RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno L n. 199 - Testo
della trasmissione di martedì 18 luglio 2006
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO:
CHIESA E SOCIETA’:
Appello
dei vescovi canadesi e svizzeri perché si ponga fine al conflitto in Medio
Oriente
Accordo
tra governo boliviano e Chiesa per mantenere l’insegnamento della religione nelle
scuole
Almeno
14 morti in Libano dopo nuovi raid israeliani su Beirut e nella valle della Bekaa. Gli Hezbollah rifiutano
ogni proposta di cessate-il-fuoco
18 luglio 2006
OCCORRE UNA PRESA DI
COSCIENZA, DA PARTE DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE,
DEL PROPRIO COMUNE DESTINO E DELL’URGENZA DI UNA
SOLUZIONE PACIFICA
DELLA CRISI. COSÌ, AI NOSTRI MICROFONI, IL
CARDINALE RENATO RAFFAELE MARTINO, PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA
GIUSTIZIA E DELLA PACE,
SULLA SITUAZIONE IN MEDIO ORIENTE
Il Papa
e
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R. - Come ha sottolineato Sua
Santità Benedetto XVI nell’Angelus di domenica 16 luglio, l’estendersi delle
azioni belliche in Medio Oriente desta molta preoccupazione, in particolare per
le sorti della popolazione civile. La situazione è complessa e di difficile
decifrazione, e tale da minacciare la pace e la sicurezza non
solo della regione ma del mondo intero, come ha affermato venerdì scorso
il cardinale segretario di Stato, Angelo Sodano. Al tempo stesso, tuttavia, e
con decisione, in tale scenario di violenza e di spietata contrapposizione
vanno ripudiati sia gli atti terroristici degli uni, sia le rappresaglie
militari degli altri, in quanto entrambi costituiscono una violazione del
diritto e dei più basilari principi di giustizia.
D. - Quale dovrebbe essere il
ruolo della comunità internazionale nel preoccupante scenario del Medio
Oriente?
R. - In tale scenario, senza
indugi, e prima che il conflitto degeneri assumendo dimensioni ancora più
difficili da gestire, la comunità internazionale e le Nazioni Unite in
particolare sono chiamati a promuovere il dialogo e la pace fra le parti
avverse e l’affermazione di uno stato di diritto nell’area. E’ auspicabile che
gli Stati non cedano alla tentazione di interpretare in chiave politica o
ideologica il conflitto in atto, ritardando così, o rendendo meno efficaci,
l’impegno diplomatico e il soccorso umanitario della popolazione civile.
D. - I leader del G8 hanno
affrontato la questione del conflitto mediorientale. Pensa che sia stata
affrontata adeguatamente?
R. – Certamente, la
dichiarazione sul Medio Oriente dei leader del G8 è da registrare con favore. I
leader, infatti, si dichiarano pronti a collaborare con le Nazioni Unite per
l’affermazione della pace in Medio Oriente e, in particolare, per l’attuazione
delle Risoluzioni del 1559 e 1680 del Consiglio di Sicurezza
riguardanti il Libano, riconosciuto come Stato sovrano. Si dichiarano
anche pronti a collaborare per la ripresa del dialogo e della cooperazione fra
Israele e Palestina per la pace in Medio Oriente. Tali segnali, come la
mediazione del premier italiano, Romano Prodi, sono da incoraggiare. Tuttavia,
alle manifestazioni di volontà sarebbe opportuno far seguire un piano di azione
equilibrato sul piano giuridico e politico e che tenga
a cuore le sorti della popolazione civile.
D. - Come valuta i rischi del
fondamentalismo nello scenario mediorientale?
R. - Un ulteriore elemento da
considerare è il coinvolgimento, in quella che potremmo definire guerra, di
movimenti fondamentalisti islamici, mi riferisco ad
Hamas e agli Hezbollah, in particolare. Questo dato
rende la situazione particolarmente preoccupante, dal momento che Stati come
D. - Ci può dire eminenza una
parola di speranza?
R. - Oggi come non mai, bisogna
recuperare il senso della missione, o meglio, della vocazione delle Nazioni
Unite, nata per “mantenere la pace ... e la sicurezza”. E a tale fine bisogna
adottare misure collettive effettive per la prevenzione e la rimozione delle
minacce per la pace” (Carta delle Nazioni Unite, articolo 1/1). Nel mondo
contemporaneo, nessun conflitto può essere considerato a dimensione locale, per
le sue implicazioni di ordine umano, politico ed economico, e per i suoi
possibili effetti sulla pace e sulla sicurezza del mondo. Occorre quindi una
presa di coscienza, da parte della comunità internazionale, del proprio comune
destino e dell’urgenza di una soluzione pacifica della crisi, dell’affermazione
della pace e dello stato di diritto e del soccorso umanitario della popolazione
civile in Medio Oriente.
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OGGI SU “L’OSSERVATORE ROMANO”
Servizio vaticano
- Una pagina dedicata alle lettere pastorali dei vescovi italiani.
Una pagina sul cammino
della Chiesa in America.
Servizio estero - Medio
Oriente: "Gli attacchi in Libano continueranno almeno per un'altra
settimana"; Olmert alla Knesset
chiede il disarmo dei guerriglieri e accusa Teheran e
Damasco.
Servizio culturale - Un
articolo di Franco Patruno dal titolo "Squarci
che indagano la ricchezza della materia": le opere di Arnaldo Pomodoro in
mostra a Reggio Emilia e a Correggio.
Servizio italiano -
Taxi, raggiunto l'accordo con il Governo.
