RADIOVATICANA

RADIOGIORNALE

Anno L  n. 9 - Testo della trasmissione di lunedì 9 gennaio 2006

 

 

Sommario

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE:

Nel discorso di inizio d’anno al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede, appello del Papa per la pace mondiale che passa attraverso la ricerca della verità, l’applicazione della giustizia, della riconciliazione, della libertà religiosa, della solidarietà degli Stati verso le emergenze umanitarie

 

OGGI IN PRIMO PIANO:

Giovanni Paolo II non volle mai interferire nella vicenda giudiziaria riguardante Alì Agca: così ai nostri microfoni il direttore della Sala Stampa vaticana, Navarro-Valls. Su quel drammatico 13 maggio del 1981, la testimonianza del cardinale Achille Silvestrini

 

Almeno 12 morti e una trentina di feriti in violenti scontri nella regione centrale della Somalia: intervista con Fabio Riccardi

 

Si è concluso ieri in Ciad il  Congresso eucaristico nazionale. Con noi il vescovo Rosario Pio Ramolo

 

CHIESA E SOCIETA’:

Confermati nuovi casi di influenza aviaria in Turchia

 

In India, negli ultimi vent’anni, sarebbero circa 10 milioni le bambine non nate a causa degli aborti selettivi

 

Il governo del Pakistan deve intervenire contro le leggi sulla blasfemia:  così la Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale pakistana  

 

In Arabia Saudita, almeno due milioni di fedeli giunti sul monte Arafat per partecipare al pellegrinaggio musulmano alla Mecca

 

Per il governo di Nairobi, servono 400 milioni di dollari per contrastare l’emergenza siccità e carestia in Kenya

 

24 ORE NEL MONDO:

Sharon respira da solo. Finito il coma farmacologico

 

Violenza continua in Iraq: almeno 14 i morti per due attentati kamikaze a Baghdad

 

 

 

 

 

IL PAPA E LA SANTA SEDE

9 gennaio 2006

 

 

NEL DISCORSO DI INIZIO D’ANNO AL CORPO DIPLOMATICO PRESSO LA SANTA SEDE,

APPELLO DEL PAPA PER LA PACE MONDIALE CHE PASSA ATTRAVERSO L’APPLICAZIONE DELLA GIUSTIZIA, DELLA RICONCILIAZIONE, DELLA LIBERTA’ RELIGIOSA,

DELLA SOLIDARIETA’ DEGLI STATI VERSO LE EMERGENZE UMANITARIE

 

Quello attuale è un mondo segnato da conflitti “aperti o latenti”, ma anche un mondo in cui si rileva uno sforzo coraggioso in direzione della pace. I temi affrontati da Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata del primo gennaio sono ritornati con forza nell’udienza concessa questa mattina dal Papa ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Benedetto XVI ha auspicato, tra l’altro, la coesistenza pacifica tra israeliani e palestinesi in Terra Santa, ha condannato il terrorismo, e ha invocato la riconciliazione per le aree calde del globo, come il Golfo Persico, il Libano, il Darfur, sollecitando gli Stati a ridurre le spese per gli armamenti destinando le risorse alla soluzione delle emergenze umanitarie della terra. Il servizio di Alessandro De Carolis.

 

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“Il sangue versato non grida vendetta, ma invoca rispetto della vita e della pace”. E’ uno dei tanti appelli che gli ambasciatori presso la Santa Sede hanno ascoltato dalle labbra di Benedetto XVI, per un discorso tradizionale nella sua collocazione d’inizio d’anno, ma estremamente attuale per il tenore degli argomenti toccati. Dopo l’indirizzo di saluto del decano del Corpo Diplomatico, l’ambasciatore della Repubblica di San Marino, Giovanni Galassi, quattro sono state le enunciazioni del Papa all’insegna della parola da lui ritenuta imprescindibile dalla pace: la “verità”. La verità declinata nei suoi aspetti etici e pratici, quasi un distillato del Messaggio scritto per l’inizio dell’anno. Quattro enunciati riguardanti, nella sostanza, il rispetto per la giustizia, che se violato provoca violenza – e qui il Pontefice si è soffermato sul conflitto mediorientale e il terrorismo – il rispetto del diritto inalienabile a professare il proprio credo, il dovere della riconciliazione - dall’Iraq, all’Africa, alla Terra Santa – il dovere della solidarietà verso le emergenze del pianeta.

 

“L’impegno per la verità è l’anima della giustizia”, ha affermato al primo punto il Papa, stigmatizzando quei “sistemi politici” che nel passato basarono la propria politica sulla “menzogna” della “legge del più forte”. Al contrario, Benedetto XVI ha individuato nella “verità” e nella “veracità” la base per quella equanimità che in diplomazia spesso fa la differenza tra un accordo di pace o il suo fallimento. Quando, ha osservato il Pontefice, diversità e uguaglianza sono conosciute e riconosciute, “allora i problemi possono risolversi ed i dissidi ricomporsi secondo giustizia, e sono possibili intese profonde e durevoli”:

 

“AVEC UNE EVIDENCE PRESQUE EXEMPLAIRE…

Quasi con evidenza esemplare, tali considerazioni mi sembrano applicabili in quel punto nevralgico della scena mondiale, che resta la Terra Santa. In essa lo Stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale; in essa, parimenti, il Popolo palestinese deve poter sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche per un avvenire libero e prospero”.

 

E le medesime considerazioni sul dovere della giustizia e dell’imparzialità hanno portato Benedetto XVI alla riflessione su un altro dei drammatici fenomeni di questo inizio di secolo: il terrorismo. “Numerose e complesse ne sono le cause – ha riconosciuto - non ultime quelle ideologico-politiche, commiste ad aberranti concezioni religiose”, che vedono come vittime intere popolazioni innocenti:

 

“AUCUNE CIRCONSTANCE NE PEUT JUSTIFIER…

 Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale”.

