – Dovrebbero essere un po’ più considerati, più favoriti. Abbiamo ancora molte tribù che non sono definite come riserve indigene, purtroppo!

 

D. – E quindi, quali rischi si corrono?

 

R. – Il rischio è che queste “civiltà” vengano a sfruttarli. Recentemente, c’è stato un incendio in un villaggio indigeno, dopo che il presidente della Repubblica aveva dichiarato la riserva indigena: hanno fatto questo per intimidire, per spaventare gli indios e la Chiesa cattolica che li difende, bruciando anche l’ospedale e la scuola. Io ho lavorato con gli indios e ho molta stima di loro, e già che parliamo di ecologia, di protezione dell’ambiente, è l’unico popolo che sa veramente difendere l’Amazzonia. Loro si immedesimano con la natura …

 

D. – Quanto sono legati con la natura dell’Amazzonia?

 

R. – Loro vivono nella natura, sono dentro alla natura, non hanno proprietà privata. La terra è di Dio - dicono loro - la terra è di tutti. Mi ha colpito molto una frase che ha detto una volta un indio. Disse: “Quando una persona muore, non si deve piangere, perché la persona è sepolta in terra, la terra diventa più importante”.

 

D. – Che rapporto c’è tra la Chiesa e gli indios?

 

R. – Penso che la Chiesa sia l’unica istituzione che ancora li consideri come un popolo ricco di valori. Noi ci impegniamo tanto perché non si perda la lingua: abbiamo le scuole bilingue, dove si parla portoghese perché si inseriscano nella società brasiliana  ma  anche la  lingua indigena perché sopravviva.

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CHIESA E SOCIETA’

18 luglio 2006

 
 

APPELLO DEI VESCOVI CANADESI E SVIZZERI

PERCHÉ SI PONGA FINE AL CONFLITTO IN MEDIO ORIENTE

 

OTTAWA. = Un accorato appello al cessate-il-fuoco in Medio Oriente sta giungendo in questi giorni dai vescovi di diverse parti del mondo. “Di fronte all’escalation di violenza che sta tormentando il Medio-Oriente, i cattolici uniscono le loro voci perché i protagonisti optino per la negoziazione piuttosto che per l’uso della forza”: con queste parole la Commissione episcopale canadese Sviluppo e Pace, in una lettera, chiede che si ponga fine ai combattimenti in Libano. Organismo di solidarietà internazionale creato dai vescovi canadesi, la Commissione Sviluppo e Pace ha fatto pervenire un documento al premier, Stephen Harper, e al ministro degli Affari Esteri, Peter MacKay, in cui si chiede un intervento immediato in Libano e a Gaza. Al governo la Commissione episcopale chiede un impegno perché venga incoraggiato lo stop alla rappresaglia e si acceleri l’inizio delle negoziazioni. “Sviluppo e Pace crede che una pace giusta è possibile in Medio Oriente e chiede al Canada di far rispettare il diritto internazionale e di aiutare la popolazione di Israele, Palestina e Libano ad evitare ad ogni costo la guerra”, ha dichiarato il presidente dell’organismo Margie Noonan. Anche la Conferenza episcopale svizzera (CES) ha lanciato un appello perché cessi il conflitto in Medio Oriente. Scioccati per quanto sta accadendo in Israele e Libano, si legge in un comunicato, i presuli chiedono una soluzione pacifica e pregano perché la ragione e la saggezza s’impongano al posto dell’odio e della vendetta e perché non sia versato altro sangue. La CES chiede poi ai governi, alle Chiese e a tutti gli uomini di buona volontà un impegno incessante per la pace. L’episcopato svizzero, si legge nel comunicato stampa, “condivide la preoccupazione del Papa ed esorta tutti i credenti a pregare per la pace in Medio Oriente. Le popolazioni che vivono in quelle terre hanno diritto ad una pace giusta e duratura”. E questa sera, dalle 21 a mezzanotte, a Liverpool, in Gran Bretagna, nella cattedrale metropolita di Cristo Re, per la pace in Medio Oriente si terrà una veglia di preghiera silenziosa. A presiederla sarà l’arcivescovo Patrick Kelly, vicepresidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles e coordinatore per i vescovi del sostegno alla Chiesa in Terra Santa. (T.C.)