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18 luglio 2006
AL
VERTICE DEL G8 DI SAN PIETROBURGO, LA CRISI IN MEDIO ORIENTE OSCURA
IL TEMA DELLO SVILUPPO DEL SUD DEL MONDO:
ALL’INDOMANI DELLA
CONCLUSIONE DEL SUMMIT, IL COMMENTO DI SERGIO
MARELLI,
PRESIDENTE
DELL’ASSOCIAZIONE DELLE ONG ITALIANE
Molti sorrisi
ma pochi fatti. Il vertice del G8 a San Pietroburgo ha deluso le aspettative.
C’è da dire che sulla buona riuscita del Summit ha pesato come un macigno
l’acuirsi della crisi in Medio Oriente. D’altro canto, proprio a San
Pietroburgo ha preso corpo l'idea di una forza di interposizione nel Libano del
Sud per garantire un cessate-il-fuoco
tra Israele e i miliziani di Hezbollah. Sulle
conclusioni del vertice, il servizio di Alessandro Gisotti:
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Un vertice
partito in salita e tra mille ostacoli soprattutto a causa dell’escalation di
violenza tra Libano e Israele. Crisi, questa, che ha registrato posizioni non
sempre convergenti dei “Grandi della Terra”. Così, non stupisce più di tanto la
genericità delle risoluzioni finali sui temi chiave, dal commercio all’energia.
I Paesi del G8 hanno ribadito la necessità di allargare l’istruzione a tutti,
specie nel Sud del mondo. Quindi, hanno preso un impegno a sradicare le
malattie infettive, a partire dall’AIDS. Il documento finale auspica inoltre
investimenti in forme energetiche che consentano uno
sviluppo sostenibile. D’altro canto, i Paesi del G8 hanno dato un mese di tempo
ai propri negoziatori per giungere a un accordo sui negoziati del Doha Round, che immobilizzano
l’Organizzazione Mondiale del Commercio da oltre quattro anni. Pochi giorni
prima del vertice di San Pietroburgo, il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
aveva lanciato un appello ai Paesi industrializzati per sbloccare il Doha Round ed integrare così i Paesi in via
di sviluppo nel sistema di commercio internazionale. Totalmente insoddisfatti
di questo summit sono i promotori del “controvertice”
del G8 in Mali. Barry Aminata
Tourè, presidente del “Summit dei Poveri” svoltosi a Gao, nel nord del Paese africano, ha denunciato l'assenza
di un impegno concreto nei confronti dell’Africa, dopo le promesse dello scorso
vertice del G8 a Gleneagles, in Scozia. Dal canto
suo, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha
annunciato che l’Africa non verrà trascurata nel G8
del prossimo anno, quando la presidenza del vertice spetterà alla Germania.
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Amarezza per
l’esito del vertice viene espressa anche dal mondo
delle Organizzazioni Non Governative, che sperava in una maggiore attenzione
dei Paesi industrializzati sul tema della lotta alla povertà. Ecco il commento
di Sergio Marelli, presidente dell’associazione delle
ONG italiane, intervistato da Alessandro Gisotti:
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R. – Se si fa eccezione per le lunghe e importanti
discussioni che si sono avute sulla crisi mediorientale, sulle altre grandi
problematiche, ivi comprese quelle inserite nelle priorità dell’agenda e cioè
l’energia, l’educazione e la sicurezza per il nucleare, non si sono viste
decisioni importanti. La grande esclusa, poi, è stata la questione dello
sviluppo, sebbene tutta la società civile a livello internazionale,
all’unisono, avesse richiesto che questo tema, come nei precedenti vertici,
fosse inserito anche a San Pietroburgo.
D. – Ma la crisi del Medio Oriente non ha cambiato le
priorità del vertice? Oppure, già prima dell’esplodere della crisi, c’era
questa carenza di attenzione per il tema dello sviluppo?
R. – Sì, certo, l’acuirsi della crisi nel sud del Libano
ha monopolizzato parecchio i lavori di questo vertice, per certi versi anche
comprensibilmente. Questo, però, ha oscurato le grandi
questioni e le grandi responsabilità che questi Paesi hanno rispetto ai problemi
che vivono i tre quarti dell’umanità. Penso che ciò non sia né giustificabile,
né condivisibile.
D. – Si parla molto di un allargamento del G8 a Paesi
emergenti come India, Cina e Brasile. Cosa ne pensa?
R. – E’ fuor di dubbio che, essendo questo il vertice dei
Paesi più ricchi, oggi fare delle riunioni senza le grandi economie emergenti
dei Paesi del sud del mondo, come appunto la Cina,
l’India e il Brasile, rischia di diventare un nonsenso. Dietro all’allargamento
del G8, però, c’è una grandissima preoccupazione, che è quella, alla fine, di
un progressivo, eventuale allargamento, cioè creare un’alternativa all’unico
vero organo di governo mondiale che sono le Nazioni Unite con il Consiglio di
Sicurezza. Quindi, sicuramente, se quello del G8 resta un vertice informale,
penso debba anche aprirsi a queste grandi economie dei Paesi del sud del mondo,
ricordando dall’altra parte che nulla può legittimare un’alternativa alle
Nazioni Unite, perché le crisi internazionali hanno in quella sede l’unica sede
legittimamente riconosciuta dal diritto internazionale.
D. – Quali sono, dunque, ora le aspettative delle ONG e,
in particolare, ci sono delle iniziative da parte vostra
proprio su questo fronte dello sviluppo?