 

Le diversità tra i popoli non deve essere un problema per la coesistenza e perché lo scambio culturale rafforzi la tolleranza il Papa ha chiesto tra l’altro con chiarezza che siano tolti gli ostacoli per l’accesso “all’informazione a mezzo della stampa e dei moderni mezzi informatici”, ma anche l’intensificazione dello scambio di docenti e studenti universitari nel campo delle discipline umanistiche di varie culture.

 

“L’impegno per la verità – ha poi enunciato Benedetto XVI – dà fondamento e vigore al diritto di libertà”. Solo con la prima è possibile la seconda, in tutti gli ambiti personali e sociali dell’esistenza. In particolare, il Pontefice ha spostato l’attenzione dei diplomatici sul lavoro della Santa Sede in favore della “libertà di religione”:

 

MALHEUREUSEMENT, DANS CERTAINS ÉTATS…

“Purtroppo in alcuni Stati, anche tra quelli che pure possono vantare tradizioni culturali plurisecolari, essa, lungi dall’essere garantita, è anzi gravemente violata, in particolare nei confronti delle minoranze. In merito vorrei solo ricordare quanto stabilito con grande chiarezza nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. I diritti fondamentali dell’uomo sono i medesimi sotto tutte le latitudini; e tra di essi un posto di primo piano deve essere riconosciuto al diritto di libertà di religione, perché riguarda il rapporto umano più importante, il rapporto con Dio. A tutti i responsabili della vita delle Nazioni vorrei dire: se non temete la verità, non potete temere la libertà!”.

        

La terza riflessione di Benedetto XVI ha toccato un altro tasto delicato rispetto alla situazione contemporanea dello scacchiere geopolitico. La verità, ha detto, “apre la via al perdono e alla riconciliazione”. Già da tempo, ha ricordato il

Pontefice, la Chiesa Cattolica ha fatto proprio questo “impegno per la verità”, chiedendo perdono per i “gravi errori” compiuti in passato da alcuni suoi membri o istituzioni. Ma, allo stesso tempo, il Papa ha messo sullo stesso piano sia la richiesta sia la concessione del perdono, anch’essa dovuta e “indispensabile” alla pace. Perdono che equivale alla riconciliazione, che il Pontefice ha invocato per la Terra Santa, allargando poi lo sguardo ai maggiori scenari di conflitto del momento:

 

“MA PENSEE SE TOURNE SPONTANEMENT (…) VERS LE LIBAN..

Il pensiero va (…) al Libano, la cui popolazione deve ritrovare, anche con il sostegno della solidarietà internazionale, la sua vocazione storica alla collaborazione sincera e fruttuosa tra le comunità di diversa fede; e va a tutto il Medio Oriente, in particolare all’Iraq, culla di grandi civiltà, in questi anni quotidianamente funestato da sanguinosi atti terroristici. Esso va all’Africa, e soprattutto a Paesi della Regione dei Grandi Laghi, dove ancora si sentono le tragiche conseguenze delle guerre fratricide degli anni passati; va alle inermi popolazioni del Darfur, colpite da esecrabile ferocia, con pericolose ripercussioni internazionali; va a tante altre terre, in diverse parti del mondo, che sono teatro di cruenti contese”.

 

Infine, Benedetto XVI ha parlato della “speranza” cui porta l’impegno per la pace, nel quale la diplomazia può portare e già arreca un grande contributo. Speranza che per il Pontefice deve essere tradotta in solidarietà laddove vi siano persone che patiscono la fame, la miseria, la costrizione a trasformarsi in emigranti o peggio ancora in merce umana, come accade – ha asserito il Papa – con “la piaga del traffico di persone, che resta una vergogna del nostro tempo. “Alla mente – ha aggiunto - si affacciano spontaneamente anche le immagini sconvolgenti dei grandi campi di profughi o di rifugiati - in diverse parti del mondo - raccolti in condizioni di fortuna, per scampare a sorte peggiore, ma di tutto bisognosi. Non sono questi esseri umani nostri fratelli e sorelle? Non sono i loro bambini venuti al mondo con le stesse legittime attese di felicità degli altri?”. Domande che Benedetto XVI ha idealmente rivolto ai governanti di ogni Stato, riprendendo una constatazione che orientò una delle battaglie di Raoul Follereau:

 

“SUR LA BASE DES DONNEES STATISTIQUES DISPONIBLES…

Sulla base di dati statistici disponibili si può affermare che meno della metà delle immense somme globalmente destinate agli armamenti sarebbe più che sufficiente per togliere stabilmente dall’indigenza lo sterminato esercito dei poveri. La coscienza umana ne è interpellata”.

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A tutt’oggi, gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono 174, ai quali vanno aggiunti le Comunità Europee ed il Sovrano Militare Ordine di Malta e due Missioni a carattere speciale: la Missione della Federazione Russa, retta da un ambasciatore, e l’Ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da un direttore. Nel corso del 2005, la Santa Sede ha firmato un Accordo con la Città Libera e Anseatica di Amburgo (29 novembre), che regola i rapporti fra la Chiesa cattolica e detta Città-Land, mentre il 12 luglio era stata siglata con la Francia un Avenant (cioè una modifica) alle Convenzioni diplomatiche del 14 maggio e dell’8 settembre 1828 e agli Avenants del 4 maggio 1974 e del 21 gennaio 1999, relativi alla Chiesa e al convento di Trinità dei Monti a Roma.