 

 

ACCORDO TRA GOVERNO BOLIVIANO E CHIESA

PER MANTENERE L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE NELLE SCUOLE

- A cura di Luis A. Badilla Morales -

 

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LA PAZ. = La Conferenza episcopale boliviana ha siglato un accordo con il governo sull’insegnamento della religione nelle scuole. Il ministro della Pubblica Istruzione, Benecio Quispe, ha firmato documento insieme al segretario della Conferenza episcopale, mons. Jesús Juárez, all’arcivescovo di Sucre, mons. Jesús Pérez, arcivescovo di Sucre, e a mons. Luis Saínz, presidente della Commissione episcopale per l’Educazione. Sottoscritto nella cornice del coordinamento tra il governo e la Conferenza episcopale della Bolivia su alcuni temi comuni, l’accordo comprende quattro punti: il rispetto e la garanzia della piena libertà religiosa e di culto nella diversità culturale del Paese, e di conseguenza il riconoscimento dell’insegnamento della religione come materia a pieno titolo nel curriculum scolastico nazionale; la garanzia della validità dell’accordo tra lo Stato e la Chiesa cattolica nell’intero ambito educativo; la garanzia della validità e del funzionamento delle università private nel quadro delle leggi nazionali. Il documento prevede inoltre che lo Stato, attraverso il ministero dell’Educazione e della Cultura, continui a collaborare con la Chiesa cattolica per gli aspetti che saranno utili al miglioramento del sistema educativo nazionale.

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I VESCOVI DI TIMOR EST ASSICURANO AL NUOVO PRIMO MINISTRO

JOSÉ RAMOS HORTA LA COLLABORAZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA

PERCHÉ NELL’ISOLA TORNI L’ARMONIA SOCIALE

 

DILI. = Il vescovo di Dili, mons. Ricardo da Silva, e il vescovo di Bacau, mons. Basilio Do Nascimento, hanno assicurato al nuovo premier di Timor Est José Ramos Horta la piena collaborazione da parte della Chiesa locale perché nell’isola si ristabilisca la pace. I due presuli, riferisce l’agenzia Fides, hanno espresso la speranza che presto Timor Est torni sulla via dell’armonia sociale e dello sviluppo   economico. Ramos Horta, premio Nobel per la Pace nel 1996, che è stato nominato dal presidente Xanana Gusmao, nel suo discorso inaugurale ha promesso più fondi per lo sviluppo economico e sociale della popolazione e un’attenzione particolare al problema della sicurezza. Ha poi indicato la Chiesa cattolica come “la sola istituzione solida che ha assorbito il tessuto culturale dell’isola, da rispettare e da coinvolgere ancora una volta nel dialogo con lo Stato. “Sta dando un contributo per uscire da questa crisi – ha detto Ramos Horta – guarisce le ferite, aiuta la gente a progredire in ogni area: sociale, educativa, culturale, spirituale e morale … questo governo ora invita la Chiesa Cattolica ad assumere un maggior ruolo nell’educazione e nello sviluppo umano della nostra gente e nella lotta contro la povertà”. Il primo ministro, rivolgendosi poi in modo particolare ai vescovi, ha auspicato che presto a Dili possa essere istituita una Nunziatura, affermando la sua intenzione di nominare un ambasciatore presso la Santa Sede. Riferendosi poi agli scorsi mesi di disordini, ha ricordato “l’importante ruolo svolto dagli ordini religiosi, sacerdoti e suore, che hanno aperto le porte dei loro istituti e i loro cuori a decine di migliaia di altri fratelli e sorelle”. “I figli della Chiesa – ha affermato il premier – ancora una volta hanno testimoniato la loro solidarietà mettendo la propria umanità al servizio di chi ha bisogno”. La comunità cattolica chiede al leader di mettere fra le priorità di governo la pace e la riconciliazione di Timor Est precipitata nel caos circa tre mesi fa, quando l’allora premier Mari Alkatiri  aveva radiato 600 membri dell’esercito che scioperavano lamentando discriminazioni etniche. Ai duri scontri seguiti al caso dei militari licenziati, con conseguente sfollamento di migliaia di persone, aveva posto rimedio l’intervento di una forza di pace internazionale guidata dall’Australia. (T.C.)