R. – Sì, sicuramente, come abbiamo detto e richiesto al
presidente del Consiglio, Romano Prodi, noi continueremo ad insistere perché il
nostro Paese recuperi quel gravissimo ritardo che ha nell’impegno nei confronti
dei Paesi poveri, per quanto riguarda la quantità di aiuti, la cancellazione
del debito, le regole commerciali più giuste. D’altra parte, seguiremo le
prossime decisioni del governo a partire anche dal DPEF, che non fa minimamente
accenno alle questioni della cooperazione internazionale dello sviluppo.
L’Italia e gli altri Paesi ricchi non possono esimersi dall’assumersi la
responsabilità di risolvere anche i gravi drammi che soffre quotidianamente la
maggior parte degli esseri umani sul pianeta.
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IN SPAGNA, SI CELEBRA OGGI IL 70.MO ANNIVERSARIO DELL’INIZIO
DELLA GUERRA CIVILE CHE INSANGUINÒ IL PAESE
FINO AL 1939.
NE PARLIAMO CON PADRE GIOVANNI SALE,
STORICO DI CIVILTÀ CATTOLICA
In Spagna, si celebra oggi il 70.mo
anniversario dell’inizio della guerra civile. Il 17 luglio del 1936 le enclavi
spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla
furono teatro delle prime rivolte ma lo scoppio del
conflitto viene fatto coincidere con la sommossa delle truppe guidate dal
generale Francisco Franco, avvenuta il giorno successivo. Truppe che non
riconoscevano come legittimo il Parlamento eletto dal popolo. Ma come la
società spagnola ha metabolizzato la pagina del conflitto? Fausta Speranza lo
ha chiesto a padre Giovanni Sale, storico di “
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R. – Diciamo, innanzitutto, che l’evento della rivoluzione
spagnola è un qualcosa che ha avuto innanzitutto anche una sua durata nel
tempo: dal ’36 al ’39; poi, il regime che ne è seguito, il franchismo, è
qualcosa che ha profondamente toccato la società civile oltre alla società
politica. Questo fatto rivoluzionario, prima, e il regime hanno certamente
contribuito a spaccare la società spagnola e a creare quindi appartenenze opposte:
da una parte, il franchismo, il regime, quella parte di società civile che l’ha
appoggiato, per diversi anni, anzi decenni; dall’altra parte, la società di
opposizione, la sinistra, i movimenti di ispirazione anarchica o socialista.
Ciò che è mancato nella società spagnola, in questi decenni, è stato proprio la
presenza di una forza di mediazione, forza politica, forza morale, eccetera.
Forse neanche la Chiesa, che per vocazione sua avrebbe potuto, avrebbe dovuto
mediare tra queste due forze e appartenenze, non è riuscita in pieno – forse –
a svolgere questo compito. Per cui, è una società spaccata, divisa, e l’attuale
momento politico definito “zapaterista” è il frutto,
il risultato per certi aspetti di questa divisione esistente all’interno della
società.
D. – Dal punto di vista storico ci sono ancora pagine da
scrivere, ci sono documenti o archivi da aprire?
R. – Penso che la prossima apertura dell’Archivio
Vaticano, quella del 18 settembre prossimo, contribuirà – almeno sul fronte
della materia ecclesiastica – ad arricchire il materiale storico a disposizione
dei ricercatori. Risulterà più chiaro qual è stato l’intervento della
gerarchia, la presenza della gerarchia in ordine a quei fatti.
D. – Attualmente, si sta ultimando un progetto di legge
sulle vittime sul conflitto intestino e sul franchismo. Qualcuno lo legge come uno strumento di riconciliazione e giustizia,
ma per altri è un riaprire vecchie ferite, per scopi di lotta politica. Lei che
cosa ci dice?
R. – Io penso che affrontare queste questioni con lo
strumento legislativo sia sempre un fatto poco consono alla sostanza delle
cose. Io penso che debba essere la scienza storica ad incaricarsi di un lavoro
di conciliazione e in questo debbono anche collaborare le forze della società,
della politica, eccetera. Quindi, io vedo un intervento più del potenziale intellettuale,
morale, spirituale, religioso, nazionale in questa direzione, che non invece
l’applicazione di uno strumento legislativo che generalmente è più uno
strumento di divisione all’interno della società civile e politica che di unità.
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SONO
IN NAVIGAZIONE VERSO IL JAO NATIONAL PARK I 200 PARTECIPANTI
AL VI
SIMPOSIO “RELIGIONE SCIENZA E AMBIENTE”,
PROMOSSO
DAL PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI, BARTOLOMEO I
-
Intervista con il vescovo Mario Pasqualotto -
Di nuovo in navigazione sul Rio Negro, i 200 partecipanti
al VI Simposio ‘Religione, Scienza e Ambiente’
dedicato all’Amazzonia. A guidare le delegazioni il Patriarca ecumenico di
Costantinopoli, Bartolomeo I. Il servizio della nostra inviata in Amazzonia,
Giada Aquilino:
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Destinazione Jao National Park: i partecipanti al VI Simposio “Religione,
Scienza e Ambiente” sono in navigazione sul Rio Negro per raggiungere una delle
più ampie riserve naturali del Brasile. Esempio di biodiversità,
con clima caldo e umido, popolato da poco più di 900 persone che hanno scelto
di non trasferirsi nei centri abitati, il parco comprende oltre 2 mila ettari
di vegetazione e sistemi acquatici. Una porzione di patrimonio ambientale,
insomma, sottratto all’impeto della deforestazione su larga scala. I lavori del Convegno a bordo dei battelli
intanto proseguono. In primo piano la politica ambientale, intesa come parte
integrante dello sviluppo economico. Dare incentivi per conservare, invece che
distruggere, ciò che ci circonda sembra essere la linea da seguire a partire
dal corretto uso delle potenzialità dell’Amazzonia. Dalle turbine posizionate
lungo l’intero sistema fluviale dello Stato, per esempio, si ricava il 70 per
cento dell’elettricità brasiliana. Maggiore attenzione, invece, viene richiesta per le popolazioni indigene dell’Amazzonia,
che costituiscono il 70 per cento degli almeno 700 mila indios
brasiliani.