        

 

NOMINE

        

In Canada il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale dell'arcieparchia di Winnipeg degli Ucraini, presentata da mons. Michael Bzdel, in conformità al can. 210 § 1 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (CCEO). Il Santo Padre ha nominato arcivescovo metropolita di Winnipeg degli Ucraini mons. Lawrence Huculak, dell’Ordine Basiliano di San Giosafat, al presente vescovo di Edmonton degli Ucraini, sempre in Canada. Mons. Lawrence Huculak è nato il 25 gennaio 1951 a Vernon, British Columbia, nell'Eparchia di New Westminster degli Ucraini. Ha studiato nella "High School" del St. Vladimir Seminary a Roblin, Manitoba, che appartiene ai Padri Redentoristi. E' entrato nell'Ordine Basiliano di San Giosafat a Mundare, Alberta, il 29 agosto 1971. Il 26 giugno 1977 ha emesso la professione perpetua. Nel 1985 ha conseguito il Dottorato in Liturgia Orientale al Pontificio Istituto Orientale di Roma. E' stato ordinato sacerdote a Vernon il 28 agosto 1977. E’ stato consacrato vescovo il 3 aprile 1997.

 

 

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OGGI IN PRIMO PIANO

9 gennaio 2006

 

 

GIOVANNI PAOLO II NON VOLLE MAI INTERFERIRE NELLA VICENDA GIUDIZIARIA

RIGUARDANTE ALĺ AGCA: COSI’ AI NOSTRI MICROFONI IL DIRETTORE

DELLA SALA STAMPA VATICANA, NAVARRO-VALLS. SU QUEL DRAMMATICO 13 MAGGIO

DEL 1981, LA TESTIMONIANZA DEL CARDINALE ACHILLE SILVESTRINI

 

 “La Santa Sede, di fronte ad un problema di natura giudiziaria, si rimette alle decisioni dei tribunali coinvolti in questa vicenda”: così il direttore della Sala Stampa vaticana, dottor Joaquín Navarro-Valls, ha commentato la notizia dell’imminente liberazione di Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1981, attentò alla vita di Giovanni Paolo II sparandogli in Piazza San Pietro. “La Santa Sede – si legge ancora nella nota - ha appreso soltanto dalle agenzie di stampa la notizia dell’eventuale possibile scarcerazione di Alì Agca”. Nel maggio del 2000, il presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, aveva concesso la grazia all’attentatore del Pontefice, poi estradato in Turchia. Papa Wojtyla non ha mai interferito nella vicenda giudiziaria di Alì Agca: lo sottolinea, al microfono di Alessandro Gisotti, lo stesso direttore della Sala Stampa vaticana, Navarro-Valls:

 

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R. – Penso che non si potrà mai cancellare dalla mente delle persone che sono state testimoni di quell’evento. La prima volta, pochissimi giorni dopo l’attentato, quando il Papa con una voce ancora molto sofferente, dal Gemelli, disse: “Perdono il fratello che mi ha colpito”; ma poi, direi ancora nel Giubileo del 2000, lui parlò ancora di una possibile scarcerazione o di una procedura di grazia, in qualche modo … Va detto sempre, come faceva Giovanni Paolo II, senza voler minimamente entrare nella vicenda giudiziaria, cioè semplicemente manifestando il suo stato d’animo di fronte a questo problema, però senza voler in nessun modo interferire nella procedura giudiziaria pertinente, sia in Italia, sia in Turchia …

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La liberazione di Agca riporta in primo piano una delle pagine più drammatiche del Pontificato di Papa Wojtyla. Evento sul quale si sofferma il cardinale Achille Silvestrini, che all’epoca dell’attentato rivestiva la carica di segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, corrispondente all’attuale segretario per i Rapporti con gli Stati. Il porporato è stato intervistato da Alessandro Gisotti:

 

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R. – Agca aveva avuto la grazia dopo la condanna all’ergastolo per l’attentato al Papa, e quindi era uscito dall’Italia. La vicenda successiva apparteneva ad un giudizio emesso in Turchia, dal tribunale, che è quello che adesso lo ha liberato. Non è che questa cosa provochi un cambiamento rispetto a quello che noi avevamo provato allora. Certo, sentire ancora parlare di quest’uomo, sentirlo evocare, colpisce!

 

D. – Immagino che sia vivissimo il ricordo, anche ad oltre vent’anni di distanza: come avete vissuto, come lei ha vissuto quel giorno tragico nella vita del Papa e della Chiesa?

 

R. – Veramente, fu una cosa terribile, vedere che il Papa, in Piazza di San Pietro, veniva colpito da un tiratore scelto, perché sembrava che non avesse sbagliato il bersaglio. E come ha pensato il Santo Padre, è stato veramente un atto di protezione divina: lui lo ha attribuito giustamente alla Madonna di Fatima. Infatti, ha fatto mettere sulla corona della Madonna il proiettile, come ex voto. Allora fu terribile l’ansia per il trasporto al Gemelli, c’era il pericolo che si dissanguasse, i tempi necessari, inevitabili, prima che potesse passare in sala operatoria; poi, quando finalmente, è stato in sala operatoria, ricordo che c’era il presidente Pertini che venne su, al Gemelli, eravamo tutti insieme, e siamo stati lì fino a notte tarda, fin tanto che non ci hanno detto che l’operazione si era conclusa con buone speranze …

 

D. – Eminenza, accanto all’immagine terribile del Papa che cade colpito da Alì Agca, c’è l’altra immagine, quella straordinaria, di Giovanni Paolo II che abbraccia e perdona il suo attentatore …

 

R. – Esatto. Quella è la cosa più bella. Io la considero una delle cose più belle del Pontificato. Lui che va a visitare l’attentatore, che lo abbraccia paternamente, diciamo, si vede anche dal filmato: le mani che si stringono… indubbiamente è stata una cosa bellissima. Non solo lui aveva perdonato l’attentatore subito, al primo Angelus. Aveva immediatamente detto: “Io lo perdono”. Ma questa visita era stata straordinariamente emozionante per tutti noi!

