RADIOVATICANA
RADIOGIORNALE
Anno L n. 9 - Testo della trasmissione di lunedì
9 gennaio 2006
IL
PAPA E LA SANTA SEDE:
OGGI IN PRIMO PIANO:
Si è concluso ieri in Ciad il Congresso eucaristico nazionale. Con noi il
vescovo Rosario Pio Ramolo
CHIESA E SOCIETA’:
Confermati nuovi casi di influenza
aviaria in Turchia
Sharon respira da solo. Finito
il coma farmacologico
Violenza continua in Iraq:
almeno 14 i morti per due attentati kamikaze a Baghdad
9 gennaio 2006
NEL
DISCORSO DI INIZIO D’ANNO AL CORPO DIPLOMATICO PRESSO LA
SANTA SEDE,
APPELLO
DEL PAPA PER LA PACE MONDIALE CHE PASSA ATTRAVERSO L’APPLICAZIONE DELLA
GIUSTIZIA, DELLA RICONCILIAZIONE, DELLA LIBERTA’ RELIGIOSA,
DELLA
SOLIDARIETA’ DEGLI STATI VERSO LE EMERGENZE UMANITARIE
Quello attuale è un mondo
segnato da conflitti “aperti o latenti”, ma anche un mondo in cui si rileva uno
sforzo coraggioso in direzione della pace. I temi affrontati da Benedetto XVI
nel Messaggio per la Giornata del primo gennaio sono ritornati con forza
nell’udienza concessa questa mattina dal Papa ai membri del Corpo Diplomatico accreditato
presso la Santa Sede. Benedetto XVI ha auspicato, tra l’altro, la coesistenza
pacifica tra israeliani e palestinesi in Terra Santa, ha condannato il
terrorismo, e ha invocato la riconciliazione per le aree calde del globo, come
il Golfo Persico, il Libano, il Darfur, sollecitando gli Stati a ridurre le
spese per gli armamenti destinando le risorse alla soluzione delle emergenze
umanitarie della terra. Il servizio di Alessandro De Carolis.
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“Il sangue versato non grida
vendetta, ma invoca rispetto della vita e della pace”. E’ uno dei tanti appelli
che gli ambasciatori presso la Santa Sede hanno ascoltato dalle labbra di
Benedetto XVI, per un discorso tradizionale nella sua collocazione d’inizio
d’anno, ma estremamente attuale per il tenore degli argomenti toccati. Dopo
l’indirizzo di saluto del decano del Corpo Diplomatico, l’ambasciatore della Repubblica
di San Marino, Giovanni Galassi, quattro sono state le enunciazioni del Papa
all’insegna della parola da lui ritenuta imprescindibile dalla pace: la
“verità”. La verità declinata nei suoi aspetti etici e pratici, quasi un
distillato del Messaggio scritto per l’inizio dell’anno. Quattro enunciati
riguardanti, nella sostanza, il rispetto per la giustizia, che se violato
provoca violenza – e qui il Pontefice si è soffermato sul conflitto
mediorientale e il terrorismo – il rispetto del diritto inalienabile a
professare il proprio credo, il dovere della riconciliazione - dall’Iraq,
all’Africa, alla Terra Santa – il dovere della solidarietà verso le emergenze
del pianeta.
“L’impegno per la verità è
l’anima della giustizia”, ha affermato al primo punto il Papa, stigmatizzando
quei “sistemi politici” che nel passato basarono la propria politica sulla
“menzogna” della “legge del più forte”. Al contrario, Benedetto XVI ha individuato
nella “verità” e nella “veracità” la base per quella equanimità che in diplomazia
spesso fa la differenza tra un accordo di pace o il suo fallimento. Quando, ha
osservato il Pontefice, diversità e uguaglianza sono conosciute e riconosciute,
“allora i problemi possono risolversi ed i dissidi ricomporsi secondo
giustizia, e sono possibili intese profonde e durevoli”:
“AVEC
UNE EVIDENCE PRESQUE EXEMPLAIRE…
Quasi con evidenza esemplare, tali considerazioni mi sembrano applicabili
in quel punto nevralgico della scena mondiale, che resta la Terra Santa. In
essa lo Stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle
norme del diritto internazionale; in essa, parimenti, il Popolo palestinese
deve poter sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche per un
avvenire libero e prospero”.
E le medesime considerazioni sul
dovere della giustizia e dell’imparzialità hanno portato Benedetto XVI alla
riflessione su un altro dei drammatici fenomeni di questo inizio di secolo: il
terrorismo. “Numerose e complesse ne sono le cause – ha riconosciuto - non ultime
quelle ideologico-politiche, commiste ad aberranti concezioni religiose”, che
vedono come vittime intere popolazioni innocenti:
“AUCUNE
CIRCONSTANCE NE PEUT JUSTIFIER…
Nessuna
circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia
chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione,
abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione
morale”.
Le diversità tra i popoli non
deve essere un problema per la coesistenza e perché lo scambio culturale
rafforzi la tolleranza il Papa ha chiesto tra l’altro con chiarezza che siano
tolti gli ostacoli per l’accesso “all’informazione a mezzo della stampa e dei
moderni mezzi informatici”, ma anche l’intensificazione dello scambio di
docenti e studenti universitari nel campo delle discipline umanistiche di varie
culture.
“L’impegno per la verità – ha
poi enunciato Benedetto XVI – dà fondamento e vigore al diritto di libertà”.