Dal Rio Negro, Giada Aquilino, Radio Vaticana.
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E sulla realtà degli indios,
Giada Aquilino ha intervistato mons. Mario Pasqualotto,
vescovo ausiliare di Manaus:
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R. – Dovrebbero essere un po’ più considerati, più
favoriti. Abbiamo ancora molte tribù che non sono definite come riserve indigene,
purtroppo!
D. – E quindi, quali rischi si corrono?
R. – Il rischio è che queste “civiltà” vengano a
sfruttarli. Recentemente, c’è stato un incendio in un villaggio indigeno, dopo
che il presidente della Repubblica aveva dichiarato la riserva indigena: hanno
fatto questo per intimidire, per spaventare gli indios
e
D. – Quanto sono legati con la natura dell’Amazzonia?
R. – Loro vivono nella natura, sono dentro alla natura,
non hanno proprietà privata. La terra è di Dio - dicono loro - la terra è di
tutti. Mi ha colpito molto una frase che ha detto una volta un indio. Disse:
“Quando una persona muore, non si deve piangere, perché la persona è sepolta in
terra, la terra diventa più importante”.
D. – Che rapporto c’è tra la Chiesa e gli indios?
R. – Penso che
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18 luglio 2006
APPELLO
DEI VESCOVI CANADESI E SVIZZERI
PERCHÉ
SI PONGA FINE AL CONFLITTO IN MEDIO ORIENTE
OTTAWA. = Un accorato appello
al cessate-il-fuoco in Medio
Oriente sta giungendo in questi giorni dai vescovi di diverse parti del mondo.
“Di fronte all’escalation di violenza che sta tormentando il Medio-Oriente, i cattolici uniscono le loro voci perché i
protagonisti optino per la negoziazione piuttosto che per l’uso della forza”:
con queste parole la Commissione episcopale canadese Sviluppo e Pace, in una
lettera, chiede che si ponga fine ai combattimenti in Libano. Organismo di
solidarietà internazionale creato dai vescovi canadesi, la Commissione Sviluppo
e Pace ha fatto pervenire un documento al premier, Stephen Harper,
e al ministro degli Affari Esteri, Peter MacKay, in cui si chiede un intervento immediato in Libano
e a Gaza. Al governo la Commissione episcopale chiede un impegno perché venga incoraggiato lo stop alla rappresaglia e si acceleri
l’inizio delle negoziazioni. “Sviluppo e Pace crede che una pace giusta è
possibile in Medio Oriente e chiede al Canada di far rispettare il diritto
internazionale e di aiutare la popolazione di Israele, Palestina e Libano ad
evitare ad ogni costo la guerra”, ha dichiarato il presidente dell’organismo Margie Noonan. Anche la
Conferenza episcopale svizzera (CES) ha lanciato un appello perché cessi il
conflitto in Medio Oriente. Scioccati per quanto sta accadendo in Israele e
Libano, si legge in un comunicato, i presuli chiedono una soluzione pacifica e
pregano perché la ragione e la saggezza s’impongano al posto dell’odio e della
vendetta e perché non sia versato altro sangue. La CES chiede poi ai governi,
alle Chiese e a tutti gli uomini di buona volontà un impegno incessante per la
pace. L’episcopato svizzero, si legge nel comunicato stampa, “condivide la
preoccupazione del Papa ed esorta tutti i credenti a pregare per la pace in Medio
Oriente. Le popolazioni che vivono in quelle terre hanno diritto ad una pace
giusta e duratura”. E questa
sera, dalle 21 a mezzanotte, a Liverpool, in Gran Bretagna, nella
cattedrale metropolita di Cristo Re, per la pace in Medio Oriente si
terrà una veglia di preghiera silenziosa. A presiederla sarà l’arcivescovo Patrick Kelly, vicepresidente
della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles e coordinatore per i
vescovi del sostegno alla Chiesa in Terra Santa. (T.C.)
ACCORDO
TRA GOVERNO BOLIVIANO E CHIESA
PER
MANTENERE L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE NELLE SCUOLE
- A cura di Luis A. Badilla Morales -
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LA PAZ. = La Conferenza episcopale boliviana ha siglato un
accordo con il governo sull’insegnamento della religione nelle scuole. Il ministro
della Pubblica Istruzione, Benecio Quispe, ha firmato documento insieme al segretario della
Conferenza episcopale, mons. Jesús Juárez, all’arcivescovo di Sucre,
mons. Jesús Pérez,
arcivescovo di Sucre, e a mons. Luis
Saínz, presidente della Commissione episcopale per
l’Educazione. Sottoscritto nella cornice del coordinamento
tra il governo e la Conferenza episcopale della Bolivia su alcuni temi comuni,
l’accordo comprende quattro punti: il rispetto e la garanzia della piena
libertà religiosa e di culto nella diversità culturale del Paese, e di
conseguenza il riconoscimento dell’insegnamento della religione come materia a
pieno titolo nel curriculum scolastico nazionale; la garanzia della validità
dell’accordo tra lo Stato e la Chiesa cattolica nell’intero ambito educativo;
la garanzia della validità e del funzionamento delle università private nel
quadro delle leggi nazionali. Il documento prevede inoltre che lo Stato,
attraverso il ministero dell’Educazione e della Cultura, continui a collaborare
con la Chiesa cattolica per gli aspetti che saranno utili al miglioramento del
sistema educativo nazionale.