 

D. – Nelle ultime pagine del libro, “Memoria e identità”, Giovanni Paolo II parla di questo attentato, di cosa ha significato. Papa Wojtyla parlava con voi di quel tragico 13 maggio?

 

R. – Quello che ha detto è stato sempre e soltanto questo: fin dal primo istante lui aveva avuto la sensazione che una mano lo proteggesse e che questa mano fosse della Madonna. Quindi, lui non ha avuto timore di non salvarsi: questa era la cosa che lui ripeteva.

 

D. – Giovanni Paolo II poi, anche dopo questo evento, non si sottraeva mai all’abbraccio della gente, non aveva paura …

 

R. – No, no: assolutamente! Non c’è stato nessun effetto sul suo modo di incontrare la gente. Come era stato colpito in Piazza San Pietro durante un’udienza generale, così dopo lui ha continuato le udienze, i suoi bagni di folla come se nulla fosse accaduto e potesse accadere!

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Dal canto suo, il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace ha ricordato come “Giovanni Paolo II, che subito perdonò il suo attentatore, intitolò uno dei suoi messaggi per la Giornata Mondiale della Pace: Non c’è giustizia senza perdono”.

 

“Da parte del nostro dicastero – si legge in una nota di Giustizia e Pace - non si vuole entrare nel merito della decisione dell’autorità giudiziaria turca, la quale ha ritenuto che Alì Agca ha pagato il suo conto con la giustizia”.

 

 

Almeno 12 morti e una trentina di feriti in violenti scontri

nella regione centrale della Somalia.

Resta difficile l’impegno delle nuove istituzioni create nel 2004

- Intervista con Fabio Riccardi -

 

Almeno 12 morti ed una trentina di feriti è il bilancio ancora provvisorio di violenti scontri che stanno avvenendo in questi giorni tra clan rivali nel distretto Abdukawak, nel Galgadud, regione centrale della Somalia. Secondo Radio Nairobi,  i due gruppi si contendono il controllo di alcune strade e dei rispettivi traffici. Dietro i combattimenti c'è anche una vecchia storia di faide e di vendette tra clan rivali. La Somalia è caduta in una sanguinosa deriva anarchica dopo l’uscita di scena di Siad Barre, nel '91. Ma dalla tarda estate del 2004, dopo due anni di negoziati, sono state create nuove istituzioni democratiche: parlamento, presidente della repubblica, governo, che stanno cercando di riavviare il processo di ricostruzione. Non tutto è semplice però e restano episodi di violenza come in questi giorni. Per un’analisi, Fausta Speranza ha intervistato il responsabile per l’Africa della Comunità di Sant’Egidio, Fabio Riccardi:

 

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R. – La copertura politica di questi “Signori della guerra” sostanzialmente non c’è più; diciamo che la comunità internazionale li vorrebbe vedere o coinvolti in un governo della Somalia oppure messi da parte. Il problema è che loro hanno una forza autonoma, dispongono di milizie autonome, dispongono di un appoggio più o meno volontario della popolazione di determinate aree e quindi questo porta al fatto che la situazione rimane in stallo, diciamo.

 

D. – In questa situazione di stallo, come vive la gente?

 

R. – Molto male. Cioè, credo che oggi in Somalia ci sia una “economia alternativa”, come dire, insomma, il Paese va avanti, mi dicono anche che c’è una rete di telefoni cellulari … Però, generalmente, penso che la gente viva molto, molto male perché sono completamente esclusi da qualsiasi circuito. Per esempio, la situazione sanitaria è pessima e quindi è un Paese che non può progredire, anzi: direi che sta andando indietro!

 

D. – Allargando lo sguardo, lei che cosa vede?

 

R. – La Somalia è circondata da Paesi che, in un certo senso, hanno cercato di aiutare. Il ruolo dell’Etiopia è stato piuttosto pronunciato, negli anni scorsi, nel senso che anche l’Etiopia ha cercato di consigliare e di mediare un accordo tra i vari “Signori della guerra”, le varie fazioni, eccetera. C’è il Somaliland, che è un’esperienza abbastanza interessante: il Somaliland è il vecchio protettorato britannico, che era confluito – nel 1960 – nella grande Somalia. Ora, il Somaliland, chiede l’indipendenza e ha tenuto le elezioni: è una regione molto povera, ma è pacifica. Quindi, questo forse potrebbe essere una strada per il futuro anche dell’altra Somalia.

 

D. – In definitiva, in poche parole, secondo lei, che cosa potrebbe veramente determinare una ripresa del dialogo?

 

R. – Guardi: difficile dirlo, nel senso che i soggetti sono molti: c’è la presidenza, c’è il Parlamento – il presidente del Parlamento – c’è una maggioranza parlamentare, una minoranza parlamentare, c’è un gran numero di “Signori della guerra” che dispongono – come dicevo prima – di una forza militare ma anche di appoggio autonomo della popolazione. Quindi, è molto difficile dire che cosa si può fare. Io credo che sicuramente il dialogo politico – quindi la strada che è stata percorsa fino adesso dal presidente, dal primo ministro eccetera – sia l’unica soluzione. Non vedo, però, una soluzione dietro l’angolo.