Solo con la prima è possibile la seconda, in tutti gli ambiti personali e
sociali dell’esistenza. In particolare, il Pontefice ha spostato l’attenzione
dei diplomatici sul lavoro della Santa Sede in favore della “libertà di
religione”:
MALHEUREUSEMENT,
DANS CERTAINS ÉTATS…
“Purtroppo in alcuni Stati, anche tra quelli che pure possono vantare
tradizioni culturali plurisecolari, essa, lungi dall’essere garantita, è anzi
gravemente violata, in particolare nei confronti delle minoranze. In merito vorrei solo ricordare
quanto stabilito con grande chiarezza nella Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo. I diritti fondamentali dell’uomo sono i medesimi sotto tutte
le latitudini; e tra di essi un posto di primo piano deve essere riconosciuto
al diritto di libertà di religione, perché riguarda il rapporto umano più
importante, il rapporto con Dio. A tutti i responsabili della vita delle
Nazioni vorrei dire: se non temete la verità, non potete temere la libertà!”.
La terza riflessione di
Benedetto XVI ha toccato un altro tasto delicato rispetto alla situazione
contemporanea dello scacchiere geopolitico. La verità, ha detto, “apre la via
al perdono e alla riconciliazione”. Già da tempo, ha ricordato il
Pontefice, la Chiesa Cattolica
ha fatto proprio questo “impegno per la verità”, chiedendo perdono per i “gravi
errori” compiuti in passato da alcuni suoi membri o istituzioni. Ma, allo
stesso tempo, il Papa ha messo sullo stesso piano sia la richiesta sia la
concessione del perdono, anch’essa dovuta e “indispensabile” alla pace. Perdono
che equivale alla riconciliazione, che il Pontefice ha invocato per la Terra
Santa, allargando poi lo sguardo ai maggiori scenari di conflitto del momento:
“MA PENSEE SE TOURNE
SPONTANEMENT (…) VERS LE LIBAN..
Il pensiero va (…) al Libano, la cui popolazione deve ritrovare, anche
con il sostegno della solidarietà internazionale, la sua vocazione storica alla
collaborazione sincera e fruttuosa tra le comunità di diversa fede; e va a
tutto il Medio Oriente, in particolare all’Iraq, culla di grandi civiltà, in
questi anni quotidianamente funestato da sanguinosi atti terroristici. Esso va
all’Africa, e soprattutto a Paesi della Regione dei Grandi Laghi, dove ancora
si sentono le tragiche conseguenze delle guerre fratricide degli anni passati;
va alle inermi popolazioni del Darfur, colpite da esecrabile ferocia, con
pericolose ripercussioni internazionali; va a tante altre terre, in diverse
parti del mondo, che sono teatro di cruenti contese”.
Infine, Benedetto XVI ha parlato
della “speranza” cui porta l’impegno per la pace, nel quale la diplomazia può
portare e già arreca un grande contributo. Speranza che per il Pontefice deve
essere tradotta in solidarietà laddove vi siano persone che patiscono la fame,
la miseria, la costrizione a trasformarsi in emigranti o peggio ancora in merce
umana, come accade – ha asserito il Papa – con “la piaga del traffico di persone,
che resta una vergogna del nostro tempo. “Alla mente – ha aggiunto - si affacciano
spontaneamente anche le immagini sconvolgenti dei grandi campi di profughi o di
rifugiati - in diverse parti del mondo - raccolti in condizioni di fortuna, per
scampare a sorte peggiore, ma di tutto bisognosi. Non sono questi esseri umani
nostri fratelli e sorelle? Non sono i loro bambini venuti al mondo con le
stesse legittime attese di felicità degli altri?”. Domande che Benedetto XVI ha
idealmente rivolto ai governanti di ogni Stato, riprendendo una constatazione
che orientò una delle battaglie di Raoul Follereau:
“SUR
LA BASE DES DONNEES STATISTIQUES DISPONIBLES…
Sulla base di dati statistici disponibili si può affermare che meno della
metà delle immense somme globalmente destinate agli armamenti sarebbe più che
sufficiente per togliere stabilmente dall’indigenza lo sterminato esercito dei
poveri. La coscienza umana ne è interpellata”.
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A
tutt’oggi, gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede
sono 174, ai quali vanno aggiunti le Comunità Europee ed il Sovrano Militare
Ordine di Malta e due Missioni a carattere speciale: la Missione della Federazione
Russa, retta da un ambasciatore, e l’Ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina (OLP), guidata da un direttore. Nel corso del 2005, la Santa
Sede ha firmato un Accordo con la Città Libera e Anseatica di Amburgo (29
novembre), che regola i rapporti fra la Chiesa cattolica e detta Città-Land, mentre
il 12 luglio era stata siglata con la Francia un Avenant (cioè una modifica) alle Convenzioni
diplomatiche del 14 maggio e dell’8 settembre 1828 e agli Avenants del 4 maggio 1974 e del 21 gennaio 1999,
relativi alla Chiesa e al convento di Trinità dei Monti a Roma.
NOMINE
In Canada il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale dell'arcieparchia di Winnipeg degli Ucraini, presentata da
mons. Michael Bzdel, in conformità al can. 210 § 1 del Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali (CCEO). Il Santo Padre ha nominato arcivescovo metropolita di
Winnipeg degli Ucraini mons. Lawrence Huculak, dell’Ordine Basiliano di San
Giosafat, al presente vescovo di Edmonton degli Ucraini, sempre in Canada. Mons.
Lawrence Huculak è nato il 25 gennaio 1951 a Vernon, British Columbia, nell'Eparchia
di New Westminster degli Ucraini. Ha studiato nella "High School" del
St. Vladimir Seminary a Roblin, Manitoba, che appartiene ai Padri Redentoristi.