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I
VESCOVI DI TIMOR EST ASSICURANO AL NUOVO PRIMO MINISTRO
JOSÉ
RAMOS HORTA LA COLLABORAZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA
PERCHÉ
NELL’ISOLA TORNI L’ARMONIA SOCIALE
DILI. = Il vescovo di Dili,
mons. Ricardo da Silva, e il vescovo di Bacau, mons.
Basilio Do Nascimento, hanno assicurato al nuovo premier di Timor Est José Ramos Horta la piena
collaborazione da parte della Chiesa locale perché nell’isola si ristabilisca
la pace. I due presuli, riferisce l’agenzia Fides, hanno espresso la speranza
che presto Timor Est torni sulla via dell’armonia sociale e dello sviluppo economico. Ramos Horta, premio Nobel per la
Pace nel 1996, che è stato nominato dal presidente Xanana Gusmao,
nel suo discorso inaugurale ha promesso più fondi per lo sviluppo economico e
sociale della popolazione e un’attenzione particolare al problema della
sicurezza. Ha poi indicato la Chiesa cattolica come “la sola istituzione solida
che ha assorbito il tessuto culturale dell’isola, da rispettare e da
coinvolgere ancora una volta nel dialogo con lo Stato. “Sta dando un contributo
per uscire da questa crisi – ha detto Ramos Horta – guarisce le ferite, aiuta la gente a progredire in
ogni area: sociale, educativa, culturale, spirituale e morale
… questo governo ora invita la Chiesa Cattolica ad assumere un maggior
ruolo nell’educazione e nello sviluppo umano della nostra gente e nella lotta
contro la povertà”. Il primo ministro, rivolgendosi poi in modo particolare ai
vescovi, ha auspicato che presto a Dili possa essere istituita una Nunziatura, affermando la sua
intenzione di nominare un ambasciatore presso la Santa Sede. Riferendosi poi
agli scorsi mesi di disordini, ha ricordato “l’importante ruolo svolto dagli
ordini religiosi, sacerdoti e suore, che hanno aperto le porte dei loro
istituti e i loro cuori a decine di migliaia di altri fratelli e sorelle”. “I
figli della Chiesa – ha affermato il premier – ancora una volta hanno testimoniato
la loro solidarietà mettendo la propria umanità al servizio di chi ha bisogno”.
La comunità cattolica chiede al leader di mettere fra le priorità di governo la
pace e la riconciliazione di Timor Est precipitata nel caos circa tre mesi fa,
quando l’allora premier Mari Alkatiri aveva radiato 600
membri dell’esercito che scioperavano lamentando discriminazioni etniche. Ai
duri scontri seguiti al caso dei militari licenziati, con conseguente
sfollamento di migliaia di persone, aveva posto rimedio l’intervento di una
forza di pace internazionale guidata dall’Australia. (T.C.)
LE CORTI POPOLARI DEL RWANDA, INCARICATE DI
GIUDICARE I CRIMINI DEL GENOCIDIO DEL ’94, HANNO GIÀ CONDANNATO 5.763 PERSONE.
DOPO LA FASE SPERIMENTALE, ORA I TRIBUNALI INDAGANO SU 513 INDIZIATI, MENTRE
GLI ASSOLTI SONO 739
KIGALI. = Le 118 corti popolari del Rwanda, i
tribunali incaricati di giudicare i crimini commessi durante il genocidio del
1994, i cosiddetti “macaca” simili a consigli di villaggio, hanno
condannato, nel giro di un anno, 5.763 persone. Altre 739 sono state assolte e
513 restano in attesa di giudizio. Gli accusati erano
in totale poco più di 7 mila, di cui 6.783 uomini. Le cifre, riportate dal
quotidiano New Times, come riferisce l’agenzia MISNA, sono state diffuse dal
Servizio nazionale dei tribunali Gacaca (SNJG) dopo
la fine della fase sperimentale, iniziata il 10 marzo 2005 e conclusasi sabato
scorso. Da tre giorni, 1.545 gacaca sono ora
operativi a pieno titolo in tutto il Paese con 1.427 nuovi processi già avviati.
Secondo i dati del SNJG, i giudici dei gacaca hanno
emesso mandati di arresto per 806 sospettati, tra cui anche militari e
amministratori civili, ed hanno inoltre ordinato l’arresto di 761 persone
accusate di aver minacciato i testimoni dei processi. In base alle indagini
dell’ONU, nel 1994, in poche settimane, furono uccisi circa 800 mila ruandesi di etnia tutsi o hutu moderati, mentre in 200 mila parteciparono
all’eccidio. L’attuale governo sostiene invece che le vittime del genocidio
furono 937 mila, mentre altre fonti ritengono che nella strage furono coinvolte
700 mila individui. Le cifre del quotidiano New
Times parlano di 152.034 persone che hanno
confessato la loro colpevolezza davanti ai tribunali gacaca,
e che tuttavia, al momento, restano in libertà. Secondo fonti
del servizio nazionale dei tribunali gagaca, 45 mila
giudici sono stati incriminati per i reati collegati al genocidio e quindi
rimpiazzati nell’incarico. È invece la magistratura ordinaria ad occuparsi di
quanti sono accusati di aver organizzato stragi e commesso stupri. Il SNJG ha affermato che mandanti e principali esecutori
delle stragi sono sotto processo o sono già stati condannati dal Tribunale
internazionale per il Rwanda (TPIR), voluto dall’ONU. Quest’ultimo ha finora
emesso quasi una trentina di sentenza definitive, fra
cui tre assoluzioni. Nessuna indagine internazionale è ancora stata avviata
invece sulle violenze commesse dai ribelli del Fronte Patriottico ruandese (FPR), guidati dall’attuale presidente Paul Kagame, che presero il potere a Kigali nel
luglio 1994 mettendo fine al genocidio. (A.Gr.)