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L’IMPEGNO SOCIALE CHE DEVE SCATURIRE DALL’EUCARISTIA E UNA PIÙ AMPIA

 PASTORALE VOCAZIONALE: SONO LE PROSPETTIVE CUI GUARDA LA CHIESA DEL CIAD DOVE SI È CONCLUSO IERI IL PRIMO CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE

- Intervista con il vescovo di Goré Rosario Pio Ramolo -

 

L’Eucaristia nella vita della Chiesa e la sua dimensione sociale: su questi ed altri temi hanno dibattuto a Moundou, in Ciad, vescovi e laici nel primo Congresso eucaristico nazionale che si è concluso ieri e presieduto dall'Inviato Speciale del Santo Padre, il cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Un congresso per il quale i fedeli si sono preparati lungo l’arco di tre anni, prima a livello diocesano poi nelle singole parrocchie. Ma che cosa è emerso dalle giornate di preghiera e di studio dedicate al convegno e quale partecipazione ha avuto? Tiziana Campisi ha raggiunto telefonicamente in Ciad il vescovo di Goré, Rosario Pio Ramolo che ha preso parte al congresso:

 

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R. – Le autorità locali che abbiamo invitato a partecipare, anche per la presenza del legato del Papa, hanno manifestato anche loro una grande gioia.

 

D. – Quali sono stati i problemi più dibattuti?

 

R. – L’esempio del sacrificio di Cristo, come impegno, donazione della propria vita, come arrivare a capire questo e come arrivare a viverlo nella società in cui ci troviamo. L’impegno del cristiano in tutto quello che è vita ecclesiale e come partecipare meglio al sacrificio eucaristico. Il significato della riconciliazione. E poi, come vivere questa comunione trasmessaci dal banchetto eucaristico. Ed infine, l’impegno sociale che deve scaturire da questa comunione, da questa condivisione con Cristo e quindi con i fratelli. Come il cristiano può impegnarsi a livello politico, a livello di giustizia, in questo nostro Paese, dove appunto facilmente le ingiustizie sono all’ordine del giorno.

 

D. - In che modo viene vissuta l’Eucaristia in Ciad? 

 

R. – Come il punto centrale della vita cristiana. Naturalmente noi abbiamo delle parrocchie che hanno fino a 70-80 comunità, per cui il parroco e i suoi aiutanti sì e no possono fare tre, quattro volte l’anno il giro di queste comunità. Questo, però, non impedisce questa fame eucaristica, questo desiderio di ricevere Gesù eucaristico. E molti fanno tanti chilometri quando sanno che il padre è in un villaggio non troppo lontano.

 

D. – Con quali prospettive la Chiesa del Ciad riparte dopo questo primo Congresso nazionale eucaristico?

 

R. – La Chiesa ciadiana va inevitabilmente a correggere da una parte qualche abuso, rispetto all’Eucaristia, ma soprattutto approfondirà il significato della presenza reale di Gesù nell’Eucaristia e la preparazione liturgica domenicale.

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CHIESA E SOCIETA’

9 gennaio 2006

 
 

CONFERMATI NUOVI CASI DI INFLENZA AVIARIA IN TURCHIA, IL PRIMO PAESE DOVE SI REGISTRANO VITTIME AL DI FUORI DEL SUD-EST ASIATICO E DELLA CINA. L’OMS HA

INVIATO UNA COMMISSIONE DI ESPERTI IN TURCHIA PER VALUTARE LA SITUAZIONE

- A cura di Amedeo Lomonaco -

 

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ANKARA. = L’influenza aviaria avanza verso ovest. In Turchia, dove il virus ha ucciso tre fratelli in un piccolo centro al confine con l’Iran, le autorità sanitarie hanno reso noto che sono stati accertati cinque nuovi casi nella provincia orientale di Van, nell’area di Ankara e nella zona centrale del Paese. Gli esami hanno confermato la presenza del ceppo H5N1, la forma più pericolosa per l’uomo. Tracce del virus sono state individuate anche in alcuni polli ad Istanbul, la zona più occidentale della Turchia dove l’aviaria sia finora comparsa. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha inviato una commissione di esperti in questa regione per analizzare le misure prese e quelle da adottare in futuro. L’Unione Europea ha posto il bando sulle importazioni di volatili vivi e di pollame dalla Turchia. In Indonesia, le autorità sanitarie locali hanno confermato intanto che un uomo, morto lo scorso primo gennaio, aveva contratto il virus. In Asia, l’influenza aviaria ha causato, dal 2003, la morte di oltre 70 persone. Il timore maggiore resta quello della trasmissione da uomo a uomo, un’eventualità inquietante che potrebbe scatenare una pandemia. Il ministro della Salute italiano, Francesco Storace, ha giudicato molto gravi le notizie che arrivano dalla Turchia. Non si può escludere – ha aggiunto Storace - di vietare i viaggi nei Paesi a rischio in caso di ulteriore aggravamento della situazione. Proprio per studiare le misure da prendere per affrontare l’emergenza è stato convocato oggi a Roma un vertice con gli esperti del centro per il controllo delle malattie e il dipartimento per la veterinaria.