 

 

LE CORTI POPOLARI DEL RWANDA, INCARICATE DI GIUDICARE I CRIMINI DEL GENOCIDIO DEL ’94, HANNO GIÀ CONDANNATO 5.763 PERSONE. DOPO LA FASE SPERIMENTALE, ORA I TRIBUNALI INDAGANO SU 513 INDIZIATI, MENTRE GLI ASSOLTI SONO 739

 

KIGALI. = Le 118 corti popolari del Rwanda, i tribunali incaricati di giudicare i crimini commessi durante il genocidio del 1994, i cosiddetti “macaca” simili a consigli di villaggio, hanno condannato, nel giro di un anno, 5.763 persone. Altre 739 sono state assolte e 513 restano in attesa di giudizio. Gli accusati erano in totale poco più di 7 mila, di cui 6.783 uomini. Le cifre, riportate dal quotidiano New Times, come riferisce l’agenzia MISNA, sono state diffuse dal Servizio nazionale dei tribunali Gacaca (SNJG) dopo la fine della fase sperimentale, iniziata il 10 marzo 2005 e conclusasi sabato scorso. Da tre giorni, 1.545 gacaca sono ora operativi a pieno titolo in tutto il Paese con 1.427 nuovi processi già avviati. Secondo i dati del SNJG, i giudici dei gacaca hanno emesso mandati di arresto per 806 sospettati, tra cui anche militari e amministratori civili, ed hanno inoltre ordinato l’arresto di 761 persone accusate di aver minacciato i testimoni dei processi. In base alle indagini dell’ONU, nel 1994, in poche settimane, furono uccisi circa 800 mila ruandesi di etnia tutsi o hutu moderati, mentre in 200 mila parteciparono all’eccidio. L’attuale governo sostiene invece che le vittime del genocidio furono 937 mila, mentre altre fonti ritengono che nella strage furono coinvolte 700 mila individui. Le cifre del quotidiano New Times parlano di 152.034 persone che hanno confessato la loro colpevolezza davanti ai tribunali gacaca, e che tuttavia, al momento, restano in libertà. Secondo fonti del servizio nazionale dei tribunali gagaca, 45 mila giudici sono stati incriminati per i reati collegati al genocidio e quindi rimpiazzati nell’incarico. È invece la magistratura ordinaria ad occuparsi di quanti sono accusati di aver organizzato stragi e commesso stupri. Il SNJG ha affermato che mandanti e principali esecutori delle stragi sono sotto processo o sono già stati condannati dal Tribunale internazionale per il Rwanda (TPIR), voluto dall’ONU. Quest’ultimo ha finora emesso quasi una trentina di sentenza definitive, fra cui tre assoluzioni. Nessuna indagine internazionale è ancora stata avviata invece sulle violenze commesse dai ribelli del Fronte Patriottico ruandese (FPR), guidati dall’attuale presidente Paul Kagame, che presero il potere a Kigali nel luglio 1994 mettendo fine al genocidio. (A.Gr.)