E' entrato nell'Ordine Basiliano di San Giosafat a Mundare, Alberta, il 29
agosto 1971. Il 26 giugno 1977 ha emesso la professione perpetua. Nel 1985 ha
conseguito il Dottorato in Liturgia Orientale al Pontificio Istituto Orientale
di Roma. E' stato ordinato sacerdote a Vernon il 28 agosto 1977. E’ stato consacrato
vescovo il 3 aprile 1997.
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9 gennaio 2006
GIOVANNI PAOLO II NON VOLLE MAI INTERFERIRE NELLA VICENDA
GIUDIZIARIA
RIGUARDANTE ALĺ AGCA: COSI’
AI NOSTRI MICROFONI IL DIRETTORE
DELLA SALA STAMPA VATICANA,
NAVARRO-VALLS. SU QUEL DRAMMATICO 13 MAGGIO
DEL 1981, LA TESTIMONIANZA DEL
CARDINALE ACHILLE SILVESTRINI
“La Santa Sede, di fronte ad un
problema di natura giudiziaria, si rimette alle decisioni dei tribunali
coinvolti in questa vicenda”: così il direttore della Sala Stampa vaticana, dottor
Joaquín Navarro-Valls, ha commentato la notizia dell’imminente liberazione di
Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1981, attentò alla vita di Giovanni Paolo
II sparandogli in Piazza San Pietro. “La Santa Sede – si legge ancora nella
nota - ha appreso soltanto dalle agenzie di stampa la notizia dell’eventuale
possibile scarcerazione di Alì Agca”. Nel maggio del 2000, il presidente della
Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, aveva concesso la grazia
all’attentatore del Pontefice, poi estradato in Turchia. Papa Wojtyla non ha
mai interferito nella vicenda giudiziaria di Alì Agca: lo sottolinea, al
microfono di Alessandro Gisotti, lo stesso direttore della Sala Stampa vaticana,
Navarro-Valls:
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R. – Penso che non si potrà mai
cancellare dalla mente delle persone che sono state testimoni di quell’evento.
La prima volta, pochissimi giorni dopo l’attentato, quando il Papa con una voce
ancora molto sofferente, dal Gemelli, disse: “Perdono il fratello che mi ha
colpito”; ma poi, direi ancora nel Giubileo del 2000, lui parlò ancora di una
possibile scarcerazione o di una procedura di grazia, in qualche modo … Va
detto sempre, come faceva Giovanni Paolo II, senza voler minimamente entrare
nella vicenda giudiziaria, cioè semplicemente manifestando il suo stato d’animo
di fronte a questo problema, però senza voler in nessun modo interferire nella
procedura giudiziaria pertinente, sia in Italia, sia in Turchia …
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La liberazione di Agca riporta
in primo piano una delle pagine più drammatiche del Pontificato di Papa
Wojtyla. Evento sul quale si sofferma il cardinale Achille Silvestrini, che
all’epoca dell’attentato rivestiva la carica di segretario del Consiglio per
gli Affari Pubblici della Chiesa, corrispondente all’attuale segretario per i
Rapporti con gli Stati. Il porporato è stato intervistato da Alessandro
Gisotti:
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R. – Agca aveva avuto la grazia
dopo la condanna all’ergastolo per l’attentato al Papa, e quindi era uscito
dall’Italia. La vicenda successiva apparteneva ad un giudizio emesso in
Turchia, dal tribunale, che è quello che adesso lo ha liberato. Non è che
questa cosa provochi un cambiamento rispetto a quello che noi avevamo provato
allora. Certo, sentire ancora parlare di quest’uomo, sentirlo evocare,
colpisce!
D. – Immagino che sia vivissimo
il ricordo, anche ad oltre vent’anni di distanza: come avete vissuto, come lei
ha vissuto quel giorno tragico nella vita del Papa e della Chiesa?
R. – Veramente, fu una cosa
terribile, vedere che il Papa, in Piazza di San Pietro, veniva colpito da un
tiratore scelto, perché sembrava che non avesse sbagliato il bersaglio. E come
ha pensato il Santo Padre, è stato veramente un atto di protezione divina: lui
lo ha attribuito giustamente alla Madonna di Fatima. Infatti, ha fatto mettere
sulla corona della Madonna il proiettile, come ex voto. Allora fu terribile
l’ansia per il trasporto al Gemelli, c’era il pericolo che si dissanguasse, i
tempi necessari, inevitabili, prima che potesse passare in sala operatoria;
poi, quando finalmente, è stato in sala operatoria, ricordo che c’era il
presidente Pertini che venne su, al Gemelli, eravamo tutti insieme, e siamo
stati lì fino a notte tarda, fin tanto che non ci hanno detto che l’operazione
si era conclusa con buone speranze …
D. – Eminenza, accanto
all’immagine terribile del Papa che cade colpito da Alì Agca, c’è l’altra
immagine, quella straordinaria, di Giovanni Paolo II che abbraccia e perdona il
suo attentatore …
R. – Esatto. Quella è la cosa
più bella. Io la considero una delle cose più belle del Pontificato. Lui che va
a visitare l’attentatore, che lo abbraccia paternamente, diciamo, si vede anche
dal filmato: le mani che si stringono… indubbiamente è stata una cosa
bellissima. Non solo lui aveva perdonato l’attentatore subito, al primo
Angelus. Aveva immediatamente detto: “Io lo perdono”. Ma questa visita era stata
straordinariamente emozionante per tutti noi!
D. – Nelle ultime pagine del
libro, “Memoria e identità”, Giovanni Paolo II parla di questo attentato, di
cosa ha significato. Papa Wojtyla parlava con voi di quel tragico 13 maggio?