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IN INDIA, NEGLI ULTIMI VENT’ANNI, SAREBBERO CIRCA 10 MILIONI LE BAMBINE

NON NATE A CAUSA DEGLI ABORTI SELETTIVI. E’ QUANTO DENUNCIA

LA RIVISTA MEDICA “LANCET”

 

NEW DELHI. = Gli aborti selettivi potrebbero essere la causa della mancata nascita in India di circa 10 milioni di bambine negli ultimi vent’anni. Il dato è emerso nell’ambito di una ricerca pubblicata dalla rivista medica britannica “Lancet”. Un team di scienziati, analizzando i dati sulla fertilità ricavati da un’indagine condotta su un campione di circa sei milioni di persone, ha rilevato che nel 1997 sono nate circa mezzo milione di femmine in meno rispetto alle previsioni. Proiettando questa stima su un periodo di vent’anni si arriva a raggiungere la cifra di 10 milioni. Secondo gli esperti, la causa di questo drammatico fenomeno è riconducibile alla pratica degli aborti selettivi di feti di sesso femminile. Per il dottor Prabhat Jha, dell’università canadese di Toronto, il ricorso all’ecografia prenatale per determinare il sesso del nascituro, spiegherebbe la mancata nascita ogni anno di migliaia di bambine. Questa pratica è in parte riconducibile alla cultura indiana, in base alla quale un figlio maschio è preferito ad una femmina. L’uomo trasmette infatti il nome, è fonte di guadagno e può occuparsi dei genitori quando questi invecchiano. Al contrario, la donna costituisce un costo aggiuntivo per la propria famiglia che deve provvedere, in caso di matrimonio, alla sua dote. L’India non è oggi il solo Paese a praticare l’aborto selettivo. Ci sono Stati, come Afghanistan, Nepal, Pakistan, Cina e Corea del Sud, che si trovano ad affrontare lo stesso problema. Secondo un rapporto, pubblicato lo scorso ottobre dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, le pratiche dell’infanticidio e dell’aborto selettivo rischiano di divenire causa di squilibri demografici con drammatiche conseguenze sociali. (A.E.)

 

 

IL GOVERNO DEL PAKISTAN DEVE INTERVENIRE PERCHE’, LE LEGGI SULLA BLASFEMIA SPACCANO IL PAESE. E’ L’APPELLO RIVOLTO ALL’ESECUTIVO DI ISLAMABAD DALLA COMMISSIONE GIUSTIZIA E PACE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE PAKISTANA

 

LAHORE. = La Commissione nazionale giustizia e pace, organo della Conferenza episcopale pakistana, ha organizzato un incontro “contro l’apatia del governo nel trattare i problemi sociali collegati alla legge sulla blasfemia ed alle ordinanze Hudood”. La manifestazione – rende noto l’Agenzia “AsiaNews” - si è svolta sabato scorso a Lahore. I relatori hanno sottolineato “la riluttanza governativa” a risolvere casi come quello di Sangla Hill dove una folla di musulmani, dopo un presunto caso di blasfemia, ha distrutto diverse proprietà di cristiani locali. Le leggi e le ordinanze – hanno spiegato i partecipanti all’incontro - “riducono la libertà religiosa dei cittadini pakistani, perché incitano gli estremisti alla distruzione ed alla violenza”. Al governo Musharraf è stato chiesto di abrogare tutte le leggi discriminatorie, “strumento di disarmonia sociale”, di rendere pubblici i risultati delle inchieste sugli attacchi contro le minoranze religiose e di promuovere l’armonia interreligiosa nel Paese con un reale intervento nelle aree a rischio. In Pakistan, la controversa legge sulla blasfemia punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e prevede la pena capitale per “tutti coloro che insultano il profeta    Maometto”. (A.L.)

 

 

IN ARABIA SAUDITA, ALMENO DUE MILIONI DI FEDELI SUL MONTE ARAFAT,

PER PARTECIPARE AL PELLEGRINAGGIO MUSULMANO ALLA MECCA

 

RIAD. = In Arabia Saudita, oltre due milioni di pellegrini sono giunti sul Monte Arafat, nella giornata culminante del pellegrinaggio annuale alla Mecca. Sono arrivati a piedi, in auto, a bordo di camion o carretti. Esausti dal viaggio, si riposano in campi improvvisati lungo la strada, alle pendici del Monte Arafat, dove   Maometto fece il suo ultimo sermone 1.400 anni fa. Oltre alle preoccupazioni per la sicurezza, si teme che la concentrazione di persone possa creare le condizioni per il diffondersi di un’eventuale epidemia aviaria. Molti pellegrini provengono, infatti, dai Paesi colpiti dal virus. Procedono, intanto, le indagini, sul crollo di un albergo avvenuto giovedì scorso alla Mecca e costato la vita a 76 persone. Il governo ha promesso di indagare sulle cause di questa tragedia. Domani i pellegrini torneranno nella valle di Mina per il rito del lancio delle pietre, con cui inizia la Festa del sacrificio, in memoria del montone ucciso al posto del figlio di Abramo. (A.L.)

 

 

PER IL GOVERNO DI NAIROBI, SERVONO 400 MILIONI DI DOLLARI PER

CONTRASTARE L’EMERGENZA SICCITÀ E CARESTIA IN KENYA

 

NAIROBI. = Sono necessari almeno 400 milioni di dollari per affrontare l’emergenza alimentare che sta colpendo il nord est del Kenya. Lo ha detto, ieri, il ministro dei programmi sociali, John Munyes, precisando che almeno 40 persone sono morte per fame nelle ultime 3 settimane. Il 60 per cento di questa cifra – ha spiegato il ministro incaricato di coordinare gli aiuti – sarà coperto dal governo keniano ma per il restante 40 per cento è indispensabile l’intervento della comunità internazionale e delle Nazioni Unite. Nel Corno d’Africa, oltre 11 milioni di persone rischiano di morire, secondo la FAO, a causa di una grave carestia. In Kenya – rileva inoltre l’agenzia missionaria MISNA - la situazione è estremamente grave nei distretti di Mandera e Marsabit, le aree maggiormente colpite dall’emergenza siccità. Per far fronte a questo drammatico scenario, l’esecutivo di Nairobi ha annunciato una vasta campagna di acquisizione di scorte di mais. L’obiettivo è di garantire aiuti sufficienti, fino alla prossima stagione delle piogge, per oltre due milioni e mezzo di persone. Secondo diverse organizzazioni presenti nel Paese africano, la denutrizione e la disidratazione sono emergenze che colpiscono 22 distretti nel nord del Kenya. (A.L.)