 

 

DOPO 5 ANNI DI RESTAURI È STATO RIAPERTO IERI A ROMA

IL TRATTO DELLE MURA AURELIANE CROLLATO NEL 2001

 

ROMA. = È riaperto da ieri a Roma un tratto di circa 400 metri delle Mura Aureliane compreso tra il Bastione Ardeatino e la Porta San Sebastiano. Crollata in seguito ad un violento temporale, nell’aprile del 2001, l’area archeologica ha richiesto 5 anni di lavori costati oltre un milione e 600 mila euro. Da oggi è visitabile anche il Museo delle Mura, che era stato chiuso per consentire lo svolgimento dei restauri. Le sue sale documentano la storia delle fortificazioni della città. Le mura, volute dall’imperatore Aureliano nel 270 d.C per difendere l’urbe dalle invasioni barbariche, si estendono per più di 12 chilometri, ma all’origine il loro perimetro ne comprendeva 19. “Ora – ha detto il sindaco di Roma Walter Veltroni – l’obiettivo è rendere percorribile e liberare da preesistenze di varia natura tutto il circuito delle mura”. (A.Gr. – T.C.)

 

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24 ORE NEL MONDO

18 luglio 2006

 

- A cura di Eugenio Bonanata -

        

Non si placa l’offensiva israeliana in Libano: sono ripresi, poco fa, bombardamenti sulla capitale. Attacchi aerei delle forze israeliane ad est di Beirut e nella valle della Bekaa hanno causato la morte di almeno 14 persone. Intanto, i guerriglieri Hezbollah hanno rifiutato ogni proposta di cessate-il-fuoco. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

 

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Continua, per il settimo giorno consecutivo, l’offensiva israeliana in Libano: tre cittadini giordani sono morti in seguito ad un raid dell’aviazione israeliana nella valle della Bekaa. Nella notte, sono state colpite anche due caserme dell’esercito libanese, nei pressi di Bierut, provocando la morte di almeno dieci persone. Le azioni militari dello Stato ebraico fanno registrare poi, per la prima volta, anche incursioni non aeree: truppe di terra israeliane sono entrate, ieri, nel sud del Libano per creare “una fascia di sicurezza” e demolire diverse postazioni usate dai guerriglieri sciiti per attaccare il nord di Israele. Si temono ulteriori incursioni: l’esercito israeliano non ha escluso, infatti, una massiccia invasione via terra nel sud del Libano, come accadde nel 1982. Il vice capo di Stato maggiore israeliano ha dichiarato, poi, che l’offensiva militare, costata la vita finora a 200 persone, durerà ancora per qualche settimana. Sull’altro fronte, gli Hezbollah continuano a lanciare razzi contro Israele. Il movimento sciita ha anche rifiutato le proposte della comunità internazionale per un immediato cessate il fuoco, giudicandole una “condizione israeliana”. E per porre fine alla crisi, i capi di Stato e di governo riuniti a San Pietroburgo per il G8 hanno chiesto all’ONU di creare una forza di sicurezza e di interposizione nel sud del Libano. Il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, ha precisato che Israele non esclude la possibilità dell’invio di un contingente internazionale nel Paese dei cedri. Ma il ministro israeliano ha anche sottolineato come la prima soluzione, per lo Stato ebraico, sia la “piena applicazione” della risoluzione 1559, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel settembre 2004, che prevede il disarmo degli Hezbollah e l’invio delle truppe regolari libanesi nel sud del Libano.

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Sulla grave crisi che sta colpendo il Libano, Giancarlo La Vella ha raccolto il commento di mons. Béchara Raï, arcivescovo di Byblos dei Maroniti, la città recentemente bombardata dai raid israeliani:

 

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R. – Si tratta di una guerra apocalittica. Quello che sta succedendo avviene senza rispettare le norme di diritto internazionale o di diritto di sovranità. Purtroppo, Israele sta permettendosi di violare la sovranità del Paese e si permette di bombardare tutti; questo non ha niente a che fare con il loro conflitto con gli Hezbollah. Nemmeno noi appoggiamo il movimento degli Hezbollah, che mette da parte il governo ed il popolo.  Gli Hezbollah hanno scelto l’opzione della guerra, e noi sappiamo bene che sono guidati da Iran e Siria. Anche noi appoggiamo il governo libanese, il quale chiede alla comunità internazionale di aiutarlo ad esercitare la sua sovranità in tutto il Paese. Comunque, speriamo che la comunità internazionale possa agire. Parlando con la Radio Vaticana, poi, vorrei – a nome del popolo libanese e di tutta la Chiesa – esprimere la nostra gratitudine al Santo Padre per il suo ricordo e la sua preghiera.