R. – Quello che ha detto è stato
sempre e soltanto questo: fin dal primo istante lui aveva avuto la sensazione
che una mano lo proteggesse e che questa mano fosse della Madonna. Quindi, lui
non ha avuto timore di non salvarsi: questa era la cosa che lui ripeteva.
D. – Giovanni Paolo II poi,
anche dopo questo evento, non si sottraeva mai all’abbraccio della gente, non
aveva paura …
R. – No, no: assolutamente! Non
c’è stato nessun effetto sul suo modo di incontrare la gente. Come era stato
colpito in Piazza San Pietro durante un’udienza generale, così dopo lui ha
continuato le udienze, i suoi bagni di folla come se nulla fosse accaduto e
potesse accadere!
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Dal canto suo, il cardinale
Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
ha ricordato come “Giovanni Paolo II, che subito perdonò il suo attentatore,
intitolò uno dei suoi messaggi per la Giornata Mondiale della Pace: Non c’è giustizia senza perdono”.
“Da parte del nostro dicastero –
si legge in una nota di Giustizia e Pace - non si vuole entrare nel merito
della decisione dell’autorità giudiziaria turca, la quale ha ritenuto che Alì
Agca ha pagato il suo conto con la giustizia”.
Almeno 12
morti e una trentina di feriti in violenti scontri
nella regione centrale
della Somalia.
Resta difficile l’impegno
delle nuove istituzioni create nel 2004
- Intervista con Fabio Riccardi -
Almeno 12 morti ed una trentina
di feriti è il bilancio ancora provvisorio di violenti scontri che stanno
avvenendo in questi giorni tra clan rivali nel distretto Abdukawak, nel Galgadud,
regione centrale della Somalia. Secondo Radio Nairobi, i due gruppi si contendono il controllo di
alcune strade e dei rispettivi traffici. Dietro i combattimenti c'è anche una
vecchia storia di faide e di vendette tra clan rivali. La Somalia è caduta in una
sanguinosa deriva anarchica dopo l’uscita di scena di Siad Barre, nel '91. Ma
dalla tarda estate del 2004, dopo due anni di negoziati, sono state create
nuove istituzioni democratiche: parlamento, presidente della repubblica,
governo, che stanno cercando di riavviare il processo di ricostruzione. Non
tutto è semplice però e restano episodi di violenza come in questi giorni. Per
un’analisi, Fausta Speranza ha intervistato il responsabile per l’Africa della
Comunità di Sant’Egidio, Fabio Riccardi:
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R. – La copertura politica di
questi “Signori della guerra” sostanzialmente non c’è più; diciamo che la
comunità internazionale li vorrebbe vedere o coinvolti in un governo della
Somalia oppure messi da parte. Il problema è che loro hanno una forza autonoma,
dispongono di milizie autonome, dispongono di un appoggio più o meno volontario
della popolazione di determinate aree e quindi questo porta al fatto che la
situazione rimane in stallo, diciamo.
D. – In questa situazione di
stallo, come vive la gente?
R. – Molto male. Cioè, credo che
oggi in Somalia ci sia una “economia alternativa”, come dire, insomma, il Paese
va avanti, mi dicono anche che c’è una rete di telefoni cellulari … Però,
generalmente, penso che la gente viva molto, molto male perché sono completamente
esclusi da qualsiasi circuito. Per esempio, la situazione sanitaria è pessima e
quindi è un Paese che non può progredire, anzi: direi che sta andando indietro!
D. – Allargando lo sguardo, lei
che cosa vede?
R. – La Somalia è circondata da
Paesi che, in un certo senso, hanno cercato di aiutare. Il ruolo dell’Etiopia è
stato piuttosto pronunciato, negli anni scorsi, nel senso che anche l’Etiopia
ha cercato di consigliare e di mediare un accordo tra i vari “Signori della
guerra”, le varie fazioni, eccetera. C’è il Somaliland,
che è un’esperienza abbastanza interessante: il Somaliland è il vecchio protettorato britannico, che era confluito
– nel 1960 – nella grande Somalia. Ora, il Somaliland,
chiede l’indipendenza e ha tenuto le elezioni: è una regione molto povera, ma è
pacifica. Quindi, questo forse potrebbe essere una strada per il futuro anche
dell’altra Somalia.
D. – In definitiva, in poche
parole, secondo lei, che cosa potrebbe veramente determinare una ripresa del
dialogo?
R. – Guardi: difficile dirlo,
nel senso che i soggetti sono molti: c’è la presidenza, c’è il Parlamento – il
presidente del Parlamento – c’è una maggioranza parlamentare, una minoranza
parlamentare, c’è un gran numero di “Signori della guerra” che dispongono –
come dicevo prima – di una forza militare ma anche di appoggio autonomo della
popolazione. Quindi, è molto difficile dire che cosa si può fare. Io credo che
sicuramente il dialogo politico – quindi la strada che è stata percorsa fino
adesso dal presidente, dal primo ministro eccetera – sia l’unica soluzione. Non
vedo, però, una soluzione dietro l’angolo.
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L’IMPEGNO SOCIALE CHE DEVE
SCATURIRE DALL’EUCARISTIA E UNA PIÙ AMPIA
PASTORALE
VOCAZIONALE: SONO LE PROSPETTIVE CUI GUARDA LA CHIESA DEL CIAD DOVE SI È
CONCLUSO IERI IL PRIMO CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE
- Intervista con il vescovo di Goré Rosario Pio
Ramolo -
L’Eucaristia
nella vita della Chiesa e la sua dimensione sociale: su questi ed altri temi
hanno dibattuto a Moundou, in Ciad, vescovi e laici nel primo Congresso
eucaristico nazionale che si è concluso ieri e presieduto dall'Inviato Speciale
del Santo Padre, il cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per
il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Un congresso per il quale i
fedeli si sono preparati lungo l’arco di tre anni, prima a livello diocesano
poi nelle singole parrocchie. Ma che cosa è emerso dalle giornate di preghiera
e di studio dedicate al convegno e quale partecipazione ha avuto? Tiziana Campisi
ha raggiunto telefonicamente in Ciad il vescovo di Goré, Rosario Pio Ramolo che
ha preso parte al congresso:
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R. – Le autorità locali che abbiamo invitato a
partecipare, anche per la presenza del legato del Papa, hanno manifestato anche
loro una grande gioia.