 

 

 

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24 ORE NEL MONDO

9 gennaio 2006

 

 

- A cura di Fausta Speranza -

 

Il vicepresidente americano Dick  Cheney, secondo la Casa Bianca citata dalla CNN, ha accusato  problemi respiratori ed è stato ricoverato per alcune ore questa mattina al  George Washington Hospital. Il ricovero è avvenuto intorno alle  3.00 (ora locale, le 9.00 in Italia).  Cheney avrebbe problemi di “ritenzione di  liquidi” causati dai farmaci che sta assumendo per  un’infiammazione ad un piede. Cheney, 64 anni, da diversi anni ha seri problemi di cuore e ha subito diverse operazioni per l’inserimento di più bypass coronarici. L’ultima operazione subita da Cheney è del  settembre scorso, quando gli furono curati due aneurismi dietro  alle ginocchia.

 

A cinque giorni dal drammatico  ricovero di Ariel Sharon in seguito ad una grave emorragia cerebrale, nella mattinata è stato deciso di ridurre gradualmente le dosi di anestetici che da mercoledì mantenevano Sharon in coma artificiale. La prima reazione è stata molto rapida e Sharon ha ripreso a respirare in maniera autonoma, seppure  assistito ancora da apparecchiature. Intanto, il partito centrista Kadima del premier resta in vantaggio sulle altre formazioni,  nonostante un lieve arretramento. E’ il risultato di un  sondaggio reso noto dalla seconda rete televisiva israeliana. Kadima, sotto la direzione del premier ad interim Ehud Olmert, otterrebbe 37 seggi su 120 alle legislative del 28 marzo. Il partito laburista (sinistra), guidato dal sindacalista  Peretz, otterrebbe 20 seggi e il Likud (destra nazionalista) di  Benjamin Netayahu 17. Ma ascoltiamo, al microfono di Fausta Speranza, la riflessione da Tel Aviv dello scrittore israeliano Alon Altaras: 

 

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R. – Sì: i sondaggi li ho letti anche io, che mi trovo adesso in Israele, ma devo dire che adesso sono i primi giorni di questa crisi, di questa tragedia di Sharon. Dobbiamo vedere come staranno i sondaggi un mese prima delle elezioni, due settimane prima delle elezioni. Non so se in quella occasione gli  elettori daranno fiducia al vice di Sharon Ehud Olmert. Io penso che questi sondaggi, diciamo, così ottimistici fanno parte anche un po’ della situazione particolare che si è creata in Israele in questi giorni.

 

D. – Ma secondo te, la scelta di Olmert quale prossimo primo ministro in carica, è davvero così scontata?

 

R. – Olmert può vincere perché ha esperienza; io non conosco bene le sue attuali prese di posizioni politiche perché Olmert ha cambiato parecchio, ultimamente, tutta la sua carriera politica.

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14 morti  e 35 feriti nell’attacco di due kamikaze che si sono fatti saltare in aria stamane davanti al ministero degli Interni a Baghdad, nel corso di una parata militare per la “Giornata della polizia irachena”. Intanto, c’è una decisa presa di posizione da parte del Partito islamico, principale  formazione politica dei sunniti iracheni. Il nostro servizio:

 

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“Noi continueremo a partecipare al processo politico perchè siamo sicuri che questo è necessario e inevitabile per assicurare la stabilità dell’Iraq e la partenza delle truppe straniere”: questa la dichiarazione del numero due del partito islamico in risposta al messaggio audio, apparso ieri su internet, del capo di Al Qaeda  in Iraq, al Zarqawi, che aveva chiesto al Partito islamico di “abbandonare la via politica per chiamare la gente alla jihad”. Ricordiamo che lo stesso Partito islamico aveva boicottato un anno fa le elezioni del gennaio 2005, ma ha partecipato alle legislative del 15 dicembre scorso, all’interno della coalizione sunnita ‘Fronte iracheno della concordia’. E proprio ai risultati del voto si guarda con apprensione: tardano ad arrivare e si allungano i tempi della formazione del nuovo governo. Qualcuno parla di alcune settimane, mentre c’è chi non spera prima della fine dell’inverno. Intanto, dopo le elezioni, c’è da dire che gli insorti iracheni  prendono di mira più i ‘collaborazionisti’ iracheni che gli ‘occupanti’ americani. Ma, in pochi giorni, hanno perso la vita una trentina di statunitensi. E negli USA numerosi analisti parlano di una vera e propria guerra civile in corso, mentre, venuta meno la percezione di una tregua post-elettorale che dava credibilità alla “Strategia per la Vittoria in Iraq” presentata dall’amministrazione Bush il 30 novembre e molto propagandata, l’opinione pubblica americana torna a essere attraversata da dubbi e interrogativi: il conflitto potrebbe anche avere un esito diverso dalla “vittoria senza alternative” dei discorsi di Bush. E con l’uccisione, nelle ultime 24 ore, di cinque marines e la morte di 12 persone nell’elicottero Black Hawk, le perdite militari americane in Iraq hanno superato le 2200 e si avvicinano a 2210. C’è poi da raccontare che militari americani sono entrati  sparando nella casa di un giornalista iracheno che lavora per il quotidiano britannico “Guardian” e che collabora a un documentario di “Channel 4” sul presunto storno da parte di USA e Gran Bretagna di ingenti fondi iracheni. E che diversi partiti politici  espressione dei sunniti hanno protestato oggi per il raid  compiuto ieri da forze USA nella sede di un’influente associazione islamica a Baghdad, accusando i militari americani  di prendere di mira religiosi musulmani e di profanare luoghi di culto.