 

D. – Ci sono, secondo lei, spazi per la comunità internazionale di mediare in questa situazione così difficile?

 

R. – Certo! La prima cosa da fare è imporre il cessate-il-fuoco. Si devono fare pressioni su Iran e Siria che manipolano gli Hezbollah. Quella degli Hezbollah è una fazione, una milizia che si permette di sostituire lo Stato. Io penso che la comunità internazionale abbia i mezzi per agire. Non si può lasciare che si distruggano sistematicamente un popolo e un Paese, che non ha niente a che fare con un conflitto con Israele. Il Libano rifiuta la guerra, il Libano non è mai entrato in guerra contro Israele. Il Libano non ha mai dichiarato guerra, non ha mai voluto fare la guerra ma le forze israeliane bombardano, per esempio, le caserme dell’esercito libanese proprio per indurre lo Stato libanese a reagire. Noi vogliamo la pace, non vogliamo la guerra. La comunità internazionale dovrebbe capire questo e agire.

 

D. – Come sempre, in queste situazioni, a fare le spese più gravi è la popolazione civile …

 

R. – Nella zona di Byblos sono state ospitate nei giorni scorsi, secondo i giornali, 10 mila famiglie; sono accolte nelle scuole, nei conventi, presso le famiglie. Noi ci stiamo organizzando per aiutarle con le nostre strutture ecclesiali e civili. Purtroppo, viviamo assediati da Israele per mare, per aria e anche per terra. Non sappiamo come far giungere gli aiuti a queste famiglie che sono state cacciate dalle loro case. Stiamo ricevendo, insomma, migliaia e migliaia di profughi.

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Nuovi sanguinosi attentati in Iraq. Dopo gli oltre 50 morti di ieri, si aggrava di ora in ora l’attentato che ha colpito questa mattina il mercato di Kufa, a sud di Baghdad. Il nostro servizio:

 

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Le vittime sarebbero ormai una sessantina. Più di un centinaio i feriti. La polizia però avverte: il bilancio con tutta probabilità è destinato ad aggravarsi. La dinamica dell’attacco è tristemente nota: il kamikaze si è fatto saltare in aria in mezzo a una folla di lavoratori, che si erano accalcate intorno ad un veicolo nella speranza di rimediare una giornata di lavoro. In seguito, una folla infuriata ha aggredito e insultato i poliziotti presenti, che hanno dovuto sparare in aria per disperdere la protesta. Sempre in mattinata, a Tikrit, a nord di Bagdad, l’esplosione di un ordigno nascosto sotto la testa mozzata di una donna, abbandonata per strada, ha provocato la morte dell’uomo che l’aveva rinvenuta. Sempre a nord, nella regione di Kirkuk, una bomba contro una pattuglia di polizia ha fatto altri otto morti. A Bassora, a sud del Paese, 5 ribelli sono rimasti uccisi in scontri con l’esercito britannico. Dal canto loro le forze di sicurezza cercano di contrastare la guerriglia: nei giorni scorsi hanno catturato il capo della Brigata di Omar, un gruppo armato sunnita legato ad Al Qaida e responsabile di numerosi attentati anti-sciiti che hanno provocato decine di vittime civili. In questo quadro, la Casa Bianca ha ribadito la propria contrarietà a definire un calendario preciso per il ritiro delle proprie truppe. Il vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, rivolgendosi soprattutto ai Democratici all’opposizione, che vorrebbero invece, scadenze fisse, ha detto che la presenza militare in Iraq è legata solo alla situazione sul terreno, e non a decisioni politiche. Per il vice di Bush parlare oggi di ritiro sarebbe davvero un segnale poco serio.