D. – Quali sono stati i problemi più dibattuti?
R. –
L’esempio del sacrificio di Cristo, come impegno, donazione della propria vita,
come arrivare a capire questo e come arrivare a viverlo nella società in cui ci
troviamo. L’impegno del cristiano in tutto quello che è vita ecclesiale e come
partecipare meglio al sacrificio eucaristico. Il significato della
riconciliazione. E poi, come vivere questa comunione trasmessaci dal banchetto
eucaristico. Ed infine, l’impegno sociale che deve scaturire da questa
comunione, da questa condivisione con Cristo e quindi con i fratelli. Come il
cristiano può impegnarsi a livello politico, a livello di giustizia, in questo
nostro Paese, dove appunto facilmente le ingiustizie sono all’ordine del
giorno.
D. - In che modo viene vissuta
l’Eucaristia in Ciad?
R. – Come il
punto centrale della vita cristiana. Naturalmente noi abbiamo delle parrocchie
che hanno fino a 70-80 comunità, per cui il parroco e i suoi aiutanti sì e no
possono fare tre, quattro volte l’anno il giro di queste comunità. Questo, però,
non impedisce questa fame eucaristica, questo desiderio di ricevere Gesù eucaristico.
E molti fanno tanti chilometri quando sanno che il padre è in un villaggio non
troppo lontano.
D. – Con quali prospettive la
Chiesa del Ciad riparte dopo questo primo Congresso nazionale eucaristico?
R. – La Chiesa ciadiana va
inevitabilmente a correggere da una parte qualche abuso, rispetto
all’Eucaristia, ma soprattutto approfondirà il significato della presenza reale
di Gesù nell’Eucaristia e la preparazione liturgica domenicale.
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9 gennaio 2006
CONFERMATI NUOVI CASI DI INFLENZA AVIARIA IN
TURCHIA, IL PRIMO PAESE DOVE SI REGISTRANO VITTIME AL DI FUORI DEL SUD-EST
ASIATICO E DELLA CINA. L’OMS HA
INVIATO UNA COMMISSIONE DI ESPERTI IN TURCHIA PER VALUTARE LA SITUAZIONE
- A cura di Amedeo Lomonaco -
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ANKARA. = L’influenza aviaria avanza verso ovest. In
Turchia, dove il virus ha ucciso tre fratelli in un piccolo centro al confine
con l’Iran, le autorità sanitarie hanno reso noto che sono stati accertati
cinque nuovi casi nella provincia orientale di Van, nell’area di Ankara e nella
zona centrale del Paese. Gli esami hanno confermato la presenza del ceppo H5N1,
la forma più pericolosa per l’uomo. Tracce del virus sono state individuate
anche in alcuni polli ad Istanbul, la zona più
occidentale della Turchia dove l’aviaria sia finora comparsa. L’Organizzazione mondiale della
sanità (OMS) ha inviato una commissione di esperti in questa regione per
analizzare le misure prese e quelle da adottare in futuro. L’Unione Europea ha
posto il bando sulle importazioni di volatili vivi e di pollame
dalla Turchia. In Indonesia, le autorità sanitarie locali hanno confermato
intanto che un uomo, morto lo scorso primo gennaio, aveva contratto il virus.
In Asia, l’influenza aviaria ha causato, dal 2003, la morte di oltre 70
persone. Il timore
maggiore resta quello della trasmissione da uomo a uomo, un’eventualità
inquietante che potrebbe scatenare una pandemia. Il ministro della Salute
italiano, Francesco Storace, ha giudicato molto gravi le notizie che arrivano
dalla Turchia. Non si può escludere – ha aggiunto Storace - di vietare i viaggi
nei Paesi a rischio in caso di ulteriore aggravamento della situazione. Proprio
per studiare le misure da prendere per affrontare l’emergenza è stato convocato oggi a Roma un vertice con gli esperti del centro per il controllo delle
malattie e il dipartimento per la veterinaria.