DOPO 5
ANNI DI RESTAURI È STATO RIAPERTO IERI A ROMA
IL
TRATTO DELLE MURA AURELIANE CROLLATO NEL 2001
ROMA. = È riaperto da ieri a Roma un tratto di circa 400
metri delle Mura Aureliane compreso tra il Bastione Ardeatino e la Porta San Sebastiano. Crollata in seguito ad
un violento temporale, nell’aprile del 2001, l’area archeologica ha richiesto 5
anni di lavori costati oltre un milione e 600 mila euro. Da oggi è visitabile
anche il Museo delle Mura, che era stato chiuso per
consentire lo svolgimento dei restauri. Le sue sale documentano la storia delle
fortificazioni della città. Le mura, volute dall’imperatore Aureliano nel 270 d.C per difendere l’urbe dalle invasioni barbariche, si
estendono per più di 12 chilometri, ma all’origine il loro perimetro ne
comprendeva 19. “Ora – ha detto il sindaco di Roma Walter Veltroni
– l’obiettivo è rendere percorribile e liberare da
preesistenze di varia natura tutto il circuito delle mura”. (A.Gr. – T.C.)
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18 luglio 2006
- A cura di
Eugenio Bonanata -
Non si placa l’offensiva
israeliana in Libano: sono ripresi, poco fa, bombardamenti sulla capitale. Attacchi aerei
delle forze israeliane ad est di Beirut e nella valle della Bekaa hanno causato la morte di almeno 14 persone. Intanto,
i guerriglieri Hezbollah hanno rifiutato ogni
proposta di cessate-il-fuoco.
Il servizio di Amedeo Lomonaco:
**********
Continua, per il settimo giorno consecutivo, l’offensiva
israeliana in Libano: tre cittadini giordani sono morti in seguito ad un raid
dell’aviazione israeliana nella valle della Bekaa.
Nella notte, sono state colpite anche due caserme dell’esercito libanese, nei
pressi di Bierut, provocando la morte di almeno dieci
persone. Le azioni militari dello Stato ebraico fanno registrare poi, per la
prima volta, anche incursioni non aeree: truppe di terra israeliane sono entrate, ieri, nel sud del Libano per creare “una fascia di sicurezza” e demolire diverse
postazioni usate dai guerriglieri sciiti per attaccare il nord di Israele. Si
temono ulteriori incursioni: l’esercito
israeliano non ha escluso, infatti, una massiccia invasione via terra nel sud
del Libano, come accadde nel 1982. Il vice capo di Stato maggiore israeliano ha dichiarato, poi, che
l’offensiva militare, costata la vita finora a 200 persone, durerà ancora per
qualche settimana. Sull’altro fronte, gli Hezbollah continuano a lanciare razzi contro
Israele. Il movimento sciita ha anche rifiutato le proposte della comunità internazionale
per un immediato cessate il fuoco, giudicandole una “condizione israeliana”. E
per porre fine alla crisi, i capi di
Stato e di governo riuniti a San Pietroburgo per il
G8 hanno chiesto all’ONU di creare una forza di sicurezza e di interposizione
nel sud del Libano. Il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, ha precisato che Israele non esclude la possibilità
dell’invio di un contingente internazionale nel Paese dei
cedri. Ma il ministro israeliano ha anche sottolineato come la prima soluzione,
per lo Stato ebraico, sia la “piena applicazione” della risoluzione 1559,
adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel settembre 2004, che
prevede il disarmo degli Hezbollah e l’invio delle
truppe regolari libanesi nel sud del Libano.
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Sulla grave crisi che sta colpendo il Libano, Giancarlo La
Vella ha raccolto il commento di mons. Béchara Raï, arcivescovo di Byblos
dei Maroniti, la città recentemente bombardata dai raid israeliani:
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R. – Si tratta di una guerra apocalittica. Quello che sta
succedendo avviene senza rispettare le norme di diritto internazionale o di
diritto di sovranità. Purtroppo, Israele sta permettendosi di violare la
sovranità del Paese e si permette di bombardare tutti; questo non ha niente a
che fare con il loro conflitto con gli Hezbollah.
Nemmeno noi appoggiamo il movimento degli Hezbollah,
che mette da parte il governo ed il popolo.
Gli Hezbollah hanno scelto l’opzione della
guerra, e noi sappiamo bene che sono guidati da Iran e Siria. Anche noi
appoggiamo il governo libanese, il quale chiede alla comunità internazionale di
aiutarlo ad esercitare la sua sovranità in tutto il Paese. Comunque, speriamo
che la comunità internazionale possa agire. Parlando con la Radio Vaticana,
poi, vorrei – a nome del popolo libanese e di tutta la
Chiesa – esprimere la nostra gratitudine al Santo Padre per il suo ricordo e la
sua preghiera.
D. – Ci sono, secondo lei, spazi per la comunità
internazionale di mediare in questa situazione così difficile?
R. – Certo! La prima cosa da fare è imporre il cessate-il-fuoco. Si devono fare
pressioni su Iran e Siria che manipolano gli Hezbollah.
Quella degli Hezbollah è una fazione, una milizia che
si permette di sostituire lo Stato. Io penso che la comunità internazionale abbia
i mezzi per agire. Non si può lasciare che si distruggano sistematicamente un
popolo e un Paese, che non ha niente a che fare con un conflitto con Israele.