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In Afghanistan un soldato della coalizione internazionale è morto ed altri undici sono rimasti feriti ieri durante un aspro combattimento contro militanti taleban nel sud del Paese asiatico. Lo hanno riferito fonti militari, senza tuttavia precisare la nazionalità dei soldati, né se vi siano state vittime tra i ribelli. Intanto le autorità pachistane hanno comunicato l’arresto di una sessantina di talebani afgani nel sud del Pakistan. Da mesi la comunità internazionale faceva pressione su Islamabad per bloccare il flusso di terroristi verso l’Afghanistan.

 

L’Indonesia sta rivivendo il dramma dello tsunami del dicembre 2004. Un forte terremoto, al largo dell’isola di Giava, ha causato ieri una serie di onde anomale che si sono abbattute sulle coste. Sono ormai più di 350 i morti, ma il bilancio aumenta di ora in ora. Il servizio di Chiaretta Zucconi:

 

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“Ho guardato verso la spiaggia e ho visto una grande, minacciosa muraglia di acqua venire verso di noi”: questa è la testimonianza di un turista belga di 53 anni, riuscito a sfuggire arrampicandosi su un albero, all’onda anomala che invece non ha risparmiato molti altri, come lui in vacanza su queste spiagge dorate, mentre si continua a cercare tra le macerie e il fango in Pangadaran, che fino a poche ore fa era un popolare centro turistico come tanti altri disseminati lungo le coste, un motore trainante per l’economia dell’arcipelago che vive soprattutto di turismo. Secondo le agenzie locali, sono oltre 20 mila le persone che hanno abbandonato le proprie abitazioni o perché distrutte o nel timore che su di loro potesse abbattersi un altro tsunami. Pangadaran, sulle coste meridionali, appare al momento la zona più danneggiata dallo tsunami che è stato provocato da un sisma di magnitudo 7.7.

 

Per la Radio Vaticana, Chiaretta Zucconi.

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Dopo oltre 30 anni di guerra, finalmente siglata la pace tra governo angolano e i ribelli separatisti del Fronte di Liberazione della Cabinda, regione ricca di petrolio. L’intesa è stata raggiunta ieri a Brazzaville, sotto l’egida dell’Unione Africana. Il servizio è di Giulio Albanese:

 

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La notizia per l’Africa è davvero da prima pagina: è finalmente scoppiata la pace tra il governo angolano e i separatisti del Fronte di Liberazione dell’enclave di Cabinda. Lo storico accordo, che mette fine a 31 anni di conflitto, è stato siglato ieri da entrambe le parti a Brazaville, sotto gli auspici dell’Unione Africana, di cui la Repubblica del Congo ricopre attualmente la presidenza di turno. L’intesa prevede tra l’altro il riconoscimento di uno statuto di autonomia speciale alla provincia costiera di Cabinda, da cui provengono circa metà delle risorse petrolifere nazionali, il ritiro immediato delle milizie governative della zona contesa e un’amnistia generale per i ribelli del Fronte. Ancora vaghe però le decisioni riguardanti la gestione dei proventi dell’oro nero estratto dalla Cabinda, principale causa della guerra appena sospesa, che saranno comunque discusse in una fase successiva delle trattative tra le due parti. L’Angola è il secondo produttore di petrolio nell’Africa subsahariana, con un milione e mezzo di barili al giorno.

 

Per La Radio Vaticana, Giulio Albanese.

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In Somalia, il presidente del governo di transizione, Abdullai Yusuf, ha deciso di riprendere il dialogo con le Corti Islamiche, che controllano ormai gran parte della zona meridionale del Paese. Dopo infruttuosi incontri tra le parti, il 21 luglio prossimo potrebbe essere la data per un nuovo appuntamento a Khartoum. Ieri da Bruxelles il Gruppo di contatto per la Somalia - formato da Stati Uniti, ONU, Italia, Svezia, Norvegia, Regno Unito e Tanzania - aveva sottolineato l’urgenza di un dialogo “costruttivo volto ad appianare in modo pacifico le differenze e a ridare fiducia all’indirizzo politico al Paese”. Il gruppo, in una nota, ha inoltre chiesto lo “stabilimento delle Istituzioni federali transitorie a Mogadiscio, capitale del Paese”.