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IN
INDIA, NEGLI ULTIMI VENT’ANNI, SAREBBERO CIRCA 10 MILIONI LE
BAMBINE
NON NATE
A CAUSA DEGLI ABORTI SELETTIVI. E’ QUANTO DENUNCIA
LA
RIVISTA MEDICA “LANCET”
NEW DELHI. = Gli aborti selettivi potrebbero essere la
causa della mancata nascita in India di circa 10 milioni di bambine negli
ultimi vent’anni. Il dato è emerso nell’ambito di una ricerca pubblicata dalla
rivista medica britannica “Lancet”. Un team di scienziati, analizzando i dati
sulla fertilità ricavati da un’indagine condotta su un campione di circa sei
milioni di persone, ha rilevato che nel 1997 sono nate circa mezzo milione di
femmine in meno rispetto alle previsioni. Proiettando questa stima su un
periodo di vent’anni si arriva a raggiungere la cifra di 10 milioni. Secondo
gli esperti, la causa di questo drammatico fenomeno è riconducibile alla
pratica degli aborti selettivi di feti di sesso femminile. Per il dottor
Prabhat Jha, dell’università canadese di Toronto, il ricorso all’ecografia
prenatale per determinare il sesso del nascituro, spiegherebbe la mancata
nascita ogni anno di migliaia di bambine. Questa pratica è in parte
riconducibile alla cultura indiana, in base alla quale un figlio maschio è
preferito ad una femmina. L’uomo trasmette infatti il nome, è fonte di guadagno
e può occuparsi dei genitori quando questi invecchiano. Al contrario, la donna
costituisce un costo aggiuntivo per la propria famiglia che deve provvedere, in
caso di matrimonio, alla sua dote. L’India non è oggi il solo Paese a praticare
l’aborto selettivo. Ci sono Stati, come Afghanistan, Nepal, Pakistan, Cina e
Corea del Sud, che si trovano ad affrontare lo stesso problema. Secondo un
rapporto, pubblicato lo scorso ottobre dal Fondo delle Nazioni Unite per la
popolazione, le pratiche dell’infanticidio e dell’aborto selettivo rischiano di
divenire causa di squilibri demografici con drammatiche conseguenze sociali.
(A.E.)
IL GOVERNO DEL PAKISTAN DEVE INTERVENIRE
PERCHE’, LE LEGGI SULLA BLASFEMIA SPACCANO IL PAESE. E’ L’APPELLO RIVOLTO
ALL’ESECUTIVO DI ISLAMABAD DALLA COMMISSIONE GIUSTIZIA E PACE DELLA CONFERENZA
EPISCOPALE PAKISTANA
LAHORE. = La
Commissione nazionale giustizia e pace, organo della Conferenza episcopale
pakistana, ha organizzato un incontro “contro l’apatia del governo nel trattare
i problemi sociali collegati alla legge sulla blasfemia ed alle ordinanze
Hudood”. La manifestazione – rende noto l’Agenzia “AsiaNews” - si è svolta sabato
scorso a Lahore. I relatori hanno sottolineato “la riluttanza governativa” a risolvere
casi come quello di Sangla Hill dove una folla di musulmani, dopo un presunto
caso di blasfemia, ha distrutto diverse proprietà di cristiani locali. Le leggi
e le ordinanze – hanno spiegato i partecipanti all’incontro - “riducono la
libertà religiosa dei cittadini pakistani, perché incitano gli estremisti alla
distruzione ed alla violenza”. Al governo Musharraf è stato chiesto di abrogare
tutte le leggi discriminatorie, “strumento di disarmonia sociale”, di rendere
pubblici i risultati delle inchieste sugli attacchi contro le minoranze
religiose e di promuovere l’armonia interreligiosa nel Paese con un reale
intervento nelle aree a rischio. In Pakistan, la controversa legge sulla
blasfemia punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e prevede la pena
capitale per “tutti coloro che insultano il profeta Maometto”. (A.L.)
IN ARABIA SAUDITA, ALMENO DUE MILIONI DI FEDELI
SUL MONTE ARAFAT,
PER PARTECIPARE AL PELLEGRINAGGIO MUSULMANO ALLA MECCA
RIAD. = In Arabia
Saudita, oltre due milioni di pellegrini sono giunti sul Monte Arafat, nella
giornata culminante del pellegrinaggio annuale alla Mecca. Sono arrivati a
piedi, in auto, a bordo di camion o carretti. Esausti dal viaggio, si riposano
in campi improvvisati lungo la strada, alle pendici del Monte Arafat, dove Maometto fece il suo ultimo sermone 1.400
anni fa. Oltre alle preoccupazioni per la sicurezza, si teme che la
concentrazione di persone possa creare le condizioni per il diffondersi di
un’eventuale epidemia aviaria. Molti pellegrini provengono, infatti, dai Paesi
colpiti dal virus. Procedono, intanto, le indagini, sul crollo di un albergo
avvenuto giovedì scorso alla Mecca e costato la vita a 76 persone. Il governo
ha promesso di indagare sulle cause di questa tragedia. Domani i pellegrini
torneranno nella valle di Mina per il rito del lancio delle pietre, con cui
inizia la Festa del sacrificio, in memoria del montone ucciso al posto del
figlio di Abramo. (A.L.)
PER IL GOVERNO DI NAIROBI,
SERVONO 400 MILIONI DI DOLLARI PER
CONTRASTARE L’EMERGENZA SICCITÀ E CARESTIA IN KENYA
NAIROBI. = Sono
necessari almeno 400 milioni di dollari per affrontare l’emergenza alimentare
che sta colpendo il nord est del Kenya. Lo ha detto, ieri, il ministro dei programmi
sociali, John Munyes, precisando che almeno 40 persone sono morte per fame
nelle ultime 3 settimane. Il 60 per cento di questa cifra – ha spiegato il
ministro incaricato di coordinare gli aiuti – sarà coperto dal governo keniano
ma per il restante 40 per cento è indispensabile l’intervento della comunità
internazionale e delle Nazioni Unite. Nel Corno d’Africa, oltre 11 milioni di
persone rischiano di morire, secondo la FAO, a causa di una grave carestia. In
Kenya – rileva inoltre l’agenzia missionaria MISNA - la situazione è
estremamente grave nei distretti di Mandera e Marsabit, le aree maggiormente
colpite dall’emergenza siccità. Per far fronte a questo drammatico scenario,
l’esecutivo di Nairobi ha annunciato una vasta campagna di acquisizione di
scorte di mais. L’obiettivo è di garantire aiuti sufficienti, fino alla
prossima stagione delle piogge, per oltre due milioni e mezzo di persone.