Il Libano rifiuta la guerra, il Libano non è mai entrato in guerra contro
Israele. Il Libano non ha mai dichiarato guerra, non ha mai voluto fare la guerra ma le forze israeliane bombardano, per esempio, le
caserme dell’esercito libanese proprio per indurre lo Stato libanese a reagire.
Noi vogliamo la pace, non vogliamo la guerra. La comunità internazionale
dovrebbe capire questo e agire.
D. – Come sempre, in queste situazioni, a fare le spese
più gravi è la popolazione civile …
R. – Nella zona di Byblos sono
state ospitate nei giorni scorsi, secondo i giornali, 10 mila famiglie; sono
accolte nelle scuole, nei conventi, presso le famiglie. Noi ci stiamo organizzando
per aiutarle con le nostre strutture ecclesiali e civili. Purtroppo, viviamo
assediati da Israele per mare, per aria e anche per terra. Non sappiamo come
far giungere gli aiuti a queste famiglie che sono state cacciate dalle loro
case. Stiamo ricevendo, insomma, migliaia e migliaia di profughi.
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Nuovi sanguinosi attentati in Iraq. Dopo gli oltre 50
morti di ieri, si aggrava di ora in ora l’attentato che ha colpito questa
mattina il mercato di Kufa, a sud di Baghdad. Il nostro
servizio:
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Le vittime sarebbero ormai una sessantina. Più di un
centinaio i feriti. La polizia però avverte: il bilancio con tutta probabilità
è destinato ad aggravarsi. La dinamica dell’attacco è tristemente nota: il kamikaze
si è fatto saltare in aria in mezzo a una folla di lavoratori, che si erano
accalcate intorno ad un veicolo nella speranza di rimediare una giornata di lavoro.
In seguito, una folla infuriata ha aggredito e insultato i poliziotti presenti,
che hanno dovuto sparare in aria per disperdere la protesta. Sempre in mattinata, a Tikrit, a nord di Bagdad, l’esplosione di un ordigno nascosto sotto la testa mozzata
di una donna, abbandonata per strada, ha provocato la morte dell’uomo che
l’aveva rinvenuta. Sempre a nord, nella regione di Kirkuk,
una bomba contro una pattuglia di polizia ha fatto altri otto
morti. A Bassora, a sud del Paese, 5 ribelli sono rimasti uccisi in
scontri con l’esercito britannico. Dal canto loro le forze di sicurezza cercano
di contrastare la guerriglia: nei giorni scorsi hanno catturato il capo della Brigata di Omar, un gruppo armato sunnita legato ad Al Qaida e responsabile di numerosi attentati anti-sciiti che
hanno provocato decine di vittime civili. In questo quadro, la Casa
Bianca ha ribadito la propria contrarietà a definire un calendario preciso per
il ritiro delle proprie truppe. Il vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, rivolgendosi
soprattutto ai Democratici all’opposizione, che vorrebbero invece, scadenze
fisse, ha detto che la presenza militare in Iraq è legata solo alla situazione
sul terreno, e non a decisioni politiche. Per il vice di Bush
parlare oggi di ritiro sarebbe davvero un segnale poco serio.
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In Afghanistan un soldato della coalizione internazionale
è morto ed altri undici sono rimasti feriti ieri durante un aspro combattimento
contro militanti taleban nel sud del Paese asiatico.
Lo hanno riferito fonti militari, senza tuttavia precisare la nazionalità dei
soldati, né se vi siano state vittime tra i ribelli. Intanto le autorità
pachistane hanno comunicato l’arresto di una sessantina di talebani
afgani nel sud del Pakistan. Da mesi la comunità internazionale faceva
pressione su Islamabad per bloccare il flusso di
terroristi verso l’Afghanistan.
L’Indonesia sta rivivendo il dramma dello tsunami del dicembre 2004. Un forte terremoto, al largo
dell’isola di Giava, ha causato ieri una serie di
onde anomale che si sono abbattute sulle coste. Sono ormai più di 350 i morti,
ma il bilancio aumenta di ora in ora. Il servizio di Chiaretta Zucconi:
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“Ho guardato verso la spiaggia e ho visto una grande,
minacciosa muraglia di acqua venire verso di noi”: questa è la testimonianza di
un turista belga di 53 anni, riuscito a sfuggire arrampicandosi su un albero,
all’onda anomala che invece non ha risparmiato molti altri, come lui in vacanza
su queste spiagge dorate, mentre si continua a cercare tra le macerie e il
fango in Pangadaran, che fino a poche ore fa era un
popolare centro turistico come tanti altri disseminati lungo le coste, un
motore trainante per l’economia dell’arcipelago che vive soprattutto di turismo.
Secondo le agenzie locali, sono oltre 20 mila le persone che hanno abbandonato
le proprie abitazioni o perché distrutte o nel timore che su di loro potesse abbattersi
un altro tsunami. Pangadaran,
sulle coste meridionali, appare al momento la zona più danneggiata dallo tsunami che è stato provocato da un sisma
di magnitudo 7.7.
Per la Radio Vaticana, Chiaretta Zucconi.