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L'Iran riprende oggi le attività di ricerca sul combustibile nucleare, come annunciato nei giorni scorsi. A confermarlo è il portavoce del governo. Nel fine settimana a Teheran si sono comunque svolti gli incontri tra i mediatori russi e le autorità della repubblica islamica, che dovrebbero essere ripetuti a febbraio. Al di là di tutto, la ripresa delle attività rappresenta un nuovo elemento di isolamento per  la Repubblica islamica sullo scacchiere internazionale, come conferma il giornalista iraniano Ahmed Rafat, al microfono di Salvatore Sabatino:

 

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R. – Io direi piuttosto che l’Iran lancia una sfida all’Europa, nel senso che ignora tutti gli avvertimenti dei Paesi europei, degli organismi internazionali come Unione Europea, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e sceglie di andare per la sua strada. Del resto, il nuovo governo non si sente compromesso dall’accordo firmato a Parigi nel novembre di due anni fa dal precedente governo, e pertanto va per la sua strada.

 

D. – A questo punto, l’Iran può essere effettivamente considerato una minaccia per la sicurezza internazionale?

 

R. – L’Iran credo sia una minaccia, almeno con questo nuovo governo e in ogni caso, al di là se sospenda o riprenda l’attività di ricerca sull’arricchimento dell’uranio. L’Iran ha in costruzione un sistema missilistico che, per il momento, può arrivare ad un raggio medio e colpire Paesi come Israele - e già questo è un dato preoccupante, viste anche le recenti dichiarazioni del presidente Ahmadinejad - ma ha in fase di studio un missile a lunga gittata che può colpire alcuni Paesi europei, tra i quali l’Italia e la Grecia.

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L’economia mondiale sta migliorando: il suo ritmo di crescita si mantiene dinamico e non si può escludere che nel 2006 la crescita sarà maggiore che nel 2005. “Una accelerazione è possibile”, ha detto il presidente del G10 e della BCE, Jean-Claude Trichet, nella consueta conferenza stampa che segue la riunione dei governatori delle Banche centrali del G10. Ha poi aggiunto che “sull’economia mondiale continuano a pesare, nonostante la congiuntura positiva, gli squilibri mondiali ed il prezzo del petrolio”.

 

Il vice del Mullah Omar, il capo dei taleban afghani in fuga dal 2001, ha respinto un’offerta fatta ieri dal presidente afghano Hamid Karzai, di “allacciare un contatto” se desidera fare la pace. Mullah Obaidullah Akhund, ministro della Difesa del governo taleban, deposto dall’invasione americana del 2001, ha definito Karzai un “burattino americano” che dovrebbe essere giudicato da una corte islamica. Lo ha fatto parlando da una località segreta con un telefono satellitare. Il numero due dei taleban ha anche detto che continueranno gli attacchi suicidi contro le forze americane e governative afghane.

Il dissidente Li Ping, che stava  organizzando una cerimonia per commemorare il leader riformista  Zhao Ziyang, è stato arrestato nel fine settimana scorso. Lo  hanno affermato fonti della famiglia di Li. A proposito del leader riformista Zhao Ziyang,  morto  un anno fa  dopo aver trascorso 16 anni agli arresti  domiciliari, bisogna ricordare che nel 1989, allora segretario generale del  Partito Comunista Cinese, fu l’unico leader di rilievo ad  opporsi alla repressione violenta del movimento studentesco,  decisa dall’allora “numero uno” Deng Xiaoping. Le autorità temono che lo scomparso leader abbia ancora un largo seguito  nell’ala riformista del Partito. Lo scorso aprile il giornalista Ching Cheong, dello “Strait Times” di Singapore, è stato arrestato mentre cercava di mettere le mani su alcuni  documenti politici scritti da Zhao negli ultimi anni. Cheong è ancora detenuto ed è stato accusato di spionaggio a favore di  Taiwan, un’accusa che potrebbe costargli la condanna a morte. Altri dissidenti che avrebbero dovuto partecipare alla  commemorazione hanno affermato di essere stati messi sotto  controllo dalla polizia.

 

Un pullman di turisti – tra cui anche alcuni italiani – è rimasto coinvolto in un incidente su un’autostrada della provincia sudafricana di Free State. Secondo fonti della polizia, due persone sono rimaste uccise e quasi sicuramente si tratta di sudafricani che accompagnavano una comitiva di neozelandesi, italiani e olandesi. Lo scoppio di un pneumatico avrebbe fatto perdere all’autista il controllo del mezzo, finito in un fossato. I soccorritori accorsi sul posto hanno estratto i corpi delle due vittime rimaste intrappolati nel mezzo. L’incidente è avvenuto alle 2.30 di notte, 500 chilometri a sudovest di Johannesburg. Le strade del Sudafrica sono tra le più pericolose del mondo: nel 1999, 27 anziani persero la vita  quando il pullman sul quale viaggiavano precipitò in un dirupo mentre percorreva una strada di montagna vicino a  Lydenburg.

 

E’ precipitato questa mattina in  Romania un elicottero del servizio medico di emergenza. Le quattro persone che erano al bordo hanno perso la vita. L’incidente è successo vicino alla città di Iasi, nel nord-est del Paese, per cause che rimangono ancora ignote. Secondo la  polizia locale il pilota, il co-pilota, un medico e un assistente medico realizzavano un volo di addestramento. L’elicottero è precipitato a soli tre chilometri dall’aeroporto di Iasi, dove doveva atterrare.   

 

 

 

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