Secondo diverse organizzazioni presenti nel Paese africano, la denutrizione e
la disidratazione sono emergenze che colpiscono 22 distretti nel nord del
Kenya. (A.L.)
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9
gennaio 2006
- A cura di Fausta Speranza -
Il vicepresidente americano Dick Cheney, secondo la Casa Bianca citata dalla CNN, ha accusato problemi respiratori ed è stato ricoverato
per alcune ore questa mattina al George
Washington Hospital. Il ricovero è avvenuto intorno alle 3.00 (ora locale, le 9.00 in Italia). Cheney avrebbe problemi di “ritenzione
di liquidi” causati dai farmaci che sta
assumendo per un’infiammazione ad un piede.
Cheney, 64 anni, da diversi anni ha seri problemi di cuore e ha subito diverse
operazioni per l’inserimento di più bypass coronarici. L’ultima operazione
subita da Cheney è del settembre
scorso, quando gli furono curati due aneurismi dietro alle ginocchia.
A cinque giorni dal drammatico ricovero di Ariel Sharon in seguito ad una grave emorragia
cerebrale, nella mattinata è stato deciso di ridurre gradualmente le dosi di anestetici
che da mercoledì mantenevano Sharon in coma artificiale. La prima reazione è
stata molto rapida e Sharon ha ripreso a respirare in maniera autonoma, seppure assistito ancora da apparecchiature.
Intanto, il partito centrista Kadima del premier resta in vantaggio sulle altre
formazioni, nonostante un lieve
arretramento. E’ il risultato di un
sondaggio reso noto dalla seconda rete televisiva israeliana. Kadima,
sotto la direzione del premier ad interim Ehud Olmert, otterrebbe 37 seggi su
120 alle legislative del 28 marzo. Il partito laburista (sinistra), guidato dal
sindacalista Peretz, otterrebbe 20
seggi e il Likud (destra nazionalista) di
Benjamin Netayahu 17. Ma ascoltiamo, al microfono di Fausta Speranza, la
riflessione da Tel Aviv dello scrittore israeliano Alon Altaras:
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R. – Sì: i sondaggi li ho letti anche io, che mi trovo
adesso in Israele, ma devo dire che adesso sono i primi giorni di questa crisi,
di questa tragedia di Sharon. Dobbiamo vedere come staranno i sondaggi un mese
prima delle elezioni, due settimane prima delle elezioni. Non so se in quella
occasione gli elettori daranno fiducia
al vice di Sharon Ehud Olmert. Io penso che questi sondaggi, diciamo, così
ottimistici fanno parte anche un po’ della situazione particolare che si è
creata in Israele in questi giorni.
D. – Ma secondo te, la scelta di Olmert quale prossimo
primo ministro in carica, è davvero così scontata?
R. – Olmert può vincere perché ha esperienza; io non
conosco bene le sue attuali prese di posizioni politiche perché Olmert ha
cambiato parecchio, ultimamente, tutta la sua carriera politica.
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14 morti e 35
feriti nell’attacco di due kamikaze che si sono fatti saltare in aria stamane
davanti al ministero degli Interni a Baghdad, nel corso di una parata militare
per la “Giornata della polizia irachena”. Intanto, c’è una decisa presa di
posizione da parte del Partito islamico, principale formazione politica dei sunniti iracheni. Il nostro servizio:
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“Noi continueremo a partecipare al processo politico
perchè siamo sicuri che questo è necessario e inevitabile per assicurare la
stabilità dell’Iraq e la partenza delle truppe straniere”: questa la
dichiarazione del numero due del partito islamico in risposta al messaggio
audio, apparso ieri su internet, del capo di Al Qaeda in Iraq, al Zarqawi, che aveva chiesto al Partito islamico di
“abbandonare la via politica per chiamare la gente alla jihad”. Ricordiamo che
lo stesso Partito islamico aveva boicottato un anno fa le elezioni del gennaio
2005, ma ha partecipato alle legislative del 15 dicembre scorso, all’interno
della coalizione sunnita ‘Fronte iracheno della concordia’. E proprio ai risultati
del voto si guarda con apprensione: tardano ad arrivare e si allungano i tempi
della formazione del nuovo governo. Qualcuno parla di alcune settimane, mentre
c’è chi non spera prima della fine dell’inverno. Intanto, dopo le elezioni, c’è
da dire che gli insorti iracheni
prendono di mira più i ‘collaborazionisti’ iracheni che gli ‘occupanti’
americani. Ma, in pochi giorni, hanno perso la vita una trentina di
statunitensi. E negli USA numerosi analisti parlano di una vera e propria
guerra civile in corso, mentre, venuta meno la percezione di una tregua
post-elettorale che dava credibilità alla “Strategia per la Vittoria in Iraq”
presentata dall’amministrazione Bush il 30 novembre e molto propagandata,
l’opinione pubblica americana torna a essere attraversata da dubbi e
interrogativi: il conflitto potrebbe anche avere un esito diverso dalla “vittoria
senza alternative” dei discorsi di Bush. E con l’uccisione, nelle ultime 24
ore, di cinque marines e la morte di
12 persone nell’elicottero Black Hawk, le perdite militari americane in Iraq
hanno superato le 2200 e si avvicinano a 2210. C’è poi da raccontare che
militari americani sono entrati
sparando nella casa di un giornalista iracheno che lavora per il quotidiano
britannico “Guardian” e che collabora
a un documentario di “Channel 4” sul
presunto storno da parte di USA e Gran Bretagna di ingenti fondi iracheni. E
che diversi partiti politici
espressione dei sunniti hanno protestato oggi per il raid compiuto ieri da forze USA nella sede di
un’influente associazione islamica a Baghdad, accusando i militari
americani di prendere di mira religiosi
musulmani e di profanare luoghi di culto.