 

Sono ripresi ieri a Dar es Saalam, in Tanzania, i colloqui di pace tra il governo del Burundi e i ribelli delle Forze Nazionali di Liberazione. Un negoziato con il quale si tenta di uscire da 13 anni di guerra civile e che dovrebbe giungere ad un accordo definitivo di cessate-il-fuoco.

 

In vista delle elezioni amministrative e politiche che si terranno in Congo il 30 luglio prossimo, l’UE ha condannato ieri “ogni azione volta a disturbare il processo elettorale” e ha esortato tutte le forze politiche del Paese africano a rispettare i principi democratici. Intanto, nel quadro della missione di pace europea per il Congo, l’Italia ha inviato ieri 55 uomini e un velivolo militare che saranno impiegati nell'area per quattro mesi. La missione europea in Congo impegnerà circa 2.800 uomini che affiancheranno i 17mila caschi blu dell’ONU della missione ‘MONUC’. Le elezioni si inquadrano nel processo di transizione della Repubblica del Congo verso la piena democrazia.

 

In Kenya sei sospetti ladri e stupratori sono stati linciati e bruciati dalla folla inferocita. Decine di persone, incoraggiate da molte altre, hanno catturato i sei, li hanno picchiati selvaggiamente e poi li hanno fatti a pezzi a colpi di machete e bruciati.

 

Sgominata un’organizzazione transnazionale dedita alla tratta di esseri umani dalla Polonia verso l’Italia. Stamani, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia di Bari, sono state emesse diverse ordinanze di custodia cautelare in carcere. Alcuni provvedimenti sono stati eseguiti in Polonia su mandato di cattura europeo. Le indagini sono partite da segnalazioni rese alle autorità polacche dagli immigrati. Secondo le accuse, la rete aveva ridotto in schiavitù centinaia di lavoratori impiegati in campi agricoli del foggiano, che spesso venivano sorvegliati con le armi anche nei momenti di riposo.

 

In Italia, nei Centri di permanenza temporanea, destinati agli immigrati, ci sarebbe una “sistematica violazione” della legge che tutela i diritti umani. Lo rivela un’indagine presentata oggi e realizzata su iniziativa di un gruppo di parlamentari e di associazioni della società civile.

 

Ora i spettiamo i risultati. Così il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso ha commentato oggi il piano d’azione, presentato ieri dal primo ministro serbo, Vojislav Kostunica, con il quale il governo serbo si impegna a collaborare con il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia sull'arresto del generale Ratko Mladic. Il presidente serbo, Boris Tadic, incontrando oggi Barroso a Bruxelles, ha ribadito che i rapporti con l’UE sono al momento al centro delle preoccupazioni della Serbia. “Faremo tutto il necessario – ha precisato il presidente serbo - per essere in condizioni di aderire all’UE nei prossimi anni.

 

In Ucraina, è nato oggi ufficialmente un governo con a capo Viktor Yanukovich. Il governo dovrebbe essere supportato da una “coalizione anti-crisi” composta dal Partito delle Regioni (capeggiato da Yanukovich e giunto primo alle elezioni legislative di fine marzo), dai socialisti e dai comunisti. L’alleanza dispone di una risicata maggioranza in parlamento e si è creata dopo che a sorpresa i socialisti hanno rotto con i due partiti ‘arancioni’ filo-occidentali, quello del presidente Viktor Yushenko e quello dell’ex premier, Iulia Timoshenko. Quest’ultima considera “illegittima” la formazione della coalizione anti-crisi e preme su Yushenko perchè sciolga il parlamento e organizzi nuove elezioni. Nostra Ucraina, il partito di Yushenko, ha annunciato invece il passaggio all’opposizione.

 

 

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