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Dopo oltre 30 anni di guerra,
finalmente siglata la pace tra governo angolano e i ribelli separatisti del
Fronte di Liberazione della Cabinda, regione ricca di
petrolio. L’intesa è stata raggiunta ieri a Brazzaville,
sotto l’egida dell’Unione Africana. Il servizio è di Giulio Albanese:
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La notizia per l’Africa è davvero da prima pagina: è
finalmente scoppiata la pace tra il governo angolano e i separatisti del Fronte
di Liberazione dell’enclave di Cabinda. Lo storico
accordo, che mette fine a 31 anni di conflitto, è stato siglato ieri da
entrambe le parti a Brazaville, sotto gli auspici
dell’Unione Africana, di cui la Repubblica del Congo ricopre
attualmente la presidenza di turno. L’intesa prevede tra l’altro il
riconoscimento di uno statuto di autonomia speciale alla provincia costiera di Cabinda, da cui provengono circa metà delle risorse
petrolifere nazionali, il ritiro immediato delle milizie governative della zona
contesa e un’amnistia generale per i ribelli del Fronte. Ancora vaghe però le
decisioni riguardanti la gestione dei proventi dell’oro nero estratto dalla Cabinda,
principale causa della guerra appena sospesa, che saranno comunque discusse in
una fase successiva delle trattative tra le due parti. L’Angola è il secondo
produttore di petrolio nell’Africa subsahariana, con
un milione e mezzo di barili al giorno.
Per La Radio Vaticana, Giulio Albanese.
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In Somalia, il presidente del governo
di transizione, Abdullai Yusuf,
ha deciso di riprendere il dialogo con le Corti Islamiche, che controllano
ormai gran parte della zona meridionale del Paese. Dopo infruttuosi incontri
tra le parti, il 21 luglio prossimo potrebbe essere la data per un nuovo
appuntamento a Khartoum. Ieri da Bruxelles il Gruppo
di contatto per la Somalia - formato da Stati Uniti, ONU,
Italia, Svezia, Norvegia, Regno Unito e Tanzania - aveva sottolineato l’urgenza
di un dialogo “costruttivo volto ad appianare in modo pacifico le differenze e
a ridare fiducia all’indirizzo politico al Paese”. Il gruppo, in una nota, ha inoltre
chiesto lo “stabilimento delle Istituzioni federali transitorie a Mogadiscio,
capitale del Paese”.
Sono ripresi ieri a Dar es Saalam, in Tanzania, i
colloqui di pace tra il governo del Burundi e i ribelli delle Forze Nazionali
di Liberazione. Un negoziato con il quale si tenta di uscire da 13 anni di
guerra civile e che dovrebbe giungere ad un accordo definitivo di cessate-il-fuoco.
In vista delle elezioni
amministrative e politiche che si terranno in Congo il 30 luglio prossimo, l’UE
ha condannato ieri “ogni azione volta a disturbare il processo elettorale” e ha
esortato tutte le forze politiche del Paese africano a rispettare i principi
democratici. Intanto, nel quadro della missione di pace europea per il Congo, l’Italia ha inviato ieri 55 uomini e un velivolo
militare che saranno impiegati nell'area per quattro mesi. La missione europea
in Congo impegnerà circa 2.800 uomini che affiancheranno i 17mila caschi blu
dell’ONU della missione ‘MONUC’. Le elezioni si inquadrano nel processo di
transizione della Repubblica del Congo verso la piena
democrazia.
In Kenya sei sospetti ladri e stupratori sono stati
linciati e bruciati dalla folla inferocita. Decine di persone, incoraggiate da
molte altre, hanno catturato i sei, li hanno picchiati selvaggiamente e poi li
hanno fatti a pezzi a colpi di machete e bruciati.
Sgominata un’organizzazione transnazionale dedita alla
tratta di esseri umani dalla Polonia verso l’Italia.
Stamani, su richiesta della Procura Distrettuale Antimafia
di Bari, sono state emesse diverse ordinanze di custodia cautelare in carcere. Alcuni
provvedimenti sono stati eseguiti in Polonia su mandato di cattura europeo. Le
indagini sono partite da segnalazioni rese alle autorità polacche dagli
immigrati. Secondo le accuse, la rete aveva ridotto in schiavitù centinaia di
lavoratori impiegati in campi agricoli del foggiano,
che spesso venivano sorvegliati con le armi anche nei momenti di riposo.
In Italia, nei Centri di permanenza temporanea, destinati
agli immigrati, ci sarebbe una “sistematica violazione” della legge che tutela
i diritti umani. Lo rivela un’indagine presentata oggi e realizzata su iniziativa
di un gruppo di parlamentari e di associazioni della società civile.
Ora i spettiamo i risultati. Così il presidente della
Commissione europea Josè Manuel Barroso
ha commentato oggi il piano d’azione, presentato ieri dal primo ministro serbo,
Vojislav Kostunica, con il
quale il governo serbo si impegna a collaborare con il Tribunale internazionale
dell’Aja per l’ex Jugoslavia sull'arresto del
generale Ratko Mladic. Il
presidente serbo, Boris Tadic, incontrando oggi Barroso a Bruxelles, ha ribadito che i rapporti con l’UE
sono al momento al centro delle preoccupazioni della Serbia. “Faremo tutto il
necessario – ha precisato il presidente serbo - per essere in condizioni di
aderire all’UE nei prossimi anni.
In Ucraina, è nato oggi ufficialmente un governo con a capo Viktor Yanukovich. Il governo dovrebbe essere supportato da una “coalizione
anti-crisi” composta dal Partito delle Regioni (capeggiato da Yanukovich e giunto primo alle elezioni legislative di fine
marzo), dai socialisti e dai comunisti. L’alleanza dispone di una risicata maggioranza
in parlamento e si è creata dopo che a sorpresa i socialisti hanno rotto con i
due partiti ‘arancioni’ filo-occidentali, quello del presidente
Viktor Yushenko e quello dell’ex
premier, Iulia Timoshenko.
Quest’ultima considera “illegittima” la formazione della coalizione anti-crisi
e preme su Yushenko perchè sciolga il parlamento e
organizzi nuove elezioni. Nostra Ucraina, il partito di Yushenko,
ha annunciato invece il passaggio all’opposizione.
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