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L'Iran riprende
oggi le attività di ricerca sul combustibile nucleare, come annunciato nei
giorni scorsi. A confermarlo è il portavoce del governo. Nel fine settimana a Teheran
si sono comunque svolti gli incontri tra i mediatori russi e le autorità della
repubblica islamica, che dovrebbero essere ripetuti a febbraio. Al di là di
tutto, la ripresa delle attività rappresenta un nuovo elemento di isolamento
per la Repubblica islamica sullo
scacchiere internazionale, come conferma il giornalista iraniano Ahmed Rafat,
al microfono di Salvatore Sabatino:
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R. – Io
direi piuttosto che l’Iran lancia una sfida all’Europa, nel senso che ignora
tutti gli avvertimenti dei Paesi europei, degli organismi internazionali come
Unione Europea, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e sceglie di
andare per la sua strada. Del resto, il nuovo governo non si sente compromesso
dall’accordo firmato a Parigi nel novembre di due anni fa dal precedente
governo, e pertanto va per la sua strada.
D. – A questo punto, l’Iran può essere effettivamente
considerato una minaccia per la sicurezza internazionale?
R. – L’Iran credo sia una minaccia, almeno con questo
nuovo governo e in ogni caso, al di là se sospenda o riprenda l’attività di
ricerca sull’arricchimento dell’uranio. L’Iran ha in costruzione un sistema
missilistico che, per il momento, può arrivare ad un raggio medio e colpire
Paesi come Israele - e già questo è un dato preoccupante, viste anche le
recenti dichiarazioni del presidente Ahmadinejad - ma ha in fase di studio un
missile a lunga gittata che può colpire alcuni Paesi europei, tra i quali
l’Italia e la Grecia.
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L’economia mondiale sta migliorando: il suo ritmo di
crescita si mantiene dinamico e non si può escludere che nel 2006 la crescita
sarà maggiore che nel 2005. “Una accelerazione è possibile”, ha detto il
presidente del G10 e della BCE, Jean-Claude Trichet, nella consueta conferenza
stampa che segue la riunione dei governatori delle Banche centrali del G10. Ha
poi aggiunto che “sull’economia mondiale continuano a pesare, nonostante la
congiuntura positiva, gli squilibri mondiali ed il prezzo del petrolio”.
Il vice del Mullah Omar, il capo dei taleban afghani in
fuga dal 2001, ha respinto un’offerta fatta ieri dal presidente afghano Hamid
Karzai, di “allacciare un contatto” se desidera fare la pace. Mullah Obaidullah
Akhund, ministro della Difesa del governo taleban, deposto dall’invasione
americana del 2001, ha definito Karzai un “burattino americano” che dovrebbe
essere giudicato da una corte islamica. Lo ha fatto parlando da una località
segreta con un telefono satellitare. Il numero due dei taleban ha anche detto
che continueranno gli attacchi suicidi contro le forze americane e governative
afghane.
Il dissidente Li Ping, che stava organizzando una cerimonia per commemorare il leader
riformista Zhao Ziyang, è stato
arrestato nel fine settimana scorso. Lo
hanno affermato fonti della famiglia di Li. A proposito del leader riformista
Zhao Ziyang, morto un anno fa
dopo aver trascorso 16 anni agli arresti domiciliari, bisogna ricordare che nel 1989, allora segretario
generale del Partito Comunista Cinese,
fu l’unico leader di rilievo ad opporsi
alla repressione violenta del movimento studentesco, decisa dall’allora “numero uno” Deng Xiaoping. Le autorità temono
che lo scomparso leader abbia ancora un largo seguito nell’ala riformista del Partito. Lo scorso aprile il giornalista
Ching Cheong, dello “Strait Times” di
Singapore, è stato arrestato mentre cercava di mettere le mani su alcuni documenti politici scritti da Zhao negli
ultimi anni. Cheong è ancora detenuto ed è stato accusato di spionaggio a
favore di Taiwan, un’accusa che
potrebbe costargli la condanna a morte. Altri dissidenti che avrebbero dovuto
partecipare alla commemorazione hanno
affermato di essere stati messi sotto
controllo dalla polizia.
Un pullman di turisti – tra cui anche alcuni italiani – è
rimasto coinvolto in un incidente su un’autostrada della provincia sudafricana
di Free State. Secondo fonti della polizia, due persone sono rimaste uccise e
quasi sicuramente si tratta di sudafricani che accompagnavano una comitiva di
neozelandesi, italiani e olandesi. Lo scoppio di un pneumatico avrebbe fatto
perdere all’autista il controllo del mezzo, finito in un fossato. I soccorritori
accorsi sul posto hanno estratto i corpi delle due vittime rimaste intrappolati
nel mezzo. L’incidente è avvenuto alle 2.30 di notte, 500 chilometri a sudovest
di Johannesburg. Le strade del Sudafrica sono tra le più pericolose del mondo:
nel 1999, 27 anziani persero la vita
quando il pullman sul quale viaggiavano precipitò in un dirupo mentre
percorreva una strada di montagna vicino a
Lydenburg.
E’ precipitato questa mattina in Romania un elicottero del servizio medico di emergenza. Le
quattro persone che erano al bordo hanno perso la vita. L’incidente è successo
vicino alla città di Iasi, nel nord-est del Paese, per cause che rimangono
ancora ignote. Secondo la polizia
locale il pilota, il co-pilota, un medico e un assistente medico realizzavano
un volo di addestramento. L’elicottero è precipitato a soli tre chilometri
dall’aeroporto di Iasi, dove doveva atterrare.
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